MELONE, Altobello

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 73 (2009)

MELONE, Altobello.

Alessandro Serafini

– Figlio di Marcantonio, nacque a Cremona nel 1491 o poco prima, come si deduce da un documento del 1513, relativo a una società tra lui e Boccaccino Boccacci detto il Boccaccino, in cui egli viene definito «maioris aetatis viginti duorum annorum» (Mischiati, p. 129).

Scarse sono le notizie certe sulla sua vita e ancor di più quelle relative alla sua formazione artistica.

Si può supporre che questa avvenne a Cremona, città di frontiera, che nei decenni a cavallo tra XV e XVI secolo offriva un panorama artistico quasi nordico, certamente attento alla produzione tedesca, se si pensa alle opere di Marco Marziale, Benedetto Diana o della cerchia di Iacopo de’ Barbari, che contribuivano a rendere ancora più fertile un humus già impregnato dal repertorio delle incisioni d’Oltralpe. A questa cultura va aggiunta l’influenza della pittura veneziana (di Giovanni Bellini, di Bartolomeo Montagna e di Giovan Battista Cima piuttosto che di Giorgio da Castelfranco, detto Giorgione), sia pure in mancanza di documenti relativi a un soggiorno del pittore in laguna. Andrebbero invece ricordate le suggestioni della pittura ferrarese, di Ludovico Mazzolini e del Garofalo (Benvenuto Tisi), dai quali apprese il modo di fare i paesaggi, con l’uso del verde cupo e le sprezzature luminose che accendono le fronde.

Tra le primissime opere del M. si possono ascrivere la Madonna col Bambino e s. Giovannino dell’Accademia Carrara di Bergamo e l’Adorazione del Bambino e i ss. Gerolamo, Caterina, Francesco e Bernardino già nella collezione Lechi di Brescia e ora nella Kunsthaus di Zurigo, databili poco prima del 1510.

Nella prima il «linearismo netto e tagliente» della composizione (Zeri, p. 40), dal sapore radicalmente nordico, si sposa con suggestioni venete, da Cima per il velo sfaccettato di Maria e da Bellini per il breve brano di paesaggio in cui si aggirano due piccole figure; l’altra, segnalata da Tanzi (1982), suggerisce ulteriori influssi della grafica tedesca, almeno nella nota quasi espressionista del s. Bernardino inginocchiato. Entrambe le tavole mostrano un artista attento anche alle novità leonardesche e bramantiniane che dalla vicina Milano cominciavano a filtrare nelle province del Sudest lombardo, tra Lodi, Brescia e Cremona.

Su questa base è possibile assegnare al M. la piccola Adorazione del Bambino della Galleria del Palazzo ducale di Mantova, già nota sotto il nome del cremasco Vincenzo Civerchio (Moro), nonché due pannelli di polittico con S. Giovanni Battista e un Santo vescovo in collezione privata (Frangi, 1988). In questi ultimi due si ravvisa per la prima volta l’influenza dello stile del Romanino (Girolamo Romani). Proprio la questione della conoscenza e della frequentazione tra i due artisti è uno dei nodi cruciali e più intricati della vicenda artistica lombarda di inizio Cinquecento.

È noto che nelle Notizie d’opere del disegno, redatte tra il 1521 e il 1543 dal veneziano Marcantonio Michiel, il M. sia indicato come «discepolo de Armanin», intendendo con questo il Romanino. La somiglianza di stile tra i due artisti, quella che Roberto Longhi definiva una «osmosi insidiosa» (p. 335) perché rendeva quasi impossibile la distinzione tra le due mani, non va però confusa con un rapporto di alunnato. Per quel che si sa, infatti, il tirocinio artistico fu distinto e diverso per entrambi; saranno poi i loro percorsi a correre paralleli e in alcune occasioni a collimare, vuoi per la presenza del M. nella bottega del Romanino, vuoi per vere e proprie collaborazioni in cui i due professionisti avevano ruoli e mansioni distinti. Esclusa dunque l’ipotesi del discepolato, rimangono ancora sconosciuti il tempo e il modo del loro primo incontro. Tra le ipotesi più interessanti va segnalata quella di Castellini (2007) che ha ritenuto di riconoscere una collaborazione tra i due nella decorazione di palazzo Orsini a Ghedi, ancorabile al 1509. Gli affreschi, danneggiati e ritoccati nell’Ottocento, sono oggi dispersi in varie collezioni. Essi raffigurano il conte committente, Nicolò Orsini di Pitigliano, e altri suoi familiari, in tre diverse scene: nell’atto di ricevere lo stendardo del generalato dal doge Leonardo Loredan, poi dal re di Napoli Alfonso II, infine dal papa InnocenzoVIII. Sono attribuiti tradizionalmente al Romanino, tuttavia il pannello che rappresenta Francesco e Virginio Orsini (malamente assemblato è ora visibile nella Fondazione Ugo Da Como a Lonato) potrebbe essere di mano del M.: le figure bloccate in pose chiuse, aspre, quasi scontrose, presentano fisionomie care al M. (il naso che si congiunge alla bocca, la folta barba, le smorfie scorbutiche), ma anche un’attenzione alla verità del particolare, a scapito delle leggi classiche di equilibrio e armonia, che egli avrebbe poi mostrato in altre opere di analogo soggetto. Comunque sia iniziato il rapporto con il Romanino, la cui presenza a Brescia costituì senz’altro il catalizzatore di tutte le precedenti esperienze pittoriche, esso era destinato a segnare la formazione e la maturazione dello stile del M., sebbene sia giusto credere a un’adesione a quella maniera non pedissequa, semmai «differenziata», come affermava Mina Gregori (1955, p. 15).

Una significativa testimonianza di questa consonanza linguistica è rappresentata dal Compianto sul Cristo morto, un olio su tavola del 1511 circa, conservato nella Pinacoteca milanese di Brera, dove è evidente il debito nei confronti della Pietà del Romanino nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, del 1510, proveniente dalla chiesa di S. Lorenzo a Brescia. Dal Romanino non viene solo l’impianto compositivo, debitore anche di Bernardino Zenale (del quale a Brescia era visibile la Deposizione nella chiesa di S. Giovanni), ma anche il colore pastoso, le forme più morbide, che richiamano Giorgione e Tiziano. Rispetto però al Romanino il M. mostra un segno più aspro e duro, quasi spigoloso, memore della radice nordica della sua cultura, forse influenzata ancora dal Bramantino (Bartolomeo Suardi). La vicenda del Compianto di Brera fornisce un appiglio per sostenere la presenza del M. a Brescia all’inizio del secondo decennio. A questa breve contingenza sono associabili opere come la Trasfigurazione del Museo di belle arti di Budapest; il Trittico già nella collezione Fenaroli di Brescia, con la Madonna col Bambino e i ss. Pietro e Giovanni Evangelista, smembrato e disperso in varie collezioni private, ma ricostruito da Ferrari; la paletta della chiesa di S. Valentino di Breno, raffigurante la Madonna in trono col Bambino e santi, un tempo attribuita al Romanino.

Nel febbraio del 1512, dopo la sconfitta inflitta ai Veneziani dalle truppe francesi di Gaston de Foix duca di Nemours, Brescia fu sottoposta a un tragico saccheggio. Fu forse in quella occasione che i due artisti, il M. e il Romanino, fuggirono dalla città e cercarono riparo nei paesi delle vicine montagne che dividono le valli dell’Oglio e del Mella. Sembra infatti possibile riconoscere entrambe le loro mani negli affreschi del piccolo eremo di S. Onofrio a Bovezzo nella Val Trompia (Frangi, 1990, p. 253).

Il ciclo si compone di sei scene con le Storie di s. Onofrio divise su due registri di una stessa parete: le tre scene inferiori (la Comunione, la Morte e la Sepoltura del santo) sono assegnabili al M., per un carattere più arcaico e impacciato rispetto alle scene superiori del Romanino; ma va pur detto che si tratta di distinzioni sottili, quasi impercettibili, a sottolineare quella uniformità stilistica già lamentata da Longhi. Il ciclo di Bovezzo potrebbe dunque fornire, qualora se ne avessero riscontri documentari, una prova storica di fondamentale importanza per illuminare la congiuntura stilistica tra i percorsi giovanili del M. e del Romanino. Più difficile è, al momento, l’attribuzione allo stesso M. della Pietà con i ss. Rocco e Sebastiano, un affresco della pieve della Mitria presso Nave, situata alle pendici delle montagne di Bovezzo, verso la Valle del Garza: attribuito, fra gli altri, a Vincenzo Civerchio, al Boccaccino e al Romanino stesso, l’affresco, al pari degli altri presenti nella stessa chiesa, rimane ancora di difficile decifrazione e conviene lasciarlo nell’anonimato della scuola bresciana di inizio secolo.

Da un documento del 5 nov. 1513 si sa che il Boccaccino aveva assunto come socio il giovane M., il quale, in base all’accordo, avrebbe dovuto aiutarlo nei lavori della cattedrale di Cremona per un periodo di due anni. Il contratto fu però prontamente ricusato dal Melone. Quattro giorni dopo i due stabilirono nuove condizioni, molto più vantaggiose per il M.: l’impegno sarebbe durato infatti un solo anno con uno stipendio giornaliero per il M. (Mischiati, pp. 129-132).

La società doveva servire al Boccaccino per impegnare il M. come aiuto nell’impresa decorativa della cattedrale cremonese, che sarebbe stata iniziata infatti subito dopo, nella primavera del 1514, con la serie di affreschi sulla parete sinistra della navata centrale raffiguranti le Storie di Maria. Tuttavia risulta difficile riscontrare in queste scene una mano diversa da quella del Boccaccino e, tanto meno, una mano avvicinabile a quella del Melone.

Intorno al 1513 si può datare il cosiddetto Cesare Borgia dell’Accademia Carrara di Bergamo.

Si tratta di un olio su tavola che ritrae di tre quarti un personaggio virile abbigliato alla moda, con copricapo di morbida stoffa adorno di spilla e guanto bianco sulla mano destra; sullo sfondo c’è un paesaggio spoglio, con figurine intirizzite e alberelli scossi dal vento; domina in alto il grigiore delle nuvole, su cui si staglia il profilo dell’uomo leggermente voltato sulla sua destra, lo sguardo fermo e severo, su cui forse si basa la romantica e letteraria identificazione con il duca Valentino, Cesare Borgia. Il ritratto è comunque una prova dell’abilità del M. in questo genere: ne sono altra testimonianza il Ritratto femminile della Pinacoteca di Brera, che riproduce una nobildonna dal portamento elegante e lo sguardo intenso, quasi malinconico, sullo sfondo di una fortezza; o anche il Ritratto di gentiluomo di ubicazione ignota, ma segnalato a suo tempo da M. Gregori (1955, pp. 24 s.). Sono esempi di una ritrattistica non omologabile a quella del Romanino o dei Veneziani, per quel tanto di incoerente, di eccessivo, di volutamente fuori posto, che la avvicina alle ricerche analoghe di Dosso Dossi e di Bartolomeo Veneto. In questo breve giro di anni (1513-15) è possibile datare anche il Cristo portacroce della National Gallery di Londra (già collezione Philip Pouncey), il S. Gerolamo del Museo civico di Verona, il S. Prospero di collezione privata inglese, il Compianto dell’arcivescovado di Milano, la Madonna col Bambino e s. Giovannino del Fitzwilliam Museum di Cambridge e la Coppia di amanti della Gemäldegalerie di Dresda (Gregori, 1955; Frangi, 1985). Quest’ultima tavola, di formato oblungo, con le figure a mezzo busto, mostra un linguaggio oscillante tra il magistero del Romanino e il fascino per Venezia, date le risonanze di Palma il Vecchio (Iacopo Negretti), di Paris Bordon, di Tiziano, ma anche dei bassorilievi di Tullio Lombardo. Le figure edonistiche dei due amanti abbracciati, riprese da una incisone di Zoan Andrea, sono però ricondotte a un significato morale dalla scritta «Finché», visibile sul medaglione del cappello piumato dell’uomo, e dal bucranio che fa capolino sotto la finestra, allusioni al tema della vanitas, su cui aveva già indugiato tanta grafica tedesca.

Nel 1516 si aprì per il M. la breve ma intensa stagione della decorazione della cattedrale cremonese, ben documentata dai registri della Fabbriceria (Sacchi, pp. 182-186; Marubbi, 2001, pp. 194 s.).

L’11 dic. 1516, infatti, mentre erano ancora attivi il Boccaccino e Giovan Francesco Bembo, i massari della cattedrale presero accordi con il M. per gli affreschi del settimo arcone a sinistra della navata maggiore, che avrebbero dovuto raffigurare la Fuga in Egitto e la Strage degli innocenti. Secondo quanto indicato dal dettagliato contratto, il M. era obbligato a rifarsi, sia per la composizione sia come termine di paragone qualitativo, agli affreschi eseguiti dal Boccaccino nelle campate precedenti. Non solo, ma il contratto prescriveva anche il senso e il tipo della narrazione, i dettagli e i motivi simbolici, l’adesione a tradizioni e formule visive appropriate ai temi iconografici. Il risultato sarebbe poi stato sottoposto al giudizio concorde di due giudici, uno scelto dalla committenza e l’altro dall’artista, per verificarne la superiorità o la non inferiorità rispetto agli affreschi del Boccaccino, pena il raschiamento, a proprie spese, dell’affresco stesso. Le scene erano sicuramente finite per il 15 ag. 1517, come richiesto dai committenti, e il 1° ottobre il Romanino, probabilmente chiamato dal M., insieme con due giudici scelti dai massari era presente in duomo per dare una valutazione sugli affreschi. Il giudizio fu favorevole tanto che pochi mesi dopo, il 13 marzo 1518, i massari rinnovarono l’accordo col M. per gli affreschi con Storie della Passione, da eseguirsi sulla parete destra della navata maggiore entro il settembre di quell’anno: l’Ultima Cena (firmata sulla gamba centrale del tavolo «Altobellus de Melonibus»), la Lavanda dei piedi, l’Orazione nell’orto, la Cattura di Cristo e Cristo davanti a Caifa (queste due firmate sulla base della parasta dipinta che divide le scene). Questi lavori sono, non c’è dubbio, il punto più alto della carriera del M.; ma in un certo senso ne rappresentano anche il punto di arrivo, dopo il quale non solo non si conoscono altre committenze pubbliche di pari o di minore importanza, ma nemmeno altre opere documentate. Da tutti riconosciuto è lo scarto stilistico tra le due sessioni decorative. La Strage degli innocenti, per esempio, è percorsa da una potente carica anticlassica che si manifesta nell’esasperazione dei gesti e nella trasformazione grottesca dei volti, con rimandi alle incisioni tedesche, ma in realtà segue letteralmente gli ordini del contratto, in cui si prevedono toni crudi e drammatici, con donne «spaventevole e scapiliate» e «varie crudeltà de homini» sui bambini (Marubbi, 2001, p. 194); l’episodio della Fuga, a sua volta, è impostato su un ritmo sfuggente e ondulante e mostra nei brani di paesaggio e nelle vesti ricche di colore la conoscenza del naturalismo dei maestri veneti, forse anche del Tiziano di Padova. Di fronte a questi episodi i cinque affreschi sulla parete destra palesano un improvviso mutamento di stile: pur essendo legati al tema tragico della Passione di Cristo, non c’è più tensione né esasperazione fisionomica, il naturalismo è ridotto all’essenziale, l’impaginazione si fa invece più chiara e ampia, le figure sono grandi, monumentali, ammantate di panneggi larghi e geometrici, i gesti pacati e sicuri. Una tale rivoluzione può essere spiegata in diversi modi: di certo c’era l’esigenza dei committenti di rendere più leggibili le scene, che andavano viste da una notevole distanza; c’era poi una minore disponibilità di tempo per la realizzazione delle opere e quindi la necessità di fare poche figure e impianti spaziali semplici; c’era, infine, la maturazione dello stile del M., che pur non rinnegando le radici nordiche (anche qui sono evidenti le derivazioni da Albrecht Dürer, Lucas Cranach e Albrecht Altdorfer) sentiva ora tutto il peso della lectio raffaellesca, forse meditata attraverso l’interpretazione sciolta di Gian Francesco Bembo o attraverso quella, al contrario più complessa e ardua, dello Pseudo Bramantino, alias Pedro Fernández.

Gli affreschi cremonesi impongono comunque una riconsiderazione sullo stile del M. e sulla sua collocazione nel panorama artistico lombardo di inizio Cinquecento.

È evidente infatti che la categoria longhiana di «eccentrico», in virtù della quale l’esperienza pittorica del M. è associabile a quella di altri artisti cosiddetti «eterodossi», come Pellegrino da San Daniele, Amico Aspertini o Lorenzo Lotto, rischia di risultare limitativa e fuorviante: questo sia perché la formula dell’«anti», dai tempi pionieristici di Longhi e di Eugenio Battisti, ha finito per vedere ingrossate le sue fila a tal punto da risultare essa, per paradosso, l’esperienza dominante del Rinascimento; sia perché, soprattutto, non chiarisce fino in fondo la maniera del M., che come molti artisti lombardi del suo tempo aveva avuto la fortuna di ricevere una formazione complessa e diversificata, in cui gli influssi provenienti dal Sud e dal Veneto si mischiavano con quelli leonardeschi, nordici e spagnoli. Egli aveva dunque maturato uno stile versatile che era in grado di usare e variare a seconda delle esigenze della committenza, dell’iconografia, del contesto, senza che ciò significasse contraddizione, anzi piuttosto indicava la ricchezza delle sue conoscenze del linguaggio figurativo contemporaneo.

Negli anni successivi all’impresa della cattedrale il nome del M. diventa quasi un fantasma: si sa soltanto che nel dicembre del 1523 egli era a Cremona, in cattedrale, come testimone (Tanzi, 1986, p. 97); il che induce a credere che in quegli anni il pittore gravitasse ancora nella città natale. Dopo di che non si hanno più notizie sicure né opere firmate, e di conseguenza la sua biografia e il suo catalogo diventano ricostruzioni quasi apodittiche, fatte per ipotesi che attendono una conferma documentaria. Solo su stretta base stilistica è infatti possibile assegnare al M. una serie di opere databili a cavallo tra secondo e terzo decennio.

Tra queste si segnala il Trittico di Torre de’ Picenardi, degli anni 1518-20, ora smembrato in diverse collezioni: la tavola centrale con la Madonna col Bambino in trono della Collezione Kress (Columbia, MO, Museum of art and archaeology, University of Missouri), le due tavole laterali con S. Elena e Tobiolo e l’arcangelo Raffaele all’Ashmolean Museum di Oxford, la predella con Storie di s. Elena divisa tra il Musée national des beaux-arts di Algeri e una collezione privata italiana. Di poco successive sono la Madonna col Bambino della collegiata di Monticelli d’Ongina (1520 circa) che imita la Madonna di Foligno di Raffaello, forse conosciuta grazie all’incisione di Marcantonio Raimondi, la Madonna col Bambino della Collezione Johnson (Filadelfia, Museum of art) e la Madonna col Bambino dell’Accademia Carrara di Bergamo. Tra tutte più interessante è una tavoletta della National Gallery di Londra, con l’Andata verso Emmaus, che presenta un’interpretazione del soggetto sacro in chiave popolare e ai limiti del grottesco, simile alla prima serie degli affreschi cremonesi. In queste opere, e poi ancor di più in quelle degli anni Venti, l’evoluzione classicista del lessico pittorico del M. si incontra con l’avvenuta trasformazione in chiave manierista del linguaggio rinascimentale, che in terra lombarda significa soprattutto il luminismo di Giovanni Gerolamo Savoldo, le contorsioni di Giulio Romano e la morbidezza sensuale del Correggio (Antonio Allegri). Di fronte a ciò prevale nel M. l’attenzione per le esperienze liminari, di confine, episodiche, magari poco appariscenti, eppure gravide di conseguenze, come sono a Cremona le ricerche di Giulio Campi e di Camillo Boccacci, rappresentanti di una generazione più giovane, ma già all’avanguardia. Seguendo questa ipotesi, si possono considerare del M. la Natività con s. Domenico di Lurago d’Erba (collezione Sormani Andreani Verri), vicina a Giulio Campi, o l’Annunciazione della chiesa parrocchiale di S. Nicola di Isola Dovarese, in cui sembrano echeggiare i modi di Giulio Romano. Più difficile è l’attribuzione della Vergine col Bambino e i ss. Giovanni Battista e Nicola da Bari del Museo civico Ala Ponzone di Cremona, proveniente dall’altare maggiore di S. Nicola a Cremona, contesa tra il M. (Tanzi, 1986; Marubbi, 2003) e un suo allievo (Frangi, 1990, pp. 137-139). A questa pala si lega poi un gruppo di opere di sicura pertinenza cremonese, ma di controversa attribuzione: il Cristo al limbo della cattedrale di Cremona, il S. Simonino (1521) del Museo provinciale d’arte di Trento, i Ss. Lorenzo, Giorgio e Giovanni Battista del Museo di belle arti di Budapest, opere che per Tanzi (1986) sono talmente vicine all’Annunciazione di Isola Doverese da non poter essere date ad altri che al Melone. Per Frangi (1990, pp. 37-39) invece conviene rimanere nell’incertezza, assegnandole a un maestro cremonese, forse un allievo del M. o un suo collaboratore (Giovan Battista Lodi), dal momento che anche le attribuzioni dell’Annunciazione e della pala del Museo civico di Cremona sono tutt’altro che certe.

Non si conosce la data di morte del M., certamente anteriore al 3 maggio 1543 (Tanzi, 1986, p. 97).

Fonti e Bibl.: M.A. Michiel, Notizie d’opere di disegno (1521-43), a cura di G. Frizzoni, Bologna 1884, pp. 86, 92 s.; G. Vasari, Le vite (1568), a cura di G. Milanesi, VI, Milano 1881, pp. 459, 492; F. Sacchi, Notizie pittoriche cremonesi, Cremona 1872, pp. 132-136, 182-186; R. Longhi, Cose bresciane del Cinquecento (1917), in Id., Scritti giovanili 1912-1922, I, Firenze 1961, pp. 334 s.; L. Grassi, Ingegno di A. M., in Proporzioni, III (1950), pp. 143-163; F. Zeri, A. M.: quattro tavole, in Paragone. Arte, IV (1953), 39, pp. 39-44; F. Bologna, A. M., in The Burlington Magazine, XCVII (1955), pp. 240-250; M. Gregori, A., il Romanino e il Cinquecento cremonese, in Paragone. Arte, VI (1955), 69, pp. 3-28; Id., A. M. e Giovan Francesco Bembo, ibid., VIII (1957), 93, pp. 16-40; M.L. Ferrari, Un recupero per A., ibid., IX (1958), 97, pp. 48-53; M. Tanzi, Novità e revisioni per A. M. e Giovan Francesco Bembo, in Ricerche di storia dell’arte, XVII (1982), pp. 49-56; Id., La fortuna degli «eccentrici» cremonesi, in Prospettiva, XXXIX (1984), pp. 53-60; M. Gregori, in I Campi e la cultura artistica cremonese del Cinquecento (catal.), Milano 1985, pp. 85-88; F. Frangi, ibid., pp. 89-98; G. Bora, ibid., pp. 273-275; M. Tanzi, Riflessioni sull’attività di A. M. dopo il 1520, in Annali della Biblioteca statale e Libreria civica di Cremona, XXXVII (1986), pp. 97-107; F. Frangi, Sulle tracce di A. giovane, in Arte cristiana, n.s., LXXVI (1988), pp. 389-404; Id., in La pittura in Italia. Il Cinquecento, II, Milano 1989, pp. 768 s.; Id., Pittori anticlassici, in M. Gregori, Pittura a Cremona dal Romanico al Settecento, Milano 1990, pp. 26-39, 137-139, 251-254 (con bibl.); O. Mischiati, Documenti inediti sulla pittura a Cremona nella prima metà del Cinquecento, in Paragone, XLII (1991), 493-495, pp. 108, 129-132; F. Moro, Per A. giovane, in Arte cristiana, n.s., LXXXII (1994), pp. 13-20; N.E. Land, Reconstructing a reconstruction: A. M.’s «Picenardi altarpiece», in Muse, 1997-98, nn. 31-32, pp. 9-23; P. Castellini, Per l’attività bresciana di A. M., in Arte lombarda, n.s., CXXVII (1999), 3, pp. 85-88; M. Calì, La pittura del Cinquecento, Torino 2000, pp. 341 s., 423-425, 442; M. Marubbi, Le «Storie del Testamento Nuovo»: cronaca di un cantiere, in La cattedrale di Cremona: affreschi e sculture, a cura di A. Tomei, Cinisello Balsamo 2001, pp. 96-99, 107, 112-138, 194-197; G. Toninelli, in La Pinacoteca Ala Ponzone. Il Cinquecento, a cura di M. Marubbi, Milano 2003, pp. 50 s.; M. Marubbi, ibid., pp. 68-70; F. Frangi, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano (catal.), a cura di L. Camerlengo et al., Cinisello Balsamo 2006, pp. 20, 45, 88 s., 90-93, 98-101; P. Castellini, Girolamo Romanino e A. M. a Brescia tra il primo e il secondo decennio del Cinquecento, in Passione è cultura: scritti per Tino Gipponi, a cura di M. Faraoni, Milano 2007, pp. 42-51; M.G. Balzarini - T. Monaco, Lombardia rinascimentale, Milano 2007, pp. 22, 181, 183-185, 190; A. Mazza, Compagni di strada o di crocevia: pittori «vaganti» e «stravaganti» dell’anticlassicismo padano, in Amico Aspertini, artista bizzarro nell’età di Dürer e Raffaello (catal.), a cura di A. Emiliani - D. Scaglietti Kelescian, Milano 2008, pp. 69-72; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIV, pp. 368 s.; The Dictionary of art, XXI, pp. 93 s.

A. Serafini

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