Ampolla

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991)

Ampolla

V. Ascani

Recipiente realizzato in materiali diversi (principalmente metalli, vetro o terracotta), di forma globulare e di ridotte dimensioni (cm. 6-10 di diametro maggiore), provvisto di un corto collo svasato e, talvolta, di due piccoli anelli ai suoi lati.

La funzione delle a. come piccoli contenitori di liquidi, balsami e unguenti soprattutto, per cui erano già comuni nel mondo antico, si è andata specializzando in ambito cristiano attraverso i primi secoli dell'Alto Medioevo, fino a costituire una tipologia di reliquiario utilizzata come phylacterium personale o familiare. In epoca anteriore alla pace religiosa (313), piccole a. vitree (raramente fittili) o piuttosto fiale, piene di un liquido vischioso e aromatico, erano spesso poste all'interno dei loculi catacombali durante la sepoltura. Il loro ritrovamento in epoca moderna, e soprattutto il fatto che il balsamo apparisse di colore rossastro, hanno fornito occasione di non poche polemiche in ambito culturale cattolico circa l'identificazione del liquido con sangue umano e il conseguente riconoscimento delle tombe relative come sepolture di martiri. Tali polemiche non cessarono neanche nel secolo scorso, dopo le analisi chimiche a cui si procedette in varie nazioni e che non approdarono a risultati inoppugnabili. Ed è solo da qualche decennio (Ferrua, in De Rossi, 1944) che la presenza di sangue nelle a. provenienti dalle catacombe e ritenute nel passato sanguine tinctae è stata, se non esclusa categoricamente, ridotta a una remotissima possibilità.

Numerosi musei europei e nordafricani conservano a. in terracotta, tutte assai simili tra loro, di fattura per lo più seriale, recanti impressa a stampo l'effigie di s. Menna, tra due cammelli prostrantisi ai suoi lati. Il nome del santo correda spesso la raffigurazione, in unione o meno al termine εὐλογία ossia 'benedizione'. La critica concorda nel ritenere questo gruppo di a. provenienti dal santuario di S. Menna, non lontano da Alessandria d'Egitto, dove sarebbe stata situata anche l'officina di produzione. La presenza dei cammelli è connessa alla controversa Passio del santo, la cui più diffusa versione (Parigi, BN, lat. 5274, c. 186v) vorrebbe i resti mortali di s. Menna affidati per sua stessa volontà a un cammello e sepolti dove quello si fosse fermato. L'iconografia, comune anche ad altre categorie di materiali (per es., una lampada conservata a Londra, British Mus., e una placchetta d'avorio oggi a Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Applicata), si ripete monotona in una lunga serie di a., conservate in numerosi musei italiani e stranieri (come per es.: Firenze, Mus. Naz. del Bargello; Bologna, Mus. Civ. Archeologico; La Spezia, Mus. Civ. U. Formentini; Sassari, Mus. Naz. G.A. Sanna; Trieste, Mus. Civ. di Storia ed Arte; Algeri, Mus. Nat. des Antiquités). Tra quante si discostano, invece, dall'iconografia abituale, singolare è un esemplare ad Aquileia (Mus. Archeologico Naz.) che presenta su un lato la raffigurazione della pesca miracolosa e sull'altro una croce tra due anfore accompagnata da una legenda interpretata (Guarducci, 1974-1975) come riferentesi alla fonte presso il santuario di S. Menna, pure meta di pellegrinaggi. Alcune a. fittili conservano tracce di colorazione (blu, giallo, rosso). La datazione di queste a. è tuttora incerta variando, a seconda degli autori, tra il 5° e l'inizio del 7° secolo. Sembra probabile, comunque, che la produzione sia continuata pressoché invariata per tutto quel lasso di tempo.Il gruppo più interessante di a. è però quello di origine palestinese. Tra queste, una serie di esemplari in metallo - una lega di stagno e piombo secondo la maggioranza degli studiosi, argento secondo Grabar (1958) - costituisce il gruppo chiamato anche 'Monza-Bobbio' dalle città in cui sono conservati i due nuclei principali (Monza, Tesoro del Duomo; Bobbio, Mus. dell'Abbazia di S. Colombano). Queste a. sono decorate, come le precedenti, a stampo (le due facce venivano lavorate separatamente e quindi saldate). Recano legende che permettono di coglierne il legame con i martyria teofanici della Terra Santa. Sulle loro facce sono impresse le raffigurazioni dei principali episodi neotestamentari, tra cui ricorrono particolarmente Crocifissione e Ascensione, isolati o composti in una serie di piccoli medaglioni, spesso in ciclo di sette, forse in relazione a un calendario liturgico precedente alle Dodici Feste (Grabar, 1958). L'interesse degli studiosi si è appuntato, sin dall'origine, sull'iconografia delle scene evangeliche nella prospettiva, fatta intravedere già da Smirnov (1897) e da Ainalov (1900), condizionando tutta la letteratura successiva, che sulle a. fossero state riprodotte, fatta salva la semplificazione dovuta alla drastica riduzione di dimensioni, le decorazioni pittoriche dei grandi santuari della Terra Santa. L'ipotesi, mai provata da alcuno studioso nella sua formulazione originaria, è stata brevemente ripresa, tra gli altri, da Toesca (1927), Cecchelli (1927), Muratoff (1928) e Wessel (1966). Essa avrebbe permesso, se verificata, di risalire all'aspetto delle scomparse pitture delle basiliche erette da Costantino e testimoniate da Eusebio in Palestina, rinnovate successivamente soprattutto sotto Giustiniano. Grabar (1958), che per primo ha classificato le a., suppone invece la derivazione dell'iconografia delle scene neotestamentarie da oreficerie e medaglie (e qui pensa anche alla comune forma rotonda delle parti figurate) prodotte per lo più a Costantinopoli, anche se l'origine delle a. sarebbe comunque palestinese. La fedeltà delle scene a prototipi monumentali sarebbe in questo caso limitata all'architettura del Santo Sepolcro. Weitzmann (1974) avvicina le ampolle a dittici e a opere d'arte lignee (reliquiario palestinese al Sancta Sanctorum a Roma), seguito in questo da Grigg (1974), il quale, esaminando l'iconografia dell'Adorazione della Croce (a. di Bobbio nrr. 1, 2 e 20), vede, quali modelli, mosaici del sec. 5° (per es., mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, battisteri di Napoli e Albenga). Resta impossibile, allo stato attuale degli studi, emettere un più preciso verdetto sulle ipotesi formulate per primi da Smirnov e da Ainalov, stante la scarsità delle testimonianze sulla decorazione pittorica dei santuari palestinesi in epoca giustinianea e la difficoltà dell'ammissione di uno stretto rapporto tra le figurazioni delle a. e le pitture monumentali del sec. 6° sopravvissute in ambito mediorientale e africano (estraneità dell'iconografia sinaitica e generica somiglianza tra l'Ascensione delle absidi di Bāwīt e le a. come la nr. 1 di Monza).

La datazione delle a. del gruppo 'Monza-Bobbio' è comunemente fissata alla fine del sec. 6°, poco prima che il papa Gregorio Magno, secondo una tradizione in questo caso non testimoniata dalle fonti ma ritenuta fededegna, ne facesse dono a Teodolinda. Ella, a sua volta, avrebbe compreso un gruppo di a. nei donativi per la fondazione dell'abbazia di Bobbio.

Nello stesso Tesoro di Monza si trovano le semplici ampolline e fiale vitree provenienti da Roma, pure dono di Gregorio Magno a Teodolinda, già contenenti olio raccolto dalle lampade ardenti presso le tombe di numerosi martiri romani. Esse erano contraddistinte da un pittacium pergamenaceo, su cui era riportato il santuario di provenienza, ed erano corredate da una notula che ne costituiva una sorta di catalogo (RIS, XII, 1728).

L'uso che delle a. si faceva era di phylacterium. Venivano in pratica appese al collo sospendendole con un cordino passato per i due anelli, come protezione contro il maligno piuttosto che come distintivo di fede. Allo stesso modo era possibile che fossero fissate a una parete della casa. Esse potevano contenere olio filtrato attraverso la tomba del martire, oppure liquido talvolta scaturente da tali tombe o, più comunemente, olio delle lampade che senza interruzione illuminavano le postazioni martiriali, come nel caso del gruppo 'Monza-Bobbio' o delle a. di s. Menna. Talora potevano contenere acqua benedetta, o di una sorgente legata alla memoria di un fatto miracoloso, o polvere raccolta sui luoghi venerati.

Si è discusso se la loro funzione di amuleto abbia influenzato in qualche modo l'iconografia delle rappresentazioni. Ciò non è stato finora provato. È però possibile che la loro stessa forma e il loro prevalente impiego abbiano finito per richiamarne subito alla mente il valore apotropaico e quasi a identificarsi con esso. Questa ipotesi appare confermata dal c.d. 'talismano di Carlo Magno' (Reims, Palais du Tau Trésor de la Cathédrale), pendentif di grandi dimensioni realizzato nel sec. 9°, reso in tutto simile a un'ampolla.

Nel sec. 13° si ebbe in Inghilterra la ripresa della produzione di a. metalliche in relazione al culto del nuovo martire Tommaso Becket, scene della vita del quale (soprattutto il martirio) comparivano sulle facce delle a. in associazione o meno con la Crocifissione di Cristo.

Per tutto il Medioevo, comunque, a fianco di a. a carattere apotropaico, vi fu una vasta produzione di a. erede di quella classica, soprattutto in vetro e per uso comune. Queste, di norma a fondo piatto per essere poggiate sulle tavole da pranzo, e quindi senza anelli, erano spesso di dimensioni più allungate rispetto al gruppo 'Monza-Bobbio' ed erano di varia capacità, fino a confondersi con piccole bottiglie. Queste a. si trovano spesso rappresentate, in ambito tanto bizantino quanto occidentale, in scene di pranzi (per es. nel mosaico del Festino di Erode sulla cupola del battistero di S. Marco a Venezia) fino al pieno Trecento. Un'altra funzione di queste a. vitree, la cui produzione è testimoniata anche nel trattato del monaco Teofilo, era quella liturgica. Esemplari di questo genere, in nulla diversi da quelli per uso profano, si sono raramente conservati. Tra i pochi, il piccolo gruppo custodito a Stoccarda (Württembergisches Landesmus.) e proveniente dalla chiesa abbaziale di Ellwangen. Le a. per uso liturgico furono talvolta realizzate in cristallo di rocca o in metalli preziosi. Pure discendenti dalle loro omologhe classiche, ma più influenzate dalla contemporanea produzione islamica, sono le fiaschette vitree da pellegrino, grandi borracce di forma simile ad a., dal diametro maggiore intorno ai cm. 20, che meglio rientrano, però, nella tipologia delle bottiglie.

Bibliografia

Fonti:

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Sull'uso dell'olio delle tombe dei martiri:

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Sulle a. provenienti dalla Palestina:

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Sulla fabbricazione di a. vitree:

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Sulla notula di Monza:

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