DE' COLTI, Alvise

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 33 (1987)

DE' COLTI, Alvise

Mauro Scremin

La vicenda del D. è strettamente legata alle vicissitudini dell'anabattismo veneto del Cinquecento. Gran parte delle notizie su costui infatti sono tratte dagli atti del processo al quale venne sottoposto nel gennaio del 1552 dal S. Uffizio di Venezia a seguito della repressione degli anabattisti.

Il D. nacque a Venezia all'incirca nei primi anni del sec. XVI e qui probabilmente trascorse la sua giovinezza. Non si hanno notizie sulla sua famiglia né sugli studi compiuti. Comunque si sa che era maestro di scuola e che ad un certo punto venne bandito da Venezia per aver commesso un omicidio. Gli inquisitori, ai quali si presentò, lo descrivono "basso de statura con una veste fodrata de volpe et la beretta alla forestiera". Egli stesso affermò anzi di essere cittadino veneziano, di essere stato bandito "per homicidio puro" e di aver tenuto "schola di rason". Inoltre circolava la voce tra i suoi compagni di fede che avesse anche esercitato la professione di "sensale del Fontego dei Todeschi peiché l'havea quella lingua". Ad ogni modo si recò a Vicenza dove si stabilì per un certo periodo e dove continuò ad esercitare la professione di "maestro d'abbace" fino a quando dovette fuggire anche da Vicenza "perché era imputato di insegnar questa dottrina [l'anabattismo], onde l'andò poi a tener schola medesimamente a Padova". A Vicenza fu uno dei più ferventi apostoli dell'anabattismo locale. Qui infatti venne ribattezzato, secondo il rito anabattista, dal famoso Giacomo Stringaro, personaggio quest'ultimo di notevole levatura e vescovo degli anabattisti vicentini. Lo stesso D. divenne ministro della comunità anabattista di Vicenza e la sua importanza come personaggio viene testimoniata dagli atti processuali. Infatti Gian Maria Razer, suo correligionario, lo avrebbe chiamato in causa di fronte agli inquisitori dal momento che - avrebbe affermato - "lui vi diria il tutto perché esso conosceva tutti et insegnava questa, dottriia". Le stesse riunioni anabattiste avvenivano talvolta in città, talvolta fuori, ma all'inizio gli anabattisti erano soliti trovarsi in casa del D. "in via Piè di muro a san Biagio".

L'eresia anabattista ebbe modo di penetrare a Vicenza nel decennio 1530-40 facendo proseliti soprattutto tra i ceti popolari (artigiani, salariati, piccola borghesia), ma anche tra gli intellettuali, soprattutto studenti universitari che frequentavano lo Studio di Padova e che subivano l'influenza del razionalismo antitrinitario. L'anabattismo veneto, e in questo caso vicentino, si sviluppò secondo direttive che divergevano in parte dal primitivo anabattismo d'Oltralpe. Il pacifismo, la non violenza, l'antiautoritarismo, il comunismo evangelico si fusero con elementi del razionalismo religioso degli antitrinitari e questo condusse ben presto alla nascita di dissidi dottrinali soprattutto per quanto riguardava la natura di Cristo.

Tra il 1549 e il 1550 si erano infatti manifestate all'interno della comunità anabattistica di Vicenza delle notevoli dispute dottrinali. Da una parte si trovavano coloro che credevano nella semplice umanità di Cristo in crianto "generato dal seme di Giuseppe e di Maria", dall'altra coloro che intendevano osservare l'antico anabattismo, cioè "che li chistiani non possono esercitare magistrati et signorie, dominii et regni" ed insistevano sull'importanza della comunione dei beni. Tra i primi, chiamati anche o giosefiti", era il D. fiancheggiato da Marcantenio da Prata di Asolo e da Giulio Callegaro. Il pericolo di una spaccature dottrinale consigliò pertanto la convocazione di una assemblea generale che avesse il compito di definire il contrasto. La prima riunione, avvenuta a Padova, si risolse con un nulla di fatto; pertanto si decise di rinviare ogni decisione ad un sinodo generale che si sarebbe tenuto a Venezia nell'autunno del 1550. Ma già nel luglio si manifestarono i primi sintomi della repress;one. Infatti il S. Uffizio di Vicenza aveva convocato un certo Francesco Portino, il quale aveva riferito sulle attività ereticali di alcuni membri della setta. Ciò indusse pertanto alcuni anabattisti vicentini a riparare altrove.

Taluni si rifugiarono a Padova come il D. il quale, come riferì in seguito all'inquisitore, era partito "per non voler star più nella congregation di costoro perché io vedeva che eran perseguitati et che non procedevano secondo che havevan dimostrato in prima". Sembra tuttavia che fosse spinto alla fuga anche dalla moglie, preoccupata per la posizione compromettente del De' Colti. Costui affermò infatti che "sempre in casa havevamo contention la mia donna et io, perhò mi deliberai di andarmene via". A Padova, dove continuò ad esercitare la professione di maestro di scuola al Fortello, venne aggregato alla locale comunità anabattista. Infatti è testimoniata la sua presenza alla famosa riunione alla quale parteciparono, tra gli altri, anche Giulio Gherlandi, Francesco Della Sega, Giuseppe Cingano, l'abate napoletano Girolamo Busale e il misterioso Tiziano. Luogo dell'adunanza, come confessò lo stesso D., fu "una casa di faccia alla chiesa di santa Caterina". Durante la sua permanenza a Padova cercò di dissimulare la sua fede assumendo una condotta nicodemitica, anzi assisteva alle funzioni domenicali, come avrebbe confessato lui stesso, e serviva il sacerdote nella celebrazione della messa. In ogni caso i fatti avrebbero preso una piega decisiva quando nel settembre 1551 Pietro Manelfi, uno tra i più radicali assertori dell'antitrinitarismo, si presentava all'inquisitore di, Bologna rivelando i nomi e l'attività degli anabattisti italiani.

La repressione prese il via quasi immediatamente e colse di sorpresa una ventina di eretici (dicembre 1551). Tra questi era anche il D., coinvolto pure lui nelle delazioni del Manelfi. Nell'interrogatorio al quale venne sottoposto nel gennaio del 1552 confessava, come del resto fecero i suoi compagni di fede catturati, i nomi dei propri correligionari nonché le vicissitudini del locale anabattismo. Alcuni suoi compagni si presentarono spontaneamente di fronte al S. Uffizio, altri si nascosero in attesa di riparare all'estero. In ogni caso la persecuzione determinò la fine di qualsiasi tipo di propaganda o di proselitismo da parte degli anabattistì. La maggior parte di coloro che vennero catturati, come il D., preferirono abiurare, chi prima e chi dopo, rientrando nell'alveo dell'osservanza cattolica oppure rinchiudendosi in un silenzioso quanto "sterile" nicodemismo.

Mancano ulteriori notizie sul D. di cui, pertanto, si 1910ra la data di morte.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, S. Uffizio, bb. 9, 24, 158; B. Morsolin, L'Accademia de' Sociniani in Vicenza, in Atti del R. Ist. veneto di scienze, lettere e arti, V (1878-79), pp. 481, 486; E. Comba, I nostri protestanti, II, Durante la Riforma nel Veneto e nell'Istria, Firenze 1897, pp. 655 s.; A, Stella, Dall'anabattismo al socinta nesimo nel Cinquecento veneto. Ricerche storiche, Padova 1967, pp. 91 s.; Id., Anabartismo e antitrinitarismo in Italia nel XVI secolo. Nuove ricerche storiche, Padova 1969, pp. 40, 54 s.; Id., Gli eretici a Vicenza, in Vicenza illustrata, a cura di N. Pozza, Vicenza 1976, pp. 256 s.; G. Mantese, Mem. stor. della Chiesa vicentina, IV,Vicenza 1974, pp. 1403, 1406; C. Ginzburg, I costituti di don Pietro Manelfi, Firenze-Chicago 1970, pp. 42-45.

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