ALLEGORIA

Enciclopedia dell' Arte Antica (1958)

ALLEGORIA (ἀλληγορία da ἄλλος e ἀγορεύω)


La parola ἀλληγορία (allegoria) fu originariamente un termine tecnico retorico, che indicava una successione di metafore (Cic., Orator, 94: iam cum fluxerunt continuae plures tralationes, alia piane fit oratio; itaque genus hoc Graeci appellant ἀλληγορία: nomine recte, genere melius ille, qui ista omnes tralationes vocat; Quint., Inst. orat.: ἀλληγορία facit continua μεταϕορά); il suo significato era però piuttosto ampio, se Quintiliano osservava (viii, 6, 44) che Orazio, confrontando lo Stato ad una nave (Od., i, 14) aveva in mente appunto una ἀλληγορία, e già da circa il I sec. a. C. a poco a poco il termine era venuto a sostituire quello, precedentemente più usato, di ὑπόνοια (hypònoia) con cui si designava in principio quella figura retorica per cui si deve riconoscere nel pensiero espresso un senso diverso da quello che le parole letteralmente dichiarino (Plat., Rep., 378 d:. ὁ γὰρ νέος οὐχ οἶός τε λρίνειν, ὅτι τε ὑπόνοια καὶ ὃ μή; Xenoph., Symp., III, 6: δῆλον γὰρ, ἔϕη ὁ Σωκράτης, ὅτι τὰς ὑπονοίας οὐκ ἐπίστανται) e che successivamente era stata applicata alla critica complessiva di un intero poema, nella convinzione di potervi ravvisare verità più alte di quelle espressamente dichiarate dai poeta.

La interpretazione "figurativa" o "allegorica" dei dati offerti da un poema, o da una leggenda o da un mito, fu una delle soluzioni che si affacciarono al pensiero critico greco, giunto alla sua maturità, di fronte alla necessità di giudicare la tradizione precedente al confronto con i nuovi risultati della ricerca filosofica e scientifica. Per primi i filosofi ionici, come Ecateo di Mileto, Teagene di Reggio, Anassagora "sentirono istintivamente che i miti contenevano un'importante sorta di verità che non poteva esser fatta rientrare nelle loro spiegazioni del mondo fisico e che pure valeva ancora troppo per essere abbandonata", e così incominciarono con il presumere che i poeti avessero scelto di esprimere alcune grandi verità morali sotto forma di "parabole" (Hinks); nello stesso tempo l'interpretazione allegorica era anche una manifestazione di pietà religiosa, di rispetto per la tradizione e di timore di perderne i valori (Hastings); fu così alla fine particolarmente cara agli Stoici e ripudiata dagli Epicurei, sinché passò agli Ebrei (Esseni, Filone) e soprattutto, come è noto, ai Cristiani (S. Paolo, Giustino, Origene e tutti gli altri).

Dal punto di vista estetico, l'interpretazione allegorica riposava su una convinzione razionalistica fondamentale: che la poesia fosse un modo deliberatamente scelto di affermare una verità che poteva essere espressa ugualmente bene in prosa.

Tale principio, di cui oggi comprendiamo tutta l'inconsistenza effettiva, fu alla base della teoria dell'a. e fu uno dei vertici che la speculazione razionale antica seppe raggiungere nella comprensione del mondo fantastico della poesia e dell'arte. In particolare, per quello che più direttamente ci riguarda, in riferimento alle arti figurative il riconoscimento e lo studio del "programma" religioso o morale di certe opere d'arte era un modo nuovo di accostarsi ad esse e, alla fine, di porle sullo stesso piano delle altre grandi opere della poesia (ancbe se, talvolta, i loro autori potevano essere accomunati da una sorta di comune disprezzo: cfr. Plutarco, Pericle, 2, 1, su Fidia, Policleto, Anacreonte, Filemone e Archiloco). Né senza questi primi tentativi di avvicinamento di letteratura e arte figurativa, di parola e immagine, potremmo più tardi comprendere l'originale impostazione data dagli scrittori cristiani al problema della pittura nelle chiese ("pictura et ornamenta in ecclesia sunt laicorum lectiones et scripturae"), né, forse, quella magica equivalenza di scrittura e di figura che costituisce uno dei fascini maggiori del libro miniato medioevale.

Come esempi di descrizioni di opere d'arte interessanti per l'a., si ricordano: l'ekphrasis scritta da Procopio di Gaza (v.) di alcune pitture, particolarmente di una cosmologica, nella sua città; la descrizione dataci da Luciano della Calunnia di Apelle; è infine importante l'apologo di Prodico di Ceo su Eracle al bivio che, pur non riferendosi esplicitamente ad alcuna opera d'arte, è stato trattato dalle arti figurative già in antico, per poi avere una fortuna eccezionale nel Rinascimento (allora senza contatti, però, con l'illustrazione antica).

Benché più tarde degli esempi citati, le descrizioni di pitture lasciateci da Procopio di Gaza sono le più complesse e più tipiche, veramente riassuntive di questo filone di esegesi erudita e insieme fantastica. In base ai suoi minuziosi referti è stato possibile, per P. Friedländer, ricostituire l'apparenza dei dipinti cui egli dice di riferirsi: particolarmente significativa risulta la pittura cosmologica con Ghe, Helios, Okeanos, Aion, le Horai, Selene, Kosmos, Aither e altre personificazioni raccolte tutte insieme in una struttura precisa. Talune delle personificazioni qui descritte, anzi, che più conta, taluni gruppi di personificazioni qui riuniti gettano luce su altri monumenti di difficile o complessa interpretazione (ad esempio il tipo di Nyx interessa per monumenti così tardi come i cosiddetti "salteri aristocratici", il gruppo di Atlante tra Aretè e Sophia ha rapporti con le illustrazioni di Prodico di Ceo, ecc.). La descrizione del quadro che Apelle avrebbe dipinto per difendersi dalle accuse calunniose di Antiphitos è il più antico ricordo di una composizione basata interamente su figure allegoriche, senza alcun pretesto storico o mitologico. L'autenticità del dipinto appare però assai dubbia, e non è improbabile ch'esso sia del tutto un invenzione retorica (per tutta la questione, v. Apelle). L'apologo di Prodico di Ceo, il filosofo che Platone considerava "il migliore dei Sofisti" (Symp., 177 B), è un significativo esempio di sovrapposizione al mito di un'interpretazione allegorica che, a sua volta, crea una vera e propria "a.", ma di forma e di origine mitiche. Eracle che, giunto al bivio e incerto sulla via da seguire, si dibatte tra i consigli di Aretè e quelli di Kakìa (o Eudaimonia) è la nuova versione, suggerita dalla riflessione moraleggiante, dell'antico conflitto di Eracle tra Iole e Deianira: un Eracle cui si riferisce Sofocle nelle Trachinie e di cui si trovano testimonianze addirittura negli specchi etruschi (v. Mlacuch e Eracle).

L'individuazione dell'a. come un tipo, o come un genere artistico particolare è un problema critico che è stato a lungo dibattuto.

Il problema fu particolarmente avvertito dal Winckelmann, ansioso di scoprire il significato dell'opera d'arte al di là della prima visione edonistica. Per lui il termine a. assume però un significato vastissimo: egli distingue nell'opera artistica il "contenuto letterario" e il "significato allegorico"; quest'ultimo è quello che fa sì che le figure abbiano un particolare significato al di là di quella che è la loro più banale apparenza; che fa sì, ad esempio, che la rappresentazione di un pastore e tre donne non sia un quadro di conversazione qualunque, ma significhi precisamente il giudizio di Paride. A questa impostazione generica reagisce il Lessing, dal quale il problema viene messo chiaramente a fuoco. Il punto di partenza del Lessing è non soltanto storico-artistico, ma anche poetico-linguistico, anzi il riferimento all'equazione oraziana ut pictura poesis è in lui trasparente. "Come la lingua ha la sua prosa, egli scrive (Fragm., 17, p. 309), così deve averla anche la pittura. Vi sono pittori poetici e pittori prosaici. Sono pittori prosaici quelli che non accordano le cose che intendono ritrarre con la natura del loro disegno. 1) I loro segni stanno l'uno accanto all'altro; sicché presentano così come stanno le cose che si susseguono l'una all'altra. 2) I loro segni sono naturali; sicché essi li mischiano con quelli arbitrari. Gli allegorici. 3) I loro segni sono visibili; sicché essi non vogliono attraverso il visibile rappresentare il visibile, ma piuttosto l'udibile oppure gli oggetti che hanno un altro significato". È così penetrata la complessità concettuale cui allude l'a. (Gegenstände anderer Sinne vorstellen) e nello stesso tempo ne è riconosciuto il carattere prosaico, individuato non soltanto in un contrasto di principio tra raffigurazione naturale e contenuto intellettuale (Körper mit ihren sichtbaren Eigenschaften sind Gegenstände der Malerei: i corpi con le loro qualità visibili sono l'oggetto della pittura), ma in un senso più pro fondo, come si rivela laddove egli distingue tra gli attributi "allegorici", imposti dall'esterno, e quelli "poetici", ossia "naturali". Nell'opposizione di "poetico" e "allegorico" è così finalmente intuita la fondamentale antitesi tra mitico e allegorico, su cui si svilupperà gran parte della ricerca futura. Di questa ultima è però difficile seguire una traccia continua e, dopo le prime impostazioni date al problema dai fondatori dell'archeologia e dell'estetica moderne è soltanto in epoca recente, sullo scorcio del sec. XIX, che si riaffaccia la esigenza di definire i caratteri dell'allegoria. Per F. Creuzer, questa si distingue dal simbolo, di per sé significante (bedeutsam) in quanto vuole significare (will deuten), subentra così una considerazione soggettiva che riaffiorerà spesso successivamente. Il maggiore contributo sistematico allo studio dell'a. è dato dal Blümner, il quale si rifà esplicitamente al Lessing (edizione del Laocoonte, Berlino 1876). Egli esclude dal novero delle rappresentazioni allegoriche quelle che possono sì essere interpretate allegoricamente (scene leggendarie o storiche, ecc.), ma che non hanno nulla di esplicitamente "allegorico" in sé, nella forma della rappresentazione. Alla base della a. nelle arti figurative è, per il Blümner, la personificazione di un concetto astratto. Egli parte così dalla "a. semplice", la personificazione isolata, per giungere alla "a. complessa", cioè alla rappresentazione in cui più personificazioni entrano in rapporto tra loro e dànno un senso logico determinato alla scena. Inoltre, per meglio specificare il passaggio dalla più antica iconografia mitologica greca a quella allegorica di età ellenistica e romana, il Blümner distingue tra le personificazioni sorte spontaneamente dalla religiosità popolare e quelle dettate dalla riflessione filosofica: a quest'ultime spetta il titolo di allegoriche. In conclusione, i personaggi di una scena allegorica generalmente non hanno una vita a sé, indipendente dal contesto in cui sono situati; anche i loro attributi li distinguono, come già osservava il Lessing, poiché essi hanno un valore soltanto in rapporto al significato superiore che si vuole attribuire alla raffigurazione ma non organico e diretto, necessario. Ad esempio, le armi che indossa Marte sono quelle che il dio, indipendentemente dalla situazione in cui può essere effigiato, userebbe effettivamente come guerriero; le armi che invece maneggia Cupido non hanno alcun significato nelle mani di un bambino, se si prescinde dal senso "allegorico" che dobbiamo attribuire alla raffigurazione di questo particolare bambino. Al di là di queste considerazioni raziocinanti e, ovviamente, a posteriori, come a posteriori è un po' tutta la discussione sull'a. nel mondo antico, per la difficoltà di riferire all'antichità un termine che ha assunto un significato così preciso alla fine del Medioevo e nell'età moderna, il Blümner penetra acutamente nella definizione del rapporto tra l'a. e la Weltanschauung antica quando nota che il fatto che immagini consapevolmente inventate fossero accolte tranquillamente come effettive e reali dal pubblico e divenissero parte integrante del repertorio dell'arte ufficiale, dimostra la persistenza, lungo tutta la storia antica, della tendenza alla trasfigurazione mitica della realtà. Alle stesse conclusioni circa il rapporto tra mito e a. giunge E. Pottier (1889). Anzitutto egli sottolinea la distanza che separa l'a. moderna dall'antica: la prima non è che una "simple formule visible", mentre la seconda consiste di entità, come Dike, Demo, Polis, che sono astrazioni che "possiedono virtualmente una certa esistenza" e che si avvicinano a quegli enti "metafisici e benefici dal ruolo di agente personale e attivo che la fede religiosa attribuisce agli esseri sopraumani".

Nel 1887, lo scritto del Burckhardt Die Allegorie in d. Künsten, è ricco di spunti e di osservazioni originali e il suo corso sull'arte antica si iniziava appunto con una lettura sugli Abstrakta in der Kunst. È poi nell'ambito naturale delle ricerche di storia della filosofia e di storia della religione (vedi un'efficace esposizione dello stato della questione nella voce Allegory della Hasting's Encyclopaedia for Religions and Ethics, 1908), più che in quello della storia dell'arte, che i rapporti tra mito e a. vengono chiariti. Nel 1939 escono due importanti pubblicazioni di storia dell'arte in cui per la prima volta i dati raccolti dalla ricerca filosofico-religiosa e quelli offerti dall'archeologia e dalla storia dell'arte antica sono discussi insieme sistematicamente. L. Petersen pubblica a Würzburg il più completo disegno storico della personificazione di concetti astratti da Esiodo sino all'Apoteosi di Omero di Archelaos di Priene; dall'Arca di Cipselo sino al pinax di Kebes e dallo studio del carattere "simbolico" dell'a. nell'ellenismo giunge alla definizione della nuova realtà religiosa e morale che le è attribuita nella tarda antichità, alla vigilia del cristianesimo. R. Hinks a Londra raccoglie in un volume tre conferenze pronunciate all'Istituto Warburg nel 1935. Riferendosi alla valutazione del Cassirer della autonomia del pensiero mitico e del rapporto di questo con il pensiero logico, egli vede nell'a. il tentativo di conciliare questi due processi fondamentali della mente antica. Raccoglie una quantità rilevante di materiale, ch'egli ordina secondo le tre categorie fondamentali: Dike, rappresentazione simbolica dell'ordine naturale; Themis, rappresentazione simbolica dell'ordine sociale; Mnemosyne, rappresentazione simbolica dell'ordine mentale. Queste tre divisioni sono state criticate, ma nella esegesi dei singoli monumenti la ricerca dello Hinks penetra originalmente negli aspetti meno scoperti della mentalità e dell'arte antiche. Al suo libro sono più o meno debitori tutti gli studi successivi sul tema. Ch. Picard, che, con W. K. Guthrie, ha molte riserve sulle conclusioni cui è giunto lo Hinks, amplia notevolmente il campo della ricerca archeologica affrontando il tema del rapporto tra l'a. e il teatro greco (1942).

Del tutto diversa è l'impostazione che al problema dà lo Hamberg (1945) nel suo studio sulla scultura romana. A. è per lui, per quanto concerne l'arte romana da Domiziano in poi, un modo particolare di raccontare i fatti storici e, alla fine, essa acquista un significato addirittura stilistico. La parafrasi allegorica è il racconto storico "magnificato a proporzioni cosmiche palesandovi l'intervento di dèi o di personificazioni". La rappresentazione allegorica si distingue da quella mitica e da quella storica appunto per l'intervento di personaggi mitici o di personificazioni nello svolgimento di un avvenimento storico, oppure per l'inserzione di personaggi reali in una composizione di soggetto mitologico, cui così è dato un significato preciso in riferimento al presente. Tali posizioni sono state particolarmente criticate dal Lehmann che ha insistito sul valore diverso da attribuirsi nel mondo antico ad a. e a personificazione, quest'ultima essendo, a differenza della prima, un essere reale, capace di commuovere per se stesso e di ricevere un culto particolare. Di grande interesse è lo studio dello Hamberg perché contiene la prima e più sistematicamente sviluppata ricerca sui singoli tipi iconografici di allegoria. Partendo dalle monete, in cui il significato delle rappresentazioni allegoriche è chiarito dall'iscrizione, egli ricerca i medesimi tipi iconografici nella grande scultura giungendo a risultati di indubbio valore. Ancora sul rapporto tra a. e personificazione aveva scritto D. Levi (1941) in uno studio sulle a. dei mesi. Egli nota l'asistematicità della tradizione iconografica della rappresentazione dei mesi e ne arguisce che tale assenza di attributi costanti sia appunto dovuta al fatto che tali raffigurazioni non sarebbero personificazioni, ma scene allegoriche, più o meno concise. Il Levi individua così con chiarezza la difficoltà di una definizione categorica delle rappresentazioni dei mesi, ma al tentativo di soluzione proposto sembra sfuggire l'ostacolo maggiore, costituito dal carattere astrologico che spesso hanno simili immagini; poiché mentre "l'a. usa una tecnica mitica con un fine razionale, l'astrologia usa una tecnica razionale con un fine mitico" (Hinks; cfr. A. Warburg), e cioè il carattere irrazionale, o, come si esprimeva il Lessing, "arbitrario" della raffigurazione dei mesi non sempre parte dalla forma stessa della rappresentazione (come in un'a., che si serve di esseri mitici o di personificazioni di per sé esistenti), ma è talvolta da identificare nelle reazioni cui la figura si intendeva fosse associata. Discutendo le rappresentazioni del ciclo dell'anno, lo Hanfmann (1951) osserva l'estrema difficoltà dell'uso dei termini di a. e personificazione in riferimento all'arte antica, poiché la percezione della sostanza mitologica in qualsiasi personificazione, sorta consapevolmente o no, non venne mai meno. Ultimamente (1954) T.B.L. Webster ha ancora più precisamente definito il posto che la personificazione occupa nel pensiero antico: "la personificazione era un modo in cui gli antichi Greci guardavano il mondo, e che influenzò il loro pensiero su ogni soggetto, sicché il particolare raggiungimento dei Greci nel pensiero può essere visto come una continua battaglia tra la tendenza a personificare e quella a tradurre in schemi".

Per riassumere i molti aspetti della questione, si può dire che oggi si sono compiuti notevoli passi avanti nel raccogliere il materiale archeologico, si è approfondita la conoscenza del rapporto tra l'a. figurativa e la visione del mondo che le è connessa, si sono distinti tipi particolari di a., mentre è tuttora discussa la distinzione tra a. e personificazione. Lo Hinks ha proposto di attenersi al senso originario di a. e cioè riconoscere l'a. soltanto in quei casi in cui si possa parlare di una vera metaphora continua. In questa enciclopedia si troverà la trattazione dei singoli temi iconografici alle singole voci ad essi dedicati; inoltre la voce Simboli e attributi presenta il materiale per un confronto sistematico e per il raccordo tra i vari tipi di raffigurazione. Infine cfr. Personificazione.

Bibl: J. J. Winckelmann, Gedanker über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei u. Bildhauerkunst, Dresda 1755; idem, Versuch einer Allegorie, besonders für die Kunst, Dresda 1766; v. inoltre in Kleine Schriften: Von der Allegorie überhaupt, Lipsia 1913; G. E. Lessing, Laokoon-Studien, 1766, ed. Blümner, 1876, p. 126 ss., p. 178 ss. e cap. X; H. Blümner, Ueber den Gebrauch der Allegorie in den bildenden Künsten, Friburgo-Tubinga 1881; A. Gerber Naturpersonifikationen in Poesie und Kunst der Alten, in Jahrb. für klass. Philologie, Suppl.-Bd. XIII, 2, 1883, p. 241 ss.; Th. Vischer, in Philosophische Aufsätze für Zeller, Lipsia 1887; F. Creuzer, Symbolik u. Mythologie der alten Völker, Lipsia 1836-42; E. Pottier, Les représentations allégoriques dans les peintures, in Monuments grecs, nn. 17-18, 1889-90; J. Burckhardt, Die Abstrakta in der Kunst, in Gesamtausgabe, XIII, 1934, p. 29 ss.; id., Die Allegorie in d. Künsten, in J. B. Vorträge, ed. Dürr, Basilea 1919; Fr. Matz, Die Naturpersonifikationen in der griechischen Kunst, Gottinga 1913; C. Robert, Archaeologische Hermeneutik, Berlino 1919, p. 46 ss.; Hasting's Encycl. of Relig. a. Ethics, I, p. 327 ss., s. v. Allegory; E. Panovsky, Hercules am Scheidewege, Lipsia 1930, p. 42 ss.; O. Brendel, Zur Allegorie d. pomp. Totenkopfmosaiks, in Röm. Mitt., 1934, p. 157 ss.; R. Hinks, Mytha. Allegory in Ancient Art, Londra 1939; L. Petersen, Zur Gesch. der Personif., Würzburg 1939; W. Nestle, Vom Mythos zum Logos, Stoccarda 1940; W. K. Guthrie, in Journ. Hell. Stud., LX, 1940, pp. 104-105; Ch. Picard, Le théatre grec et l'allégorie, in Rev. Ét. Gr., LV, 1942, pp. 25-49; D. Levi, in Art Bulletin, XXIII, 1941, pp. 251-91; G. Hamberg, Studies in Roman Imperial Art, Copenaghen-Upsala 1945; Ch. Picard, in Rev. Arch., XXV-XXVI, 1946, i, pagine 101-104; K. Lehmann, in Art. Bull., XXIX, 1947, p. 138 ss.; Ch. Picard, in Compt.-rend. de l'Acad. des Inscript. et Belles Lettres, 1951, p. 310 ss.; G. Hanfmann, The Season Sarcophagus in Dumbarton Oaks, Cambridge, Mass., 1951, pp. 60, 122; Ch. Picard, in Rev. Arch., 1953, p. 10 ss.; T. B. L. Webster, Personification as a Mode of Greek Thought, in Journal of the Warburg a. Courtauld Inst., XVII, 1954, 1-2, p. 3 ss.

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