INFINITESIMALE, ANALISI

Enciclopedia Italiana (1933)

INFINITESIMALE, ANALISI

Giulio VIVANTI

Sotto questo nome si comprendono insieme il calcolo differenziale e il calcolo integrale. Rimandando a differenziale, calcolo; integrale, calcolo per i metodi e i risultati che caratterizzano queste due dottrine, ne considereremo qui, da un punto di vista sintetico, lo sviluppo storico.

L'analisi infinitesimale, in senso stretto, data dalla fine del Seicento, ma le sue origini sono molto più remote. La necessità di introdurre il concetto d'infinito nella matematica si manifestò appena fu oltrepassato il limite delle più semplici questioni aritmetiche e geometriche. L'impossibilità di esprimere in numeri il rapporto tra la diagonale e il lato del quadrato, riconosciuta fin dal sec. VI a. C., l'impossibilità di costruire un poligono avente area eguale a quella di un cerchio, tradottasi inizialmente (sec. V a. C.) nella definizione del cerchio come un poligono di infiniti lati, costrinsero a ricorrere a quei processi infinitari che furono il primo germe dell'analisi infinitesimale. Quest'ordine di idee ricevette una prima sistemazione rigorosa col metodo d'esaustione (v. integrale, calcolo), che si ritiene dovuto a Eudosso (408-355 a. C.), e che troviamo costantemente applicato da Euclide e da Archimede e ancora dominante nei primi secoli dell'evo moderno. Solo voci isolate - Alberto di Sassonia (morto nel 1390), Nicolò Cusano (1401-1464), M. Stifel (1486-1567), F. Viète (1540-1603) - ardiscono, di quando in quando, affermare che il cerchio è un poligono infinitilatero; ed è soltanto nel Seicento che un uso più libero del concetto d'infinito si manifesta apertamente. I. Kepler, per dimostrare che i volumi di un cilindro e del parallelepipedo circoscritto stanno tra loro come le basi, osserva che le due figure possono riguardarsi "tamquam plana corporata", cioè come formate dalla totalità delle loro sezioni rette, e le stesse considerazioni applica ad altri solidi.

Poco dopo B. Cavalieri (1598-1647) pubblica la sua Geometria degli indivisibili, dove considera le superficie generate dal moto di linee, i solidi dal moto di piani, idea che prima di lui aveva emessa anche B. Sovero (1577-1629). Siccome però questo concetto mal si prestava a essere tradotto in forma analitica, Cavalieri calcola le superficie e i solidi come somme delle loro sezioni (indivisibili). Porta tuttora il nome di "postulato di Cavalieri" l'affermazione che, se due figure piane comprese tra le stesse parallele hanno le sezioni corrispondenti rispettivamente eguali, esse hanno eguale superficie; egli lo aveva fatto precedere da un altro più ampio, in cui si confrontano tra loro due figure piane, anche se non comprese tra le stesse parallele.

È interessante osservare che Kepler e Cavalieri avevano avuto un grande, benché ad essi ignoto, precursore in Archimede. Era convinzione degli storici della matematica che i metodi di dimostrazione da lui usati nelle opere a noi giunte non segnassero le vie, per cui era arrivato alle sue grandi scoperte. Questa presunzione ebbe luminosa conferma nel ritrovamento dell''Αρχιμήδους περὶ τῶν μηχανικῶν ϑεωρημάτων πρὸς 'Ερατοσϑένην ἔϕοδος (1906): una lettera diretta a Eratostene, dove Archimede espone un metodo euristico, fondato su un principio analogo a quello degl'indivisibili.

Era ovvio che i postulati di Cavalieri dovessero suscitare gravi dubbî; contro il metodo degl'indivisibili sorsero infatti, tra gli altri, P. Guldin (1577-1643) e A. Tacquet (1612-1660), mentre d'altra parte esso fu accolto e applicato da parecchi matematici dell'epoca, quali J. Wallis (1616-1703), E. Torricelli (1608-1647) e B. Pascal (1623-1662), per non dire dei minori. Era una vera crisi che colpiva la matematica; essa veniva meno alla sua tipica rigidezza, accogliendo concetti non chiaramente definiti e proposizioni non dimostrate. Si tentò di rispondere alle obiezioni, osservando che sommare tutte le parallele contenute in una figura significava in realtà sommare le aree di tutte le strisce infinitamente sottili in cui la figura è da esse divisa; ma anche questa spiegazione non era soddisfacente.

Sotto altra forma si manifestava ancora la crisi. Era stato osservato (N. Oresme, morto nel 1382, Kepler) che la velocità di variazione d'un fenomeno in vicinanza di un massimo o di un minimo è insensibile. P. de Fermat (1601-1665) deduceva da quest'osservazione una regola per determinare i massimi e i minimi: se f (x) (per parlare in linguaggio moderno) è la funzione considerata si ponga f (x) = f(x + e); la differenza f (x + e) − f (x) risulterà divisibile per e, e il quoziente, eguagliato a zero dopo soppressi tutti i termini contenenti ancora e, darà i valori di x richiesti. Ma f(x + e) − f (x) = 0 non è che un'equazione approssimata (adaequatio); e inoltre come si giustifica la soppressione dei termini contenenti e?

Un problema sostanzialmente non diverso da quello dei massimi e minimi è la determinazione della tangente ad una curva in un suo punto; qui Fermat, I. Barrow (1630-1677) e altri insegnano a sostituire a un arco piccolissimo di curva l'elemento corrispondente di tangente.

Entrava così nella matematica per due vie diverse l'infinitesimo; come larghezza delle strisce in cui era divisa una figura, e come elemento di curva o di tangente. Si trattava in tutti i casi di sommare infiniti prodotti aventi un fattore infinitesimo (strisce), o di determinare il rapporto di due segmenti infinitesimi (proiezioni dell'elemento d'arco su due assi ortogonali). Quando l'esame d'un grande numero di problemi portò alla conclusione che essi si riducono sempre all'uno o all'altro di questi due tipi, si fecero di essi due operazioni autonome, quelle che ora chiamiamo integrazione e derivazione. L'una e l'altra sono l'espressione dell'opportunità di scomporre un fenomeno complesso in fasi quanto più piccole possibili: la velocità media di un mobile varia tanto meno quanto più breve è l'intervallo di tempo a cui essa si riferisce; l'area d'una striscia è tanto meno differente da quella d'un rettangolo quanto più l'altezza della striscia è piccola. Si tratta poi di vedere qual è il valore a cui la velocità media si avvicina indefinitamente quando l'intervallo di tempo relativo decresce sempre più; e qual è il valore a cui si avvicina la somma dei rettangoli sostituiti alle strisce quando l'altezza di queste si fa diminuire indefinitamente.

Restavano pertanto due passi da fare: stabilire delle regole per eseguire le due operazioni fondamentali; e fissare il significato della parola "infinitesimo", che figurava nelle loro definizioni. Logicamente questo secondo passo avrebbe dovuto precedere il primo; fu fortuna per la scienza che accadesse il contrario.

Le due operazioni erano state sino allora effettuate con artifizî varî, ai quali si ricorreva caso per caso. Il nodo della difficoltà era sempre questo: si aveva una successione di grandezze sempre meno differenti tra loro, e si trattava di determinare la grandezza incognita a cui esse si avvicinano indefinitamente, o, come si dice oggi, il loro limite. I Greci non osarono arrivare al limite, il che implicava, in certo modo, un'infinità di passaggi; essi si accontentavano di dire, per es., che l'area del cerchio è compresa tra le aree di due poligoni, l'uno circoscritto e l'altro inscritto, di tanto poco quanto si vuole differenti tra loro. Il limite appare; per la prima volta, con nomenclature diverse, nell'opera De Beginselen der Weegconst (1596) di S. Stevin, in Geometriae speciosae elementa (1659) di P. Mengoli, in Vera circuli et hyperbolae quadratura (1667) di J. Gregory, e, poco dopo, nei celebri Principia (1687) di I. Newton; ma soltanto molto più tardi esso entra come elemento attivo nell'analisi. I. Newton e G.W. Leibniz, i due principali artefici del calcolo infinitesimale, nel determinare la derivata, cioè il limite del rapporto di due grandezze tendenti insieme a zero, ottengono le opportune semplificazioni applicando ambedue, benché sotto forma apparentemente diversa, il principio, che una quantità infinitesima sommata a una quantità finita si può trascurare. Né l'uno né l'altro giustifica questo principio in modo soddisfacente. Dice Newton: i termini contenenti un fattore infinitesimo possono considerarsi come un nulla rispetto agli altri, e perciò si trascurano. E Leibniz: sono eguali non solo le quantità la cui differenza è nulla, ma anche quelle la cui differenza è incomparabilmente piccola, giacché, sebbene questa differenza non sia assolutamente nulla, essa non è comparabile con le due quantità considerate; così un punto aggiunto a una linea non ne altera la lunghezza.

Era naturale che metodi basati su un tale principio dovessero suscitare la diffidenza dei matematici dell'epoca, ligi al rigore euclideo; ma di ciò non si preoccuparono molto i creatori della nuova analisi. Essi avevano ideato, indipendentemente l'uno dall'altro, salvo qualche possibile interferenza, un metodo generale per determinare le derivate delle funzioni senza dover ricorrere in ciascun caso a speciali artifizî. Prevalse, e domina tuttora incontrastato perché più semplice e più perspicuo, il metodo di Leibniz. In un opuscolo di poche pagine (Nova methodus, ecc., in Acta Erud., VII, 1684, pp. 467-473) il grande geometra tedesco stabilisce una serie di regole di facile applicazione, le quali permettono di calcolare le derivate di somme, prodotti, quozienti, potenze, radici di funzioni, conoscendo le derivate delle funzioni stesse; per tal modo, note le derivate delle poche funzioni elementari di cui si compongono le espressioni che si presentano in tutti i problemi dell'analisi e delle sue applicazioni, si è in grado di ottenere, quasi meccanicamente, la derivata di qualunque di queste espressioni; nulla vi è più di aleatorio, perché non è più necessario ricorrere direttamente alla definizione di derivata. Un progresso analogo, benché assai meno completo, raggiungono i due inventori nel calcolo degl'integrali. Già Cartesio e Fermat in casi particolari, e più largamente Torricelli e Barrow, avevano riconosciuto che la derivazione e l'integrazione sono operazioni inverse; che cioè il problema di calcolare l'area d'una curva piana data la sua equazione, e quello di calcolare lo spazio percorso da un mobile data in ogni istante la sua velocità, sono, dal punto di vista analitico, tra loro identici. Newton e Leibniz seppero trarre il miglior partito da questo risultato. Prima di loro, eseguire quello che noi diciamo un'integrazione significava cercare il limite di una somma di termini variabili la cui grandezza singola diminuisce indefinitamente mentre cresce indefinitamente il loro numero; e ognuno sa quale somma d'ingegno abbiano speso i geometri, da Archimede a Kepler e a Cavalieri, per riuscire a determinare nei singoli casi un tale limite. Trovato il nesso esistente tra le due operazioni fondamentali del calcolo, per integrare una funzione bastava trovare una funzione di cui questa fosse la derivata. La cosa è immediata in alcuni casi semplici; di varie funzioni elementari si conoscono le derivate, e quindi gl'integrali di queste derivate sono senz'altro noti; negli altri casi si cerca di ridurre l'integrale della funzione proposta a integrali elementari mediante gli artifizî noti con i nomi di integrazione per scomposizione, per sostituzione e per parti (v. integrale, calcolo).

La grande semplificazione introdotta così nell'analisi diede ben presto i suoi frutti. Studiosi d'ogni paese si appropriarono i nuovi metodi, e, insieme con i grandi maestri, affrontarono vittoriosamente i più svariati problemi geometrici e meccanici; citiamo tra i più illustri G.F. de l'Hôpital (1661-1704), Giacomo (1634-1703) e Giovanni (1667-1748) Bernoulli, e più tardi L. Euler (1707-1783). S'integrano molti tipi di funzioni, e s'inizia la geometria differenziale delle curve piane e la teoria delle equazioni differenziali; il calcolo viene esposto organicamente nei trattati di L'Hôpital e di Giovanni Bernoulli, e più innanzi in quello classico di Euler; mentre il metodo delle flussioni di Newton, esposto da lui in una opera che vide la luce soltanto dopo la sua morte, viene illustrato da B. Taylor (1685-1731) e da C. Maclaurin (1698-1746), il quale però, uomo di poca fede, ritiene necessario chiamare in suo appoggio il metodo di esaustione.

Era compiuto così il primo dei due passi a cui è si è accennato; restava ancora il secondo.

I successi brillanti ottenuti per mezzo dei nuovi metodi non avevano fatto tacere le critiche intorno al principio fondamentale sul quale essi si appoggiavano: tali quelle di De Catelan, B. Nieuwentijt (1654-1718), M. Rolle (1652-1719), F. de la Hire (1640-1718); si rappresentò perfino sulle scene di Parigi una commedia burlesca sugl'infinitesimi. Si attaccava il valore del metodo con questo dilemma: o gl'infinitesimi sono zero, e allora il calcolo infinitesimale è illusorio; o non lo sono, e allora esso è un metodo d'approssimazione. Ma a questo ragionamento, apparentemente ineccepibile, si opponevano i fatti; i nuovi metodi avevano sempre condotto a risultati positivi, e tutte le volte che questi si erano potuti confrontare con quelli ottenuti con i metodi degli antichi, si erano riscontrati rigorosamente esatti. Sorse allora la questione, come mai da una ipotesi contraddittoria fosse possibile dedurre tante conseguenze vere, questione che fu oggetto di un concorso bandito nel 1784 dall'Accademia di Berlino. L'opera premiata, dovuta a S. Lhuilier (1750-1840), non portò gran che innanzi la questione.

Intanto G. L. Lagrange (1736-1813), presidente dell'Accademia di Berlino, prima in una memoria del 1772, poi nella Théorie des fonctions analytiques (1797), proponeva un metodo completamente indipendente dagl'infinitesimi; egli ammetteva che le funzioni fossero in generale sviluppabili in serie di Taylor, e definiva come derivata il coefficiente della prima potenza della variabile. Il difetto capitale di questo metodo è che esso lasciava in ombra il vero significato della derivata; inoltre la sua applicazione riusciva molto complicata, e d'altronde è noto che non tutte le funzioni sono sviluppabili in serie di Taylor.

Il tentativo di Lagrange diede luogo a vive discussioni (v. S. Dickstein, in Cantor-Festschrift, Lipsia 1899, pp. 65-79), e anche coloro che accettavano il principio (A. Comte, P. S. de Laplace) lo riconobbero improprio alle applicazioni.

In quella stessa epoca uscivano le Réflexions sur la méthaphysique du Calcul infinitésimal di L.-M.-N. Carnot, che sono una difesa del metodo leibniziano. È vero, dice Carnot, che noi commettiamo un errore ogni volta che ad una quantità ne sostituiamo un'altra che ne differisca per un infinitesimo; ma i varî errori si compensano tra loro, per modo che il risultato finale riesce esatto. Ma di questa compensazione egli non dà alcuna prova diretta; dice solo che il fatto di non trovare più alla fine dei calcoli termini infinitesimi assicura dell'esattezza del risultato. L'idea della compensazione degli errori era già stata emessa da G. Berkeley, e poi da Lagrange, il quale, prima d'abbandonare il calcolo leibniziano, aveva cercato di persuadersi della sua legittimità.

Ma né la difesa imperfetta di Carnot né le obiezioni degli antinfinitisti potevano condurre ad una conclusione certa, giacché finora non si era mai detto esattamente che cosa dovesse intendersi per infinitesimo; lo stesso Leibniz oscilla tra varie interpretazioni contrarie, e Newton parla di quantità evanescenti o nascenti, di cui debba cercarsi il rapporto, non prima né dopo, ma al momento in cui svaniscono o nascono. Cessò, almeno nel campo matematico, ogni discussione, quando A.-L. Cauchy diede (Analyse algébrique, 1821) una definizione precisa dell'infinitesimo: si dice che una funzione f(x) d'una variabile x è infinitesima per x = c (o, come oggi si preferisce scrivere, per x c), se al tendere di x a c la f(x) tende a zero; se cioè, comunque si prenda il numero positivo ε, si può trovare un corrispondente numero positivo δ, tale che per ogni ∣x − c∣⟨ δ sia ∣f(x)∣ ⟨ ε.

Con ciò il dilemma, che sembrava irrimediabilmente intaccare la legittimità dei nuovi calcoli, perdeva ogni vigore; l'infinitesimo non è un numero fisso, di cui si possa dire che o è zero o non lo è; esso è un numero che varia in dipendenza di altra variabile, e che all'avvicinarsi di questa a un certo valore fisso tende a zero. La soppressione dei termini infinitesimi non ha dopo ciò più nulla di misterioso; con tale soppressione si commette effettivamente una provvisoria inesattezza, ma si sa a priori che essa non influisce sul risultato finale, perché i termini trascurati hanno per limite zero al tendere della variabile al valore fisso considerato. E restava così confermato ciò che parecchi, e basterà citare fra questi J. le Rond d'Alembert (1717-1783), asserivano, che tra le grandezze che si presentano allo studio dell'analisi non ve n'ha alcuna che esca dal campo delle ordinarie grandezze finite.

Intanto, fra tutte le incertezze e le discussioni, il calcolo infinitesimale si era rapidamente sviluppato nel sec. XVIII e nella prima metà del sec. XIX con G. C. de' Toschi di Fagnano, J. Riccati, J. Landen, A. M. Legendre, Lagrange, N. H. Abel, C. G. J. Jacobi, B. Riemann, K. Weierstrass, e aveva gettato rigogliose propaggini, quali la teoria delle equazioni a derivate parziali, il calcolo delle variazioni, la teoria delle funzioni ellittiche e quella delle funzioni abeliane; e dal suo tronco si erano staccate la geometria differenziale, con G. Monge, K. F. Gauss; la fisica matematica con P. G. Lejeune-Dirichlet, J.-B.-J. Fourier; la meccanica celeste, con P.-S. de Laplace. A ciò aveva largamente contribuito l'introduzione nell'algebra dei numeri complessi, che, guardati dapprima con diffidenza e con sospetto, acquistarono poi, per opera di Gauss, J. R. Argand e L.-F.-A. Arbogast, diritto di cittadinanza, a pari condizioni dei numeri reali (v. immaginario).

Però, intorno alla metà dell'Ottocento, sorsero dubbî riguardo alla sicurezza di alcune delle pietre di base dell'analisi. Si accettavano ancora le definizioni logicamente insignificanti dei numeri irrazionali e dei numeri complessi date da Euler: √12 è il numero che moltiplicato per sé stesso dà 12, √−..4 è il numero che moltiplicato per sé stesso dà − 4. Fu sentito il bisogno d'assicurare meglio le basi logiche dell'aritmetica e dell'algebra: e ciò diede luogo a una revisione critica dei principî iniziata dalla scuola di Weierstrass in Germania e proseguita, colà e altrove, da L. Kronecker (1823-1891), H. v. Helmholtz (1821-1894), O. Stolz (1844-1905), G. Cantor (1845-1918), P. Du Bois-Reymond (1831-1889), H. Hankel (1839-1873), R. Dedekind (1831-1916), U. Dini (1845-1918), G. Peano (1858-1932), J.-G. Darboux (1842-1917), C. Jordan (18381922) e altri. Come precursori di questo movimento critico possono citarsi A.-L. Cauchy e B. Bolzano.

Serie e prodotti infiniti. - Euclide aveva insegnato a trovare la somma di una progressione geometrica limitata, e senza dubbio, malgrado la forma dei suoi teoremi, aveva espresso il rapporto del volume di una piramide a quello di un prisma di egual base e altezza con

Più chiaramente Archimede riduce la quadratura della parabola a questa stessa serie.

Per trovare nuove tracce di serie infinite bisogna scendere sino al sec. XIV. N. Oresme somma la serie geometrica e altre serie. Più tardi A. Thomas somma (1509) serie più generali, incontra anche serie divergenti, e attribuisce l'impossibilità di sommarle alla limitatezza del nostro intelletto.

Viète e Wallis dànno i primi esempî di prodotti infiniti. P. Mengoli, in un'opera rimasta a lungo ignorata, si pone (1650) il problema se una serie a termini decrescenti sia sempre convergente, e lo risolve in senso negativo dimostrando la divergenza della serie armonica, dimostrazione che viene ordinariamente attribuita a Giovanni Bernoulli; determina inoltre le somme di molte serie convergenti. Con Newton e Leibniz comincia l'uso corrente delle serie nell'analisi. Al primo si devono le serie esponenziale e binomiale e gli sviluppi delle funzioni trigonometriche e dell'arcoseno, al secondo il noto teorema sulle serie a termini di segno alternato e decrescenti e l'applicazione alle serie della moltiplicazione e della divisione; ambedue si servono delle serie per la risoluzione delle equazioni algebriche, per il calcolo degl'integrali e per l'integrazione delle equazioni differenziali: N. Mercator (1620-1687) trova la serie logaritmica, J. Gregry lo sviluppo dell'arcotangente, A. de Moivre (1667-1754) applica le serie a questioni di rendite vitalizie. Anche i fratelli Bernoulli contribuirono al progresso della teoria delle serie; Giacomo dedicò a essa una lunga memoria che costituisce quasi un trattato sull'argomento; Giovanni trovò (1694) uno sviluppo in serie che porta il suo nome, e che coincide sostanzialmente con la serie detta di Taylor pubblicata da questo nel 1715, sviluppo al quale Leibniz era già giunto molti anni prima:

Non erano però più chiari negli analisti i concetti di convergenza e divergenza; ne sono prova le curiose discussioni, non solo matematiche ma anche metafisiche e teologiche, sopra la serie:

di cui G. Grandi (1671-1742), e d'accordo con lui anche Leibniz, avevano determinato la somma in 1/2. Il ragionamento di Grandi era questo: poiché dividendo 1 per 1 − x si ottiene come quoziente 1 + x + x2 + ..., la relazione:

è un'identità; facendo x = − 1 si ottiene il risultato voluto. Ma a conclusioni ancora più strane si giungeva ponendo per x un numero maggiore di 1; così per x = 3:

una somma di numeri interi positivi eguale a un numero frazionario negativo. La difficoltà riguardo al segno si toglieva facilmente osservando che si può passare dal positivo al negativo tanto attraverso allo zero quanto attraverso all'infinito, sicché i numeri negativi possono riguardarsi come più che infiniti; conclusione suffragata da certe considerazioni geometriche di J. Wallis. Contro Grandi si schieravano Nicola I Bernoulli (1687-1759), P. Varignon (1654-1722), A. Marchetti (1633-1714), J. Hermann (16981733), e più tardi F. Callet (1744-1798), mentre come principale rappresentante del partito a lui favorevole si può considerare Euler. Egli definisce come somma di una serie, sia o no convergente, l'espressione dal cui sviluppo essa è derivata; così 1/(1 − x) rappresenta la somma della serie 1 + x + x2 + ..., qualunque sia x, ed è sempre lecito porre una delle due espressioni in luogo dell'altra. Questa larga libertà permise ad Euler di raggiungere, tanto nel campo delle serie quanto in quello dei prodotti infiniti, numerosissimi risultati, in gran parte riconosciuti poi esatti; notevoli, tra gli altri, la somma delle serie della forma

lo sviluppo in prodotto infinito di sen x, il calcolo dei coefficienti delle serie trigonometriche, le relazioni tra le funzioni circolari e la funzione esponenziale. D'altra parte Euler enunciava un criterio di convergenza che sostanzialmente coincide con quello noto, e pure una definizione corretta di convergenza dava G. Cramer (1704-1752), mentre D'Alembert dichiarava sospetti tutti i risultati ottenuti con l'uso di serie divergenti, e Lagrange, il quale nel 1770 aveva creduto sufficiente per la convergenza il decrescere indefinito del termine generale, accentuava nel 1796 l'importanza che ha la valutazione dell'errore risultante dai termini che si trascurano. Per quanto ancora nel 1788 J.F. Pfaff accettasse come vera la formula di Grandi, la teoria delle serie si avviava verso un assetto sicuro; questo fu raggiunto molto più tardi per opera di Cauchy, il quale enunciò in forma rigorosa il criterio generale di convergenza - preceduto in questo da un matematico boemo rimasto per molti anni dimenticato, B. Bolzano - ed espose in modo organico i fondamenti della teoria delle serie. Un errore da lui commesso riguardo alla continuità della somma di una serie di funzioni continue fu rettificato da Abel. Fourier studiò lo sviluppo delle funzioni in serie trigonometriche, argomento che diede luogo a importanti discussioni: delle stesse serie si occuparono P.G. Lejeune-Dirichlet e S.D. Poisson, l'ultimo sostenitore delle idee di Euler sulle serie divergenti.

Ulteriori sviluppi ebbe la teoria delle serie per opera di numerosi analisti, tra i quali citiamo E. E. Kummer (1810-1893), J. L. Raabe (1801-1859), A. de Morgan (1806-1871), B. Riemann, J.-L.-F. Bertrand (1822-1900), P.-O. Bonnet (1819-1892), P. du Bois-Reymond, U. Dini, J. A. Gmeiner, P. Montel, H. Steinitz.

La convergenza uniforme fu introdotta da G. G. Stokes (1819-1903) e Ph. L. von Seidel (1821-1896); le condizioni necessarie e sufficienti per la continuità e per l'integrabilita della somma d'una serie di funzioni rispettivamente continue e integrabili sono dovute a C. Arzelà (1847-1912), e la questione, per quanto riguarda la continuità, fu poi ripresa da E. Borel.

Negli ultimi tempi gli analisti sono tornati, benché in forma più rigorosa, al concetto di Euler sulle serie divergenti, e queste, già bandite dall'analisi, vi sono rientrate. Il principio adottato è come lo enuncia Borel nelle sue Leçons sur les séries divergentes, far corrispondere a ciascuna serie divergente numerica un numero tale, che la sostituzione di esso alla serie nei calcoli usuali dia, almeno quasi sempre, risultati esatti. Un principio analogo può applicarsi alle serie di funzioni, in particolare alle serie di potenze.

Il punto di partenza per lo studio delle serie divergenti è stata la serie di Stirling, i cui termini, di segno alternato, decrescono sino a un certo punto, per poi crescere indefinitamente; se si arresta la serie al termine minimo, si commette un errore minore del primo termine trascurato. È per ciò che questa serie rende utili servigi nelle matematiche applicate; e lo stesso si può dire di certe serie divergenti usate nella meccanica celeste. H. Poincaré (1854-1912) studiò in generale le serie aventi questo carattere, che chiamò asintotiche, mentre T. J. Stieltjes (1856-1894), che vi giunse per altra via, le denominò semiconvergenti. E. Cesàro (1859-1906) definì come somma d'una serie, anche se divergente, il limite per n infinito, se esiste, del rapporto (s + s2 + ... + sn)/n, dove sr è la somma dei primi r termini; ed estese di poi la sua teoria, seguito, tra gli altri, da E. Borel, M. Servant, E. Le Roy, A. Pringsheim, G. H. Hardy, E. B. van Vleck, G. Sannia.

Frazioni continue. - Non molto vi è da aggiungere al cenno storico contenuto nella voce: frazione: Frazioni continue. Tracce di un analogo algoritmo si trovano in Teone Smirneo (sec II d. C.), in qualche autore indiano e arabo, e più tardi in R. Bombelli (sec. XVI), ma chi deve considerarsi come fondatore della teoria delle frazioni continue è P.A. Cataldi (1552-1626), il quale insegnò a sviluppare in frazione continua la radice quadrata d'un numero intero, e su questo caso particolare trovò tutte le principali proprietà del nuovo algoritmo. Più innanzi D. Schwenter (1585-1636) e C. Huygens (1629-1695) si servirono delle frazioni continue per ottenere valori approssimati di un numero razionale, e lord W. Brouncker (1620-1684) per avere uno sviluppo di 4/π; J. Wallis espose la teoria generale delle frazioni continue, che fu poi più largamente sviluppata da Euler, il quale ne fece l'applicazione all'equazione detta di Pell (v. aritmetica: Aritmetica superiore, n. 13), al calcolo d'integrali e all'integrazione di equazioni differenziali. Lagrange utilizzò le frazioni continue per la risoluzione delle equazioni numeriche e delle equazioni indeterminate di 1° e 2° grado, e studiò le frazioni continue periodiche. Si occuparono pure delle frazioni continue A. Bürja (1752-1816), D. Bernoulli (1700-1782), J. Trembley (1749-1811), A. F. Möbius (1790-1868), M. A. Stern (1809-1894). La questione della convergenza delle frazioni continue fu considerata, fra gli altri, da von Seidel, O. Stolz, A. Pringsheim, O. Perron, J. A. Gmeiner, H. Padé. F. Meyer, seguito da O. Perron, sviluppò una generalizzazione delle frazioni continue considerata da Jacobi.

Bibl.: Per l'analisi infinitesimale, oltre le opere citate nelle voci differenziale, calcolo; integrale, calcolo: H. Hankel, Zur Gesch. der Math. in Alterthum und Mittelalter, Lipsia 1874; H. Künssberg, Eudoxos von Cnidos, Dinkelsbühl 1888-1890; M. Simon, in Abh. zur Gesch. d. Math., VIII (1898), pp. 113-132; C. R. Wallner, in Bibl. Math., s. 3ª, IV (1903), pp. 28-47, 246-259; V (1904), pp. 113-124; J. L. Heiberg, H. G. Zeuthen, in Bibl. math., s. 3ª, VII (1906-07), pp. 321-363; D. Mahnke, in Abh. d. Berl. Ak., 1925, pp. 1-64; A. Agostini, in Per. di mat., s. 4ª, V (1925), pp. 18-30; H. Bosmans, in Per. di mat., s. 4ª, VI (1926), pp.231-261; E. Hoppe, in Jahresb. d. deutsch. Math. Ver., XXXVII (1928), pp. 148-187; E. Bortolotti, in Archivio di st. della scienza, XII (1930), pp. 267-271 e in Per. d. mat., s. 4ª, VIII (1928), pp. 19-59. - Per la serie e i prodotti infiniti: P. Mengoli, Novae quadraturae arithmeticae, Bologna 1650; R. Reiff, Gesch. d. unendl. Reihen, Tübingen 1889; G. Eneström, in Bibl. Math., s. 3ª, XII (1912), pp. 135-148; H. Wieleitner, in Bibl. Math., s. 4ª, XIV (1914), pp. 153-168; M. Pastori, in Per di mat., s. 4ª, VII (1927), pp. 302-319; N. Nielsen, Lehrbuch der unendlichen Reihen, Lipsia-Berlino 1909; K. Knopp, Theorie und Anwendung der unendlichen Reihen, Berlino 1922; E. Borel, Leçons sur les séries à termes positifs, Parigi 1902; id., Leçons sur le séries divergentes, 2ª ed., Parigi 1928. - Per le frazioni continue, v. frazione, e G, Wertheim, in Abh. zur Gesch. d. Math., VIII (1898), pp. 147-160; E. Maccaferri, in Annuario del R. Ist. tecn. di Piacenza, VI (1931), pp. 71-82.

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