Americanismo e antiamericanismo

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2006)

Americanismo e antiamericanismo

Tiziano Bonazzi

I termini americanismo e antiamericanismo vengono usati in campo politico-sociale per indicare le opposte reazioni provocate dall'influenza americana, la cosiddetta americanizzazione, nonché dall'azione politica, militare ed economica statunitense. Negli Stati Uniti essi sono entrati nel vocabolario politico corrente accanto ad altri tradizionali come American way of life e Land of the free, vicini ad americanismo, o un-American, il cui significato, però, è più radicale e intenso di quello di antiamericano, perché indica idee o azioni ritenute non solo pericolose, ma politicamente ripugnanti, come nel caso di quelle giudicate un-American durante il maccartismo. Vi sono, però, vari casi di uso del termine americanismo, di cui a fine Ottocento si servì, per es., Th. Roosevelt per proporre un fiero patriottismo che, per gli americani, poneva la fedeltà alla nazione al di sopra di quella al proprio Stato o regione di nascita e che chiedeva agli immigrati di abbandonare la fedeltà alla patria di origine per abbracciare gli ideali del Paese di adozione.

In Europa il termine americanismo si è diffuso nel Novecento, legato alla penetrazione di prodotti e stili di vita americani e alla crescente influenza degli Stati Uniti. Uno dei suoi primi e negativi usi lo troviamo nel mondo cattolico, con la condanna dell'americanismo da parte di papa Leone xiii nel 1899. In quell'anno, con l'enciclica Testem benevolentiae, il pontefice risolse il conflitto sorto nella Chiesa cattolica statunitense fra gli 'americanisti' che, influenzati dal protestantesimo progressista e dalla necessità di farsi accettare in una nazione di cultura protestante, ritenevano che negli Stati Uniti la Chiesa dovesse porre l'accento sulle opere di assistenza ed educative piuttosto che sull'ortodossia dottrinale, e chi sosteneva invece l'assoluta fedeltà a Roma come scopo primo dell'azione ecclesiale. Con la sua condanna Leone xiii isolò per lungo tempo il cattolicesimo americano dalla realtà in cui viveva e diede inizio a un mai spento atteggiamento di sospetto da parte della Chiesa nei confronti del materialismo e dell'individualismo statunitensi.

Una delle più coerenti e durature definizioni di americanismo è, però, quella legata ad Americanismo e fordismo (1950) di A. Gramsci; per l'autore l'americanismo, che trova nel fordismo la sua espressione, è un tipo di capitalismo capace di garantire il proprio dominio non solo con la violenza, ma anche con il consenso per l'assenza in America di sedimentazioni del passato e, in particolare, di quelle classi parassitarie che appesantiscono l'Europa. Se ciò non può modificare il giudizio di un marxista sul capitalismo, consente però a Gramsci di sottolineare la differenza fra i vecchi Stati europei, chiusi nei mercati nazionali e nelle loro gerarchie tradizionali, e gli Stati Uniti, capaci di gestire in forme nuove un industrialismo che si muove ormai al di là dell'orizzonte dello Stato-nazione.

Nel corso del Novecento il significato dei termini americanismo e antiamericanismo si è venuto ampliando al di là dell'adesione o meno a concrete politiche statunitensi, facendo acquisire una valenza ideologica agli Stati Uniti in quanto modello sociopolitico ed economico. È, tuttavia, singolare che a essere così usata non sia una teoria oppure un movimento politico, ma piuttosto una nazione, che nell'assurgere a modello finisce con il perdere i propri connotati storici e con il dar vita a un terzo termine, americanizzazione, l'ambiguità dei cui contenuti contribuisce a rendere ancor più lontano e astratto il riferimento empirico, vale a dire gli Stati Uniti d'America. Quanto appena detto spinge a identificare il contesto storico che ha portato alla trasformazione di uno Stato, gli Stati Uniti, in una nozione spesso usata in senso ideologico. Se l'Europa, che storicamente è un sistema di Stati del quale alcuni hanno di volta in volta costituito il centro, ha più volte sperimentato l'egemonia culturale, politica ed economica di alcuni di loro, che in tale ruolo hanno suscitato reazioni mimetiche o antagonistiche andate di pari passo con il disomogeneo espandersi dei processi di modernizzazione, il ruolo degli Stati Uniti è stato apparentemente diverso. Essi non si sono, infatti, mai sentiti parte del sistema Europa se non come protagonisti di un inveramento della storia europea, nel senso di una realizzazione della libertà che, ad avviso degli americani, in Europa era stata soltanto pensata. Altrettanto vero è che gli abitanti del Vecchio mondo hanno avuto un'estrema difficoltà a considerare gli Stati del continente americano, e quindi anche gli Stati Uniti, una parte dell'Europa, anche se fin dal Cinquecento hanno cercato nel Nuovo mondo una risposta a molte domande circa il loro futuro. Nulla più dell'opera di A. de Tocqueville riflette questa funzione intellettuale assegnata agli Stati Uniti; tanto da poter affermare che la sua opera dice di più sulla cultura politica, le speranze e i timori per l'Europa di un grande esponente del liberalismo europeo che non sugli Stati Uniti medesimi.

In questo complesso gioco di rimandi fra le due sponde dell'Atlantico la vittima è stata la percezione del fatto che gli Stati delle Americhe erano in realtà parte integrante di un sistema Europa che, prima con la colonizzazione dell'America, poi con il sorgere nel Nuovo mondo di Stati dominati dalla popolazione creola, si era ampliato fino a diventare una 'grande Europa' euroamericana. In particolare, gli Stati Uniti sono sempre stati parte del sistema economico atlantico, e quindi di quello europeo che lo aveva creato, così come del sistema degli equilibri politici europei: anche se, come Stato appartenente per tutto l'Ottocento alla periferia e non al centro del sistema, aveva interessi non correlati con gli scontri per l'egemonia fra le grandi potenze europee. Occorre inoltre riconoscere che il senso di estraneità e avversità all'Europa - o meglio a quell'astrazione che la cultura americana ha chiamato Europa -, su cui si è costruita l'identità nazionale statunitense, riproduce il canone dei nazionalismi europei sempre centrati su un nemico esterno da esorcizzare.

Cogliere il contesto storico entro il quale i termini in esame sono nati è un passaggio necessario per comprenderne il significato e la funzione, nonché il rapporto fra il ruolo di modello della modernità assegnato agli Stati Uniti e il timore-speranza di una diffusione di tale modello nel Vecchio mondo. È qui, infatti, il fulcro della loro crescente rilevanza, perché lo scontro sulla modernità all'interno dei Paesi europei, e di conseguenza le paure di destabilizzazione sociale e culturale, da un lato, e le speranze o le utopie da essa sollevate, dall'altro, ha trovato nel prepotente affacciarsi degli Stati Uniti non 'sulla scena europea', come normalmente si è soliti dire, ma al centro del sistema della 'grande Europa', di cui facevano già parte, un punto di riferimento generale.

Se per tutto l'Ottocento i giudizi europei sugli Stati Uniti furono contrastanti, ma si basavano su una visione a distanza, sul paragone cioè fra l'interpretazione della realtà statunitense e l'autopercezione degli Europei, a partire dal primo decennio del Novecento fu l'impatto diretto dell'America attraverso i suoi prodotti a cominciare a preoccupare. Una preoccupazione che si accrebbe negli anni Venti, quando la produzione e la società di massa americane, giunte a maturazione in quel decennio, s'imposero all'attenzione europea. Taylorismo, fordismo, grande distribuzione, pubblicità, tempo libero, nuove mode e nuovi balli, jazz, un ruolo più autonomo delle donne acquisirono improvvisa visibilità in Europa e subito vi insidiarono l'organizzazione dell'autorità e del consenso. In questo contesto la nascita dell'antiamericanismo espresse una reazione alla sfida della modernizzazione radicale proveniente dagli Stati Uniti; reazione che assunse spesso i toni di una condanna militante e globale.

Dal momento, però, che le società europee erano partecipi dello stesso moto di modernizzazione di quella statunitense, le reazioni alle novità d'oltreoceano non poterono che essere ambivalenti. I metodi industriali innovativi, l'efficienza tecnologica, i rapidi progressi in campo scientifico, il benessere diffuso rispetto agli standard europei non potevano non attirare un'attenzione ammirata.

La modernità industriale e scientifica americana veniva quindi presa come esempio e suscitava quasi ovunque una spinta a imitarla, spesso estrapolandola, però, dal contesto della realtà americana e in particolare dai costumi, dalla vita sociale e culturale, da un tipo di civiltà che invece suscitava dubbi e veniva spesso respinto per il suo supposto materialismo, la sua grossolanità e lo sradicamento dalla tradizione. Ciò avveniva anche in ambienti in cui si apprezzavano la libertà e la democrazia americana e che, dopo il 1929, ammirarono il modo in cui gli Stati Uniti di F.D. Roosevelt riuscirono a salvarsi dalla crisi senza cedere a tentazioni autoritarie. I democratici e le democrazie europee si ritenevano, quindi, minacciati non dalla modernità economica statunitense, che sentivano come una forma più avanzata della propria; ma dalla radicale modernità socioculturale d'oltreoceano, che metteva in pericolo la volontà europea di far scaturire la modernità non tanto da una cesura quanto da una trasformazione del passato. La presenza, inoltre, di forti teorie politiche e movimenti antidemocratici e tradizionalisti dava vita in Europa a un altro tipo di antiamericanismo, esemplificato dalla destra radicale francese o dalla 'rivoluzione conservatrice' tedesca o dal tradizionalismo cattolico, che vedevano negli Stati Uniti un'anticiviltà, barbara e negatrice della sostanza spirituale dell'uomo.

Nell'Italia degli anni fra le due guerre mondiali si sviluppò una dinamica del tutto simile, che agì trasversalmente, a destra e a sinistra, sul fascismo e sull'antifascismo. Un'ambivalenza particolarmente accentuata nel caso del fascismo, già di per sé diviso fra spinte modernizzanti e tradizionaliste. Se, quindi, da un lato era forte l'ammirazione per il sistema economico americano e per la produzione di massa, capaci di assicurare benessere alla popolazione, nonché per l'energia, la giovinezza e la coesione sociale garantita nonostante la complessità del Paese, dall'altro si criticava l'assenza nello Stato americano di finalità etico-politiche. Da qui si scivolava verso posizioni più estreme, fondate sull'inferiorità di una civiltà come quella americana giudicata materialista, massificante, disumana e ipocrita nella sua supposta democraticità ovvero, alla fine degli anni Trenta, sull'opposizione oro-sangue. Il fascismo non si metteva, però, solo a confronto con l'americanismo, ma anche con il bolscevismo, nei riguardi del quale nutriva un analogo sentimento di ambiguità, perché anche il bolscevismo veniva ammirato per le sue capacità di modernizzazione economica e condannato per la falsità delle sue idee. Il fascismo cercava di proporsi come terza via fra i due grandi modelli antagonisti; ma le sue ambiguità nei confronti di entrambi, e soprattutto degli Stati Uniti, e l'astratta pretesa di scindere civiltà spirituale e materiale per esaltare la prima ne fanno un esempio di come l'ansia rispetto alla modernizzazione e l'incapacità di gestirla abbiano ideologizzato sia l'americanismo sia l'antiamericanismo fascisti.

Se un tale atteggiamento fu particolarmente accentuato nel fascismo e sintomo della sua debolezza, non si può negare che non fu il fascismo a inventarlo, in quanto esso partecipò del vasto sospetto nei confronti dell'americanizzazione. Un sospetto basato sugli elementi già descritti e coniugato in ogni Paese europeo in modi diversi, per es. in Germania dalla cultura nativista-conservatrice, ostile alla modernizzazione, di cui si fece interprete anche M. Heidegger con la sua critica alla cultura livellatrice e massificatrice degli Stati Uniti, o in Francia da autori come L.-F. Céline o come i caricaturisti tradizionalisti e antisemiti che chiamavano l'America Uncle Shylock invece di Uncle Sam. Non occorre, tuttavia, spostarsi verso l'estrema destra per cogliere gli elementi di un meravigliato sgomento davanti alla modernità eccessiva, travolgente e volgare, imputata agli Stati Uniti. Se oltreoceano lo stereotipo dell'Europa schiacciata dalle proprie contraddizioni e da una tradizione soffocante veniva indicato come la necessaria madre di tutto ciò che nel Novecento costituiva un pericolo per gli Stati Uniti - dal militarismo prussiano, al marxismo, ai fascismi, all'instabilità sociopolitica, alla mancanza di libertà e all'endemica povertà di tanti suoi abitanti -, nei Paesi europei l'America era usata, anche negli ambienti democratici, come stereotipo negativo per difendere costruzioni identitarie radicate tanto nella storia quanto nelle tradizioni culturali nazionali.

Non si può non aggiungere che gran parte di questi dibattiti avvenivano a livello di élite e filtravano fino alle masse soprattutto per il tramite delle ideologie e avevano quindi un effetto maggiore nei Paesi e fra le classi in cui queste ultime erano più diffuse. I prodotti della cultura e della produzione di massa americane, invece, venivano normalmente ben accolti dalle popolazioni e contribuivano a creare immagini positive degli Stati Uniti. Un fenomeno al quale non bisogna dare significati reconditi, perché riflette il fatto che la modernizzazione comune alle due sponde dell'Atlantico e che su entrambe spingeva all'inclusione delle masse in una società di tipo nuovo, che nel consumo di prodotti industriali materiali e culturali aveva il suo primo fattore di consenso sociale e nell'efficienza produttiva il suo strumento, trovava oltreoceano la sua realizzazione più avanzata. L'intreccio di reazioni positive e negative a quello che già era percepito come un modello subì un'ulteriore trasformazione dopo la Seconda guerra mondiale. Con gli accordi economici di Bretton Woods (1944) e con la creazione delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti immaginarono fin dagli anni di guerra un ordine mondiale postbellico costruito attorno ai loro ideali e necessità; poi, scoppiata la guerra fredda, iniziarono una cosciente proiezione della propria potenza all'esterno che li rese egemoni in Europa occidentale, nel quadro di una visione globale della propria sicurezza. Si aprì così un nuovo capitolo nelle complesse relazioni euroamericane. I processi di americanizzazione accelerarono fortemente in quanto non esistevano modelli di modernizzazione alternativi a quello della società del benessere di matrice americana e perché in quella direzione spingevano le politiche economiche statunitensi nei confronti degli Stati europei.

Tali processi, però, venivano letti nella chiave dello scontro ideologico fra Est e Ovest e, quindi, o nell'ottica della libertà occidentale da difendere, o della democrazia borghese e capitalista da combattere. Comprensibili, dunque, l'antiamericanismo della sinistra socialcomunista in Italia e, per es., la violenta campagna antiamericana dei Partigiani della pace contro l'adesione italiana al Patto atlantico, ovvero, al contrario, la fedeltà atlantica della Democrazia cristiana; posizioni che la guerra in Vietnam radicalizzò e che la distensione degli anni Settanta indebolì senza farle scomparire.

Al di sotto delle prese di posizione politiche e del ruolo ideologicamente assegnato agli Stati Uniti, la situazione era, però, più complessa e sotto vari aspetti addirittura capovolta. In campo cattolico gran parte della gerarchia continuava a giudicare, infatti, in modo fortemente negativo l'individualismo e il 'macchinismo' materialista americani, considerati figli del protestantesimo e corruttori in quanto portatori di novità moralmente pericolose; mentre la sinistra cattolica nutriva una profonda diffidenza per la libertà di mercato e la società di massa esemplificate dagli Stati Uniti. Nella sinistra comunista, invece, al di là della distinzione di natura ideologica fra governo e popolo americani, continuò a sussistere la simpatia per gli aspetti della cultura d'oltreoceano, dalla letteratura al jazz, che avevano nutrito l'antifascismo. Negli anni Sessanta si aggiunse la scoperta di un'America d'opposizione e alternativa, le cui idee, dal femminismo al nazionalismo nero alla controcultura, accompagnarono la crescente attenzione dei comunisti nei confronti dei diritti e dei nuovi bisogni, nonché la fascinazione dei movimenti e di vari gruppi extraparlamentari di sinistra per la tradizione popolare e antiestablishment del radicalismo americano.

Se, quindi, le contrapposizioni ideologiche e le fedeltà politiche generate dalla guerra fredda condizionarono più che in passato gli atteggiamenti verso gli Stati Uniti e se l'ormai sovrastante presenza americana in Italia e in Europa occidentale provocò reazioni che non potevano essere indipendenti dalla realtà delle relazioni internazionali, il quadro era complesso e articolato. Ciò va spiegato nell'ambito di un fenomeno ben studiato, vale a dire del fatto che l'americanizzazione delle società europee, accelerata e resa inevitabile dall'egemonia americana nel dopoguerra, non è consistita nella semplice trasposizione del 'modello americano' o di sue parti ed elementi; bensì in un processo assai più intricato e originale.

Nell'ambito di una comune modernizzazione sviluppatasi sulle due sponde dell'Atlantico fin dall'Ottocento, la penetrazione di elementi della specifica modernizzazione americana non è mai stata passiva recezione - come non lo è stata nei casi di altri Paesi in precedenza al centro del sistema Europa - e anche quando, nel dopoguerra, è diventata un fenomeno imponente non è mai diventata tale. Si è piuttosto trattato di un processo di 'meticciaggio' e di reinvenzione delle novità americane. Un processo, per di più, gestito in modi diversi non solo dalle singole culture nazionali, ma dalle subculture sociali, regionali, religiose presenti nei vari Paesi. Se, quindi, l'americanizzazione è entrata di prepotenza nell'orizzonte europeo della seconda metà del 20° sec. provocando gli opposti, ma intrecciati fenomeni dell'a. e a., ha stimolato più l'innovazione culturale e sociale che l'omologazione a un modello estraneo.

Ciò è avvenuto anche nel principale caso di resistenza all'americanizzazione, quello della Francia. Un caso che può essere spiegato con la natura stessa della cultura francese, universalista al pari di quella americana, e perciò più sensibile di altre al timore di una penetrazione di forze esterne che si ritiene possano impedirne il compito di civilizzazione; nonché con il fatto che la Francia, nazione ufficialmente vincitrice della Seconda guerra mondiale, non ha mai accettato la subordinazione agli Stati Uniti nell'ordine internazionale della guerra fredda. Non per nulla proprio in Francia il timore dell'omologazione alla cultura americana e, conseguentemente, della morte della cultura nazionale è stato vissuto con più intensità e ha attraversato con particolare violenza sia la sinistra, da intellettuali quali J.-P. Sartre alla classe politica comunista, sia la destra gollista, unite nell'assegnare alla Francia il ruolo di fare dell'Europa un contrappeso alla potenza e all'influenza americane nel mondo.

Terminata la guerra fredda, il senso strutturale dei due termini non è rimasto immutato, anche se non primariamente per le conseguenze politiche del ruolo di unica superpotenza mondiale degli Stati Uniti. Dai primi anni Novanta è stato il fenomeno della globalizzazione, interpretata oltreoceano come un processo pacifico che avrebbe aiutato tutti i Paesi ad avanzare verso la prosperità e la democrazia, a conquistare il centro dell'attenzione. La presidenza Clinton mosse decisamente su questo binario, dando la precedenza all'integrazione economica sulla ricostruzione politica dell'ordine internazionale; ma non ottenne i risultati sperati per le crisi economiche scoppiate in Asia e in America Latina, mentre si manifestava una crescente opposizione alla globalizzazione medesima, che da un lato faceva ancora una volta leva, come successe in Francia, ma non solo, sul timore di una forzosa omologazione al modello di civiltà americana, dall'altro nasceva da un composito movimento no global che si rivelò con i moti di piazza contro la riunione del WTO (World Trade Organization) a Seattle, nel 1999. L'antiamericanismo no global contiene aspetti che lo rimandano a una forma aggiornata di ideologia anticapitalista; ma nel suo proporre il tema delle nuove gerarchie mondiali risponde a spinte non più interne al sistema occidentale. Americanismo, antiamericanismo, americanizzazione sono stati applicati dai primi anni del Novecento a dinamiche tipiche della 'grande Europa'; ma la globalizzazione ha attivato attori politici e realtà culturali esterni al sistema e al modello di civiltà grande-europeo. Questo essenziale aspetto della realtà contemporanea si è manifestato a pieno con lalle torri gemelle del 2001, che ha portato alla ribalta una forma di antiamericanismo esterno alla 'grande Europa' e che a quest'ultima, rappresentata dagli Stati Uniti, si oppone frontalmente.

Contrariamente ai movimenti anticoloniali del Novecento, in cui la libertà politica era spesso coniugata a una spinta verso l'occidentalizzazione e che in ogni caso non possedevano la forza per opporsi frontalmente alla dominante cultura eurocentrica, ldell'Islam radicale è il portato di una cultura non occidentale a cui la globalizzazione ha dato voce e potere. Se a ciò aggiungiamo la turbinosa crescita economica e politica di stati esterni all'Occidente come la Cina e l'India, dobbiamo concludere che la globalizzazione ha posto definitivamente fine al dominio dell'eurocentrismo, di cui la guerra fredda è stata l'ultima manifestazione politica e ideologica. Se, quindi, a. e a. sono stati a lungo termini della dialettica fra i diversi modelli della modernizzazione occidentale, la vittoria di quello liberaldemocratico e capitalista egemonizzato dagli Stati Uniti ha portato a un improvviso cambio di scenario; non solo il modello sovietico è stato travolto, ma il modello vincitore ha provocato conseguenze impreviste che gli creano alternative culturali e di potenza il cui significato è ancora lungi dal poter essere decifrato. Il contenuto ideologico di a. e a. si è in ogni caso rafforzato, perché essi vengono ora usati dai nuovi attori mondiali come simbolo di uno scontro in cui la realtà empirica del referente Stati Uniti è assai più lontana ed estranea di quanto non fosse nel sistema Europa. In questo senso sono diventati più astratti e, quindi, più pericolosi.

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