ANALFABETISMO E ALFABETIZZAZIONE

XXI Secolo (2009)

Analfabetismo e alfabetizzazione

Alan Rogers

I significati di ‘analfabetismo’

A quanto risulta dall’indagine più recente dell’UNESCO, nel 2004 vi erano nel mondo circa 774 milioni di adulti analfabeti e le previsioni indicano che entro il 2015 il loro numero sarà di circa 725 milioni (EFA Global monitoring report 2008, pubbl. 2007, p. 258). Più del 98% di questi individui vive in società ‘in via di sviluppo’ (cioè destinatarie di programmi di sostegno) e, in questo gruppo, le donne sono la maggioranza (64%), mentre le statistiche indicano che solo in due Paesi, la Giamaica e il Lesotho, la percentuale di uomini analfabeti è maggiore di quella delle donne. I gruppi di individui con insufficienti o inesistenti competenze di lettura, scrittura e calcolo si trovano principalmente in Africa e in alcune regioni dell’Asia. Tale condizione è strettamente legata alla povertà: il 70% del numero totale di analfabeti nel mondo si trova in 10 Paesi, con le maggiori concentrazioni in India, Cina, Pakistan, Etiopia, Nigeria e Bangladesh. Questi dati sono anche strettamente correlati alla densità di popolazione e al tasso di crescita.

L’analfabetismo e, di conseguenza, l’alfabetizzazione vengono generalmente intesi in due modi. Per alcuni, l’analfabetismo è uno stato anormale, una deviazione dall’alfabetizzazione, che costituisce la norma, e in quanto tale deve essere eliminato. Questo concetto trova forse la sua migliore espressione nelle parole di Amartya Sen: «L’analfabetismo e la mancanza di nozioni basilari di calcolo sono causa diretta di una situazione di vulnerabilità. L’incapacità di leggere e scrivere, di contare o di comunicare costituisce di per sé stessa una privazione gravissima. Se un individuo si trova in questo stato a causa dell’analfabetismo e della mancanza di nozioni basilari di calcolo non è considerato da noi solo una persona ‘a rischio’, a cui potrebbe succedere qualcosa di terribile, ma, istintivamente, una persona a cui qualcosa di terribile è già successo» (2003, p. 22). Le Nazioni Unite e altri organismi hanno scelto la riduzione dell’analfabetismo come obiettivo principale del programma mondiale Education for all e i governi nazionali hanno accettato tale obiettivo e le idee a esso legate.

Per altri, il concetto di ‘analfabetismo’ (e, di conseguenza, quello di alfabetizzazione) è un concetto occidentale che si è diffuso a livello mondiale grazie soprattutto alla spinta della globalizzazione nella sua ricerca di economie concorrenziali e anche grazie al risalto dato ai diritti umani universali direttamente dalle agenzie internazionali responsabili degli aiuti allo sviluppo (Fransman 2005; Street 2001; Stromquist 2002). Per esse, la dicotomia tra ‘analfabeta’ e ‘alfabetizzato’ e la visione a essa associata riguardante la regola secondo cui tutti gli individui adulti devono ‘saper leggere e scrivere’ contrastano con il vissuto quotidiano di molte delle cosiddette società in via di sviluppo, dove il fatto che l’analfabetismo rappresenti la norma raramente viene messo in discussione. In America Latina, proprio quei valori che sono il fondamento di questa imposizione occidentale, sono oggetto di profonda critica.

Nelle società industrializzate, dove la scolarizzazione è pressoché universale, l’analfabetismo tende a significare ‘analfabetismo funzionale’, ossia l’incapacità di scrivere e leggere in maniera adeguata in particolari contesti. Da ciò deriva che l’affermazione che negli Stati Uniti d’America circa 30 milioni di individui adulti sono ‘analfabeti’ deve venire intesa nel senso che quegli individui non sono in grado di operare funzionalmente (termine assai impreciso) in determinati contesti, specialmente quelli riguardanti l’economia e la partecipazione alle attività politiche e sociali, e che la risposta a questo sia il proseguimento della formazione scolastica. In questo caso, l’analfabetismo non denota una completa incapacità di ‘leggere’ o ‘scrivere’ (Demetrion 2005).

Una tale interpretazione comporta che il significato di ‘analfabetismo’ e quello di ‘alfabetizzazione’ varino a seconda del contesto (essere analfabeti in ambito militare non è lo stesso che esserlo in una banca). Tra coloro che hanno compiuto un percorso scolastico, sono definiti analfabeti quegli individui le cui capacità non sono conformi a una serie di parametri comunemente accettati, come lo scrivere una lettera senza molti errori di grafia o di grammatica, compilare dei moduli, far domanda di impiego ecc., anche quando tali individui sono in grado di leggere i giornali. Anche coloro che non hanno la capacità di accedere alle risorse e partecipare ad attività politiche e sociali, come esprimere il proprio voto in una consultazione elettorale, vengono spesso definiti analfabeti. L’analfabetismo non è un assoluto, varia da situazione a situazione e la sua valenza è sempre basata sugli standard che la società stabilisce.

In queste società l’attenzione si concentra su chi non è mai andato a scuola e non ha mai frequentato corsi di alfabetizzazione per adulti, persone che si ritiene non siano capaci di leggere e scrivere in nessuna delle lingue principali della comunità in cui vivono o almeno nella lingua dominante che è anche quella dell’educazione formale impartita nella maggior parte dei casi. In queste società, gli ‘analfabeti’ sono coloro che non hanno acquisito quelle competenze fondamentali che la scuola si ritiene debba insegnare, nonostante alcuni di loro siano in possesso di competenze sufficienti, acquisite al di fuori dell’insegnamento formale delle scuole, a operare in maniera adeguata all’interno della propria sfera di attività.

Gli approcci all’analfabetismo

In termini generali, esistono due approcci all’analfabetismo fondamentalmente differenti secondo quelli che sono stati definiti il ‘modello autonomo’ e il ‘modello delle prassi sociali’, che esamineremo necessariamente uno alla volta.

Il modello autonomo

Questo modello risulta focalizzato sull’alfabetizzazione in termini di abilità. La parola fa riferimento alle competenze di scrittura e di lettura (strutturazione di parole in codici di scrittura e decodifica e comprensione di tali codici). L’‘analfabetismo’ è, dunque, la mancanza della «capacità di (a) registrare informazioni di un certo tipo in un codice comprensibile all’individuo che opera la registrazione stessa ed eventualmente ad altre persone in forma più o meno permanente e (b) decifrare le informazioni così recepite. Questa è l’essenza della scrittura e della lettura» (Oxenham, Diallo, Katahoire et al. 2002, p. 8).

Dunque, ‘analfabetismo’ indica l’incapacità di decifrare ed estrarre il significato delle parole in un particolare codice di scrittura; in questo modo un individuo può essere alfabetizzato per quel che riguarda un codice di scrittura (che sia, per es., in caratteri cirillici o romani) e analfabeta per quel che riguarda un altro (in caratteri devanagari o cantonesi). Seguendo questo ragionamento, è possibile che una persona sia analfabeta anche se riesce a decifrare un codice di scrittura ma non riesce a comprendere il senso delle parole: per es., un lettore inglese che non capisce un testo in polacco oppure in spagnolo. Tutti noi, di conseguenza, siamo ‘analfabeti’ di fronte a molti dei codici scritti nel mondo.

La parola alfabetizzazione nelle società anglofone ha comunque due significati. Secondo uno dei due, essa indica l’acquisizione delle capacità. La frase «Il governo sta spendendo milioni di euro per l’alfabetizzazione» significa ‘per aiutare bambini e adulti ad acquisire competenze di alfabetizzazione’, non ‘per l’esercizio della lettura e della scrittura’. Nella frase «Il livello di alfabetizzazione di questa comunità è molto basso» non ci si riferisce all’insegnamento della lettura e della scrittura ma all’esercizio della lettura e della scrittura, alle loro applicazioni all’interno della famiglia, della comunità, sul posto di lavoro e così via. Questo secondo significato si riferisce all’alfabetizzazione come forma scritta della comunicazione: «L’alfabetizzazione riguarda qualcosa di più della lettura e della scrittura – riguarda il nostro modo di comunicare all’interno della società. Riguarda le prassi e le relazioni sociali, le conoscenze, la lingua e la cultura» (Literacy, a UNESCO perspective, UNESCO, 2003, p. 1). In tal modo, quando viene espresso in questi termini, l’analfabetismo diventa il mancato impegno nei confronti della comunicazione scritta. In alcune recenti discussioni sull’alfabetizzazione il termine è stato ampliato fino a includere la comunicazione ‘orale’, utilizzando in tale occasione l’espressione alfabetizzazione orale. Queste parole però si contraddicono a vicenda, dato che in molti testi sull’alfabetizzazione i termini alfabetizzato e orale sono considerati opposti. Per alcuni, le società orali sono quelle che non utilizzano la scrittura, mentre le società alfabetizzate includono una massiccia componente di comunicazioni scritte. Dunque l’analfabetismo (in questo senso) si riferisce a quegli individui che usano unicamente la comunicazione orale e non quella scritta.

L’impiego del termine analfabetismo per indicare l’incapacità di alcuni individui di utilizzare le forme di comunicazione scritta prevalenti nella società di cui essi fanno parte è il più comune negli studi sullo sviluppo, e l’alfabetizzazione indica le competenze e capacità che devono essere apprese in ambienti di insegnamento formale. In questo modo l’approccio all’analfabetismo più comune è quello che lo considera nei termini della mancanza di queste competenze generiche. Le competenze di lettura e scrittura sono ancora largamente considerate universali e fondamentali per tutte le ulteriori forme di apprendimento ed esse rappresentano le competenze di base sulle quali vengono strutturati tutti gli altri programmi. Esse sono concepite come competenze estranee rispetto al contesto, che una volta apprese possono essere applicate in qualunque tipo di situazione, dando la possibilità a colui che le ha acquisite di confrontarsi con qualsiasi tipo di testo.

I benefici dell’alfabetizzazione

Questa visione dell’analfabetismo fa ritenere che l’apprendimento della lettura e della scrittura, intese come competenze generali, apporti automaticamente benefici essenziali ai quali gli adulti analfabeti non potrebbero avere accesso in nessun altro modo. La più recente e, in una certa misura, la più autorevole espressione di questo importante concetto proviene dall’UNESCO (EFA Global monitoring report 2006, pubbl. 2005). Questi benefici sono stati distinti in benefici umani (fiducia, promozione delle proprie potenzialità, creatività, pensiero critico); benefici politici (maggiore partecipazione, promozione della pace e della riconciliazione); benefici culturali (preservazione e promozione della diversità culturale insieme con la riflessione critica su atteggiamenti e norme morali); benefici sociali (salute, sostegno alle famiglie, prevenzione dell’AIDS e dell’HIV, migliori condizioni dell’istruzione scolastica per i bambini, uguaglianza tra i sessi) e benefici economici (mezzi di sostentamento maggiori e con maggiori garanzie).

Un argomento che è stato spesso lasciato fuori da questi dibattiti sui benefici dell’alfabetizzazione in molte società contemporanee è la sua funzione di soglia di accesso. Naturalmente, questa funzione sarà diversa a seconda dei contesti, ma in molti Paesi l’alfabetizzazione rappresenta l’elemento essenziale per accedere alle risorse: ottenere un prestito bancario o la patente di guida, inserirsi produttivamente nell’economia formale o avere una promozione a un impiego migliore. A causa della mancanza di alfabetizzazione (così si afferma) agli analfabeti vengono negate queste e molte altre opportunità.

Gli analfabeti sono considerati incapaci di accedere a questi vantaggi e sono rimasti esclusi da quell’affinamento delle doti sociali che è attribuito all’educazione formale. A questa visione si contrappongono tesi opposte: è ancora oggetto di vivaci discussioni il ‘mito dell’alfabetizzazione’ degli anni Ottanta del secolo scorso, secondo il quale l’alfabetizzazione era considerata di per sé portatrice di un valore personale, collettivo e socioeconomico, di opportunità, di mobilità, di accesso all’informazione e al sapere, di razionalità, di moralità e di metodicità, tutte possibilità dalle quali, di conseguenza, gli analfabeti sono rimasti esclusi (cfr. a tale proposito la sintesi in Street, Lefstein 2007, pp. 97-140).

Questo dibattito si articola in tre aree principali: quella che concerne i meccanismi cognitivi, quella che riguarda lo sviluppo sociale e, infine, quella che si riferisce alla funzionalità di tipo economico, civico e politico.

In primo luogo, vi è chi crede che le competenze di lettura e scrittura apprese in ambito formale apportino dei cambiamenti cognitivi. Sono le scuole di pensiero psicologico che tendono ad adottare questo concetto: l’alfabetizzazione si ritiene porti con sé una maggiore capacità di ragionamento, di strutturazione delle proprie idee e, perfino, una maggiore consapevolezza delle proprie scelte. I sostenitori di questa idea tracciano una distinzione molto netta tra quelle che ritengono siano le società tradizionali dai contenuti puramente verbali e le moderne società completamente alfabetizzate. Essi evidenziano le conseguenze dell’alfabetizzazione nella comunicazione e, in particolar modo, nello sviluppo della memoria. Alcuni asseriscono che la scienza moderna che si occupa dei processi cerebrali ha scoperto che «la maniera in cui il cervello analizza gli schemi di lettura» (Abadzi 2003) implica che la maggior parte degli analfabeti adulti non potrà mai imparare a leggere e a scrivere in maniera adeguata. Questo concetto è stato però messo in dubbio da visioni differenti della natura delle società orali e di quelle alfabetizzate (Barton 20072) legate a un concetto di apprendimento anch’esso diverso, ma anche determinate dal fatto che la ricerca empirica ha individuato numerosi casi di adulti che hanno effettivamente imparato a leggere e scrivere molto bene (Uddin 2005; Rogers, Uddin 2005).

In secondo luogo, molti auspicano che le società moderne richiedano che l’intera comunità, bambini e adulti, sia necessariamente alfabetizzata per poter iniziare a evolversi profondamente. L’alfabetizzazione è vista come la chiave dello sviluppo, non solo in quanto strumento che lo propizia ma per i benefici personali e socioeconomici diretti che essa apporta. In sintesi, senza alfabetizzazione non c’è sviluppo: «Creare ambienti e società alfabetizzate è di fondamentale importanza per raggiungere gli obiettivi di eliminare la povertà, ridurre la mortalità infantile, frenare la crescita demografica, raggiungere la parità tra i sessi e garantire sviluppo, pace e democrazia duraturi» (EFA Global monitoring report 2006, pubbl. 2005, p. 62). Infatti «[…] la realizzazione di un’ampia gamma di obiettivi riguardanti la riduzione della povertà e lo sviluppo dipende dal fatto che i Paesi hanno compiuto progressi significativi verso l’alfabetizzazione per tutti gli adulti. Con investimenti molto modesti i Paesi possono vedere gli eccezionali vantaggi derivanti dalla riduzione della vulnerabilità all’AIDS e all’HIV, il miglioramento della condizione della donna, l’incremento della qualità dei servizi sanitari e delle condizioni di sostentamento economico dei segmenti più poveri della società nonché la creazione di cittadini attivi capaci di contribuire a un futuro migliore per tutti» (Global compaign education, Writing the wrongs: international benchmarks on adult literacy, November 2005, www.campaignfor-education.org/resources /.resources_listall.php, p. 55). L’alfabetizzazione è uno «strumento per acquisire e utilizzare conoscenze relative alla salute, alla generazione di reddito, al piccolo credito» e altri aspetti dello sviluppo (Literacy for change, «The new courier», April 2003, n. speciale, p. 55). Anche in questo caso, di conseguenza, gli ‘analfabeti’ non possono aver accesso a nessuno di questi elementi in grado di divenire generatori di vantaggi sociali, se non indirettamente.

In terzo luogo, c’è chi afferma che l’alfabetizzazione comporti l’acquisizione di capacità funzionali utili nei settori del profitto economico e in termini di partecipazione attiva alla vita dello Stato; piuttosto che come fine a sé stessa, l’alfabetizzazione viene considerata come preparatoria a una serie di ruoli economici, civici e sociali. La motivazione economica, che vede questo tipo di processo come un importante investimento a livello individuale e sociale, è oggi predominante: «Gli enti governativi e le agenzie che erogano gli aiuti vanno collegando sempre di più i loro programmi di alfabetizzazione all’eliminazione della povertà, fissando un legame intrinseco tra l’alfabetizzazione e gli interventi che si occupano delle principali necessità degli individui» (Literacy for change, «The new courier», April 2003, n. speciale p. 54). La World Bank (Educational attainment and enrolment, 2001, p. 49) ha indicato che il tasso individuale di profitto tratto dall’apprendimento delle competenze di alfabetizzazione è andato aumentando, citando l’Indonesia nel 1986 (con un aumento di circa il 25%), il Ghana nel 1999 (il 43% della popolazione femminile e il 24% di quella maschile), fino al Bangladesh nel 2001 (il 37%). Senza alfabetizzazione, si ritiene che sia difficile per le persone esercitare un lavoro autonomo, occuparsi in maniera adeguata della propria contabilità, evitare di essere soggetti a truffe. Ancora una volta, però, le ricerche sul campo mettono in discussione questi benefici sociali, evidenziando che le opportunità nel settore dell’impiego, anche per i soggetti in possesso di un certo grado di alfabetizzazione, dipendono da altri fattori, inclusi quelli legati alla discriminazione sessuale: le donne in possesso di un certo livello di alfabetizzazione, per es., non sempre hanno le stesse opportunità di impiego degli uomini con il medesimo grado di alfabetizzazione, mentre vi sono molti individui non alfabetizzati che sono impegnati in imprese produttive a livello economico.

Il tema dell’alfabetizzazione come forza propulsiva nel settore politico (spesso tratto, con adattamenti, dall’opera di Paulo Freire del secolo scorso) tende a essere meno diffuso oggi anche se vi è ancora chi ne parla (Demetrion 2005). Nuovamente gli analfabeti sono visti come soggetti in condizione di svantaggio: viene spesso messo in rilievo «il ridimensionamento dell’importanza di quelle competenze di alfabetizzazione di base» (Wickens, Sandlin 2007, p. 283). ‘L’alfabetizzazione critica’ in questo senso è in ogni caso più un argomento di discussione che non l’obiettivo di provvedimenti specifici (Roberts 2000; cfr. «Critical literacy», www.criticalliteracy.org.uk).

Le statistiche

Nonostante i pareri contrastanti su queste concezioni, le agenzie che si occupano di Paesi in via di sviluppo hanno stabilito degli obiettivi per la ‘riduzione’ o perfino per l’‘eliminazione dell’analfabetismo’. Il tasso nazionale di analfabetismo è stato per lungo tempo utilizzato come uno degli indicatori chiave del sottosviluppo; sulla base di esso vengono pubblicate statistiche e vengono valutati comparativamente i diversi Paesi. Così gli studi della IALS (Internation­al Adult Literacy Survey) hanno tentato di dimostrare come società differenti, con livelli diversi di analfabetismo, si diversifichino anche nello sviluppo economico (Literacy in the information age: final report of the International adult literacy survey, 2000). Il linguaggio tende a evidenziare l’aspetto negativo: l’Istituto di statistica dell’UNESCO dichiara che un individuo su cinque nel mondo è analfabeta piuttosto che dire che quattro su cinque sono in possesso di un qualche grado di alfabetizzazione. Sebbene circa l’82% della popolazione mondiale possa essere indicata come detentrice di un qualche livello di alfabetizzazione, i Global monitoring report dell’UNESCO oggi presentano tabelle dettagliate che mettono in relazione l’analfabetismo con la povertà, con la densità di popolazione e il tasso di crescita, attribuendo tale legame al fatto che questi Stati non sono in grado di offrire istruzione primaria universale al crescente numero di bambini all’interno dei confini del proprio Stato. I rapporti riferiscono che a livello mondiale più di 72 milioni di bambini, di cui il 57% sono femmine, non vanno a scuola (EFA Global monitoring report 2006, pubbl. 2005; EFA Global monitoring report 2008, pubbl. 2007, pp. 58-62 e tab. 2) e che questo fenomeno è la causa del permanere dell’alto numero di analfabeti nel mondo.

È peraltro universalmente riconosciuto che queste statistiche sono approssimative, imprecise e fuorvianti: come indica lo stesso Global monitoring report dell’UNESCO a proposito delle proprie statistiche, «gli attuali dati sull’alfabetizzazione nei diversi Paesi, che si basano su elementi di misurazione convenzionali, devono essere considerati con cautela dal momento che tendono a sovrastimare il livello di alfabetizzazione nella maggior parte dei Paesi» (EFA ­Global monitoring report 2008, pubbl. 2007, p. 58). Infatti «ogniqualvolta vengono effettuate delle misurazioni rigorose, le cifre [dell’analfabetismo] risultano notevolmente più elevate» (Global compaign education, Writing the wrongs, 2005, p. 1).

Le statistiche sull’analfabetismo poggiano su tre elementi fondamentali: i quesiti indiretti, i test e le autodichiarazioni. Molte valutazioni sull’analfabetismo si basano su quesiti indiretti come, per es., se gli intervistati hanno o no frequentato la scuola o un altro programma di apprendimento per tutta la sua durata. Con ciò si presume automaticamente che l’educazione in ambito formale comporti l’acquisizione di competenze di alfabetizzazione e che la mancanza di istruzione scolastica o di educazione formale per adulti significhi necessariamente analfabetismo. Ciononostante, vi è il crescente riconoscimento che l’istruzione scolastica non ha mai garantito un’alfabetizzazione adeguata a tutti gli allievi e che tali competenze, una volta acquisite, tendono ad atrofizzarsi nell’eventualità che gli studenti non abbiano l’opportunità di «utilizzare le proprie competenze in maniera attinente ai loro interessi» (OECD 2003, p. 45).

L’impiego della seconda misura di valutazione dell’analfabetismo, con l’utilizzo di elementi di misurazione diretta come i test, richiede molto tempo e un notevole impegno economico e può raggiungere solo campioni molto ristretti della popolazione. Inoltre i test presentano in sé diversi problemi perché sono imprecisi. Le ricerche hanno dimostrato che la capacità di lettura è legata alle esperienze del lettore e non al ‘livello’ del testo che viene utilizzato per la prova. Dal momento che un individuo può leggere un testo molto più facilmente di un altro a causa delle sue esperienze precedenti e della loro relazione con il contenuto del testo, non vi può essere una vera comparazione. In conseguenza di ciò solo un numero relativamente basso di statistiche sull’analfabetismo nei Paesi in via di sviluppo è basato su test, i quali sono quasi sempre su piccola scala. Quando però i test vengono effettuati (come accaduto in Kenya), il tasso di analfabetismo evidenziato è sempre molto più alto di quello indicato dalle indagini condotte sulla base di quesiti indiretti. Questo fatto è ora ampiamente riconosciuto e nei nuovi programmi come il LAMP (Literacy Assessment and Monitoring Programme) dell’UIS (UNESCO Institute for Statistics) e il LIFE (Literacy Initiative for Empowerment) dell’UNESCO si stanno compiendo degli sforzi al fine di sviluppare nuovi approcci ai test come, per es., strumenti di ricerca che rispettino le culture autoctone e, nello stesso tempo, si sta provando a individuare una serie più elaborata di differenti ‘livelli’ di alfabetizzazione.

A causa di tali problemi riguardanti i quesiti indiretti e i test, il metodo di raccolta di questi dati più comunemente usato è l’autodichiarazione, che si basa sulle risposte alla domanda: «Lei e i componenti della sua famiglia siete in possesso di un qualche grado di alfabetizzazione?» e accetta sulla fiducia la risposta del capofamiglia a nome di tutti i componenti il nucleo familiare. Il problema in questo caso è che non viene chiaramente definito cosa sia l’alfabetizzazione, variando da contesto a contesto: così un individuo, in possesso di competenze di alfabetizzazione ma non del tipo che egli ritiene siano le competenze che si acquisiscono in ambito di educazione formale, definirà sé stesso o gli altri componenti della propria famiglia ‘analfabeti’. Non si tratta di una questione di secondaria importanza, dal momento che le ricerche dimostrano come vi siano molte persone che utilizzano competenze di alfabetizzazione pur definendosi analfabete. ‘Analfabeta’ è quindi l’attributo socialmente ‘ascritto a’ o ‘adottato da’ coloro che ritengono le proprie competenze non all’altezza dell’alfabetizzazione offerta dai programmi di apprendimento formali. L’alfabetizzazione viene ritenuta un sinonimo di istruzione scolastica, ignorando gli altri tipi di alfabetizzazione che sono parte integrante delle prassi sociali ed economiche della vita quotidiana, e che vi si trovano integrati così profondamente da non essere spesso riconosciuti come forme di alfabetizzazione. Così, in molte società in via di sviluppo, la lettura di testi religiosi in una lingua diversa da quella utilizzata a scuola (per es., il Corano in arabo) non viene considerata come ‘alfabetizzazione’ e, in questo caso, si può essere in grado di leggere pur definendosi ‘analfabeta’. Uomini e donne compileranno ricevute o scriveranno nell’ambito della gestione delle loro attività (lavorative o casalinghe), continuando nello stesso tempo a definirsi analfabeti perché non sono mai stati a scuola né hanno partecipato a programmi di alfabetizzazione e ritenendo di non possedere quel tipo di competenze di alfabetizzazione richiesto dalle classi istruite. Ciò che viene considerato ‘alfabetizzazione’ è l’‘alfabetizzazione acquisita in ambito scolastico’ ed è secondo questa definizione che molte persone che sono in possesso di competenze di alfabetizzazioni funzionali si sentono e si definiscono analfabeti.

Il modello delle prassi sociali

A seguito di queste osservazioni ha preso forma un approccio alternativo all’analfabetismo. Gli attuali studi sull’analfabetismo nelle società in via di sviluppo hanno individuato l’esistenza di molteplici tipi di alfabetizzazione piuttosto che di un unico insieme generico di capacità (Cope, Kalantzis 2000; Papen 2005). Come già altre agenzie, l’UNESCO ha recentemente riconosciuto la ‘pluralità delle alfabetizzazioni’ e vi è un crescente (sebbene ancora di dimensioni limitate) riconoscimento che l’educazione in ambiente formale, con i suoi standard piuttosto rigidi su cosa sia giusto o sbagliato per l’alfabetizzazione, non sempre fornisce ai soggetti una preparazione riguardante le competenze di alfabetizzazione necessarie in altri contesti. Questa non è semplicemente una questione di alfabetizzazione in diverse lingue, sebbene sia un elemento importante. Poche società utilizzano una sola lingua e molte usano molteplici tipi di caratteri e diverse lingue. Così per lunghi anni è stato un principale argomento di dibattito in quale lingua dovesse essere portato avanti un processo di alfabetizzazione: nei Caraibi, per es., il processo deve avvenire in una lingua standard internazionale (inglese, francese o spagnolo) o nell’idioma locale o creolo?

Quelli che sono stati chiamati i ‘nuovi studi sull’alfabetizzazione’, che concepiscono l’alfabetizzazione in termini di prassi sociale e non semplicemente come capacità tecnica (Gee 2000), hanno scoperto che, malgrado alcuni individui non siano in grado di scrivere o leggere, essi applicano nella pratica competenze di lettura e scrittura in una gran varietà di modi. Questa pratica di competenze assimilabili all’alfabetizzazione è considerata nella sua applicazione all’interno di contesti verbali piuttosto che essere nettamente distinta dalla comunicazione verbale. In questa maniera sono stati individuati molti tipi differenti di alfabetizzazione, ciascuno con la propria funzionalità. L’alfabetizzazione religiosa, per es., non offre gli strumenti per operare nell’ambito delle attività legate all’alfabetizzazione scolastica, ma facilita la partecipazione a una comunità religiosa e alle sue pratiche e può inoltre favorire un collegamento ad altri tipi di alfabetizzazione. Quelle che vengono in alcuni casi chiamate alfabetizzazioni economiche o commerciali ma possono esser meglio definite come alfabetizzazioni professionali, ossia quelle prassi intrinseche che molti possono apprendere da soli nel corso della loro attività quotidiana in fattoria, per strada e in ufficio, in negozio o in laboratorio ecc., sono spesso peculiari non solo di una professione (l’elenco di appunti che il parrucchiere conserva sarà pressoché incomprensibile a chi non esercita tale professione) ma addirittura di ciascun individuo o situazione. Queste forme di alfabetizzazione sono connotate da una funzionalità che permette alle persone di guadagnarsi da vivere, anche se non si tratta delle competenze di alfabetizzazione apprese a scuola. Vi sono alfabetizzazioni sociali, come quella propiziata dagli SMS (Short Message Service), che possiedono una forte funzionalità nella gestione delle relazioni umane. Gli appunti lasciati a casa per gli altri componenti della famiglia, e intelligibili solo a questo gruppo ristretto, possono essere definiti alfabetizzazioni domestiche. Vi sono inoltre altri tipi di alfabetizzazione, incluse quelle universitarie e quelle locali. Per utilizzare le categorie di Pierre Bourdieu (1930-2002), competenze di diversi tipi di alfabetizzazione verranno utilizzate per costruire il capitale economico, sociale o culturale. Non esiste alcuna alfabetizzazione universale che permetta la conoscenza di tutti gli altri tipi di competenze di lettura e scrittura; esse necessitano di un processo di apprendimento il più delle volte informale, in corso d’opera, se così ci si può esprimere, e questo significa che il soggetto può avere acquisito competenze in uno o più tipi di alfabetizzazione ed essere, tuttavia, ancora sostanzialmente analfabeta da un altro punto di vista.

Che ne è allora dell’alfabetizzazione scolastica? Essa ha una funzionalità propria e, per lo spazio specifico riconosciutogli dalle società moderne, possiede anche più di una funzionalità. Permette la prosecuzione dell’educazione in ambiente formale; senza di essa, non vi può essere progressione negli studi, poiché la formazione è fondata su una speciale forma di alfabetizzazione. Possiede una funzionalità finalizzata all’occupazione, dal momento che i datori di lavoro la indicano come requisito, trovandovi un’indicazione di quello che essi credono siano altre capacità e superiori qualità cognitive: questo è un aspetto della sua funzionalità di soglia di accesso. Tale genere di alfabetizzazione ha inoltre una funzionalità nei termini del capitale simbolico di Bourdieu, dal momento che vi sono due condizioni associate a questi tipi di alfabetizzazione e di analfabetismo, una positiva associata alla prima e una negativa legata al secondo. Gli individui che non hanno avuto accesso a percorsi di alfabetizzazione scolastica sono ancora comunemente ritenuti – e vedono sé stessi come – ignoranti, incapaci di progredire, di scarsa intelligenza, e questa percezione è così forte che alcuni di quelli che possiedono competenze molto avanzate di alfabetizzazione in diversi settori si definiranno comunque analfabeti perché manca loro quell’alfabetizzazione acquisita in ambito educativo formale. Questa è la ragione per cui alcuni autori che si dedicano all’‘analfabetismo’ non utilizzano più il termine analfabeta preferendo a esso il termine non-alfabetizzato, che esprime un senso meno negativo.

In qualunque discussione sull’analfabetismo, quindi, e in particolar modo quando sono gli intervistati stessi a dichiararsi analfabeti, è importante capire che cosa ritenga sia l’‘alfabetizzazione’ la persona che ha fatto questa dichiarazione. Tenendo conto del ruolo di grande importanza che è stato attribuito all’alfabetizzazione impartita in ambito educativo formale, «il luogo di elezione in cui è collocata l’alfabetizzazione nella moderna società occidentale e nel moderno pensiero occidentale» (Collins, Blot 2003), e la corrispondente indifferenza nei confronti delle molte non riconosciute forme funzionali di alfabetizzazione utilizzate ogni giorno nei Paesi in via di sviluppo, come rilevato dalle ricerche etnografiche, il concetto di un ‘analfabetismo’ universale è fortemente messo in dubbio.

Affrontare l’analfabetismo

La World Bank, l’UNESCO, l’UNICEF e altre agenzie internazionali, avendo individuato 774 milioni di persone nel mondo che si ritiene non siano mai andate a scuola, avendole etichettate come ‘analfabeti’ e credendo che questo sia un crimine morale contro i diritti umani universali, incoraggiano tutti gli Stati a predisporre programmi di apprendimento per adulti e bambini nel tentativo di risolvere questo ‘problema’.

Nelle società occidentali industrializzate e nelle altre società a esse legate, tale approccio porta principalmente a concentrarsi sull’istruzione scolastica. Così negli Stati Uniti è stato istituito il programma No child left behind e, nel Regno Unito, il Sure start e la Literacy hour a scuola. I programmi di apprendimento per adulti si concentrano sull’insegnamento della lingua e delle competenze di base di lettura e scrittura agli immigrati (ESOL, English for Speakers of Other Languages). A Taiwan, per es., questo programma assume la forma di alfabetizzazione in ambito familiare per ‘spose straniere’.

Nelle società in via di sviluppo, a parte l’argomento dei diritti umani, l’alfabetizzazione è vista come importante per lo sviluppo, forse più come un fattore strumentale che causale dello sviluppo sociale. Gli organismi responsabili degli aiuti offrono sostegno ai programmi di alfabetizzazione per bambini e per adulti praticamente in maniera spasmodica.

L’intervento di sostegno nella forma di programmi di alfabetizzazione per adulti è ora riconosciuto come un’attività che riveste anche un aspetto politico. Il programma Education for all lanciato nel 1990 con le sue riunioni supplementari per la revisione degli obiettivi stabiliti all’inizio; gli Obiettivi di sviluppo del millennio del 2000, che non menzionano l’alfabetizzazione ma reclamano un’istruzione primaria universale; la Fast track iniziative con un finanziamento speciale per gli Stati selezionati dai finanziatori; il Decennio dell’alfabetizzazione dell’UNESCO (2003-2012) e la recente conferenza governativa di Abuja che ha esortato tutti i governi a destinare almeno il 3% del bilancio relativo all’educazione nazionale ai programmi per l’alfabetizzazione degli adulti: questa lista indica che i governi sono profondamente coinvolti nei programmi che prevedono di ‘eliminare l’analfabetismo’ o almeno dimezzarne la sua diffusione entro il 2015. Alcuni credono che la World Bank e l’UNESCO «riflettano fedelmente gli interessi dei principali Paesi industrializzati» (Stromquist 2002, p. 8), in modo tale che la concorrenza tra le superpotenze dell’Occidente e i loro alleati, sviluppatasi negli anni Ottanta del secolo scorso e finalizzata a garantirsi la fedeltà di diversi Paesi in via di sviluppo tramite l’erogazione di aiuti (incluso il sostegno alla formazione e ai programmi di alfabetizzazione), continui nel 21° sec., nonostante il fatto che l’alfabetizzazione degli adulti non sia più una questione di primo piano come lo era appunto negli anni Ottanta (Education for all, 2005). I governi attuano i propri programmi o finanziano il lavoro delle Organizzazioni non governative (ONG) per la realizzazione di scuole e di corsi per adulti in conformità al tipo di alfabetizzazione scolastica dominante nel Paese.

È a causa del carattere simbolico dell’alfabetizzazione impartita nell’ambito dell’educazione formale più che per i suoi benefici economici e socioculturali che la sua mancanza è stata vista come una problematica principale dello sviluppo, e di conseguenza questa forma di analfabetismo viene affrontata nella maggior parte dei programmi di alfabetizzazione per adulti attraverso l’insegnamento formale della lettura e della scrittura piuttosto che incoraggiando e sostenendo forme più informali e funzionali. Negli ultimi cinquant’anni hanno preso forma tre principali approcci riguardanti l’attuazione di programmi di alfabetizzazione per adulti che si basano sull’interpretazione data all’analfabetismo dai responsabili della progettazione e dell’attuazione di questi corsi. Tali approcci sono ancora attuali all’inizio del 21° sec. e possono essere divisi nelle seguenti categorie: analfabetismo come ‘deficit’, analfabetismo come ‘svantaggio’ e alfabetizzazione come ‘diversificata’.

Per molti l’analfabetismo è un deficit, ossia la mancanza di qualcosa considerato la norma. Questa visione si basa sul concetto di autonomia dell’alfabetizzazione come insieme di competenze generiche universali che (come l’istruzione scolastica con il suo più ampio programma di studi) apporta benefici in maniera automatica. Non solo gli Stati hanno bisogno di una forza lavoro alfabetizzata (almeno il 40% era il limite minimo indicato negli anni Sessanta del secolo scorso, sebbene ora non si tenga molto più conto di questa percentuale), ma perfino la partecipazione alla cittadinanza si considera debba implicare l’alfabetizzazione come un sine qua non. Gli analfabeti devono cambiare e partecipare alla società del loro tempo e questo può essere fatto al meglio ‘introducendo’ dall’esterno la componente mancante, l’alfabetizzazione. La lingua non lascia dubbi: l’alfabetizzazione deve essere ‘impartita’ dagli individui istruiti ai non alfabetizzati.

Nell’ottica di questo approccio vi sono due tipi di programmi attualmente in svolgimento. Il primo contempla i programmi nazionali che vengono ancora organizzati, come il programma cubano Yo sí puedo. Sono ancora promosse campagne di massa simili a quelle effettuate all’interno dei precedenti programmi di portata mondiale come l’Experimental world literacy ­programme o la successiva Indian total literacy campaign. Queste campagne sono costituite da programmi di apprendimento più o meno standardizzati caratterizzati da una durata e con un numero di allievi simili a quello delle scuole elementari, con cui condividono anche i testi di studio (spesso chiamati sillabari). Tali programmi sono spesso coordinati dai ministeri per l’Istruzione ma, in alcuni Paesi, sono i ministeri che si occupano di sviluppo delle comunità locali a costituire le agenzie responsabili dell’attuazione di questi programmi, sempre tuttavia tenendo conto di uno schema che vale per tutte le situazioni. In molti casi, esami e diplomi costituiscono una parte strutturale della campagna e, in alcuni di questi programmi, viene prestata particolare attenzione al parallelismo con l’insegnamento della scuola elementare. Chi opera sul campo sono i facilitatori (molti dei quali sono maestri di scuola elementare) cui vengono impartiti corsi di formazione intensivi e che lavorano con strumenti limitati e sostegno ancora più esiguo. Sebbene questi programmi siano ancora attivi, oggi vi è la tendenza a concentrarsi di più sull’insegnamento primario con il fine di realizzare il secondo obiettivo di sviluppo del millennio dell’Universal primary education (UPE), spesso a spese (letteralmente) dei programmi rivolti agli adulti (Education for all, 2005). L’alfabetizzazione degli adulti è ritenuta necessaria per convincere i genitori a mandare i propri figli a scuola e per metterli in grado di assistere i loro bambini nei compiti a casa. L’alfabetizzazione familiare è una nuova forma di questo tipo di programma che, invece di promuovere le alfabetizzazioni esistenti in casa all’interno dell’ambiente scolastico, promuove l’apprendimento a casa dell’alfabetizzazione offerta a scuola.

Nell’insieme, però, c’è stato un abbandono dei programmi di alfabetizzazione per adulti su larga scala. Questi programmi sono ritenuti costosi e in larga parte inefficaci; gradatamente, l’alfabetizzazione nell’ambito dell’educazione formale sta cominciando a non essere più considerata uno dei principali strumenti per la lotta alla povertà. Le divergenze tra i professionisti sulle buone prassi (tra il metodo fonico e quello globale, per es.: cfr. Street, Lefstein 2007, pp. 71-72) e la complessità che si ritiene sia propria dei ‘nuovi studi sull’alfabetizzazione’ (Gee 2000) hanno spinto la World Bank e altre agenzie a divenire più restie a impiegare ampie risorse in questo settore. Così, ora la norma sta diventando la realizzazione di programmi su scala ridotta strettamente collegati a diversi generi di formazione alternativa.

Questa visione dell’analfabetismo come una carenza continua a essere messa in discussione da coloro che hanno visto (e vedono) l’analfabetismo come uno svantaggio imposto ad ampi settori della popolazione dalle élites istruite. La questione si pone ancora: perché gli analfabeti sono analfabeti? Mentre diverse agenzie vedono l’alfabetizzazione scolastica come uno strumento, forse il principale, di trasformazione sociale, altri hanno messo in discussione questo concetto, suggerendo che l’alfabetizzazione scolastica può essere usata come uno strumento di colonialismo (Wickens, Sandlin 2007). Secondo questa prospettiva quello che è necessario è un’azione sociale con un’adeguata alfabetizzazione. Paulo Freire (1921-1997) con il suo «Learn to read the word and the world» è ancora la fonte principale di ispirazione per questo approccio, che si ritrova nel programma REFLECT. La funzionalità a cui si punta qui è l’azione sociale trasformativa non a nome dei poveri e degli oppressi ma da parte dei poveri e degli oppressi, i quali si ritiene abbiano acquisito maggiore forza grazie all’alfabetizzazione.

In tempi più recenti si è destato l’interesse per i diritti umani e alcuni degli attuali programmi di alfabetizzazione si fondano su un approccio che ha come base i diritti umani. Questa prospettiva implica che noi non possiamo aspettare che l’istruzione primaria universale porti all’alfabetizzazione totale. Il linguaggio utilizzato è quello del miglioramento delle condizioni di vita, della libertà e dell’alfabetizzazione critica (Roberts 2000). La motivazione è che gli adulti hanno diritto all’alfabetizzazione scolastica e devono essere alfabetizzati in un ambiente educativo formale non solo per entrare a far parte della moderna economia globalizzata e della loro stessa società ma anche per contribuire a portare quella società verso una maggiore equità e una maggiore giustizia. Sono la società e i suoi sistemi che devono cambiare, altrimenti qualsiasi cambiamento operato dagli analfabeti risulterà inefficace ai fini della realizzazione di una trasformazione sociale. Piuttosto che aiutare i poveri a uscire dai bassifondi, questi programmi cercano di cambiare i bassifondi. Se la retorica ha ancora un forte effetto, le azioni pratiche sono però poco efficaci.

Il terzo approccio, chiamato nuovi studi di alfabetizzazione, è strutturato intorno al concetto di alfabetizzazioni multiple invece che intorno al concetto dell’alfabetizzazione in ambito scolastico. Quest’approccio vede l’alfabetizzazione come diversificata e legata al potere e, tra i loro molteplici compiti, le politiche dello sviluppo devono aiutare gli adulti a sviluppare quegli usi pratici dell’alfabetizzazione che possono in qualche modo promuovere i loro interessi: «i significati e usi quotidiani dell’alfabetizzazione in specifici contesti culturali» (Papen 2005).

«I tentativi di superare affermazioni di vecchia data sulle differenze fondamentali tra le società alfabetizzate e quelle pre-alfabetizzazione hanno portato i ricercatori a esplorare i vasti intrecci delle diversità racchiusi all’interno del termine onnicomprensivo ‘alfabetizzazione’ […] Per esempio, l’alfabetizzazione pedagogica che i bambini mettono in pratica a scuola e le attività che comportano un certo grado di alfabetizzazione in cui i loro genitori si impegnano a casa possono essere molto differenti. Allo stesso modo, le competenze di alfabetizzazione che servono sul lavoro, durante il tempo libero, in un’aula di tribunale e in chiesa hanno ciascuna le loro particolari caratteristiche, associazioni e implicazioni. L’alfabetizzazione varia ampiamente per forma e contesto a seconda della società in cui si inserisce: contesti d’uso, livelli di classe, regole della comunicazione, identità degli utenti e dinamiche sociali modellano tutti insieme il tipo di alfabetizzazione specifico di una società o di una comunità. Ciascuna società o comunità è alfabetizzata in modi differenti da quelli di altre società o comunità» (Besnier 2001, pp. 136-37).

In luoghi diversi vengono adottati approcci differenti, l’Australia ne ha sviluppato uno che combina diversità tra i sessi e alfabetizzazione (Street, Lefstein 2007, p. 45), in alcuni centri è in via di studio l’alfabetizzazione multimodale (Kress, van Leeuwen 2001), in altri, invece, lo sono le alfabetizzazioni locali (Barton, Hamilton, Ivanic 2000).

Due sono le critiche principali rivolte a questo approccio delle prassi sociali, oltre al fatto che alcuni lo hanno trovato eccessivamente complicato.

La prima è che la ricerca che lo sostiene non conduce a efficaci programmi di apprendimento per adulti. Tale aspetto è stato trattato in alcune recenti pubblicazioni che approfondiscono le diverse implicazioni pratiche dei ‘nuovi studi sull’alfabetizzazione’ per l’insegnamento ai bambini e agli adulti (Outside the class-room, 2005; Pahl, Rowsell 2005; Larson, Marsh 2005). I programmi sono stati e vengono attualmente sviluppati sulla base della diversità delle competenze di alfabetizzazione. Uno di questi approcci è stato quello dell’alfabetizzazione e i sistemi economici, che, per un certo periodo, era sembrato avere il potenziale per contribuire alla lotta alla povertà (Department for international development, DFDI, Report on Lit­eracy for livelihoods, 2000). Tale approccio cerca di incrementare quelle competenze di alfabetizzazione che sono parte integrante dei differenti sistemi economici e delle diverse attività di sviluppo che vengono promosse. L’educazione sanitaria per le donne implica elementi di alfabetizzazione, la formazione professionale con l’alfabetizzazione correlata è rivolta agli uomini che restano spesso fuori della maggior parte dei programmi indirizzati agli adulti. In questo modo l’alfabetizzazione è inserita nei programmi di microcredito in Etiopia e nei programmi di formazione per levatrici e per artigiani in Afghānistān; i programmi di alfabetizzazione delle comunità locali in Nepal cercano di promuovere sempre di più attività rivolte in tal senso nelle comunità piuttosto che solo capacità individualizzate. Vi sono alcuni che hanno dichiarato che «l’alfabetizzazione viene dopo», che i programmi di apprendimento per gli adulti dovrebbero iniziare con un progetto di sviluppo scelto dai partecipanti e che una forma adeguata di alfabetizzazione dovrebbe essere inserita in quel programma in un momento e in una maniera che risulti conveniente ai suoi partecipanti.

Il secondo tipo di critica è che questo approccio porta a forme estreme di relativismo (Collins, Blot 2003), a una concentrazione sulle forme locali di alfabetizzazione e a una svalutazione delle forme esterne introdotte attraverso l’istruzione scolastica (Maddox 2007). Quelli che sono stati chiamati i limiti della dimensione locale e l’interazione tra l’alfabetizzazione scolastica esterna e le alfabetizzazioni locali sono aree su cui stanno attualmente concentrando la loro attenzione molti professionisti che si occupano di alfabetizzazione (Brandt, Clinton 2002).

L’approccio dei ‘nuovi studi sull’alfabetizzazione’, come quello connesso al concetto di svantaggio, vede l’alfabetizzazione scolastica collegata al potere e utilizzata a volte come strumento contro gli analfabeti; esso non cerca, però, di privilegiare alcuna forma di alfabetizzazione, al contrario, asserisce che la decisione riguardante quale forma acquisire spetta agli analfabeti, non a coloro che predispongono i corsi di alfabetizzazione. Da molti anni infatti (e sembra che stia acquisendo via via più influenza al momento presente) c’è una ristretta corrente di pensiero che mette in risalto la ‘parte oscura’ dell’alfabetizzazione, cioè il fatto che l’alfabetizzazione possa essere usata come strumento di oppressione almeno quanto strumento di liberazione (Lankshear, Knobel 20062). Quest’idea trova in larga parte la sua origine all’esterno dell’ambito accademico dei ricercatori, dalla stessa pratica sul campo: vi sono alcune poesie bengalesi e alcuni scritti indiani e latinoamericani in cui gli autori esprimono le loro riserve sulle campagne di alfabetizzazione mondiali, viste come un attacco ai tradizionali mezzi di comunicazione, le conoscenze e i sistemi di apprendimento autoctoni (Wickens, Sandlin 2007). E le lezioni di alfabetizzazione per adulti sono così descritte: «L’insegnamento è spesso più somigliante alla disciplina dell’esercito, con file di [studenti] che copiano in silenzio gli appunti sulla lavagna, che a un tentativo di sfruttare la naturale creatività e curiosità [degli adulti]» (Literacy for change, «The new courier», April 2003, n. speciale). Tali voci però sono relativamente poche e in sordina, il loro tono è moderato e non minaccioso e al momento pochi le prendono in considerazione.

Questi punti di vista sono appena accennati nei due Global monitoring report dell’UNESCO più recenti (2006, pubbl. 2005; 2008, pubbl. 2007), uno sull’alfabetizzazione in sé e l’altro inerente a un aggiornamento generale su tutti gli aspetti dell’Education for all. Questo importante programma internazionale, lanciato nel 1990 e sottoposto a revisione nel 2000, con i suoi obiettivi di raggiungimento di un’educazione di qualità per tutti entro il 2015, all’inizio includeva un forte elemento di alfabetizzazione di adulti, ma dopo di allora si è concentrato sul ‘secondo obiettivo di sviluppo del millennio’, l’istruzione primaria per tutti, relegando in tal modo l’alfabetizzazione degli adulti in secondo piano (Education for all, 2005). Lo stesso vale per gli organismi internazionali per la difesa dei diritti delle ONG, come la Campagna mondiale per l’istruzione, sebbene, sotto la pressione di organizzazioni come ActionAid, essa abbia deciso di impegnarsi con maggiore forza nel settore dell’alfabetizzazione degli adulti nelle società in via di sviluppo, pubblicando una serie di testi fondamentali per la sua promozione attraverso l’educazione non-formale ­(Global compaign education, Writing the wrongs, 2005). L’alfabetizzazione promossa è, in generale, quella di tipo scolastico, ma è dato riconoscimento alla diversità delle alfabetizzazioni, e ci sono programmi come LETTER (Street, Rogers, Baker 2006) che vengono attualmente basati sul riconoscimento di quelle applicazioni delle competenze di lettura, scrittura e calcolo utilizzate nelle comunità e in casa, che così spesso sono in contrasto con quelle trattate durante le lezioni di alfabetizzazione per adulti. Oggi dunque la lotta all’analfabetismo viene condotta attraverso un’ampia varietà di programmi di alfabetizzazione per adulti su piccola scala comprendenti schemi di microcredito, programmi di alfabetizzazione familiare, professionale e alcuni programmi di formazione aperta e a distanza che utilizzano le nuove tecnologie.

Il Global monitoring report 2008 (pubbl. 2007), nei limiti delle statistiche disponibili, ha analizzato la situazione attuale e ha indicato che il ‘problema dell’analfabetismo’ richiede una strategia su tre fronti: continuare a promuovere l’istruzione primaria in modo da ridurre il numero di individui che raggiungono l’età adulta senza avere alcuna competenza di lettura e scrittura; continuare a realizzare programmi di apprendimento per adulti (sebbene non venga indicato quale tipo di programmi sia ritenuto il più efficace); costruire un ambiente alfabetizzato. Nel rapporto si evidenzia che l’apprendimento della lettura nel quadro di un programma di alfabetizzazione scolastica non è di alcun beneficio se gli individui non hanno accesso a elementi esistenti nella loro comunità che siano legati a questo tipo di alfabetizzazione (è interessante il fatto che il Global monitoring report si concentri sulla lettura piuttosto che sulla scrittura, mentre le ricerche sul campo suggeriscono che molti adulti sono maggiormente interessati alla scrittura che alla lettura). Nel Report si propone la realizzazione di biblioteche contenenti nuovi materiali di lettura, alcuni dei quali scritti dagli studenti («materiali creati dagli studenti»), ma non c’è alcun invito ad analizzare quali testi esistano già in ciascuna comunità locale e come questi potrebbero essere ulteriormente elaborati, quanti siano inaccessibili alla maggioranza delle persone a causa del loro linguaggio o del registro utilizzato. Da altre fonti vi sono stati peraltro appelli al cambiamento per quanto riguarda ciò che viene messo a disposizione, perché sia adattato ai lettori piuttosto che esortare i lettori ad adattarsi ai materiali prodotti. Esiste – e così è da molti anni – un divario notevole tra quello che gli operatori di programmi di alfabetizzazione per adulti pensano sia appropriato e ciò che pensano i discenti stessi.

Le ricerche etnografiche suggeriscono che gli individui adulti frequentano scuole o lezioni di alfabetizzazione per un insieme di ragioni, di cui spesso gli interessati non sono coscienti o che mutano nel tempo. In generale però sembrano emergere quattro gruppi principali di motivazioni. Alcuni vogliono cambiare la loro identità nel tentativo di liberarsi di quello che essi percepiscono come lo stigma di essere ‘una non-persona’. «Se si viene a sapere che sei analfabeta ti trattano come uno stupido» si sente molto frequentemente affermare dagli analfabeti nei Paesi in via di sviluppo. Quello che si ricerca è l’essere considerati ‘alfabetizzati’, cosa che permette di unirsi alla comunità degli alfabetizzati. Altri hanno delle ragioni strettamente strumentali, per es. scrivere lettere a un conoscente o a un amico lontano, leggere testi religiosi, mantenere la contabilità della propria impresa, godersi le canzoni dei film. Altri ancora trovano motivazione nelle opportunità offerte specificamente dall’alfabetizzazione: ottenere una patente di guida o un prestito bancario. Vi è inoltre chi (in numero relativamente limitato, costituito principalmente da giovani) pensa che l’alfabetizzazione scolastica gli permetterà di aver accesso all’educazione formale, consentendogli così di ottenere delle qualifiche.

È proprio sul tema delle qualifiche che risiede una delle questioni principali per i programmi che affrontano oggi l’analfabetismo nei Paesi in via di sviluppo: la questione della misurazione dell’alfabetizzazione. La misurazione è un fattore essenziale se si vuole un riconoscimento ufficiale del raggiungimento degli ‘obiettivi di sviluppo del millennio’ e degli scopi del programma Education for all, ma se esistono diversi tipi di alfabetizzazioni come è possibile definire qualcuno ‘analfabeta’? I livelli di alfabetizzazione sono oggetto di discussione in questo periodo (Street, Lefstein 2007, p. 69). È stato asserito che non vi sono soltanto dei livelli di alfabetizzazione, come il LAMP (Literacy Assessment and Monitoring Programme) e altri programmi hanno indicato, ma anche settori di alfabetizzazione e, in tal caso, anch’essi dovrebbero essere misurati. Utilizzando un approccio incentrato sulle capacità ed elaborato sulla base delle riflessioni di A. Sen sullo sviluppo come libertà ottenuta attraverso il rafforzamento delle capacità, alcuni hanno formulato l’idea che vi siano diverse soglie di alfabetizzazione (B. Maddox, Literacy and illiteracy: a capabilities perspective on thresholds and wellbeing, intervento presentato in occasione dell’annuale Human development and capabilities conference, New York, 2007). Con gruppi di adulti estremamente diversificati, tutti impegnati nelle proprie applicazioni di competenze di alfabetizzazione, è possibile sviluppare una forma di misurazione che permetta di presentare ai politici e agli amministratori, ai pedagoghi e agli organismi responsabili degli aiuti statistiche che siano più affidabili e più dettagliate di quelle che esistono attualmente? Questa è la sfida per coloro che cercano di definire l’analfabetismo tenendo maggiormente conto delle sue sfumature di quanto non faccia la maggior parte delle agenzie internazionali, o che cercano di promuovere l’impiego delle competenze di alfabetizzazione in maniera più ampia, non soltanto l’alfabetizzazione scolastica formale della cultura dominante, ma anche le più informali, funzionali e specifiche alfabetizzazioni che sono già utilizzate diffusamente nei vari Paesi in via di sviluppo. È possibile affermare infatti che in ciascuna situazione l’analfabetismo si caratterizza in maniera distinta e che venire incontro alle esigenze derivanti da questa circostanza richiede un gran numero di differenti strategie.

Conclusioni

La sfida odierna nel settore degli studi sull’alfabetizzazione vede la definizione della parola analfabeta collegata all’esistenza di diversi tipi di alfabetizzazioni: chi viene etichettato in tale modo è definito come tale in relazione all’alfabetizzazione offerta dall’educazione formale piuttosto che alle altre applicazioni delle competenze di alfabetizzazione. Tale approccio pone in una posizione di predominio l’alfabetizzazione ufficialmente riconosciuta impartita nell’aula scolastica e introdotta dall’esterno, invece di riconoscere la validità delle applicazioni locali delle competenze di alfabetizzazione, che fanno parte della vita quotidiana nei contesti urbani e rurali, cercando in tal modo di escludere le forme di alfabetizzazione locali, di negare la loro esistenza e il loro significato. Riconoscere queste forme, invece, non significa affatto sminuire l’importanza dell’alfabetizzazione scolastica. Al contrario, significa semplicemente negare la validità di un approccio che, invece di cercare di esplorare le modalità con cui le forme di alfabetizzazione locale e quelle imposte dall’esterno possono interagire, presuppone che quella proveniente dall’esterno sia l’unica forma di alfabetizzazione ufficiale attraverso la quale i concetti di ‘alfabetizzato’ e ‘analfabeta’ si possono definire, e che essa rappresenti, allo stesso tempo, una norma e un obbligo morale.

Vi è dunque una crescente riluttanza a utilizzare il termine analfabeta da parte di molti ricercatori, politici e professionisti per due ragioni principali. La prima è che il termine è ancora associato, in modo abbastanza soggettivo, a elementi negativi come l’ignoranza e l’incapacità e, se questo concetto viene interiorizzato da coloro che vengono etichettati come tali, ciò contribuisce al deterioramento della loro autostima e della fiducia in sé stessi. In secondo luogo, le ricerche hanno dimostrato che molti degli individui così etichettati utilizzano in effetti forme differenti di alfabetizzazione per i propri fini nel proprio specifico contesto. L’‘analfabetismo’ è un concetto contingente, può esser vero per alcuni individui in alcuni contesti, ma non è un assoluto. È un termine che, in definitiva, è meglio utilizzare in maniera molto cauta.

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