VIVARINI, Alvise

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 100 (2020)

VIVARINI, Alvise

Gianmarco Russo

VIVARINI, Alvise. – Sebbene non si conoscano con esattezza le date di nascita e morte di questo pittore, terzo e ultimo componente di spicco della famiglia Vivarini, la sua attività può collocarsi tra gli ultimi trentacinque anni del Quattrocento e il primo lustro del secolo successivo. Fu figlio di Antonio (v. la voce in questo Dizionario) e di Antonia.

Le più antiche attestazioni di Vivarelli rimontano rispettivamente al 4 novembre 1457 e al 15 settembre 1458 (Ludwig, 1905, p. 14), quando, dalla parrocchia di S. Maria Formosa, la madre Antonia sottoscrisse due testamenti dai quali si apprendono, innanzitutto, i nomi della sorella e del fratello del pittore (Elena e Michele). Ciò che restava della dote di Antonia sarebbe stato dapprima custodito dal marito sino a quando la figlia femmina non avesse contratto matrimonio e i figli maschi compiuto il ventiduesimo anno di età. Per poter riscuotere quanto spettava loro, essi sarebbero dovuti rimanere sotto la tutela del padre: dato, questo, che rafforza per il giovane Alvise l’idea di un esordio strettamente antoniesco. Nel suo ultimo testamento, inoltre, Antonia specificò l’ammontare della dote, allora di duecento ducati d’oro, prescrivendo che, in caso di morte di uno dei tre figli «ante etatem legitimam» (ibid.), la restante parte venisse divisa fra quelli ancora in vita. Dunque, nel 1458, Alvise non aveva ancora raggiunto la maggiore età. Benché a Venezia la definizione della soglia minima di anni a compimento dei quali era possibile autodeterminarsi legalmente fosse tanto mobile da poter esser individuata dalla famiglia stessa, il fatto che Antonia non avesse specificato gli anni necessari a partecipare dell’eredità suggerisce di calcolare il limite previsto su quello dell’antica legislazione degli Statuti veneti di Jacopo Tiepolo (1242), che fissavano la maggiore età al dodicesimo anno. Con ogni probabilità, quindi, Alvise nacque dopo il 1446. Tale terminus a quo sarebbe confermato non solo dall’assicurazione dotale di Antonia del 4 febbraio 1446 (pp. 13 s.), ma anche da un più antico testamento che la donna avrebbe sottoscritto nello stesso anno dicendosi già madre di Michele e incinta di un secondo figlio (Buonocore, 2008, p. 335, riferisce la testimonianza, ma con una segnatura cui non sembra corrispondere, a un controllo, alcun documento).

Dopo un fulminante avvio sotto l’ala del padre Antonio e un incerto tirocinio all’ombra dello zio Bartolomeo (v. la voce in questo Dizionario), Alvise seppe introdurre nelle pratiche di bottega della tradizione vivariniana motivi discordi, via via calibrati lungo lo sviluppo estesissimo della pittura settentrionale. Dai dialoghi fra Giovanni Bellini e Andrea Mantegna, passando per il secondo soggiorno lagunare di Marco Zoppo e l’arrivo di Antonello da Messina, sino alle diverse vie classiciste di Cima da Conegliano, di Perugino e dei lombardi, nel suo percorso egli incrociò esperienze capitali, senza sottrarsi a un vasto raggio d’azione, comprendente l’entroterra veneto, il centro e il Sud Italia.

Si hanno notizie del pittore a partire dal 1476. A questo momento risale la sua prima opera firmata e datata, dove le figure si liberano d’ogni impaccio bartolomeesco in nome di imprevedibili ritmi scaleni e iridescenti velature cromatiche, tra Bellini, Zoppo e, forse, già Antonello: è il pentittico per la cappella dei conti Oliva nel convento dei minori osservanti di Montefiorentino (oggi alla Galleria nazionale delle Marche), sulla cui tavola centrale si legge «1476 LVDOVICVS VIVARINVS MVRIANENSIS P[INXIT]» (Zampetti, 1950, p. 131). Il 24 marzo, invece, il nome del maestro compare nell’ordinario delle successioni dei confratelli entrati a far parte della Scuola grande della Carità in luogo di quelli morti o cacciati per inadempimento del loro ufficio. A causa di questo stesso motivo, Vivarini fu espulso il 9 dicembre 1487 (Ludwig, 1905, pp. 19 s.).

Dalla correzione di una notizia di Leopoldo Cicognara, che nella proposta di vendita della raccolta bellunese di Marino Pagani all’Accademia di Venezia leggeva «1418 ALVIXE VIVARINI DE MURAH P[INXIT]» sulla perduta carpenteria del polittico oggi al Bode Museum (Steer, 1982, pp. 90 s.), si ricava, poi, un altro punto fermo della carriera del pittore: il 1478 di quello stesso insieme, proveniente dal convento francescano di S. Spirito a Feltre (Lucco, 1990a, p. 574), con la grande cimasa iniziata, nella sua ultimissima fase, dal padre Antonio.

Aperti da una pala cruciale come la Sacra conversazione già in S. Francesco a Treviso (su cui scorre l’iscrizione «ALVVIXE VIVA/RIN P[INXIT] MCCCCLXXX») e segnati da pochi altri dipinti firmati e datati, gli anni Ottanta di Vivarini contano, sul versante documentario, la registrazione all’interno di un testamento dell’epoca; la partecipazione al battesimo del figlio di un collega pittore; e la sottoscrizione di un testo d’allogazione della massima importanza. Innanzitutto, il 24 aprile 1484, da una certa Cristina del fu Simone di Ludovico, il pittore ricevette mezza parte di eredità della donna (Ludwig, 1905, p. 20). In secondo luogo, il 1° dicembre 1489, a Treviso, fece da padrino al piccolo Francesco di Girolamo Strazzaroli d’Aviano (Nepi Scirè, 1973, p. 36), indizio, questo, se non di una profonda amicizia, almeno di una vicinanza fra i due maestri, altresì suggerita dall’allineamento di Strazzaroli, nella grande tavola per il castello di S. Salvatore a Susegana (Treviso), proprietà dei Collalto, del 1494 (oggi all’Accademia), al formato di pala quadra a campo unico antonellesco statuito da Vivarini con l’altare trevigiano. Infine, nel luglio del 1488, Alvise sottoscrisse una lettera, indirizzata al doge e alla Serenissima Signoria, per offrire al grandioso cantiere di palazzo ducale, dove intanto si facevano strada Giovanni e Gentile Bellini, un telero da realizzare «senza alcun premio» se non quello di «demostrar qualche operation del’exercitio [...] de la pintura» (Lorenzi, 1868, doc. 221). L’istanza fu accolta il 28 luglio (ibid.). Così, il 24 maggio 1492, con un giorno di anticipo su Giovanni Bellini, Vivarini iniziò a lavorare nella sala del Maggior Consiglio per cinque ducati al mese (ibid., doc. 239). Da un incarico belliniano datato 28 settembre 1507 (ibid., doc. 296), quando Vivarini era già morto, e da una pagina delle Vite di Giorgio Vasari (1568, 19713), si apprende che il pittore aveva dato avvio a due teleri, ma non gli riuscì di portarne a termine l’esecuzione, né di mettere mano al terzo dipinto della serie. La descrizione vasariana e, in parte minore, la testimonianza di Carlo Ridolfi (1648) forniscono indicazioni sull’iconografia dei quadri – che inscenavano episodi della guerra tra papa Alessandro III e l’imperatore Federico Barbarossa –, senza tacere dei caratteri stilistici portanti della pittura di historia del maestro, dall’intensificazione prospettica dello spazio architettonico alla sottigliezza naturalistica dei personaggi ritratti. I lavori lasciati incompleti sarebbero stati ultimati da Giovanni Bellini, con l’aiuto di Carpaccio e di Vittore Belliniano.

Non fu la prima volta che Vivarini si cimentò in una pittura monumentale e di racconto. Secondo le fonti antiche, dalla letteratura artistica locale (ibid.; Boschini, 1674, Cannaregio, p. 45; Zanetti, 1771, pp. 13 s.) sino alla Storia pittorica di Luigi Lanzi (1796, p. 13), egli lavorò per la Scuola Piccola di S. Girolamo a Cannaregio, accanto a Lazzaro Bastiani, a Giovanni Bellini e al padre Antonio (Russo, in corso di stampa a). Alvise vi dipinse, nella sala del capitolo, il primo telero a sinistra raffigurante S. Girolamo che conduce il leone in convento; la parte di fregio fitomorfo sovrastante il dipinto; e, con buona pace di John Steer (1982, pp. 195 s., che spende, invece, il nome di Pier Maria Pennacchi), un tondo con l’Eterno nel soffitto, unica parte sopravvissuta – assieme ai pezzi bastianeschi – dell’intero ciclo e oggi all’Accademia. La consanguineità fra questa e altre opere alvisiane immediatamente precedenti la pala del 1480, da una parte, e la datazione dei dipinti di Lazzaro agli inizi del nono decennio, dall’altra, suggeriscono per l’intervento vivariniano alla Scuola di S. Girolamo una cronologia simile, a una quindicina d’anni di distanza dal 1464 letto dalle fonti su uno dei teleri belliniani, e ora desunto per via stilistica dalle tavole superstiti del polittico di Antonio (Russo, in corso di stampa a e b).

Mentre si preparava a varcare la soglia di palazzo ducale, il 5 marzo 1491 Alvise, in compagnia del medicus physicus veneziano Benedetto Redaldo e dell’umanista fiorentino Alessandro Strozzi (nipote di Palla), fece da esecutore testamentario al celebre incisore di gemme ferrarese, protetto da Isabella d’Este, Francesco Anichino (Ludwig, 1905, p. 20); il 4 dicembre 1492, invece, firmò in qualità di testimone l’atto di una donazione di Alvise Brevio (ibid., p. 21), futuro benefattore dell’Arca del Santo a Padova. Alla metà del decennio cade il primo incarico in S. Giovanni in Bragora: il 9 aprile 1494, a Vivarini fu pagato infatti un Cristo benedicente, ancora in loco, che costituiva la parte terminale di un altare-reliquiario «assai ricco» (Sansovino, 1581, c. 9v) dedicato a S. Giovanni Elemosinario. Allo stesso complesso appartenevano, innanzitutto, un antependium dipinto da Girolamo Pennacchi e, dello stesso pittore trevigiano, sopra la mensa, una predella alla base del campo principale dell’opera. Era, quest’ultimo, un pannello ligneo a bassorilievo (tutt’ora nella chiesa veneziana), intagliato da «Lardo Todesco», e colorito e dorato da Leonardo Boldrini. Esso fungeva da «portela» di un’urna contenente le spoglie mortali del santo, con la figura distesa dell’antico patriarca d’Alessandria. Il tutto era inquadrato, infine, da una cornice di Alessandro da Caravaggio con colonnette «de zoto» e angeli «de sopra» (Paoletti - Ludwig, 1899, pp. 270 s.). Sulla traccia della cimasa di questo altare, più tardi, Vivarini creò un Cristo benedicente destinato alla devozione privata (già Londra, Robilant+ Voena), poi copiato da uno dei suoi più fedeli allievi, Jacopo da Valenza. L’aggiunta della mano sinistra con il piccolo vessillo della croce permise a Vivarini di complicare il tema prospettico di vecchia memoria antonellesca, mentre il colore si addensava in ombre delicate e lustri lattescenti già indirizzati verso il Ritratto virile della National Gallery di Londra, firmato e datato 1497 o, ancora, verso le parti di sua competenza nella pala per l’altare della Scuola dei milanesi ai Frari (per cui cfr. Momesso, 1997, pp. 28 s.). In questo stesso giro d’anni si collocano il Cristo benedicente oggi a Brera, dove si leggono il nome del pittore e l’anno 1498, e il Risorto per il SS. Sacramento di S. Giovanni in Bragora, dove spira un’aria già cinquecentesca. L’opera faceva parte dell’altare per il pilastro d’accesso al presbiterio a cornu Evangelii, commissionato il 27 maggio 1494 e portato a termine entro il 4 aprile 1498. Qui Vivarini collaborò nuovamente con Alessandro da Caravaggio, autore della carpenteria, della cornice e del baldacchino di legno entro cui fu incastrato il tabernacolo contenente l’eucarestia (Paoletti - Ludwig, 1899, p. 272). Quasi a testimonianza dell’abbrivio classicista del linguaggio alvisiano, tre anni dopo quel fatidico 1498 scorto da Marco Boschini (1674, Castello, p. 21) sul cartiglio oggi illeggibile del Risorto, Cima da Conegliano fu incaricato di lavorare a un dipinto con Costantino e s. Elena (tutt’ora alla Bragora) per l’altare dedicato, a cornu Epistolae, alla Vera Croce (Humfrey, 1980, pp. 360-362).

Nel 1500 Vivarini datò e firmò la sua opera più complessa, la Sacra conversazione del Musée de Picardie ad Amiens, imperiosa di spazio nel girotondo erratico di Madonna e santi attorno al Bambino. Il 6 agosto 1501 s’impegnò a realizzare, per cento ducati, un perduto stendardo per la Scuola Grande di San Marco (Ludwig, 1905, pp. 21 s.). Il 17 luglio dell’anno successivo, infine, pattuì con la Scuola dei battuti di Noale, e di nuovo in compagnia di Alessandro da Caravaggio, la realizzazione di un polittico in sei scomparti, dei quali sopravvive oggi solo la sciupatissima Assunzione della Vergine del campo centrale. Il saldo finale dell’opera, ultima attestazione del pittore in vita, risale al 27 novembre 1504 (Simi de Burgis, 1998, p. 132). Del 14 novembre 1505 e del 17 luglio 1506, quando Vivarini era ormai morto, sono due documenti che informano di alcuni debiti contratti con il defunto Angelo Morosini, per il quale il maestro aveva realizzato diversi «lavori» sino al 6 settembre 1503 (Ludwig, 1905, pp. 22 s.). La contesa ebbe luogo tra gli eredi delle due parti, ovvero tra Federico Morosini, figlio di Angelo, e Giovanni Alvise Vivarini, figlio di Bartolomeo e nipote di Alvise – ma Alvise ebbe anche una figlia di nome Armenia, acclamata autrice di vetri (Paoletti, 1929, pp. 87 s.). Se il maestro era ancora in vita il 17 novembre 1504, la sua morte può essere collocata fra tale data e quella della prima carta Morosini. D’altra parte, l’anno 1504 è tutt’ora leggibile sulla commovente Madonna con il Bambino e quattro sante all’Ermitage di San Pietroburgo (Stcherbacheva, 1936), in cui solo Alvise poté rispolverare sue precedenti tracce compositive – dalla Vergine ex Piovene a quella già Goudstikker – padroneggiando rimandi diversissimi, culminanti in Giovanni Antonio Boltraffio.

Se dal 1476 al 1504, attorno ai punti fermi dell’attività documentata del maestro, vengono inserite altre opere di indiscussa paternità vivariniana, il catalogo maturo di Alvise si costruisce, salvo qualche distinguo, senza troppe aporie. Più difficoltoso risulta invece rintracciare le tappe di un suo sviluppo stilistico prima del pentittico di Montefiorentino. Un rinforzo proviene dall’Arco di Nicolò Tron oggi all’Accademia di Venezia (Longhi, 1969, 1978, p. 160): tabula gratulatoria con ogni probabilità offerta – secondo la successione degli stemmi esibiti dai tre putti in primo piano e delle iniziali ai loro piedi – da Pietro Corner, Nicolò Vitturi e Antonio Venier in occasione dell’elezione del doge Tron, in carica dal 23 novembre 1471 al 28 luglio 1473 (Buonocore, 2011a, p. 84). Più che l’ultimo fiore di un linguaggio patavineggiante, invero rievocato solo in superficie, l’opera costituisce uno dei primi esempi della predilezione di Alvise per la cultura prospettica, dispiegata, con un respiro inedito per la bottega vivariniana, nelle geometrie dibattute, nel plasticismo risentito, nel colore trasparente ma metricamente scalato, nel rapporto misuratissimo fra elementi architettonici e sfondati paesaggistici.

Seguendo a ritroso il curricolo giovanile di Vivarini, è possibile individuare opere che, prima del 1471, mostrano la lenta emancipazione dell’artista dalla tutela paterna. Quando non doveva avere che vent’anni, egli si confrontò infatti con tipologie assai care ad Antonio, illuminandone i costrutti sintattici e gli accordi cromatici di un più fulgido sguardo naturalistico: se ad Alvise va senza mezzi termini riconosciuto il paliotto già composto della Natività oggi al Museo Lia della Spezia (di contro all’eccessiva prudenza di De Marchi, 1997, p. 51, e di Fossaluzza, 2012, p. 81), l’attribuzione longhiana del paesaggio alle spalle della Madonna adorante il Bambino alla Galleria nazionale di Praga (Longhi, 1969, 1978, p. 160) può forse estendersi all’intero trittico, più tardi ricomposto, troppo generosamente, sotto il nome di Quirizio da Murano. Il confronto fra la smorfia plastica delle Sante, in particolare Caterina, e la nitida scrittura dei Santi, specie Ludovico di Tolosa, provenienti da uno smembrato polittico ricostruito da Federico Zeri (1975, 1988, pp. 171 s.; 1976, 1988, pp. 175 s.), indica, se non un’aggiunta al catalogo giovanile del pittore, almeno l’affioramento di una latente tendenza alvisiana entro il raggio operativo di Antonio (e Bartolomeo) Vivarini.

Con una grassezza della materia presto stemperata in passaggi velati ma pur sempre vibranti, e con un’attenzione per la linea mai slegata da intenti volumetrici, il giovane maestro reinterpretò vecchi prototipi antonieschi anche nell’Imago pietatis già in S. Giobbe a Venezia (Lucco, 1990b, p. 436) – realizzata, a ruota dei due interventi degli esordi, tenendo d’occhio qualche cimasa dell’anziano padre – e nell’Assunta ex D’Atri (Zeri, 1976, 1988), già prossima all’Arco Tron. In mezzo a questi dipinti, all’incirca tra il 1468 e il 1471, andranno collocati altri pezzi in cui è preponderante la fonte belliniana non senza una naturale interpunzione mantegnesca: la Crocifissione del Poldi Pezzoli, il S. Girolamo penitente dell’Accademia Carrara e i Tre santi nello stesso museo bergamasco (per i quali cfr. Conti, 1987, p. 280, e Lucco, 1990b, p. 436).

Da qui, Vivarini continuò a sciogliere le antiche pose imbambolate dei santi di Antonio e la dura materia lapidea della plastica di Bartolomeo sotto i colpi della luce e del colore di Bellini. Tra l’Arco Tron del 1471 circa e l’altare di Montefiorentino del 1476, egli si mostrò sempre indeciso su quale componente privilegiare: dopo la tela dell’Accademia, la Madonna già Strauss al Museum of fine arts di Houston (De Marchi, 2014, p. 82) e un’Allegoria pagana in collezione privata parigina (Bellosi, 2008, pp. 133 s.) si distinguono per una speditezza di segno tutta belliniana; mentre un S. Bernardino di ubicazione sconosciuta (De Marchi, 1987) mostra Vivarini alle prese con le ingombranti invenzioni dello zio, gentilmente toccate, però, da una linea sfilacciata. In un momento di poco successivo, la S. Orsola ex Kisters, il S. Giovanni Battista Thyssen-Bornemisza, il S. Ludovico di Tolosa e la Maddalena della Gemäldegalerie di Berlino (ricondotti da Zeri al succitato altare disperso) parlano di una fedeltà ai modi dello zio tutta di facciata: un fremito espressivo fa infatti vibrare le forme, chiosando i volumi ora con grumi colmi di colore, ora con freddi fasci di luce che si giurerebbero dati a forza di pialla.

Tutta la produzione successiva di Vivarini è una sontuosa cavalcata verso quanto più di moderno avvenisse di volta in volta in laguna e nell’entroterra veneti. Spesso ritenuti di Giovanni Bellini (Conti, 1987, pp. 280 s.), la Crocifissione dei Musei civici di Pesaro, l’Adorazione dei magi e lo Sposalizio della Vergine ex Contini Bonacossi – e una Nascita della Vergine pubblicata da Carlo Volpe (1978, p. 59) tra gli juvenilia belliniani – appartenevano a uno stesso polittico smembrato in cui la vena mantegnesco-belliniana doveva colorarsi di un più denso sangue zoppesco, finalmente esploso, a ridosso dell’altare del 1476, in un capolavoro della qualità del S. Giovanni Battista già Spink (Lucco, 1993, p. 118). L’antonellismo, dolcemente delibato nel pentittico di Montefiorentino, quindi melanconicamente ridotto all’osso nel Cristo della sagrestia di S. Zanipolo – in prossimità del quale si possono leggere i Ss. Giovan Battista e Matteo all’Accademia veneziana (Russo, 2018, p. 10) –, trovò invece la sua piena interpretazione in due opere capitali, indicative di altrettanti modi di intendere il magistero del pittore messinese: una volta, nel S. Girolamo firmato alla National Gallery di Washington, fulgente nel bagno di luce argentea che rileva la materialità delle cose; un’altra, nella citata pala trevigiana del 1480, studiatissima nei rapporti di geometria e sintassi. Seguono, con un’intonazione psicologica di inquieta alterigia, le Sante monache all’Accademia, in cui i solidi di Antonello appaiono cadenzati da squillanti scaglie di colore. In questo percorso s’inserisce senza alcuna difficoltà la Madonna in trono col Bambino nella chiesa di S. Andrea a Barletta, dove accanto al nome del pittore si legge l’anno 1483. Qui i toni animano il volume di pacati ribaltamenti prospettici: è lo stesso frangente della Vergine ugualmente firmata alla National Gallery di Londra (Humfrey, 2020, pp. 29 s.), dove un’inedita ambientazione domestica mitiga il genere tradizionale della tavola mariana di devozione privata. Né l’arcaismo di un polittico come quello di Capodimonte, firmato e datato 1485, trattenne Vivarini dall’arricchire di sfumature nuove la grammatica della pittura d’altare. Forse in stretta coincidenza con la pala belliniana di S. Giobbe (1488), e certamente prima di quella di Cima per il duomo di Conigliano (1493), sull’altar maggiore di S. Maria dei Battuti a Belluno (Lucco, 1990a, p. 583) la luce di Alvise, oltre a far scattare la linea e sgrossare le forme, unificò spazio reale e spazio dipinto, creando l’illusione di un’ulteriore aula dotata di cupola oltre il coro. All’esclusivo interesse per la densità atmosferica del volume si può infine ricondurre una diversa interpretazione della piramide in controluce della Madonna di S. Giovanni in Bragora: è la Vergine di Capodistria del 1489 (Pallucchini, 1962, p. 62), l’austera risposta di Vivarini, fuori da palazzo ducale, ai miracoli luminosi di Bellini intorno al trittico dei Frari.

La cronologia delle opere sicure degli anni Novanta disegna un profilo di ulteriore arricchimento stilistico per Vivarini. Le masse tremule e ritmicamente modulate, i profili affilati dalle ombre e le geometrie sempre più svelte furono suoi caratteri distintivi sino alla fine. Prima dell’arruolamento alla Bragora, fuori d’ogni didascalica riproposizione antonelliana, il pittore costruì il Ritratto virile della National Gallery di Washington (per cui cfr., con datazione leggermente posticipata, Echols, 2003) lungo il filo instabile di un punto di vista doppio – quello del busto, parallelo allo spettatore, e quello del capo, leggermente rialzato –, tramando la materia di un pulviscolo finissimo, che distende i tagli consueti in una partitura più slabbrata. Nel Ritratto di Londra del 1497, l’accentuazione pittorica è evidente nel dispiegamento lanuginoso del colore, talvolta condotto in punta di pennello come in certe cose di Perugino. Dal maestro umbro – in quel torno d’anni presente a più riprese in laguna per una commissione fallita in palazzo ducale e un’altra andata a buon fine alla Scuola Grande di S. Giovanni Evangelista – Vivarini carpì presto quel classicismo altamente evocativo che, in lui, non raggelò mai le simmetrie, sempre animate, né polì le superfici, mosse da larghi cromatici e punteggiate di frantumi d’ombra. Sul punto di concludere il Risorto del 1498 – che è prima di Giorgione e Tiziano, ma ha in sé tutti gli elementi per richiamare quelle nuove esperienze –, egli dovette attendere all’incompiuta pala dei Frari, e pubblicare un altro grandioso dipinto d’altare per S. Cristoforo della Pace (Benussi - Humfrey, 2019, pp. 68 s.): a quest’ultimo, di lì a poco e nella stessa chiesa, rispose non a caso Giovanni Agostino da Lodi (Lucco, 1990b, p. 472).

Scardinato ogni ordine cimesco-belliniano e allentate le morbidezze peruginesche, la torreggiante Sacra conversazione di Amiens brilla, alla data perfetta del 1500, come un unicum di tutta la produzione vivariniana, e non solo. Il coevo S. Cristoforo dal polittico della Scuola dei mercanti a S. Maria dell’Orto (riferito a Cima, anche sulla scorta delle fonti antiche, da Humfrey, 1983) e la Madonna di San Pietroburgo del 1504, infine, illuminano la capacità di Vivarini di tenere aperti, anche nel pieno di una reale mutazione del quadro dei valori stilistici, registri diversi: uno più controllato e arcaizzante, l’altro del tutto inaspettato e intellettuale. Da quel momento, tradizione veneta e umori lombardi poterono mirabilmente condensarsi solo nelle mani di un pittore della nuova generazione cinquecentesca, inizialmente attivo nel Trevigiano e allievo di Vivarini secondo Bernard Berenson (1895, passim): Lorenzo Lotto.

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