Amore

Enciclopedia Dantesca (1970)

Amore

Emilio Pasquini
Guido Favati

. Per eccellenza il termine-chiave dello Stilnovo, fin dagli esordi al centro del lessico di D., anche perché la possibilità di considerarlo quasi costantemente personificato (con aperte collusioni fra i piani del nome proprio e del nome comune, spesso inscindibili) consente a D. d'instaurare un assiduo dialogo con la divinità di quel mondo o d'inserirla nella mitologia della cerchia, attraverso la visualizzazione di tutti gli spiriti e funzioni dell'animo, fino a sfociare in un'affollata drammaturgia del cuore e dei sentimenti.

Viceversa il verbo dello Stilnovo non è proprio ‛ amare ' (v.), la cui zona d'influenza è estesa invece a significati esorbitanti dall'hortus conclusus della scuola, e in genere della poesia d'a., proprio per merito di D.; il quale più spesso adopera altri predicati equivalenti o costruisce perifrasi con a. o A. + verbo (ad es. ‛ dare ', ‛ fare ', ecc.). Se dunque lo spettro semantico di ' amare ' è così ampio e poliedrico, o ben presto eccedente il lessico specializzato dello Stilnovo; se per i più raffinati giochi della casistica erotica D. preferisce adoperare verbi diversi, non ci si dovrà stupire della ricchezza di significati del sostantivo anche al di là dell'orbita stilnovistica: questa però assai più cospicua di quella attinente al verbo, anzi - per l'insistenza della personificazione - prevalente sulle altre zone.

Distingueremo i semantemi seguendo una trafila possibilmente cronologica, che consentirà anche di percepire l'evoluzione concettuale del termine in D.; in più - data la sua rilevanza oltre che onnipresenza -, di osservare da un privilegiato angolo di visuale l'arricchimento spirituale del poeta.

Scarteremo subito il luogo isolato e particolarissimo che traduce il titolo dei Remedia di Ovidio (VI; XXV 9); e ci libereremo di A. toponimo nel Fiore, dove rende il francese Saint-Amour, designando una vittima insigne delle ipocrisie dei chierici (XCII 12 e CXIX 6).

1. Vadano al primo posto gli esempi del significato più vicino a quello usuale, di " passione fisica o sensuale ", " sensualità ", " attaccamento dei sensi ", tanto universale da meritare registrazioni più estese del semplice rinvio solo per l'eco di certe immagini dantesche. Tale accezione, se resta esterna al Convivio, spesseggia invece nelle Rime, dove raggiunge e accompagna esiti di esasperata tensione espressionistica, parallela e speculare all'estrema passionalità che pervade le ‛ petrose ' infervorando il linguaggio dantesco in questa sua irripetibile fase: la metafora delle ragne di A. (C 23) succede alla confessione che, nonostante la stagione fredda, non disgombra / un sol penser d'amore, ond'io son carco, / la mente mia (C 11); alla constatazione che d'inverno ne sono liberi gli animali, ma non il poeta (c 34 e 36 son d'amor disciolti, / però che 'l freddo lor spirito ammorta: / e 'l mio più d'amor porta; 70 per questi geli / amore è solo in me, e non altrove), il proprio tormento o, metaforicamente, la crudele spina (C 50); mentre la primavera appare il dolce tempo novello, quando piove / amore in terra da tutti li cieli (C 68). Il traslato più sconcertante (CIII 32 la morte, che ogni senso / co li denti d'Amor già mi manduca) si spegne nella perifrasi allusiva (CIII 37 [A. incombe su di lui] con quella spada ond'elli ancise Dido); A. lo logora rendendo più seducenti i riccioli dorati della donna (CIII 64 biondi capelli / ch'Amor per consumarmi increspa e dora); lo sferza con le belle trecce (CIII 72) che egli vorrebbe straziare fino a placarsi nel perdono (CIII 78 e poi le renderei con amor pace). Ma nella grande canzone della liberalità D. polemizza contro il vil disire delle donne per uomini indegni, vi riconosce un appetito di fera (CVI 143) e nega che un degno a. possa stimarsi fuor d'orto di ragione (CVI 147). In un'altra delle ‛ petrose ', A. viene a stare a l'ombra della ghirlanda di madonna, cioè nei suoi occhi (CI 16), e D. porta a. pur a la sua ombra (CI 27). Il rapporto ‛ a.- ombra ' evoca un accordo tentato in precedenza in LVIII 1 Deh, Vïoletta, che in ombra d'Amore / negli occhi miei sì subito apparisti; ma l'immagine della ‛ petrosa ' ritorna più fedelmente (oltre che nel Petrarca) in due delle rime spurie (fra le autentiche in Fraticelli e Moore; cfr. S. Debenedetti, Nuovi studi sulla Giuntina, città di Castello 1912, 49-69), le sestine Amor mi mena tal fiata all'ombra di donna (1 e 11, 23, 32, 37) e Gran nobiltà mi par vedere all'ombra 5, 7. Frase fatta è il sintagma ‛ richiedere qualcuna d'a. ', in Rime dubbie XX 11; A. come simbolo della passione sensuale, al vocativo, si ravvisa in Rime ci' 1 (cit. in VE II XIII 12); mentre oscilla fra l'impiego sostantivale e quello di nome proprio in rii 8 non par ch'ell'abbia cor di donna, / ma di qual fiera l'ha d'amor più freddo.

In questa serie di esempi parrebbe minuzia eccessiva distinguere volta a volta il sostantivo dal nome proprio, diremmo, per la compresenza in a. della fatale e immedicabile forza di una divinità antica; così anche nella Commedia, dove il termine va innestandosi entro problematiche più aperte o elevate: in If V 66 per la fatale conclusione di una vita eroica, 'l grande Achille, / che con amore al fine combatteo; V 69, dove campeggiano fra le ombre dei lussuriosi le donne e i cavalieri dell'antichità e dell'epos arturiano, ch'amor di nostra vita dipartille; Pg VIII 77, nel pacato ma fermo intervento misogino per bocca di Nino Visconti, amareggiato dal comportamento della moglie (Per lei assai di lieve si comprende quanto in femmina foco d'amor dura, / se l'occhio o 'l tatto spesso non l'accende); Pd VIII 2, dove si allude alla questione delle influenze del cielo di Venere (Solea creder lo mondo in suo periclo / che la bella Ciprigna il folle amore / raggiasse: ‛ folle ' è qui termine tecnico per designare l'a. dei sensi), già impostata, quantunque messa in rapporto coi Troni, in Cv II V 14 E perché li antichi s'accorsero che quello cielo era qua giù cagione d'amore, dissero Amore essere figlio di Venere (con altre due citazioni di A., da Virgilio e Ovidio). Né dunque ci si stupisca se nelle Rime dubbie A. sia presente come divinità antica che provocò innumeri discussioni sulla sua natura (XIX 2, 7, 8, 10, 13 e 14, XXIX 1 e 9); la sua drammatica vitalità si è perpetuata nel D. maggiore, sia pur scevra di riflessi sensuali: dove le quattro Virtù cardinali lo richiamano alla contemplazione degli occhi di Beatrice, a li smeraldi / ond' Amor già ti trasse le sue armi (Pg XXXI 117); ipotiposi sulla quale s'incentra la perifrasi indicativa dello sguardo di Beatrice, i belli occhi / onde a pigliarmi fece Amor la corda (Pd XXVIII 12).

La prosopopea di A. nella Commedia era preparata anche da alcuni usi che giungono quasi alla personificazione, sebbene gli editori moderni non la sanciscano graficamente con la maiuscola (ad es. If V 66, 69 e 78); v'inclina anche a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri? (V 119), ma qui forse in quanto A. per gli stilnovisti agisce sempre come forza personificata, spirito vivente un suo autonomo dramma: quantunque poi insistano sull'episodio echi della concezione cortese dell'A., dove si riverberavano frange del concetto antico di una passione travolgente suscitata da un dio.

2. Una lieve diffrazione semantica s'individua là dove a. passa a indicare il generico sentimento di voluttà suscitato da una creatura di aspetto seducente: nella metamorfosi della ‛ femmina balba ' di Pg XIX 15 e lo smarrito volto, com'amor vuol, così le colorava (s'interpreti " di quel colore che a. richiede per destare il suo fascino o, meno bene, " trasfigurandolo come suole fare un animo innamorato "). Il significato parrebbe estensibile a un luogo della Vita Nuova, con riferimento alla solenne personificazione della Morte: XXXIII 6 12 e dico " Vieni a me " con tanto amore, / che sono astioso di chiunque more: ma vi si confonde o trova alternativa quello di " trasporto ", " affetto " (§ 13).

3. Vale invece la pena di distinguere fra il sostantivo e il nome proprio nell'ambito di un'altra accezione del termine, legata all'a. cortese-cavalleresco e al suo galateo, oscillante tra l'omaggio feudale e il desiderio sensuale; frequente nel Fiore e nel Detto, è invece elusa nelle opere canoniche.

Se il lessico del Fiore è inquadrabile in un ampio settore della poesia trobadorica e oitanica, non foss'altro per il costante riflesso del Roman de la Rose, e quindi è caratterizzato per tutto l'arco dei 232 sonetti da stilemi fissi (fino e leal amore, IV 8; CLXXIII 4, ecc.; gran festa e grand'amore, CLXXIII 1, ecc.; ogne mio amore, XX 11, ecc.; sana amor non è altro che nuia, XXXVIII 11), coi nuovi apporti idiomatici toscani (A mille diavol v'accomando / chi amor fugge, CCXXII 6; i' le farò tener bordello / color che l'amor vanno sì schifando, CCXXII 8, ecc.), esso si esaspera e concentra nei due codici di a. carnale di Amico e della Vecchia. Qui il termine appare talvolta in un'orbita nominale: LXII 8, LXVII 14, LXXII 3 e CXLII 6; CXLVI 1 giuoco d'amor; CXLVIII 2 stare a la scuola de l'amore; CLX 4, CLXIX 1, CLXX 8 (binomio a.‛ franchezza '), CLXXII 12, CLXXXVIII 8 e 11, CXCV 5.

Anche nel Detto (58, 267, 476) a. vale " passione sensuale "; caso isolato, per " donna amata ", l'amor, cu' tu ha' caro / più che 'l Soldano il Caro (v. 431).

Per il resto, la personificazione è generale o banale, nel Fiore, oltre che nelle innumeri didascalie, in una sequenza ininterrotta di luoghi segnalati dalla relativa maiuscola, lo Dio d'amor (o 'l Die): I 1, II 4, X 2, XIII 3 e 9, XV 12, XXXV 13, XXXVII 9, XXXVIII 3, XLII 13, XLIX 10, LXXVII 5, LXXVIII 1, LXXXI 1, LXXXIV 1, LXXXV 12-13, CIV 3, CXXVIII 7, CCI 2, CCVI 2, CCXVIII 9, CCXX 14, CCXXXI 5. Come si vede, le ricorrenze s'affollano nella prima e nell'ultima parte, dove A. compare come agens e loquens, circondato dalla sua baronia; mentre nella sezione centrale prevalgono diversi attori, la grande figura di Falsembiante e i pedagoghi di Amante e Bellaccoglienza, cioè Amico e la Vecchia. Così in Detto 111 lo dio (ellitticamente), 139, 273.

In altrettanti casi il personaggio dominante della vicenda, accanto al protagonista, è denominato semplicemente Amore: III 2, IV 2, V 2, VI 1, VIII 7, IX 9, XXI 11, XXXIII 14, XXXIV 5, XLV 6 e 13, XLVII 4, XLVIII 8, LIV 3, LVI 9, LX 8, LXXIX 12, LXXXII 1, LXXXV 1, LXXXVII 1, XCIV 2, CXVII 2, CXXVII 12, CLVI 1, CC 12, CCI 7, CCXIV 6, CCXV 2. In Detto la forma semplificata è assai più frequente dell'integra, per ovvie ragioni (agevolezza d'inserzione nei distici di settenari): 1, 12, 23, 48, 54, 61, 75, 81, 86, 128, 131, 142, 148, 150, 153, 217, 229, 252, 256, 361, 366, 384, 407, 453.

4. Una distinzione fra a. e A. parrebbe invece arbitraria nell'ambito dello Stilnovo; e non solo per l'estraneità di una componente sensuale alla scuola, ma proprio perché la personificazione di a. in D. e nei suoi amici è in ogni senso immanente alla situazione amorosa; anzi rappresenta quasi la seconda persona obbligata di un dialogo perpetuo fra il poeta e lo sdoppiamento di sé stesso, che poi si risolve in un autentico monologo, nella drammatica visualizzazione di un'ombrosa vicenda spirituale.

Fin dalle prime pagine della Vita Nuova, non si sa ben distinguere - o meglio non serve farlo - se si tratti di personificazione o di sentimento concreto. In realtà i due aspetti risultano quasi sempre compresenti, e pertanto le edizioni moderne indulgono alla maiuscola: A. signoreggia l'anima di D. (II 7 e 9, XXVII 3 1, 4 9); lo regge e governa non sanza lo fedele consiglio de la ragione (II 9, IV 2, due volte); gl'induce nel viso le sue insegne (IV 2); lo distrugge (IV 3, XIV 5, due volte) e lo stringe (XIII 5: cfr. Rime XCI 33); uccide tutti i suoi spiriti (XIV 14) e lo assale (XVI 3) in una vera battaglia (XVI 4); lo pone in vita dolce e soave (VII 4 7); si lascia conoscere mirando lo tremare de li occhi suoi (XI 2); si sveglia in lui per merito della gentilissima (XXI 1); volge D. verso le donne compassionanti (XXIII 19 20) e gli piange nel cuore (XXIII 21 31); gli preannuncia la morte di Beatrice (XXIII 26 63) e partecipa al suo dolore (XXXI 9 14). Oppure è il cuore, ove era tanto amore, che gli fa presagire la morte dell'amata (XXIII 8) e gli parla con la lingua d'Amore (XXIV 3); o è A. che gli favella nel cuore (XXIV 4), dicendo: E chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore, per molta simiglianza che ha meco (XXIV 5), con stupenda identificazione della donna con l'A. stesso (XXIV 9 14 e quell'ha nome Amor, sì mi somiglia).

In questi passi A. sembra accompagnare l'itinerario della passione di D., quasi divinità eponima di quella straordinaria accensione spirituale; ma senza approdare a un significato esemplare, tanto è stretto il nesso con l'appassionata vicenda. In altri invece, che pure seguono lo stesso percorso, di cronologia reale e ideale, emerge un valore iniziatico, ormai tendente a cristallizzarsi in un lessico di scuola: D. scrive tre sonetti per salutare o chiamare tutti li fedeli d'Amore (III 9, VII 7, XXXII 4) e li sollecita a piangere (VIII 7); chiama sé stesso fedele di A. (XII 2, XIV 14) e A. proprio signore (XIII 2-3, XVIII 4). O si serve di una donna come di schermo di tanto amore (VI 1); confessa questo simulato amore (IX 6); parla del fine novissimo del suo a. (XVIII 3-4), cioè del saluto di Beatrice; distingue gli occhi, li quali sono principio d'amore, dalla bocca, la quale è fine d'amore (XIX 20); scopre nella sua donna la triade di gentilezza, d'amore e di fede (XXVI 11 8); vede Beatrice divenuta spirital bellezza grande / che per lo cielo spande / luce d'amor, che li angeli saluta (XXXIII 8 24); persuaso dell'a. di una gentile donna (XXXV 3, XXXVI 1), contempla, dietro Color d'amore e di pietà sembianti (XXXVI 3, 4 1), A. che, mosso da quegli occhi pietosi, ne reca li disiri d'amore dinanzi (XXXVIII 3).

Altri luoghi paiono prescindere dalla linea esoterica dell'affabulazione e inclinare verso il lessico usuale dello Stilnovo, con prevalenza della personificazione, anche quando l'invocazione agli amanti risalga per linea topica alle lamentazioni di Geremia (VII 3 1): A. è signore degli animi gentili (III 10 4); tiene il cuore del poeta in mano e nelle braccia madonna (III 12 9); piange per il crudele adoperare della villana Morte (VIII 4 1); appare in abito di peregrino (IX 9 3); prende baldanza e tanta securtate, / che fere tra' miei spiriti paurosi (XIV 12 7); dona oscure qualità (XVI 7 2) e assale subitanamente (XVI 8 5 e XVI 11); si definisce non come sustanzia ma come accidente in sustanzia (XXV 1, due volte), quantunque in seguito appaia che D. ponga Amore essere corpo (XXV 2) per figura poetica, come avevano fatto gli antichi, e in particolare Ovidio (XXV 9); A. infine 'ncerchia gli occhi di corona di martiri (XXXIX 9 7).

Un ulteriore specimen del lessico di scuola confonde inestricabilmente le sorti del Deus ex machina con quelle del suo effetto psicologico, e aiuta a ricostruire il tessuto connettivo della produzione giovanile: ragionar d'amore (Vn XXXVIII 8 3, Rime LII 12, LXXX 1, LXXXVI 2); avere intelletto d'amore (XIX 4 1); ‛ notricarsi ' d'a. (VIII 9 12); sospirare in dolcezza d'amore (XXVI 13 14); Amor e 'l cor gentil sono una cosa (XX 3 1), identificazione che troverà consonanza in Cv IV XX 7, nella citazione del capoverso della canzone del saggio Guinizelli; la natura amorosa genera Amor per sire e 'l cor per sua magione (XX 4 6); lo spirito d'Amore (XX 5 13) si precisa nelle varianti della prosopopea, un spirito soave pien d'amore (XXVI 7 13) e un spiritel novo d'amore (XXXVIII 10 10) o, con modi più ligi al repertorio e alla mitologia della scuola, in XI 2 uno spirito d'amore, distruggendo tutti li altri spiriti sensitivi, pingea fuori li deboletti spiriti del viso; motivo che, senza la complessa sceneggiatura e oltranza tautologica, ritorna in Cv II Voi che 'ntendendo 42, X 4, XV 10.

Altre ricorrenze di A. personificano nella Vita Nuova prive di particolare importanza: III 11 7, VII 7, VIII 5 3, 6 9, 7 (due volte), IX 5, 7 e 13, XI 1 e 3, XII 101,119, 12 21 e 13 30, XIII 1, 4, 8 1 e 10 (due volte), XV 4 3, 8, XVI 2, XX 1-2 (quattro volte), XXI 1, 2 1, 6 (due volte), XXII 9 6, XXIII 13, XXIV 2, 7 3, 9 13, 10 (due volte), 11, XXXIV 4 (tre volte), 8 2, 9 5, XXXV 8 13, XXXVIII 1 e 3, XXXIX 10 11, XLI 10 3.

5. E nelle Rime, con varie screziature di significati ma l'immutabile capacità d'assumere e rinnovare un lessico di scuola, adattandolo volta per volta alle diverse situazioni, in una catena sempre aperta: i messi (L 60 e 65) o la saetta d'A. (L 58, CXIV 11); 'l sì e 'l no di me in vostra mano / ha posto Amore (L 48); un angiolel d'amore (LVI 7); quel cor che i belli occhi feriro / quando li aperse Amor con le sue mani (LXVII 8); le insegne d'Amor (LXVII 21), cioè " le apparenti dimostrazioni amorose " (Contini); Lo doloroso amor che mi conduce / a fin di morte (LXVIII 1); e chi mi vede [dice la ‛ pargoletta '] e non se ne innamora d'amor non averà mai intelletto (LXXXVII 7); Amor, che movi tua vertù dal cielo / come 'l sol lo splendore (XC 1, cit. in VE II V 4 e XI 7); Falle sentire, Amor, per tua dolcezza, / il gran disio ch'i' ho (XC 54); Io sento sì d'Amor la gran possanza (XCI 1). Ancora, a. la morte / face piacer (XCI 37-38); A. avvezza / con un martìro e con una dolcezza (XCI 76); siede entro il cuore di D. visitato dalle tre donne (CIV 3); s'unisce alla bellezza e insieme alla virtù (CVI 7 e 29); è destato dalla bellezza di Lisetta nella mente di D. (CXVII 2), ma Beatrice-A., che vi alberga, vince la tentazione (CXVII 13); infine, Traggemi de la mente Amor la stiva, capoverso di una canzone perduta che D. ricorda in VE II XI 5.

Senza rilievo specifico: XL 10, XIV 10 e 14, XLVII 6 e 11, XLIX 2, L 6 e 22, LVI 17, LVII 12, LX 1 e 9, LXI 13, LXII 1 e 7, LXV 14, LXVI 3, LXVII 31 e 39, LXVIII 29, 33 e 42, LXIX 4, LXX 10, LXXII 8, LXXX 24, LXXXVII 1 (cit. in VE II XII 8), 19, 71 e 90, LXXXIV 9, LXXXVI 11, LXXXVII 17, LXXXVIII 2 e 7, XCI 7, 16, 22, 28, 64-65 e 73, XCVI 9, CIV 27 e 55, CV 11, CXI 1, CXIII 4, CXVI 1, 46 e 61, CXVII 11, e Rime dubbie I 1 e 9, III 3 1, 5 10, 9 20 e 15 1, V 38 (latino), VII 3, VIII 4 e 10, X 8 e 11, XI 14, XII 5, XIV 2, XV 11, XVI 1, 7, 15, 23 e 25, XVIII 1, XXII 6, XXVI 2, XXVII 4 e 12, XXVIII 14.

6. Anche nel Convivio ritornano le personificazioni consuete, per i fitti tramiti di continuità che uniscono il trattato alla Vita Nuova, e non solo per il trasfigurarsi della ‛ donna pietosa ' nella ‛ donna gentile ' parametro e immagine della Filosofia. Vi ritroviamo A. come segnor verace (II Voi che 'ntendendo 51); l'Amor che ne la mente mi ragiona (III canz. II 1, I 12, II 2, II 19, III 12, III 14, XII 2, e cfr. VE II VI 6); A. che fa sentir de la sua pace (III Amor che ne la mente 26, XIII 3, XIII 5, XIII 7); invocato dagli atti soavi della donna (III Amor che ne la mente 46); recante cose paradisiache negli occhi e nel riso di lei (III Amor che ne la mente 58); o che infonde il desiderio di vedere costei (III 12, 14). E già vi s'annuncia l'immagine di A. come ‛ dittatore ', e 'l parlar nostro, che non ha valore / di ritrar tutto ciò che dice Amore (III Amor che ne la mente 18 e 22, IV 13), e si escogita una sottile analisi dei sentimenti non più meramente stilnovistica, che tuttavia corre il rischio di ridurre a. a ‛ passio quaedam ', sulla falsariga di Andrea Cappellano: E non è pietade quella che crede la volgar gente, cioè dolersi de l'altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia ed è passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d'animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni (II X 6). Ma insieme vi si prospetta una ricca definizione di a., che prelude alle riprese del poema: Amore, veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro che unimento spirituale de l'anima e de la cosa amata (III II 3); E questo unire è quello che noi dicemo amore, per lo quale si può conoscere quale è dentro l'anima, veggendo di fuori quelli che ama (Il 9). Più angusta l'inserzione di a. nel catalogo aristotelico delle sei passioni... propie de l'anima umana (VIII 10), fin quasi ad allinearsi sulle tesi del Cappellano, fautore di una sua passiva fatalità; meno inerte la distinzione che segue: E dico che Amore le reca queste cose quivi, sì come a luogo suo; dove si può Amore doppiamente considerare. Prima l'amore de l'anima, speziale a questi luoghi; secondamente l'amore universale che le cose dispone ad amare e ad essere amate (VIII 13).

Eppure, a voler scrutare le scaturigini di A. come divinità morale e concetto generatore della poesia dantesca - cioè (Bosco) il superamento del concetto iniziale stilnovistico o guinizelliano dell'a. come molla che mette in movimento la virtù dell'animo nobile producendone l'elevazione spirituale per il tramite della donna-angelo, nell'altro dell'a. - virtù, i cui processi coincidono e si riflettono in una poesia che esprime al di là di ogni mediazione esterna l'elevazione intima dell'uomo gentile; quindi (Contini) una " poetica dell'oggettivazione dei sentimenti ", la definizione offerta a Bonagiunta da D. personaggio-poeta trova motivazioni assai antiche. L'attenzione di tutti si punta sulla celebre terzina di Pg XXIV 53 I' mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e' ditta dentro / vo significando; ma il retroscena o la preistoria di quella formulazione ci riportano ben addietro.

Si dovrà almeno arretrare all'esordio della prima canzone della Vita Nuova, quella (citata per ragioni tecniche in VE II VIII 8 e XII 3) che apre la stagione della ‛ loda ' di Beatrice, Donne ch'avete intelletto d'amore - in solenne personificazione di ‛ dittatore ' -, addotto con gloriosa consapevolezza da D. medesimo (in Pg XXIV 51) per bocca del poeta lucchese, che v'individua il punto d'avvio delle nove rime; ma anticipato o riecheggiante in luoghi complementari: Vn XIX 2 Allora dico che la mia lingua parlò quasi per se stessa mossa; 4 1; 5 6 Amor sì dolce mi si fa sentire; 9 33 quando va per via, / gitta nei cor villani Amore un gelo; 11 43 Dice di lei Amor: " Cosa mortale / come esser pò sì adorna e sì pura? "; 12 52 De li occhi suoi... / escono spirti d'amore infiammati; 12 55 voi le vedete Amor pinto nel viso; 13 60 [la canzone] figliuola d'Amor giovane e piana; 14 69, XIX 18. Già del resto in Rime LXVII 87 D. si rivolgeva nel congedo alle giovani donne, / che avete li occhi di bellezze ornati / e la mente d'amor vinta e pensosa.

Quantunque conscio di tale assoluta novità, D. pagherà il suo tributo di riconoscenza al caposcuola, Guido Guinizelli, chiamandolo il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d'amor usar dolci e leggiadre (Pg XXVI 99); e ancora nel Convivio non vorrà disconoscere i consorti d'arte e la propria rivoluzionaria innovazione (Le dolci rime d'amor ch'i' solia / cercar ne' miei pensieri, / convien ch'io lasci), pur segnando con fermezza il superamento dell'a. terreno in a. di filosofia: diporrò giù lo mio soave stile, / ch'i'ho tenuto nel trattar d'amore (IV Le dolci rime 1 [ripreso in I 9] e 11).

7. Un nucleo complesso, che riunisce agli echi stilnovistici quelli cortesi-cavallereschi, col richiamo alle donne antiche e ' cavalieri e ai romanzi del ciclo arturiano, per una sorta d'implicita palinodia di quegli ideali e di quella civiltà in D. personaggio-poeta; ma calato in una desolata esperienza terrena, travolta da una forza trascendente e irresistibile, in una tragica vicenda d'a. suggellata dalla morte come quella di Tristano e Isotta, si condensa nel V dell'Inferno intorno alle figure di Francesca e di Paolo. È il canto dell'a. - passione nobilitata dal sacrificio, ove a. o A. rappresenta proprio la parola-chiave, in nove variazioni, ma con significati cospiranti alla creazione di un'immagine unitaria. Si ripensi alla replicazione / Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, / prese costui... / Amor, ch'a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer... / Amor condusse noi ad una morte (V 100, 103, 106), che in un ferreo ritmo ternario suscita tale somma di emozioni letterarie e reali; o, in un fermo nesso binario, a V 125 la prima radice / del nostro amor, e 128 Noi leggiavamo... / di Lancialotto come amor lo strinse, che ricollega simile esperienza di lettura o di evasione culturale alla tragedia di quel fatale a., sottratto a ogni responsabilità individuale, quando già la leggenda bretone narrava misteriosamente di un filtro. E si rifletta che quella terna è stretta fra questa bina e l'altra iniziale, che la richiama alla preistoria letteraria di questo a. cortese: ancora un exemplum classico, Achille, / che con amore al fine combatteo (V 66), e la deduzione generale, che ci sposta dall'ipotiposi eroica alla fragilità di un a. più umano, ravvisandovi la passione nobilitata dall'olocausto, e più di mille / ombre... / ch'amor di nostra vita dipartille (V 69); e la voce di Virgilio, si badi, s'era spezzata proprio sul nome di Tristano. Né ci si stupisce se in D. questa nozione sembri oscillare - sul denominatore del sacrificio ideale - fra immagini antiche di mito e più vicine suggestioni cavalleresche.

Così egli descriverà senza abbandoni il muto colloquio di Narciso con la sua immagine riflessa nell'acqua, rinnovando allusivamente una grande immagine ovidiana e romanza, in Pd III 18 io dentro a l'error contrario corsi / a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte; o si riferirà a Eco come a quella vaga / ch'amor consunse come sol vapori (XII 15). Sembrerebbe a prima vista assurdo un richiamo del genere; eppure la nozione di ‛ sacrificio ' o ‛ affanno ' e insieme di un quasi fatale corso della passione è sottesa anche al vasto concetto che illumina di scorcio l'intera civiltà europea, ancorandola alla Weltanschauung medievale nei suoi termini di ‛ cortesia ' e ‛ avventura '. Ad es. nella terzina in cui D. fissa l'immagine di un mondo ormai irrevocabile ma struggentemente compianto di fronte alla decadenza morale dei contemporanei: le donne e' cavalier, li affanni e li agi / che ne'nvogliava amore e cortesia (Pg XIV 110).

8. Legato a questo mondo civile della Romania cavalleresca e cortese, a. è adoperato da D. in funzione tecnica come " poesia che tratta dell'a. in quel particolare senso cortese ", a definire storicamente una stagione letteraria, nella fattispecie la lirica trobadorica o provenzaleggiante (versi d'amore), per distinguerla dalle prose di romanzi in lingua d'oil (Pg XXVI 118): due tradizioni vinte e assommate in Arnaut Daniel, di cui D. proclama la superiorità rispetto a Giraut de Borneilh.

Come " poesia d'a. in genere ", in Vn XXV 3 anticamente non erano dicitori d'amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d'amore certi poete in lingua latina; e spingendo lo sguardo a un'aurora della poesia come canto d'a.: XXV 6 E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d'intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d'amore.

Nel Convivio invece D. si rifaceva alla terna canonica (VE II 11-IV) della poesia ‛ tragica ' (‛ armi -a.- virtù ') ed escludendo dai suoi propositi il primo termine, revocato ormai a un'irripetibile esperienza epica, abbinava invece gli altri due come capisaldi della sua nuova iniziativa culturale: La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canoni sì d'amor come di vertù materiale, le quali sana lo presente pane aveano d'alcuna oscuritade ombra (I I 14).

9. Converrà ora porre l'accento sui riflessi di questo a., a parte subiecti e a parte obiecti, cioè dal punto di vista non solo dall'atteggiamento culturale di D., ma anche degli effettivi contenuti, nella loro evoluzione spirituale.

Spicca in primo piano l'a. per Beatrice, lasciato nella chiusa della Vita Nuova con una luce di speranza e di attesa; colto in iscorcio - per via di memoria - nelle parole di Virgilio rievocante all'ingresso dell'Inferno l'apparizione della beata; quasi sopito per tutto il corso della prima e della seconda cantica, o sottinteso e intravisto in coperte allusioni. Il grande motivo ritornerà invece sulla cima del Purgatorio, dove Beatrice riappare a D. dopo la lunga assenza nella sua bellezza paradisiaca e insieme nella sua affascinante femminilità, con quella seduzione antica che gli farà rimormorare le parole di Didone all'innamorarsi di Enea. Dunque un sentimento complesso e in movimento, che da patetico e adorante si fa via via solenne e religioso, anche per l'investitura ideologica di cui diventa portatrice la sua donna, ormai divenuta la Teologia.

Di fronte a Beatrice, l'animo di D. è sconvolto dal riemergente sentimento di sé stesso giovane e innamorato, per quanto parziale sia la sovrapposizione dell'uomo d'oggi all'adolescente antico, con tanto carico d'esperienza che gli pesa dentro. Il rigurgito della Vita Nuova nella liturgia di una sacra rappresentazione, l'elegia pensosa e dolente della giovinezza nel rito paradigmatico: E lo spirito mio, che già cotanto / tempo era stato ch'a la sua presenza / non era di stupor, tremando, affranto... / d'antico amor sentì la gran potenza (Pg XXX 39). Di qui al Paradiso, dall'umano all'eterno, con graduale arsi tematica e possente innalzamento di tono, per D. estatico e sospeso verso Quel sol che pria d'amor mi scaldò 'l petto (Pd III 1), nulla perdendosi della dolce connotazione della donna nelle sublimi elevazioni teologiche; e il poeta è risospinto nell'ultima ascesa all'Empireo non soltanto dal nulla vedere intorno a sé ma, ancora una volta, da amor (XXX 15). Parola-chiave, che si ripercuote da D. a Beatrice in un assiduo circolo ideologico, moltiplicando nelle sfaccettature la sua unità semantica, conservando nel punto di maggior rarefazione la memoria più salda dell'esperienza terrena. Così, la nota estrema dell'a. di D. per lei sembra arricchirsi in un ritorno miracoloso dell'iniziale nota in Beatrice, quand'ella giustificava il suo intervento a Virgilio proprio con amor mi mosse, che mi fa parlare (If II 72); e a. (cfr. § 17) vi assumeva anche (per un alone di simpatia e fraternità terrena) la screziatura di " sentimento di pietà "," generico desiderio di soccorrere una persona cara ", l'amico mio, e non de la ventura.

10. Sono adesso gli a. umani a profilarcisi davanti, oggettivati nella loro realtà quotidiana o esemplare, non mai incommossa per la recondita partecipazione. E, primo, quello fra marito e moglie: 'l debito amore di Ulisse, lo qual dovea Penelopè far lieta (If XXVI 95); o di Marzia per Catone, in nome del quale Virgilio chiede protezione al gran veglio (Pg I 81), che ritrae una luce quasi sacra dagli occhi casti di lei e dal santo petto di lui, e la riverbera su quel rapporto mondano; o di Francesco per la sua mistica sposa, madonna Povertà: La lor concordia e i lor lieti sembianti, / amore e maraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi (Pd XI 77). Anche qui un simmetrico innalzamento di tono e d'oggetto dalla prima all'ultima cantica: dall'a. puramente terreno di Ulisse, vinto infatti dall'ardore ch'egli ebbe a divenir 'del mondo esperto / e de li viti umani e del valore, a quello più spirituale di Marzia, che nel IV libro del Convivio assurgeva ad allegoria dell'itinerarium mentis in Deum, a quello ascetico di Francesco in un sacrum commercium con la personificazione della più eletta virtù cristiana.

Altri approdi, e primo l'a. fra genitori e figli: violato da Mirra, che volle essere al padre, fuor del dritto amore, amica (If XXX 39); e invece di riflesso asserito in Cv 1II XI 16 si come cotidianamente dicemo, mostrando l'amico, ‛ vedi l'amistade mia ', e 'l padre dice al figlio amor mio '. Si configura piuttosto come rispetto affettuoso per li suoi maggiori e li suoi minori, i vecchi e i fanciulli, in IV XXVI 11 E questo amore mostra che avesse Enea lo nomato poeta [Virgilio] nel quinto libro sopra detto... Per che appare a questa etade [la gioventù] essere amore necessario (giusta l'ediz. Simonelli [di contro alla '21, necessario essere amare, seguita anche da Busnelli-Vandelli, lezione isolata nello stemma]: cfr. Quaglio, Append. 539); XXVI 15.

Si estende poi a un sentimento meno legato al sangue o alla generica propensione che sorge fra gli uomini per il comune destino, a indicare cioè l'a. per il prossimo: Pg XIII 27 [preludendo agli esempi di carità] e verso noi volar furon sentiti/... spiriti parlando / a la mensa d'amor cortesi inviti. 0, per ironica antifrasi, in Faisembiante: Fiore CVI 12 e sed amor gli mostro, si è fintezza. Sarà invece richiamandosi a quel superiore spirito di carità che dovrebbe unire i figli di una stessa città che nella ‛ montanina ' (Rime CXVI 79) D. chiama Firenze la mia terra, / che fuor di sé mi serra [cfr. Pd XXV 4], / vota d'amore e nuda di pietate.

11. Di qui nasce spontaneo il passaggio verso l'accezione di " rispetto ", " reverenza umana " (cfr. AMARE § 2), cioè un affetto arricchito di certa tensione ideologica o morale; considerato perciò sentimento caratteristico della giovinezza, temperata e forte, / piena d'amore e di cortese loda (Cv IV Le dolci rime 130).

Su un piano più generico, a. si configura come il legame istintivo posto dalla natura fra gli uomini: Cv I X 6 lo naturale amore principalmente muove l'amatore a tre cose: l'una si è a magnificare l'amato; l'altra è ad esser geloso di quello; l'altra è a difendere lui; e in omaggio alla casistica aristotelica: Questo modo di retro [la frode] par ch'incida /pur lo vinco d'amor che fa natura /... Per l'altro modo [il tradimento] quell'amor s'oblia / che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto [l'amor accidentalis di Guido da Pisa], / di che la fede spezïal si cria (If XI 56 e 61).

Su questa linea, D. utilizza il termine nella polemica contro i detrattori della lingua materna, per sostenere il suo buon diritto a usare il nuovo idioma volgare. Così dichiara lo naturale amore a [o de] la propria loquela (Cv I V 2 e X 5); lo verifica presente in sé, a un ipotetico quesito (XII 1), anzi in grado assoluto (XII 2); e per un soprappiù vorrà appellarsi ai testi canonici, il De Amicitia e l'Etica: la prossimitade e la bontade sono cagioni d'amore generative; lo beneficio, lo studio e la consuetudine sono cagioni d'amore accrescitive. E tutte queste cagioni vi sono state a generare e a confortare l'amore ch'io porto al mio volgare (XII 3); di modo che la prepotente riduzione esistenziale s'incanala nei corollari di XII 6; XII 13 (due volte); XIII 10, che suggella fervidamente l'arringa: si conchiude che non solamente amore, ma perfettissimo amore sia quello ch'io a lui debbo avere e ho.

A un simile tipo d'affetto sono consentite applicazioni diverse, in apparenza inconciliabili; a. può designare la concordia sociale instaurata dalla Monarchia universale (Cv IV IV 4 e in questa posa le vicinanze s'amino, in questo amore le case prendano ogni loro bisogno), o innervare la venerazione per la patria nella topica della romanità antica, rivissuta con animo perturbato e commosso: [Roma] essaltata non con umani cittadini, ma con divini, ne li quali non amore umano, ma divino, era inspirato in amare lei (V 12). D. ricorderà allora Torquato, giudicatore del suo figliuolo a morte per amore del publico bene, e Regolo che consigliò i concittadini contra sé per amore di Roma (V 14), quasi proiettando nei grandi quiriti quella sete di giustizia che si riverbera su Firenze dentro dalla cerchia antica.

12. Nel significato pregnante di " nostalgia " verso cose o persone care, " malinconico desiderio " della patria lasciata, in Pg VIII 4 Era già l'ora che... lo novo peregrin d'amore / punge, cioè " era ormai l'ora del tramonto, che riempie di struggente rimpianto (dei dolci amici e della casa lontana) chi se ne è appena allontanato e da poco ha intrapreso un suo lungo viaggio ".

13. Meglio individuato il valore di " simpatia ", " amicizia ", " ammirazione ", " affetto intellettuale ": è il sentimento che D. prova per i magnanimi della civiltà cavalleresca, il re di Castiglia, il Saladino, il Marchese di Monferrato, il Conte di Tolosa, Bertran de Born, Galasso di Montefeltro, unendosi al coro di voci che amore hanno a la memoria di costoro (Cv IV XI 14); l'inclinazione spirituale di Stazio per Virgilio (Pg XXI 134 Or puoi la quantitate / comprender de l'amor ch'a te mi scalda); o di Virgilio nei confronti di Stazio, riflessa nelle parole di quest'ultimo (XXII 27 Ogne tuo dir d'amor m'è caro cenno, cioè " ogni tua parola rappresenta per me un segno del tuo affetto "); o di Carlo Martello verso D. (Pd VIII 57 s'io fossi giù stato, io ti mostrava / di mio amor più oltre che le fronde).

In tutt'altra atmosfera, nel Fiore, sarà l'apprensione di Ragione per Amante (XLII 2) o il frigido rispetto di lui (XLII 4, XLIII 2); la gratitudine di Bellaccoglienza mellifluamente rifiutata dalla Vecchia (CLV 10); e varrà, negativamente, a misurare l'odio di Schifo per gli uomini (XXVl 4); o invece starà per " favore " in ossequio alle brame di Falsembiante (CXXV 8 queste son cose da 'cquistar mi' amore).

14. Si parlerà allora di a. come di " passione intellettuale per opere d'arte o di pensiero ", " inclinazione dell'animo per lo studio ": If I 83 vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore f che m'ha fatto cercar lo tuo volume;oppure di " adesione e tensione intellettuale verso entità astratte e ideali ": Cv III XI 5 (due volte); XI 6 in alcuno modo si può dicere catuno filosofo, secondo lo naturale amore che in ciascuno genera lo desiderio di sapere; proposizione corretta in XI 7 e 8 (due volte), ove s'insiste sulla necessità d'associare l'a. allo studio; infine XI 13 la filosofia, fuori d'anima, in sé considerata, ha per subietto lo 'ntendere, e per forma uno quasi divino amore a lo 'ntelletto. Su un piano storico, D. ricorda che 'l primo amor che 'n lui [s. Domenico] fu manifesto, / , fu al primo consiglio che diè Cristo, cioè l'umiltà (Pd XII 74), e per amor de la verace manna [" la sapienza divina "] / in picciol tempo gran dottor si feo (XII 84); o individua le radici della salvezza di Rifeo nel fatto che egli tutto suo amor là giù pose a drittura (XX 121); mentre ravvisa il motivo del silenzio fra le anime di Marte nella benigna volontade in che si liqua / sempre l'amor che drittamente spira (XV 2).

15. In quest'orbita di " venerazione ", " adorazione ", " tensione intellettuale e affettiva ", ci aggiriamo con uno dei grandi filoni dell'ideologia dantesca, che segna il passaggio dagli a. terreni alla sublimazione etica della .Commedia: l'a. per la ‛ donna gentile ', Filosofia, ove rivive la ‛ donna pietosa ' della Vita Nuova, quella metaforica persona o realtà trascolorante in simbolo che incarna per D. il superamento del dolore e della crisi.

La consistenza di questa allegoria come figura si percepisce già nel vestibolo del II libro del Convivio: quella gentile donna, cui feci menzione ne la fine de la Vita Nuova, parve primamente, accompagnata d'Amore, a li occhi miei e prese luogo alcuno ne la mia mente (II 1). Proprio qui si verifica l'intrepido superamento delle tesi di Andrea Cappellano (per la verità mai accettate da D., che fino allora aveva percorso una strada più ombrosa rifiutando ogni casistica sociale), attuato consapevolmente, rispetto alla patetica adesione della Vita Nuova, in un'analisi psicologica della natura e dello sviluppo d'a., sia pure riferito a un'entità in ultima analisi astratta: Ma però che non subitamente nasce amore e falsi grande e viene perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri, massimamente là dove sono pensieri contrari che lo 'mpediscano, convenne, prima che questo nuovo amore fosse perfetto, molta battaglia (Il 3). Questo novo penero d'amore si rivela in un crescendo di rapinosa energia: VII 12, VIII 1, 4 (due volte), 5; XII 7 in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero; XII 8 (meraviglia di D., che si sente levare dal pensiero del primo amore [per Beatrice] a la virtù di questo; e sue perplessità circa il modo di esprimere quel mutamento sopravvenuto in lui, però che di vero si credea del tutto che disposto fosse a quello amore, che non si credea di questo). Infine, il disvelamento del simbolo, col relativo trapasso semantico di a. a " studio ": XV 1 [Boezio e Tullio] con la dolcezza di loro sermone inviarono me... ne lo amore, cioè ne lo studio di questa donna gentilissima Filosofia; XV 6; XV 10 Onde è da sapere che per amore, in questa allegoria, sempre s'intende esso studio, lo quale è applicazione de l'animo innamorato de la cosa a quella cosa; e ribadendo il concetto con entusiasmo da neofito: XV 12 E così, in fine di questo secondo trattato, dico e affermo che la donna di cu' io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia.

All'apparente conclusione succede una ripresa a piena voce nell'esordio della seconda canzone, Amor che ne la mente mi ragiona, la stessa che Casella intonerà sulla spiaggia del Purgatorio (Pg II 112): quasi a ristabilire in quell'inizio di ascensione un nesso con l'antica e umana dagli a. della giovinezza all'a. teoretico della maturità. Intanto, a principio del III libro, si ribadisce la genesi simbolica di quell'a.: I 1 lo mio secondo amore prese cominciamento da la misericordiosa sembianza d'una donna. Lo quale amore poi, trovando la mia disposta vita al suo ardore, a guisa di fuoco, di picciolo in grande fiamma s'accese; I 3 li miei [occhi] ne lo abitaculo del mio amore fisamente miravano... volontade mi giunse di parlare d'amore; 14 d'amor parlando, più bello né più profittabile sermone non era che quello nel quale si commendava la persona che s'amava; I 5; I 11 da molti, di retro da me, forse sarei stato ripreso di levezza d'animo, udendo me essere dal primo amore mutato.

Dopo quella programmatica definizione di a. (cfr. § 6), l'idea-chiave si sviluppa in una sorta di procedimento a spirale, con ritorni alternati a progressi: II 9 Questo amore, cioè l'unimento de la mia anima con questa gentil donna, ne la quale de la divina luce assai mi si mostrava, è quello ragionatore del quale io dico; III 1 Non sanza cagione dico che questo amore ne la mente mia fa la sua operazione; ma ragionevolmente ciò si dice, a dare a intendere quale amore è questo, per lo loco nel quale adopera. Così, dopo l'esplicazione della teorica degli istinti (cfr. § 21), D. procede imperterrito a riagganciare il tema conduttore (III 12 questo amore era quello che in quella nobilissima natura [la mente] nasce, cioè di veritade e di vertude), anche per respingere ogni falsa oppinione da me, per la quale fosse sospicato lo mio amore essere per sensibile dilettazione; pur rilevando l'inadeguatezza del linguaggio umano là dove lo pensiero nasce da amore, perché quivi l'anima profondamente più che altrove s'ingegna (IV 4). Si giunge in tal modo alla prosopopea di questa figura, che sembra riacquistare per un attimo una leggiadrissima sembianza muliebre: VII 12-13 il suo parlare, per l'altezza e per la dolcezza sua, genera ne la mente di chi l'ode uno pensiero d'amore, lo quale io chiamo spirito celestiale... E suoi atti, per la loro soavitade e per la loro misura, fanno amore disvegliare e risentire là dovunque è de la sua potenza seminata per buona natura; ma insieme alla sutura fra I piani di a. e di ‛ studio ': XII 2 Per Amore intendo lo studio lo quale io mettea per acquistare l'amore di questa donna; cui segue la distinzione dei due tipi di ‛ studio ', uno solo dei quali è A.: lo quale ne la mia mente informava continue, nuove e altissime considerazioni di questa donna (XII 3) o che suole procedere ne li uomini la generazione de l'amistade, quando già da una parte è nato amore, e desiderasi e procurasi che sia da l'altra (XII 4).

Un'apparente distrazione dall'assunto si percepisce in XIII 2 le Intelligenze che sono in essilio de la superna patria... filosofare non possono, però che amore in loro è del tutto spento, e a filosofare... è necessario amore; mentre alla linea maestra si ritorna con una serie di proposizioni che illuminano da ogni parte il concetto: XIII 10-11 amore è forma di Filosofia, e però qui si chiama anima di lei. Lo quale amore manifesto è nel viso de la Sapienza, ne lo quale esso conduce mirabili bellezze; XIV 1 Filosofia per subietto materiale qui ha la sapienza, e per forma ha amore, e per composto de l'uno e de l'altro l'uso di speculazione; XIV 2; XIV 3 Dio questo amore a sua similitudine reduce, quanto è possibile a lui assimigliarsi; XIV 6 la divina virtù sanza mezzo questo amore tragge a sua similitudine. E ciò si può fare manifesto massimamente in ciò, che sì come lo divino amore è tutto etterno, così conviene che sia etterno lo suo obietto di necessitate, sì che etterne cose siano quelle che esso ama. E così face a questo amore amare; ché la sapienza, ne la quale questo amore fere, etterna è; XIV 7 dovunque questo amore splende, tutti li altri amori si fanno oscuri e quasi spenti; XIV 9 la divina virtù, a guisa [che in] angelo, in questo amore ne li uomini discende; XIV 11; XIV 12 ell'avvalora e accende amore dovunque ella si mostra; XV 1.

Nel principio dell'ultimo trattato D. approda a una squillante dichiarazione, conclusiva di un intero noviziato: IV I 1 Amore, secondo la concordevole sentenza de li savi di lui ragionanti, e secondo quello che per esperienza continuamente vedemo, è che congiunge e unisce l'amante con la persona amata; coi successivi corollari in I 2, 13, II 3 (tre volte), 9 e 11. La conclusione dell'opera smorza nella più spoglia semplicità il climax di una faticata conquista: Ed essa filosofia non solamente alberga pur ne li sapienti, ma eziandio, come provato è di sopra in altro trattato, essa è dovunque alberga l'amore di quella (XXX 5).

16. D. potrà ora mirare ad affetti divini o beatifici, di Bernardo per Maria, la regina del cielo, ond'io ardo tutto d'amor (Pd XXXI 101); o a una tensione dell'anima verso Dio e i beni celesti, l'amor de la spera supprema (Pg XV 52): Matelda, invocata bella donna, che a' raggi d'amore ti scaldi (XXVIII 43); Adriano V, deluso d'ogni grandezza terrena, in cui alla fine s'accese amore della vita eterna (XIX 111 e 122).

Del tutto escluso dall'Inferno, raro nel Purgatorio, questo a. celebra invece la sua vertiginosa ascensione nel Paradiso: cantica della carità divina, amor erga Deum. Beatrice guarda D. con li occhi pieni di faville d'amor (IV 140); gli fiammeggia nel caldo d'amore (V 1); Dio è etterna luce, / che, vista, sola e sempre amore accende (V 9); negli spiriti attivi, distratti dalle ambizioni, è fatale che i raggi del vero amore in sù poggin men vivi (VI 117); i decreti di Dio restano inattingibili a li occhi di ciascuno il cui ingegno ne la fiamma d'amor non è adulto (VII 60); gli spiriti di Venere sono sì pien d'amor da interrompere il loro tripudio per appagare D. (VIII 38); nel Sol de li angeli s'annienta tutto l'a. di D. (X 59); lo raggio de la grazia, onde s'accende verace amore (X 84); l'orologio ci chiama al mattutino con sì dolce nota, / che 'l ben disposto spirto d'amor turge (X 144). Dopo la pausa di alcuni canti intermedi, dall'XI al XVII, coinvolti in grandi miti terreni: lo sfavillar de l'amor che lì [in Giove] era (XVIII 71); il regno dei cieli vïolenza pate da caldo amore e da viva speranza (XX 95); Traiano credendo s'accese in tanto foco / di vero amor (XX 116); D. testimonia a Pietro la sua fede in uno Dio ... che tutto 'l ciel move, non moto, con amore e con disio (XXIV 132); Giovanni si unisce ai due apostoli che si volgieno a nota qual conveniesi al loro ardente amore (XXV 108); il paradiso, vita intègra d'amore e di pace (XXVII 8); la schiera degli angeli risaliva / là dove 'l süo amor sempre soggiorna (XXXI 12); la gente dell'Empireo viso e amore avea tutto ad un segno (XXXI 27); infine Dio, lo rege per cui questo regno pausa / in tanto amore (XXXII 62).

17. Ma è anche, inversamente, amor Dei per le sue creature, " misericordia " e " grazia ", Dio insomma come A. nella sua essenza primigenia: CV III VI 10 però che la sua [di Dio] larghezza non si stringe da necessitade d'alcuno termine, non ha riguardo lo suo amore al debito di colui che riceve, ma soperchia quello in dono e in beneficio di vertù e di grazia (cfr. Pd XV 28-29); XII 12 filosofia è uno amoroso uso di sapienza, lo quale massimamente è in Dio, però che in lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto. In questa accezione il termine regna sovrano nella Commedia, anzi nell'ultima cantica, perché solo due risultano le occorrenze nell'Inferno e tre appena nel Purgatorio. Si rifletta inoltre che i due luoghi della prima cantica riferiti, l'uno (I 39) al topico esordio primaverile del viaggio, quando il sole si trovava in congiunzione con l'Ariete, cioè con le stesse stelle / ch'eran con lui quando l'amor divino / mosse di prima quelle cose belle; e l'altro (II 72) alla discesa nel Limbo di Beatrice, mediatrice fra D. e Dio (amor mi mosse, che mi fa parlare), restano fuori dell'Inferno vero e proprio rappresentandone piuttosto il prologo in terra e in cielo. D'altra parte, in un calcolo generale, la frequenza di a. nelle tre cantiche si potrebbe fissare, rispettivamente, in un 10, 30 e 60 per cento.

Il Purgatorio si apre nel nome della " grazia di Dio ", l'etterno amore contrapposto da Manfredi alle maladizion, " le scomuniche ecclesiastiche " (III 134), e si suggella con l'immagine di Dio padre che sta nei cieli per più amore verso gli angeli (XI 2); di mezzo, è scolpita quella / ch'ad aprir l'alto amor volse la chiave (X 42), cioè Maria, che seppe attuare la riconciliazione fra uomo e Dio. Il tema si propagherà fino alla preghiera di s. Bernardo alla Vergine: Nel ventre tuo si raccese l'amore, / per lo cui caldo ne l'etterna pace / così è germinato questo fiore (Pd XXXIII 7).

Spesso invece nel Paradiso s'invoca o ricorda Dio come a. o A.: amor che 'l ciel governi (I 74); primo amor ispiratore di Giustiniano (VI 11), " il primo dei suoi amori ", non " lo Spirito Santo "; il primo amore / di tutte le sustanze sempiterne (XXVI 38), cioè " la loro prima causa con cui esse anime desiderano ricongiungersi " (cfr. Cv III II 4); a. che volge [" fa girare "] il Cristallino (XXVII 111; alcuni pensano piuttosto all'Intelligenza motrice; il Vandelli al desiderio dei cieli di congiungersi a Dio, che determina il loro moto rotatorio: e si tratterebbe dunque di amor erga Deum); etterno amore che s'aperse in nuovi amor, cioè " si schiuse, quasi fiorendo, negli angeli " (XXIX 18); amor che queta questo cielo, " appaga e mantiene immobile l'Empireo " (XXX 52); priego [di Beatrice] e amor santo, suscitatori di s. Bernardo a favore di D. (XXXI 96); ancora, primo amore (XXXII 142); volume in cui s'interna, / legato con amore... / ciò che per l'universo si squaderna (XXXIII 86); infine, lasciato il piano metaforico per l'estasi mistica, a chiudere il poema proprio con un verso-chiave, l'amor che move il sole e l'altre stelle (XXXIII 145).

Piccarda che ride tanto lieta, / ch'arder parea d'amor nel primo foco (III 69), proprio per le incertezze degli esegeti può segnare il passaggio all'accezione subito aderente, di a. come " Spirito Santo ". Cronologicamente, precede Cv II V 13, ove D. parla dell'amore del Santo Spirito dal quale informati (naturali), i Troni, gerarchia angelica di Venere, fanno là loro operazione, connaturale ad essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno d'amore, dal quale prende la forma del detto cielo uno ardore virtuoso, per lo quale le anime di qua giuro s'accendono ad amore, secondo la loro disposizione. Sulla soglia dell'Inferno D. legge il nome della Trinità distinta per ordine nella divina podestate del Padre, nella somma sapïenza del Figlio e nel primo amore dello Spirito (III 6); tace invece questa accezione nel secondo regno. Sarà poi l'etterno amore che pose in atto l'Incarnazione del Verbo (Pd VII 33); l'Amore / che l'uno e l'altro [il Padre e il Figlio] etternalmente spira (X 1); l'amor ch'a lor s'intrea (XIII 57); 'l caldo amor che la chiara vista / de la prima virtù dispone e segna (XIII 79).

18. Con a. si designerà inoltre " l'Empireo ", riflesso immateriale e ardente di Dio; anzi, nella sua più alta definizione, ritmata in un crescendo triadico ove l'iterazione pare modellarsi sul sistema delle ‛ coblas capfinidas ': ciel ch'è pura luce: / luce intellettűal, piena d'amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore (Pd XXX 40-41). Ma anche: 'l ciel... / ch'è pien d'amore e più ampio si spazia (Pg XXVI 63); e Luce e amor che d'un cerchio lui comprende, " contiene in sé, come in un cerchio, il Cristallino " (Pd XXVII 112); cosicché D. potrà definire il Primo Mobile, in quanto circondato dall'Empireo, come miro e angelico templo / che solo amore e luce ha per confine (XXVIII 54).

19. Uno spostamento rilevante si ravvisa in una trafila di usi che riportano a. verso una funzione più umana e quotidiana, a designare in primo luogo l'attaccamento sensuale a un vizio, l'inclinazione di un temperamento per un peccato: l'amor del gusto, cioè " la propensione al peccato di gola " o " la tendenza verso ciò che appaga il. gusto " (Pg XXIV 152); l'egoismo familiare in Currado Malaspina che confessa a' miei portai l'amor che qui raffina (VIII 120), cioè l'affetto esclusivo per la propria stirpe, che nel Purgatorio si purifica in carità disinteressata e senza debolezze. Per un più generico attaccamento a cose terrene: Pd XV 11-12 l'amor di cosa che non duri / etternalmente, contrapposto a quello amor di carità, l'amor che drittamente spira (XV 2); così come altrove (XXVI 62-63) il mar de l'amor torto alla riva del diritto. Cacciaguida narra del suo martiro, che lo disviluppò dal mondo fallace, / lo cui amor molt'anime deturpa (XV 147); e Beatrice appunta la sua invettiva contro le scuole dei filosofi, traviate da l'amor de l'apparenza e 'l suo pensiero (XXIX 87).

20. In questa direzione si dispone un impiego lievemente diverso del termine, che lo configura quale " tensione indefinita verso il bene " o " accensione spirituale in genere ", " a. d'animo o d'elezione ", " volontà ": meno nella triade delle virtù che dovranno informare la personalità e l'azione del Veltro, sapïenza, amore e virtute (If I 104), dato il puntuale riflesso della triade divina (cfr. III 5-6); e piuttosto in Pg XV 68 Quello infinito e ineffabil bene / che là sù è, così corre ad amore, " verso l'anima che l'ama "; Pd 1120 né pur le creature che son fore / d'intelligenza quest'arco saetta, / ma quelle c'hanno intelletto e amore, cioè " l'istinto provvidenziale (l'arco) non sospinge a un fine solo gli esseri irrazionali, le cose inanimate o gli animali bruti, ma anche gli uomini, dotati d'intelligenza e volontà "; XXVI 18, ove D. confessa di amare in ogni aspetto del mondo sempre e soltanto il riflesso di Dio, Lo ben che fa contenta questa corte, / Alfa e O è di quanta scrittura / mi legge Amore o lievemente o forte; e s. Giovanni confermerà di avere inteso, ribadendo d'i tuoi amori a Dio guarda il sovrano (XXVI 48), cioè " il più alto dei tuoi affetti s'indirizza verso Dio ".

Si procede all'a. come " virtù ", in Pg XXII 10 Amore, / acceso di virtù, sempre altro accese, / pur che la fiamma sua paresse fore, che rappresenta il correttivo morale della sentenza di Francesca (If V 103), cioè il trasferimento nella sfera etica di un nesso dialettico condannato al fallimento nell'ambito dell'ideale o della prassi cortese. In termini d'umanissima dignità, in Rime civ 3, nella personificazione di A. che dentro siede al cuore dell'esule: " Amore, qui, è un'esaltazione dei sentimenti e delle facoltà per cui l'uomo professa e fa ogni cosa alta e nobile nel concetto cavalleresco e anche umana e civile nel concetto del dolce stil nuovo: è l'amore delle cose buone e belle, l'amore della verità e della giustizia " (G. Carducci, La canzone di Dante " Tre donne intorno al cor mi son venute ", in Opere X).

21. Meglio individuabile è l'accezione filosofica di a. come " generico impulso ad agire ", orientato verso il bene o il male, dunque come tendenza indifferenziata e alternativa insita nell'uomo. All'anticipazione offerta in Pg X 2 la porta / che 'l mal amor [soggetto] de l'anime disusa, e XVI 93 l'anima semplicetta... / Di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s'inganna, e dietro ad esso corre, / se guida o fren non torce suo amore, farà eco la disamina della partizione morale del Purgatorio, nei canti XVII (vv. 91-139) e XVIII (vv. 49-75), svolta da D. sulla scia di s. Tommaso.

D. concepisce tale a. come un istinto innato nell'uomo, che lo spinge verso beni parziali e illusori distogliendolo dal vero e unico Bene; e ha via via preparato il nucleo ideologico più sostanzioso con acquisti minori convergenti all'approdo di questi due canti; donde si propagheranno echi isolati fin nella terza cantica. Ci si riferisce, in primo luogo, al termine a. confluito nella teorica degli istinti: Cv III III 2-5 ciascuna cosa... ha 'l suo speziale amore. Come le corpora simplici hanno amore naturato in sé a lo luogo proprio... il fuoco ha [amore a] la circunferenza di sopra, lungo lo cielo de la luna... Le corpora composte prima... hanno amore a lo luogo dove la loro generazione è ordinata... Le piante... hanno amore a certo luogo più manifestamente... Li animali bruti hanno più manifesto amore non solamente a li luoghi, ma l'uno l'altro vedemo amare. Li uomini hanno loro proprio amore a le perfette e oneste cose... l'uomo... tutti questi amori puote avere e tutti li ha; e con riferimenti più specifici, in III 9, 10 (due volte), 11 (due volte).

Una seconda tappa è segnata dalla teorica dell'hormen, cioè appetito d'animo naturale, che fornisce quasi il tramite di passaggio alla fase ‛ purgatoriale ': D. vi illustra come la mente si diletta sempre ne l'uso de la cosa amata, che è frutto d'amore (IV XXII 9); e precisa che l'impiego speculativo della mente (rispetto al pratico) è uso de la nostra nobilissima parte, la quale, per lo radicale amore che detto è [l'hormen], massimamente è amabile, sì com'è lo 'ntelletto (XXII 13).

A questo punto s'innesta la discriminazione fra lo naturale a., proprio di tutte le cose create e quindi sempre sanza errore (Pg XVII 94), e quello d'animo, cioè " d'elezione ", di cui soltanto l'uomo è dotato e che puote errar per malo obietto / o per troppo o per poco di vigore (XVII 95-96). Al libero arbitrio (cfr. XVI 65-84) spetta dunque il compito di sceverare i buoni dai rei amori (XVIII 66); mentre il contrasto si appiana e giunge al suo definitivo equilibrio, spogliato a. d'ogni possibilità di male, solo nel Purgatorio, ove suo passo falca la turba magna degli accidiosi, cui buon volere e giusto amor cavalca (XVIII 96).

Ma intanto D. vede svolgersi nel dramma ideologico dei contemporanei e della Summa di Tommaso le procelle di questo a. continuamente insidiato dal suo stravolgimento o dall'eccesso o dalla sua innaturale stasi: seme di virtù e di peccato (XVII 104), incapace di autodistruzione (XVII 107 perché mai non può da la salute / amor del suo subietto volger viso, / da l'odio proprio son le cose tute); di necessità orientato al male del prossimo, e in tre direzioni, superbia invidia e ira (XVII 114 amor nasce in tre modi in vostro limo), quindi triforme amor (XVII 124); oppure indirizzato verso il bene, ma non equamente (XVII 125 l'altro... / che corre al ben con ordine corrotto): L'amor del bene, scemo (XVII 85), il poco (XVIII 104) o il lento amore (XVII 130), cioè " accidia ", tepidezza d'animo; oppure volto immoderatamente verso le seduzioni terrene, il bene che non fa l'uom felice, dunque L'amor ch'ad esso troppo s'abbandona (XVII 136), tripartito in avarizia gola e lussuria. Alla richiesta di D. che gli dimostri amore, a cui reduci / ogne buono operare e 'l suo contraro (XVIII 14), Virgilio precisa che a. consiste proprio in quel piegare (XVIII 26) verso ogne cosa che piace; e in polemica con gli epicurei fautori della fatale positività dell'a., come in sé laudabil cosa (XVIII 36), riafferma il peso decisivo della volontà umana, distinguendo la matera di a. dal segno, la sua potenzialità dal suo atto (XVIII 37-39). D. si confessa persuaso (XVIII 41), ma sente insorgere un nuovo dubbio sulla genesi esteriore di questo a. e quindi sulla parziale responsabilità dell'uomo nel peccato (XVIII 43 s'amore è di fuori a noi offerto / e l'anima non va con altro piede, / se dritta o torta va, non è suo merto); e Virgilio riassevera il persistente valore del libero arbitrio: Onde, poniam che di necessitate / surga ogne amor che dentro a voi s'accende, / di ritenerlo è in voi la podestate (XVIII 71).

Più avanti D. richiamerà la lezione alla propria situazione esistenziale, quando percepirà amaramente l'attrazione nefasta che l'a. per i beni mondani aveva esercitato su di sé, distogliendolo da Beatrice e frenando la propria elevazione spirituale: Di penter sì mi punse ivi l'ortica, / che di tutte altre cose qual mi torse / più nel suo amor, più mi si , fé nemica (XXXI 87). Ultima eco nel Paradiso, proprio nelle parole di Beatrice che sembrano chiudere un lungo travaglio interiore: V 10 s'altra cosa vostro amor seduce, / non è se non di quella [l'etterna luce di Dio] alcun vestigio, / mal conosciuto, che quivi traluce.

22. Significato specifico e tecnico, quello di a. come " concordia fisica ", " tendenza degli elementi a unirsi ", secondo la dottrina empedoclea che poneva l'origine del mondo nella discordia o separazione dei quattro elementi costitutivi dell'universo, e viceversa il ritorno al caos primigenio nella loro concordia o mescolanza. Tale accezione emerge isolatamente da If XII 42 l'alta valle feda / tremò sì, ch'i' pensai che l'universo / sentisse amor, per lo qual è chi creda / più volte il mondo in caòsso converso.

23. Un'accezione di largo impiego, che discenderebbe dal § 10, approda al valore di " carità ", con diverse sfumature d'intensità o varianti semantiche. Già nel Convivio D. scrive che la biltade di quella [‛ Donna gentile '] piove fiammelle di foco, cioè ardore d'amore e di caritade (III VIII 16), in una sostanziale situazione di endiadi; ma solo nel poema le gradazioni si misurano meglio.

Si va dalla pietà caritatevole verso i morti (Pg VI 38) alla denotazione della virtù opposta all'invidia, nella sua sequenza esemplare (XIII 39 sono / tratte d'amor le corde de la ferza); dal fervore lieto degli spiriti che salutano in D. " Ecco chi crescerà li nostri amori " (Pd V 105), al benigno zelo di s. Tommaso, che si prepara a sciogliere il secondo dubbio (XIII 36 a batter l'altra [paglia] dolce amor m'invita). Cacciaguida dirà di sé, partecipe di una legge divina, 'l sacro amore in che io veglio / con perpetüa vista e che m'asseta / di dolce disïar (XV 64); e D. medesimo attesterà a Pier Damiani come libero amore in questa corte / basta a seguir la provedenza etterna (XXI 74). E, ancora, l'ardore verso il bene che si suggella in D. per filosofici argomenti / e per autorità che quinci scende (XXVI 27); e lo morde (XXVI 51) tanto maggio / quanto più di bontate in sé comprende (XXVI 29), ché 'l bene, in quanto ben, come s'intende, / così accende amore.

24. Da questo fervore di carità, che agisce e si nutre nell'intimo, facile è il passaggio verso l'accezione di a. come " ardore estrinseco ", " carità gioiosa che si converte in luce " negli spiriti del Paradiso. Salomone, luce che spira di tale amor, che tutto 'l mondo / là giù ne gola di saper novella (X 110: con allusione insieme al Cantico dei Cantici), dichiara: Quanto fia lunga la festa / di paradiso, tanto il nostro amore / si raggerà dintorno cotal vesta (XIV 38). L'anima di Bonaventura esordisce: L'amor che mi fa bella (XII 31); Cacciaguida ci appare amor paterno [" amorevole come un padre "], / chiuso e parvente del suo proprio riso (XVII 35); luce di carità splende ne li occhi santi di Beatrice (XVIII 9). D. chiama francamente amori gli spiriti affocati di carità che formano l'Aquila (XIX 20); li invoca comprensivamente O dolce amor che di riso t'ammanti (XX 13), stabilendo un nesso esemplare fra due parole-chiave della cantica, ‛ riso ' e a., cioè a. che si fa riso in un circolo perenne. Dinanzi a Pier Damiano egli esclama: Io veggio ben l'amor che tu m'accenne (XXI 45); e l'anima santa, pur rivelando come né più amor mi fece esser più presta, / ché più e tanto amor quinci sù ferve (XXI 67-68), riapparirà quale a. interno al suo lume (XXI 82), fasciato della luminosità irraggiante da quell'ardore arcano. Ancora, s. Pietro si profila sul suo amore acceso (XXIV 82); s. Giacomo sull'amore ond'io avvampo (XXV 82); il vorticoso ruotare dei Serafini su l'affocato amore ond'elli è punto (XXVIII 45).

Per immediato trapasso analogico, a. varrà anche " letizia fiammeggiante di un astro ": Rime C 4 la stella d'amor [Venere] ci sta remota per lo raggio lucente; Pg XXVII 96 Citerea [il pianeta Venere], / che di foco d'amor par sempre ardente.

25. Esclusivo della terza cantica l'ardito traslato, quasi autonoma personificazione, di a. per " angelo ", in quanto spirito luminoso posseduto interamente da un divino ardore di carità: l'arcangelo Gabriele amore angelico, che giro / l'alta letizia che spira del ventre / che fu albergo del nostro disiro (XXIII 103), o quello amor che primo lì [su Maria] discese (XXXII 94). Saranno invece, al plurale, le intelligenze o i cori angelici: " Troni " in XXVIII 103 Quelli altri amori che 'ntorno li vonno; " angeli in genere " in XXIX 18 s'aperse in nuovi amor l'etterno amore, e 46 questi amori.

La concezione filosofica e poetica dell'a. in Dante. - Nel 1370 circa, cioè a mezzo secolo di distanza dalla morte di D., nel manoscritto Riccardiano 2317 veniva copiata una traduzione toscana del Tractatus de Amore di Andrea Cappellano (v.). Esso non aveva dunque perduto niente del suo favore presso il pubblico: vi avevano fatto esplicito riferimento sia il Cavalcanti nel suo mottetto (ove si allude all'arco di Andrea), sia, rispondendogli, Lapo Gianni (che allude a Gualtieri: il trattato era infatti anche noto come " libro di Gualtieri ", dal nome del personaggio cui era dedicato), e, nonché da altri, era stato abbondantemente usato da Jean de Meung nel Roman de la Rose e non aveva dunque lasciato immune di sé l'autore del Fiore. Si apre con la seguente definizione dell'amore: " Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alterius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta compleri ".

Cerchiamo di questo pensiero, e delle sue implicazioni, una sola traccia in un'opera dantesca che non sia il Fiore (o il suo parente Detto d'Amore), e lo faremo assolutamente invano: si direbbe che la concezione dantesca dell'a. è l'opposto esatto di esso.

Viceversa, D. si pone come il poeta che porta ai più alti traguardi la tradizione ‛ cortese ' dell'a., la quale trova al suo punto di origine un altro autore transalpino, questa volta meridionale: Guglielmo IX duca d'Aquitania, VII conte di Poitiers. Egli è ben noto per avere per primo prospettato il rapporto amoroso fra uomo e donna in termini di vassallaggio (la donna diventa il signore feudale, midons, e l'uomo il vassallo, il fedele di essa) e per avere introdotto di conseguenza nella poesia d'a. tutta una terminologia giuridica di ascendenza feudale, che è rimasta per secoli, in maggiore o minor misura, legata alla lirica amorosa; ma non sempre è stato messo bene in luce quello che storicamente è il più nuovo contributo ch'egli abbia dato alla concezione dell'a. in grazia, proprio, di quella sua innovazione, e cioè che, agendo in quel modo, egli aveva reso possibile per la prima volta prospettare l'a. come un'aspirazione verso l'alto (l'uomo comincerà ad aspirare di venire innalzato al livello della donna-signore, che è fonte del suo valore e del suo onore), mentre fino al suo tempo esso risulta configurato come un moto di discesa fino al livello della donna, ch'era sentita come inferiore all'uomo anche in tempi ben più tardi dei suoi: in sede dantesca non sarà fuori luogo ricordare come l'Alighieri polemizzi addirittura contro la Bibbia perché in essa si dice che la prima a parlare è stata Eva (per D. il linguaggio è comunicazione, e non semplice impositio nominum), e a lui sembra inammissibile che così debba essere avvenuto: quanquam mulier in Scriptis prius inveniatur locata, rationabilius tamen est ut hominem prius locutum fuisse credamus, et inconvenienter putatur tam egregium humani generis actum non prius a viro quam a foemina profluxisse (VE I IV 3).

Di tale inversione di direzione è tangibile la portata: da Peire d'Alvernha in poi (e quello di Peire è il più antico nome di trovatore che D. ricordi), l'intuizione di Guglielmo, accolta con favore, alimentò la lirica occitanica e si travasò in quella italiana, fino a giungere a D. e da lui, dicevamo, essere condotta alla sua vetta più alta.

Senonché, mentre in una simile raffigurazione la donna perdeva sempre più della sua fisica consistenza, in D. inaspettatamente succede un recupero di realtà del quale non si può non fare subito parola. Perfino il Cavalcanti, che in Donna me prega, la sua " Canzone d'Amore ", aveva teorizzato del fatto amoroso nei termini più realistici, cioè più aderenti alla realtà psicologica e, direi, sperimentale (basterebbe la sua affermazione che a. " Poco soggiorna ", v. 48), aveva portato però l'immagine muliebre alla più completa dissoluzione, trasformandola in pura luce e splendore (non si vuole qui dire, naturalmente, delle poesie più o meno legate a un'occasione, come per esempio quelle per la Mandetta tolosana, ma alludere specificamente a quelle dove il canto si snoda in termini di assoluto); l'angiola giovanissima di D., al contrario, è un essere in carne e ossa, e non soltanto perché anagraficamente identificabile con una signora realmente vissuta a Firenze, ma perché è fornita di belle membra (al pari di come lo sarà la petrarchesca Laura di Chiare, fresche e dolci acque; né esse si differenziano dalla bella persona di Francesca da Rimini). Proprio di esse come tali parlerà Beatrice nel Paradiso terrestre, ricordando anzi come di più belle non ne avessero mai fatte né natura né arte; e di altre donne D. si dimostra interessato perfino all'ombra che il corpo proietta: egli accetterebbe di dormire in petra / tutto il mio tempo e gir pascendo l'erba, / sol per veder do' suoi panni fanno ombra (Rime CI 34-36), e ricorda l'amor ch'io porto pur a la sua ombra (v. 27).

Di Beatrice, del resto, egli sa descriverci nella Vita Nuova il color di perle (XIX 11-47), gli sguardi (XIX 12-51-52), il vestito rosso sanguigno di bambina, con ornamenti e cintura convenienti alla sua età (II 3), bianco nove anni dopo (III 1), che sarà rosso ancora, splendido come fiamma viva, con mantello verde e velo bianco tenuto da una coroncina d'olivo nel Paradiso terrestre; ne descrive l'incedere; e allora viene da domandarsi se questo ricupero di realtà fisica (cui si affianca quello della realtà psicologica che si manifesta in tutta la Commedia, compreso naturalmente il Paradiso) non sia un fatto culturale preciso e non isolato, da mettere in rapporto anche con l'analoga riconquista di aderenza al reale che sul piano figurativo stava operando nel contempo Giotto.

Egli ama dunque una donna che vuole fisicamente consistente: una donna avvicinandosi alla quale, se non l'ha prima scorta con la vista, percepisce un tremore (Vn XIV 4), effetto di una sorta di fisica irradiazione che da lei promana (e che si rinnoverà nel Paradiso terrestre moltiplicata); una donna, d'altro canto, che non tanto dal senso esplicito delle parole di una ballata che il poeta le dedica rivolgendosi del resto a lei solo indirettamente (e che Amore gli consiglia di non far recitare in luoghi ove le sue parole potessero essere intese da lei, XII 8), ma dalla loro armonia, sembra essere capace d'intendere ch'è rivolto a lei l'a. di cui vi si parla: come può capitare anche nella realtà a una non volgare donna innamorata.

Eppure l'a. per una donna siffatta è di una natura speciale, che non si riesce a cogliere se non si attinge il soprasenso di cui D. la riveste. Il fatto è che, per quanto reale, Beatrice è portatrice di un'ipotesi.

E lo è non tanto nel senso che l'ultrasensibile è in generale, per un medievale, più concreto del sensibile, la cui realtà più vera sta dunque nel senso metaforico-allegorico cui esso si presta, ma anche in un senso più squisitamente tecnico, precisamente di officina poetica. Sta di fatto che nel nuovo ambito lirico, da quando cioè l'a. era stato prospettato come aspirazione verso l'alto e la donna come ricettacolo di perfezione, si può dire che press'a poco ogni poeta finiva col crearsi una sua ipotesi-variante sul contenuto concreto di cui riempire, e con cui raffigurare, quella perfezione; e la sua poesia consisteva nel rendere viva quella sua ipotesi operativa, saggiandone tutte le possibili equazioni interne. Per riflesso, l'a. si atteggiava in concreto diversamente a seconda del contenuto che assumeva l'ipotesi della perfezione muliebre.

Ora, quando D. declassa la Giovanna del Cavalcanti al ruolo di precorritrice della sua Beatrice (della quale Amore potrà dire che ha nome Amor, sì mi somiglia) e ne fa l'analogo del Battista che precorse il Cristo, egli compie, sì, un sopruso, tentando di soppiantarsi a Guido nella gerarchia letteraria fiorentina per il tramite della maggiore perfezione assegnata così alla propria donna, ma è prima di tutto lucidamente consequenziale sul piano delle ipotesi operative. Guido, riducendo la sua donna-splendore a luce, e portando così alle estreme conseguenze le possibilità liriche di un'immagine peraltro già presente nei provenzali, nei siciliani, in Guittone e in Chiaro, nutriva quella sua ipotesi di temi e suggerimenti che nel mondo culturale del suo tempo erano in accordo con le ricerche che sul concetto metafisico della luce come Prima Causa stavano conducendo sia Alberto Magno, sia i teologi francescani e agostiniani. L'ipotesi che D. formula per Beatrice fiorisce sulle stesse radici di assoluto, ma si manifesta di molto maggiori ambizioni: la sua perfezione è ipotizzata come miracolo, e il fondamento di esso è collocato direttamente nella divina Trinità attraverso la simbologia numerica del nove, che scandisce il ritmo di tutti i suoi eventi che abbiano rapporto con il poeta; una simbologia per intendere l'adozione della quale sarà bene non dimenticare come il principio metafisico del numero si stesse rifacendo vivo (dalle esperienze agostiniane) proprio al tempo di D., soprattutto nel campo delle ricerche rettoriche e musicali, mentre non si era comunque perduto il ricordo di quanto l'Alighieri stesso rammenterà in Cv II XIII 18 Pittagora, secondo che dice Aristotile nel primo de la Fisica, poneva li principii de le cose naturali... considerando tutte le cose esser numero.

Appunto del numero nove D. ci dice che se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch'ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade (Vn XXIX 3); e che si tratti di un'ipotesi (di un'ipotesi interpretativa del ‛ significato ' di Beatrice) lo indica ancora D., allorché, proseguendo, aggiunge che Forse ancora per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione; ma questa è quella ch'io ne veggio, e che più mi piace (§ 4).

Data la natura di tale equazione interpretativa, che l'a. per Beatrice assuma nella Vita Nuova, molto spesso, accenti biblici ed evangelici (che sovente si concretano anzi in puntuali citazioni dai testi sacri), è cosa da non meravigliarci; e nemmeno può farci meraviglia che certe immagini guinizzelliane, che prese in sé a noi risultano ampiamente gratuite (ma forse soltanto perché l'opera del primo Guido c'è giunta oltremodo frammentaria, sicché non siamo in grado di ricostruirne il generale pensiero), come quella secondo cui la donna che egli canta è capace di rendere l'innamorato di nostra fé se non la crede, si esaltino in questo clima dantesco fino a trasformarsi nell'affermazione, già presente nella prima canzone di loda ch'egli abbia scritto (ed è la prima della Vita Nuova), che a Beatrice Ancor l'ha Dio per maggior grazia dato che non pò mal finir chi l' ha parlato, e che essa è disiata in sommo cielo ed è la speranza de' beati (Vn XIX 4 ss.). Quanto al secondo Guido, se intorno all'incedere della sua donna può diffondersi uno splendente alone di luce, che " fa tremar di claritate 1'àre " mentr'ella passa e " ogn'om la mira ", D. soverchia anche lui non solo quanto al corteggio dei riguardanti il passare della Beatrice (venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei), ma soprattutto perché ne fa una creatura venuta / da cielo in terra a miracol mostrare (Vn XXVI 1, 6 7-8; e bisognerà di nuovo porgere attenzione a quel miracol, che sembra proprio la chiave giusta per interpretare la Beatrice della Vita Nuova: cfr. anche XXI 3 14 sì è novo miracolo e gentile).

Di fronte a una donna così ipotizzata, che diventa in primo luogo la donna de la mia mente (II 1), il poeta può, sì, provare una baldanza d'Amore, ma con il consiglio de la ragione (§ 9), cioè qualcosa di ben diverso non foss'altro da ciò che provano coloro che la ragion sommettono al talento; e, dal momento che essa è distruggitrice di tutti li vizi e regina de le vertudi (X 2), è anche logico se avviene che la signoria di Amore trae lo intendimento del suo fedele da tutte le vili cose (XIII 2), pur se quanto lo suo fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi punti li conviene passare (§ 3). Cioè: pur entro l'ambito di un a. cortese ', il sentimento di D. si caratterizza per certi suoi tratti particolari, anche se alcuni erano già nel Guinizzelli, il recupero della cui poesia al di là del filtro cavalcantiano ha costituito la sua conquista speculativa più insigne nel periodo della Vita Nuova.

Comunque, quanto mai più produttiva si manifesta un'innovazione che le altre sue ipotesi hanno reso necessaria: nella Vita Nuova l'unico rapporto possibile, a livello fisico, tra una donna reale in questo particolare modo e il poeta innamorato, non può essere che il saluto; ma anch'esso, ovviamente, si carica di sovrasensi mediante l'analogia, che escava nello stesso terreno di cultura ove la donna è cresciuta: il dolcissimo salutare di Beatrice (non sfugga la forma del sostantivo) si carica della stessa sostanza e della stessa efficacia di quello del quale si parla nel salmo 50, 14, che recita: " redde mihi laetitiam salutaris tui / et spiritu principali confirma me ". E chiaro come D. possa dire che in quell'unico contatto possibile abitava la mia beatitudine (XI 4), perché di esso si alimentava infine il suo a., secondo i modi di cui è tutto pieno il racconto del cap. XI. E del resto Beatrice si configura come donna de la salute (III 4), cioè " saluto " e " salvezza ", " equilibrio " e " beatitudine ", tanto che dopo morta saprà salutare, cioè riempire della " laetitia " del salmo perfino gli angeli del Paradiso, essendo divenuta una spirital bellezza grande, / che per lo cielo spande luce d'amor, che li angeli saluta (XXXIII 8 22-24): che è il suo modo di donare a.

La morte di Beatrice segnò l'inizio di una crisi in D.: egli si sentì nascere dentro uno spiritel novo d'amore (XXXVIII 10 10) per una giovane che più gli aveva manifestato compassione alla scomparsa di lei. È un a. modesto e praticamente senza storia che, se da un lato lo induce a trovare gentile, bella, giovane e savia la fanciulla, dall'altro si prospetta come desiderio di trovar refrigerio alle proprie afflizioni, alla sua tanta amaritudine (XXXVIII 1 e 4). Ne è assalito nel momento della stanchezza e della fragilità, e sente accadere che lo cuore consentiva in lui (§ 1). Resiste invece, or più or meno, la costanzia de la ragione (XXXIX 2), alla quale questo consentire sembra una viltà perché eccessivamente assorbente si fa il pensiero della tranquillità, e D. lo giudica un vile modo (XXXVIII 2), avversario de la ragione (XXXIX 1). Il fatto è che questo a. gli si prospetta senza magnanimità: non necessariamente sensuale o passionale, come ancora si attarda ad asserire qualche pur autorevole interprete, ma certo rivolto a una donna apparentemente senza ipotesi nuove (le sue qualità sono tutte espresse da aggettivi tradizionali della poesia ‛ cortese '), tutta calata nella modestia sentimentale della compassione.

Fu del resto un a. breve, durato non più che alquanti die (XXXIX 2): basta che Beatrice gli ricompaia in sogno, e il poeta, con tutto lo vergognoso cuore (§ 3), ritorna a lei: la Beatrice-miracolo è adesso pronta per la sua più alta metamorfosi: comparsagli di nuovo in una ‛ mirabile visione ', essa diventerà la sua donna del Purgatorio e, più ancora, del Paradiso. Diventerà, cioè, l'oggetto della più grande loda che mai poeta abbia saputo cantare, dato che davvero lì D. sa dire di lei quello che mai non fue detto d'alcuna (XLII 2); e, da quando essa gli ha tolto il suo salutare, appunto nel lodare lei egli trova l'unica possibile beatitudine.

Ciò nonostante, non le tocca alcun ruolo nel Convivio, dove anzi D. se ne libera presto (sarà bello terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, de la quale più parlare in questo libro non intendo per proponimento, II VIII 7); ne tocca invece uno di primissimo piano a un'altra donna, anch'essa gentile (II XII 6) come quella apparsagli a consolarlo della morte della ‛ gentilissima ', e che anzi sgorga dalla stessa situazione conflittuale dell'altra di fronte al pensiero di Beatrice: solo che alfine vittoriosa, e non soccombente.

Appare già tale nella canzone Voi che 'ntendendo, ma la sua vittoria si rafforza man mano che il trattato procede (io, sentendomi levare dal pensiero del primo amore a la virtù di questo, quasi maravigliandomi apersi la bocca nel parlare de la proposta canzone, II XII 8). Sembrano sterili le discussioni intese a stabilire se D., riassumendo in II II 1-5 la fine della Vita Nuova con una prosa che è più vicina alla situazione delineata in Voi che 'ntendendo che a quella descritta nel libello, riproducesse della Vita Nuova una fine che ha successivamente modificato in maniera profonda (o, come altri pensano, con almeno l'aggiunta del capitolo finale); e sembrano sterili perché non sarebbe questo l'unico caso in cui D. forza un suo precedente pensiero: quel che ogni volta gl'importa, o che richiami un pensiero proprio o uno altrui, o addirittura ne introduca uno perfettamente contraddittorio con altri esposti altrove, è di disporlo in modo che faccia da premessa pertinente di uno sviluppo teorematico nuovo: quello, appunto, che gli sta a cuore di svolgere nella nuova situazione in cui si rappresenta. Ma per la stessa ragione (cioè perché intorno a lei si stava sviluppando tutta intera un'ipotesi rappresentativa) la Beatrice-miracolo della Vita Nuova non poteva nel suo libello venir soppiantata da una donna-compassione neppure se il titolo del libro (Vita Nuova), anziché richiamarsi al testamentario " vita nova, canticum novum ", volesse indicare nient'altro che un'età della vita fisica di D., come forse in Pg XXX 115, e sembra dunque illogico che la Vita Nuova avesse una conclusione diversa dall'attuale, una caduta di D. nella viltà '; viceversa, non sembra scandaloso che la donna-compassione, in una nuova opera, potesse caricarsi a sua volta di un sovrasenso, che ne fa realmente un'invenzione nuova e diversa.

Del resto, già nella Vita Nuova la ‛ Donna gentile ' conteneva le premesse per la metamorfosi che subisce nel Convivio: il poeta, scomparsa Beatrice, cercava (egli dice) di consolarme (II XII 5), e lesse in primo luogo quello non conosciuto da molti libro di Boezio (§ 2) che è il De Consolatione philosophiae; e allora gli venne da immaginare la filosofia fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso (§ 6), cioè, grosso modo, come appare nel trattatello boeziano. Ma, appunto: la ‛ Donna gentile ' ha compassione anch'essa di D.; anch'essa vuole consolare me (Vn XXXVIII 2), come è consolazione quella che a Boezio porge la sua personalizzata Filosofia (Cv I II 13). E questa, credo, la via del recupero della ‛ Donna gentile '; ed è, anche, quella per cui si carica del suo particolare sovrasenso, che la identifica appunto con la Filosofia.

Di conseguenza, è anche questo il tramite pel quale si dilata il diametro concettuale dell'a. quale D. lo delinea nel trattato: nel quale finisce col confluire tutta una messe di concetti che gli era estranea perfino nell'accostamento guinizzelliano fra a. e nobiltà (nobiltà di costumi e d'animo, che era stata del resto teorizzata, nonché da filosofi e teologi, anche da Andrea Cappellano nel suo citato Tractatus de Amore); e d'altra parte è vero che D. aveva già spinto all'identificazione i due concetti fin dalla Vita Nuova (Amore e cor gentil sono una cosa, XX 3 ss.), chiaramente prevaricando il bolognese, nel cui pensiero essi stavano in un rapporto di non più che reciprocità, per quanto si voglia stretta. Ma qui succede qualcosa di più vasto ancora: mentre l'a. impegna tutta l'anima di chi lo prova (amore, cioè... unimento de la mia anima con questa gentil donna) anche se poi dell'anima è interessata in modo specifico la mente (Cv III II 9, 15-16), l'uomo è grazie a esso visitato addirittura dalla virtù divina (è manifesto che la divina virtù, a guisa [che in] angelo, in questo amore ne li uomini discende, III XIV 9).

A parte ogni altra considerazione, ciò significa che il superamento di Beatrice-miracolo (che anche sul finire del II libro è relegata al rango di primo amore) da parte della ‛ Donna gentile ' - Filosofia si rivela non tanto come uno iato fra due distinti amori, ma come arricchimento della prima esperienza in una seconda di ambito e di profitto più lati. E non è vero soltanto che il teorema del miracolo, su una trama biografica del resto minima, si può svolgere col ricorso alle sole analogie (e talvolta solo accordi) bibliche e neotestamentarie che, per quanto autorevolissime, e capaci di echi profondi, come dato culturale sono comunque reperibili pressoché tutte in un libro di quotidiana lettura (come fu la Bibbia), mentre quello della. filosofia impegna chi lo svolge su un fronte infinitamente più vasto e (per D.) nuovo, anzi inattingibile nella sua globalità (tant'è vero che la filosofia è figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima [II XII 9]; anzi, di Dio sposa... suora e figlia dilettissima [III XII 14] ; e che Suo esser tanto a Quei che lel dà piace, / che 'nfonde sempre in lei la sua vertute oltre / 'l dimando di nostra natura, come recita Amor che ne la mente ai vv. 27-29); è soprattutto vero che essa è un assoluto, l'a. che si prova per il quale, a parte che non può essere per sensibile dilettazione, a tal punto che quelli che secondo lo senso vivono di questa innamorare è impossibile, però che di lei avere non possono alcuna apprensione (III III 12 e XIII 4), si manifesta poi come una suprema prova di magnanimità, sì da strappare al poeta l'esclamazione: Oh nobilissimo ed eccellentissimo cuore che ne la sposa de lo Imperadore del cielo s'intende... ! (III XII 14) all'indirizzo di chi ne è preso.

Anzi, tanto procede D., che dell'a. fa lo stesso principio formale della filosofia, e della scienza (il greco sophìa) il suo contenuto, grazie a un ben noto procedimento etimologizzante (Filosofia per subietto materiale... ha la sapienza, e per forma ha amore, III XIV 1): il che significa, o poco ci manca, fare dell'a. il principio stesso dell'oggetto per cui esso vive perché su di esso si esercita, o quanto meno fare della filosofia la sintesi a priori di a. e sapienza.

A questo punto, ogni eventuale paragone con un a. ancora cavalcantiano, cioè del tipo definito in Donna me prega, diventa più che mai impossibile; e tanto più lo diventa col Tractatus de Amore, per non dire poi con quelle inabili distorsioni del pensiero cavalcantiano che sono i commenti di Dino del Garbo e dello pseudo-Egidio alla sua Canzone d'Amore, o quanto dell'a. si dice nel Tractatus de summa felicitate humana (o Quaestio de felicitate) di Iacopo da Pistoia, nel quale al suo luogo si legge che la felicità " non consistit in amare... quia felicitas totaliter quietat appetitum. Sed amare, nisi habeatur res amata, non totaliter quietat appetitum, et eciam res amata videtur esse magis desiderata quam ipsum amare, et per consequens amare non est ultimus finis. Manifestum est igitur quod felicitas non consistit in ipso amare ".

Si noterà viceversa che, a differenza di Beatrice, la donna ‛ gentile ', almeno nel Convivio, non ha fattezze né consistenza corporea: essa è diventata per veloci gradi " quella bellissima di cui l'intelletto s'innamora ", e la sua figura fisica (che del resto neppure la Vita Nuova delineava) non si percepisce. D'altra parte, così avviene anche di tutto il ciarpame ‛ cortese ' che aveva sino allora circondato la donna: se qualcosa se ne salva è di ascendenza, di nuovo, guinizzelliana: di lei si dice che è colei ch'umilia ogni perverso (III Amor che ne la mente 71); che questa donna, col suo mirabile aspetto, la nostra fede aiuta (VII 16); che certe fiammelle che piovono da la sua biltade... rompono li vizii innati, cioè connaturali, a dare a intendere che la sua bellezza ha podestade in rinnovare natura in coloro che la mirano (VIII 20), e poche altre cose. Piuttosto, sarà interessante rilevare che D. proprio nel Convivio, e sia pure per inciso, avvia un discorso su l'amore universale che le cose dispone ad amare e ad essere amate (VIII 13) che, non sviluppato qui, dilagherà poi in termini propri nella Commedia.

Esso verrà ripreso fin dal Purgatorio, laddove l'a. si rivela ormai veramente quale il principio, indifferenziato in sé, della salvezza e della dannazione, a seconda dell'oggetto che assume, ma prima ancora si pone come la fondamentale forza motrice dell'attività umana, a norma, anche, di s. Tommaso, che in Sum. theol. I II 28 6 c affermava: " Omne agens, quodcumque sit, agit quamcumque actionem ex aliquo amore ", ripetendo una più concisa massima di Guglielmo di S. Thierry: " Quantum enim ad animum, amore movemur quocumque movemur " (Exp. in Cantica, c. I).

Un tale a., ovviamente, non è neppur più da lontano quello che ancora si rappresentava Francesca da Rimini; ma non è neppure quello di Rime CXI 9-11, del quale D., scrivendo a Cino, poteva ancora dire che nel cerchio de la sua palestra / liber arbitrio già mai non fu franco, / sì che consiglio invan vi si balestra, perché l'anima è anzi responsabilizzata di fronte a esso proprio in quanto munita di quel libero arbitrio, di quella libertà di scelta, della quale è suo dovere fare uso, non foss'altro per rifiutarlo e staccarsene quando l'amore è torto per malo obietto. Ancor più risulta ovvio che un'affermazione come quella ove si sostiene che Amore a nullo amato amar perdona (lf V 103), per quanto letterariamente diffusa (e risale in ultima istanza all'ovidiano " Omnia vincit Amor, et nos cedamus Amori "), non per questo conserva su un piano di discorso morale alcuna validità. Non meno irrecepibile senza attente riserve è ormai anche l'identificazione fra a. e nobiltà (né, se di nuovo si vuole, l'affermazione di Francesca che a. al cor gentil ratto s'apprende (v 100), o quella guinizzelliana cui s'è ispirata, che recita " Foco d'amore in gentil cor s'apprende "), perché a. può diventare addirittura il principio del disvalore, se è vero che esser convene / amor sementa in voi d'ogne virtute / e d'ogne operazion che merta pene (Pg XVII 103-105).

Il fatto è che il teorema dell'a. è diventato di una latitudine così ampia da abbracciare non solamente il principio stesso dell'attività umana, ma quello della sua stessa, globale, vita morale, dicevamo. Sarà allora un caso che se ne cominci a disquisire nel XVI canto del Purgatorio, che è il 50° dell'intero poema, il termine della prima sua metà, e più ancora e specificamente nel XVII, con il quale del poema si apre la seconda metà, e poi nel XVIII, quindi nei tre canti che si trovano nel centro esatto della seconda cantica (o addirittura dell'intero poema, ove si consideri il I canto come un'introduzione al resto)?

Nel XVI si comincia a parlare dello spontaneo desiderio dell'anima semplicetta che sa nulla per ciò che la trastulla (vv. 88, 90); nel XVII il discorso si riprende in tono maggiore (Né creator né creatura mai / ... fu sanza / amore, / o naturale o d'animo, vv. 91-93), con una distinzione di teologia morale fra amore naturale (che s. Tommaso separa da quello " intellectualis ", aggiungendo che non può trovarsi negli angeli perché " ea quae amant amore naturali, magis aguntur quam agunt. Nihil enim habet dominium suae naturae. Sed angeli non aguntur, sed agunt; cum sint liberi arbitrii ", Sum. theol. I 60 1 1, 2), e a. d'animo. Di essi il primo, per essere istintivo, è sempre sanza errore, mentre può contenere errore, e quindi implicare pena (o implicare premio nel caso opposto), il secondo; nel XVIII, su richiesta di D., Virgilio completa il discorso: se nel XVII si era parlato dell'a. soprattutto in quanto al mal si torce, adesso viene rivelato nel suo aspetto di principio di ogne buono operare (XVIII 15).

E non è ancora tutto, ma nel Purgatorio non se ne può parlare in termini anche più vasti, si direbbe, solo perché il maestro dell'Eneide riesce a dire a D. unicamente quanto ragion vede: tutto quel che coinvolge l'opra di fede è demandato a Beatrice.

La quale Beatrice, vinta dalla ‛ Donna gentile ' - Filosofia nel Convivio, la sopravanza di nuovo qui. Sarà difficile dire se la sua figura simbolica sia identificabile con la Rivelazione divina o con altra particolare e affine cosa, perché si tratta d'induzioni che peraltro non hanno il suffragio esplicito dei testi danteschi; ma è esplicito che essa compare nel punto in cui ha terminato la sua funzione Virgilio, la cui scienza si estende a tutto quanto ragion vede, cioè a tutta la ‛ natural filosofia '. Essa è al di là: è nella zona delle conoscenze metafisiche.

Non può avere senso unicamente letterale la terzina di Pd XXX 19-21 La bellezza ch'io vidi si trasmoda / non pur di là da noi, ma certo io credo / che solo il suo fattor tutta la goda. Eppure, quel che ci sorprende è che la riassunzione di Beatrice al suo ruolo viene rappresentata con risentimento fisico: quando la vede incedere sul carro trascinato dal grifone, prima ancora di ravvisarla, D. avverte che da lei promana ancora quella occulta virtù che non aveva più avvertita su di sé da quando essa era morta e che ancora gli fa, proprio fisicamente, d'antico amor sentir la gran potenza, tanto che prova il bisogno di dire a Virgilio non solo (con citazione di Aen. IV 23) conosco i segni de l'antica fiamma, ma, prima ancora, Men che dramma / di sangue m'è rimaso che non tremi (Pg XXX 39-40). Quella che viene qui riassunta al suo ruolo è veramente la Beatrice cantata nella Vita Nuova, anche se cresciuta enormemente d'altezza, come si renderà percepibile soprattutto nel Paradiso.

Prima di passare al quale, varrà comunque la pena di soppesare gli effetti della dilatazione qui subita dal concetto di a. in un campo finora non toccato, e precisamente nella sfera letteraria.

Quando, pur già riconosciuto da Bonagiunta (che infatti al suo riguardo mormorava non so che " Gentucca "), si sente da lui domandare (come gli capiterà poi con Cacciaguida, che pur gli legge già dentro riguardando in Dio) se egli è colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / ‛ Donne ch'avete intelletto d'amore ' (Pg XXIV 37, 49-51), cioè in sostanza si sente rivolgere un invito a dichiararsi il nuovo caposcuola di Firenze e della Toscana da quando ha scritto la prima delle sue canzoni di loda, D. elude quell'invito: avrebbe potuto cominciare la sua risposta, come Pier delle Vigne per esempio, con un metricamente possibilissimo ‛ I' son colui che... ', da cui sarebbe uscito sbalzato a tutto tondo; inizia invece con un l' mi son un che..., col quale tende a confondersi in mezzo a una pluralità di altri che si comportano come lui; ma è la pluralità di coloro pei quali l'esercizio poetico è un parlare di Amore (per l'equazione ‛ spirare ' = " parlare " cfr. Pd XXIV 82), del quale, come i notai (noto), trascrivono le parole allo stesso modo (a quel modo) con cui egli le ditta dentro a essi (ove sarà da notare anche l'opposizione tra il fore trasse proposto da Bonagiunta, tutto in evidenza tra fine e inizio di verso, e il ditta dentro con cui risponde D., opponendo intimità a esibizione), cioè col rispetto dell'unico modo, dell'unica maniera in cui è consentito di parlare a un personaggio quale Amore. Risulterà più evidente il pensiero dantesco se da un lato si ricorderà un passo di Cv III III 14 (li miei pensieri... sono parlare d'Amore...; son [an sì dolci] che la mia anima, cioè lo mio affetto, arde di potere ciò con la lingua narrare); dall'altro, quella che è la risultante dell'indagine stilistica condotta per tutto il secondo libro del De vulgari Eloquentia, e cioè che ad argomenti elevati si conviene un livello di canto elevato, e a quelli supremi un livello supremo, cioè la più alta possibile maniera di canto: - e come argomenti supremi aveva lì indicati i tre di Salus, Venus e Virtus, al primo dei quali (e vi si sente l'influenza della Rota Vergilii di Giovanni di Garlandia) appartengono le parole-concetto di salute, securtate, difesa, al secondo amore, donna, disio, al terzo vertute, donare, letitia. Ancor più: il più elevato modo di canto conviene a chi più in alto è per scienza e ingegno (optimae conceptiones non possunt esse nisi ubi scientia et ingenium est; ergo optima loquela non convenit nisi illis in quibus ingenium et scientia est, VE II I 8); e Amore è certo tale cosa, tale personaggio, ormai, che un suo discorso non può essere tenuto se non al più alto livello espressivo e linguistico.

Ora: quando D. risponde a Bonagiunta con le parole citate vuole intendere proprio tutto questo: il modo con cui Amore ditta, la ‛ maniera ', il registro su cui egli tiene il suo discorso, non può essere che quello supremo. Su quel registro si tengono dunque D. e gli altri poeti cui allude, e dei quali non si sente caposcuola: di fronte a essi le sue non sono (si direbbe) rime nove.

Di quel discorso si direbbe che Bonagiunta intende solo una parte: capisce che D. non è il solo a fare quella poesia; capisce anche che tanto il Notaro e Guittone quanto lui stesso sono rimasti al di qua di un nodo che non hanno saputo sciogliere; ma quando inizia la sua risposta proprio con un issa, lui che nel De vulgari Eloquentia era stato accusato con altri toscani di usare un linguaggio municipale, che come tale è per D. inidoneo al supremo registro di canto (e issa probabilmente gli risultava un municipalismo lucchese), egli sembra proprio dimostrare di non avere afferrato la sostanza di quel che D. diceva; quanto meno, di essere incapace per natura a tenersi (e il discorso ha valore retrospettivo) a un livello diverso da quello cui si tiene (e si è tenuto in vita).

È invece questo il modo che caratterizza quello che Bonagiunta denomina il dolce stile: un dolce stile nel quale il sostantivo a ogni modo va inteso in accezione strettamente tecnica, di tonalità o registro di canto (così esiste uno stile tragico, uno comico, uno elegiaco: VE II IV 5), e l'aggettivo come strettamente pertinente alla lirica (sono le parole di Amore, abbiamo veduto, che sonan sì dolci; e Alberico da Montecassino c'informa d'altro canto che " Dulcedinem... esse dicimus, si lectoris animum secundum rem de qua agimus impellimus ", così come Orazio aveva per suo conto raccomandato: " Non satis est pulchra esse poemata; dulcia sunto ", in Ars poet. 99). Si tratta di un dolce stile che potrà anche parere novo, cioè non prima esistito, al lucchese, ma in realtà era già stato proprio di tutta una schiera di poeti, che al livello desiderato avevano tenuto il loro registro di canto: di essi D. aveva offerto già, in VE II VI 6, un elenco che cominciava con Giraut de Bornelh e terminava col suo proprio nome, e che nel Purgatorio rimane implicitamente identico, col solo cambio del capofila (Arnaldo Daniello anziché quel di Lemosì, rispetto al quale, a una più attenta analisi, egli s'è rivelato miglior fabbro del parlar materno: XXVI 120, 117).

Eppure, il concetto di a. non ha raggiunto ancora, nel Purgatorio, il massimo della sua comprensività: la vera cantica dell'a. è il Paradiso. Basterebbe l'osservazione di un indice di frequenza: la parola a. ricorre nell'Inferno 19 volte (di cui ben 7 nel canto degli amanti malatestiani), nel Purgatorio 50, nel Paradiso 85: si tratta di un crescendo che, tenendo conto delle zone in cui si manifesta, fa già di per sé presagire un accentuarsi delle accezioni spirituali e mistiche del termine; e sarà naturale attendersi un reiterarsi del sintagma primo amore (presente già in If III 6) a indicare Dio. Il Paradiso è, si vuoi dire, la cantica nella quale il termine figura con tutte le accezioni della teologia razionale e di quella mistica, dell'esperienza terrestre e di quella ascetica, che personalmente per D. culmina nel suo finale inserimento nel moto stesso che, provocato dall'a. per Dio, sta all'origine della creazione e della vita dell'universo.

Il che non toglie che i suoi rapporti con Beatrice D. li rappresenti sovente negli stessi termini che aveva usati prima e durante l'esperienza culminata nella Vita Nuova; ma non si può vincere l'impressione che egli, in questa suprema sintesi, desideri recuperare al suo presente anche il più possibile di quel che, magari poeticamente, rappresenta ormai il suo passato; e così l'immagine di IV 139-141 (Beatrice mi guardò con li occhi pieni / di faville d'amor così divini, / che, vinta, mia virtute diè le reni) richiama una cavalcantiana battaglia fra madonna e gli ‛ spiritelli ' che ne escono sconfitti; ove di lei si ricordano i belli occhi / onde a pigliarmi fece Amor la corda (XXVII 12), l'allusione è alla corda dell'arco d'Amore, di cui le frecce sono gli sguardi della donna; e così via. Ma ecco il sovrasenso: Beatrice è anche non solo quella che 'mparadisa la mia mente (XXVIII 3; cioè ben più che la donna de la mia mente), ma addirittura la bella donna ch'al ciel t'avvalora (X 93): ove la nuova ipotesi di cui è portatrice è una sublimazione rispetto a quella del giovanile libello: il suo a. è adesso decisivo per la salvezza spirituale del poeta.

Del resto, siamo nel regno del primo amore, dell'amor che 'l ciel governa, dell'amor che s'intrea con il sire dei santi e con l'idea ch'egli genera amando, platonico (o neoplatonico) prototipo dell'universo, idea nella quale, legato con amore in un volume (XXXIII 86), sta tutto raccolto insieme ciò che per l'universo si squaderna (XXXIII 87); egli è lo primo e ineffabile Valore (X 3) che crea nello spazio fisico e nella dimensione concettuale tutto ciò che vi esiste, solo Guardando nel suo Figlio con l'Amore / che l'uno e l'altro etternalmente spira (X 1-2); egli è colui del quale (adesso aristotelicamente) D. può dire, pronunciando il suo atto di fede: Io credo in uno Dio / solo ed esterno, che tutto 'l ciel move, / non moto, con amore e con disio (XXIV 130-132).

In modo più legato all'ethos cristiano, Dio è l'a. che si era spento per l'uomo a causa del peccato originale, e si è poi racceso nel ventre di Maria (XXXIII 7) per assumervi natura umana accanto a quella divina, a operare la redenzione dell'umanità caduta; in un tempo idealmente precedente, è il creatore degli angeli, per generare i quali s'aperse in nuovi amor l'etterno amore (XXIX 18).

E un a. continuamente attivo, che nel Paradiso continuamente s'irradia: come divina charitas nei santi e come splendore di gioia nella loro figura; come appagamento eterno dei loro desideri e come letizia sempre viva per quell'appagamento: esso è talmente sostanza di santità, che con O dolce amor che di riso t'ammanti (XX 13) si ha l'impressione di poterci rivolgere equivocamente sia a ciascuno degli splendori che di fronte a D. compongono l'Aquila, sia a Dio, da cui quell'a. promana.

In questo Dio-a. si conclude dunque, come nel porto più sublime, l'esperienza di D. non solo come ‛ personaggio ' della Commedia, ma come guida spirituale di tutti coloro cui ha voluto mostrare un esemplare itinerarium di salvazione: come i santi del terzo cielo possono dire di sé: Noi ci volgiam coi principi celesti / d'un giro e d'un girare e d'una sete (VIII34-35), così D., superando anche il momento dell'esperienza mistico-conoscitiva grazie a cui nei tre anelli concentrici di luce che vede alla fine della sua ascesa per l'Empireo riesce a scorgere l'immagine stessa del volto divino, si sente veramente giunto al termine del suo spirituale itinerario quando la sua volontà e il suo desiderio vengono anch'essi presi e appagati nel giro stesso che muove l'universo, e finalmente si sente volgere, col sole e con le stelle, del loro stesso moto che ha la sua origine in colui che χινει ώζ ἐρώμενον̃ (Arist. Metaph. XII 7, 1072b 3); quando sente che già moveva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente è mossa, / l'amor che move il sole e l'altre stelle (XXXIII 143-145).

Bibl. - É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1953; G. Contini, D. come poeta e personaggio nella D.C., in " Approdo Letterario " (1958) 19-46; A. Del Monte, Purg. XXIV, 52-54, in Civiltà e poesia romanza, Bari 1958, 113 ss.; D. De Robertis, Il libro della " Vita Nuova ", Firenze 1961, 44 ss.; C. Vasoli, La filosofia medievale, Milano 1961; S. Pellegrini, Quando amor mi spira (Purg. XXIV, 52-63), in Saggi di Filologia italiana, Bari 1962, 113-124; S. Pellegrini, Intorno al vassallaggio d'amore nei primi trovatori, in Studi rolandiani e trobadorici, Bari 1964, 178-191; G. Contini, Un'interpretazione di D., in " Paragone " CLXXXVIII (1965) 3-42; B. Nardi, L'amore e i medici medievali, in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 238 ss.; G. Favati, Osservazioni sul " De vulg. Eloq. ", in " Annali Fac. di Lettere e Filos. e Magistero Univ. di Cagliari " XXIX (1961-65) 1966, 151-231; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967; M. Pazzaglia, il verso e l'arte della canzone nel " De vulgari Eloquentia ", ibid. 1967; M. Barbi, Introduzione a D.A., Il Convivio, a c. di G. Busnelli e G. Vandelli, II ediz., a c. di A.E. Quaglio, Firenze 1968; C. Singleton, Viaggio a Beatrice, trad. ital., Bologna 1968; A. Di Giovanni, La filosofia dell'amore nelle opere di D., Roma 1969.

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