Alimentazione

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Alimentazione

Gianni Tomassi
Anna Meldolesi
Paolo De Castro
Enrico Porceddu e Maria Antonietta Spadoni

Problemi socio-economici, di Gianni Tomassi

Organismi vegetali geneticamente modificati, di Anna Meldolesi

Allevamento degli animali, di Paolo De Castro

Patologie connesse con l'alimentazione, di Enrico Porceddu e Maria Antonietta Spadoni

Problemi socio-economici

SOMMARIO: 1. Introduzione: concetti generali. ▭ 2. La distribuzione della ricchezza nel mondo. ▭ 3. Lo sviluppo demografico nelle varie aree geografiche del mondo. ▭ 4. Disuguaglianze del consumo alimentare nel mondo. ▭ 5. Effetti delle disuguaglianze di consumo alimentare sullo stato di nutrizione e di salute delle popolazioni. ▭ 6. Alimentazione nel prossimo futuro. ▭ Bibliografia.

1.Introduzione: concetti generali.

L'alimentazione ha da sempre rappresentato un problema fondamentale per la sopravvivenza e lo sviluppo degli uomini. Gli alimenti sono infatti la fonte dell'energia e dei principî nutritivi necessari alla crescita e allo sviluppo dell'organismo, il quale ha bisogno di una varietà di nutrienti energetici (carboidrati, grassi e proteine) e non energetici (fondamentalmente vitamine e sali minerali). Una dieta variata ed equilibrata è in grado di fornire tutti i nutrienti necessari all'organismo: non poter variare le scelte alimentari e/o consumare alimenti in maniera nutrizionalmente squilibrata, cioè in difetto o in eccesso rispetto alle reali necessità, rende difficile raggiungere e mantenere un buono stato di nutrizione e perciò di salute.

L'alimentazione, vale a dire il soddisfacimento delle necessità fisiologiche grazie alle capacità nutritive degli alimenti, si colloca in un complesso sistema di relazioni causali e di interrelazioni con altri fattori economici, demografici e sociali. Nella determinazione dei livelli di consumo - che sono il risultato del gioco combinato di tali fattori e pertanto variano in riferimento al tempo (evoluzione storica dei consumi) e allo spazio (differenze geografiche) - agiscono soprattutto il livello e la distribuzione del reddito, lo sviluppo e la struttura della popolazione, nonché la varietà delle tradizioni e delle abitudini alimentari. Gli stessi fattori determineranno molto probabilmente l'alimentazione del futuro e i problemi nutrizionali a essa connessi. Ciò vuol dire che l'esame della situazione attuale e delle tendenze più recenti consente una ragionevole previsione di quella che sarà l'alimentazione e, di conseguenza, lo stato di nutrizione delle popolazioni del nostro pianeta, per lo meno nel breve e medio termine.

2. La distribuzione della ricchezza nel mondo.

Il reddito pro capite è distribuito molto disegualmente fra i vari paesi del mondo. Secondo una recente stima della Banca Mondiale, si va da un minimo di 100-420 dollari/anno/abitante per le popolazioni più povere (41 paesi, soprattutto africani) fino a un massimo di oltre 5.000 dollari/anno per le popolazioni più ricche, che vivono soprattutto nei paesi europei, nel Nordamerica e in Giappone (v. tab. I). Nel primo livello di reddito, i paesi elencati rappresentano il 70% della popolazione totale compresa in tale fascia (650 su 932 milioni); nel secondo il 92% (2.651 su 2.891 milioni); nel terzo il 78% (348 su 445 milioni); nel quarto il 70% (319 su 464 milioni) e nel quinto l'80% (883 su 1.078 milioni).

Come si può osservare, dei circa 6 miliardi di persone che attualmente popolano la Terra circa 4 miliardi hanno un reddito estremamente basso, circa 1 miliardo un reddito medio-basso e circa 1 miliardo un reddito medio-alto. Questa diversa distribuzione della ricchezza è certamente alla base delle forti diseguaglianze nelle disponibilità al consumo alimentare fra i diversi gruppi di popolazione, non solo in senso quantitativo (adeguatezza calorica della dieta), ma anche in senso qualitativo: nei paesi a maggior reddito si tende a consumare alimenti più costosi e pregiati (quali carne, dolci e grassi), nei paesi a reddito basso si consumano invece alimenti più poveri e più a buon mercato (quali cereali, radici e tuberi). Pertanto, non è possibile esaminare i problemi dell'alimentazione e della nutrizione in termini globali, dal momento che esistono a tutt'oggi due realtà socio-economiche assai diverse e distanti fra loro: quella delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo (PVS) - che, secondo la definizione dell'ONU, comprendono Africa, Asia (eccetto il Giappone), America Latina e Caraibica, Melanesia, Polinesia e Micronesia - e quella delle popolazioni dei paesi sviluppati (PS) - comprendenti sia i paesi industrializzati (Giappone, Canada, Stati Uniti d'America, Australia, Nuova Zelanda ed Europa) che quelli con economia in transizione (soprattutto i paesi dell'Europa orientale). È proprio nei PVS che si concentra la maggior parte della popolazione mondiale (circa l'80%) e che si è registrata la maggior velocità di crescita demografica negli ultimi 40 anni.

3. Lo sviluppo demografico nelle varie aree geografiche del mondo.

Il passato recente è stato caratterizzato da un grande sviluppo demografico, con una velocità di crescita delle popolazioni mai registrata nel passato. Basti pensare che negli ultimi 40 anni la popolazione è aumentata di 3 miliardi di persone (passando esattamente dai 3 miliardi del 1960 agli attuali 6 miliardi), mentre nel secolo precedente ci sono voluti più di 100 anni per aumentare di un solo miliardo (da 1 miliardo del 1804 a 2 miliardi del 1927). All'interno dei singoli paesi che costituiscono nel loro insieme i PVS e i PS, lo sviluppo demografico ha avuto andamenti diversi, che possono aver determinato problemi nutrizionali e alimentari specifici e più o meno rilevanti. Un confronto dello sviluppo della popolazione negli anni 1960-2001 in alcuni paesi rappresentativi delle aree di diverso livello socio-economico (v. tab. II) mette in evidenza l'elevato aumento percentuale in Africa e in India, contro il basso incremento in Giappone e in Nordamerica.

Sulla base delle tendenze dei tassi di natalità, della struttura della popolazione e dei tassi di mortalità, l'ONU ha calcolato per il 2050 un aumento demografico globale di circa 3 miliardi, concentrato esclusivamente nei PVS, in particolare in Asia e in Africa, mentre in Europa si prevede addirittura una riduzione della popolazione (v. tab. III). È da sottolineare che fra i paesi europei, l'Italia si colloca all'ultimo posto (si prevede nello stesso periodo una riduzione da 57 a 41 milioni di abitanti), a causa essenzialmente del più basso tasso di fecondità totale (1,2 nati per donna, contro 1,4 della media europea e 1,9 del Nordamerica).

È evidente, perciò, che i maggiori problemi di approvvigionamento alimentare e di carenza nutrizionale si sono presentati soprattutto nei PVS, in conseguenza dello sviluppo demografico oltre che delle ridotte capacità produttive e di disponibilità al consumo alimentare. Tuttavia, accanto a questa forte crescita demografica si sono fortunatamente sviluppate nuove tecnologie di coltivazione (la cosiddetta 'rivoluzione verde'); i progressi della ricerca scientifica, soprattutto nel settore della genetica, hanno reso disponibili nuove ed elette varietà, e l'uso di fertilizzanti inorganici, di antiparassitari, di erbicidi e di nuovi sistemi di irrigazione e sistemazione dei terreni ha permesso di migliorare sensibilmente la resa produttiva per unità di superficie e per pianta. Analoga situazione si riscontra nel settore delle produzioni animali, grazie alla selezione genetica della specie da allevare e ai nuovi sistemi di allevamento.

4. Disuguaglianze del consumo alimentare nel mondo.

I progressi registrati nel settore agrario hanno consentito di aumentare le produzioni e le disponibilità al consumo di derrate alimentari sia nei PS che nei PVS, cosicché è stato possibile far fronte all'accresciuta domanda dovuta all'aumento delle popolazioni. Tuttavia, le forti disuguaglianze fra le due realtà socio-economiche del nostro pianeta sussistono tuttora, in particolare per gli alimenti di più elevato valore economico e nutrizionale. Se infatti si prendono in esame, per esempio, due produzioni alimentari fra le più importanti e significative per l'alimentazione umana, quali i cereali e le carni, nelle due aree socio-economiche considerate (sviluppate e non sviluppate), si può constatare che mentre per i cereali lo sforzo produttivo dei PVS è riuscito, nonostante il forte aumento demografico, a mantenere gli stessi livelli di disponibilità al consumo pro capite che si registravano all'inizio del periodo considerato (1960), per quanto riguarda il consumo di carni, uova e latte le distanze sono invece ancora notevoli. Nel caso del livello produttivo dei cereali permane comunque il forte divario fra Nordamerica ed Europa, da un lato, e Africa, India e Cina, dall'altro. Inoltre, mentre nei PS la disponibilità totale è inferiore alla produzione interna (in quanto una parte viene destinata all'esportazione) nei PVS essa è in genere più elevata in quanto una parte delle derrate viene importata. Da notare, infine, che mentre nei PS la maggior parte della disponibilità totale di cereali è destinata all'alimentazione animale, nei PVS è destinata al consumo umano diretto (v. tab. IV).

Nel caso degli alimenti di origine animale (latte, carne e uova) si osserva ancora un forte divario delle quantità disponibili al consumo nei PS e nei PVS, sia pure con la tendenza, in questi ultimi, a un progressivo miglioramento, al contrario di quanto avviene nei PS, dove si registra una tendenza alla diminuzione delle disponibilità (v. fig. 1). Dal punto di vista nutrizionale, tale forte divario nelle disponibilità alimentari dei PS e dei PVS determina situazioni di eccesso o, al contrario, di difetto negli apporti energetici individuali. Infatti, se si esaminano gli andamenti delle disponibilità pro capite di calorie/giorno nei due gruppi di paesi, nel 1961 si può osservare una differenza di circa 1.000 kcal (circa 1.900 kcal nei PVS e circa 2.900 kcal nei PS), con tendenza, però, a un progressivo aumento nei PVS (2.680 kcal) e a una diminuzione (negli ultimi anni) nei PS (3.260 kcal), per cui attualmente il divario si è circa dimezzato (v. fig. 2).

Secondo una più recente stima della FAO le disponibilità al consumo alimentare (che però non corrispondono ai consumi alimentari effettivi, ma risultano semplicemente dalla somma algebrica dei dati di produzione, importazione, esportazione e giacenze, e perciò generalmente sovrastimano le quantità realmente consumate) corrispondono a un apporto di energia pro capite/giorno che va dalle 2.100 calorie per i paesi più poveri alle 3.260 calorie per i paesi più ricchi (v. tab. V).

Se oltre all'apporto energetico totale si prende in considerazione anche la provenienza delle calorie (alimenti di origine animale o vegetale), che fornisce un'indicazione sulla qualità della dieta, si nota ancora un forte divario fra i due gruppi di paesi per quanto riguarda la percentuale di calorie da alimenti di origine animale. Infatti, nei paesi industrializzati questa presenta attualmente valori superiori al 20% delle calorie totali, mentre nei paesi in via di sviluppo si hanno valori intorno al 7%. Ciò dipende dal fatto che nei paesi più poveri vengono consumati per la massima parte alimenti di origine vegetale a basso prezzo, quali cereali e tuberi, mentre nei paesi più ricchi gli alimenti di origine animale, maggiormente dotati di proteine di elevata qualità biologica, rappresentano una quota rilevante dell'alimentazione.

Anche per quanto riguarda la disponibilità giornaliera pro capite di proteine, e in misura ancora maggiore quella di grassi, si nota un forte divario fra PS e PVS, nonostante che nel corso degli ultimi anni si sia rilevata una tendenza al recupero dei PVS, dovuta anche a una stabilizzazione nei PS (v. figg. 3 e 4). Un'analisi più dettagliata mostra che nei PS i maggiori livelli di consumo di grassi sono quelli del Nordamerica, mentre l'Asia ha attualmente superato i livelli di consumo dei paesi africani. Ciò è da mettere in relazione non solo al livello di ricchezza, ma anche alle abitudini alimentari (ad esempio, negli Stati Uniti d'America si fa un più largo uso di grassi che in Europa; v. fig. 5).

5. Effetti delle disuguaglianze di consumo alimentare sullo stato di nutrizione e di salute delle popolazioni.

Un'alimentazione corretta ed equilibrata è quella che fornisce all'organismo una quantità di energia e di principî nutritivi adeguata alle sue specifiche necessità (individuo in età evolutiva, adulto, anziano, in gravidanza, in allattamento). Quando ciò non avviene si va incontro a una serie di disturbi e malattie che si manifestano in tempi più o meno lunghi. Esistono perciò malattie da carenza e malattie da eccesso di cibo; per lo più si tratta di malattie croniche, alcune delle quali di tipo degenerativo.

Le malattie da carenza alimentare si manifestano soprattutto nei paesi più poveri, ma anche nei paesi economicamente sviluppati esistono sacche di popolazione che, soprattutto per motivi di emarginazione sociale, non hanno facile accesso al cibo. Si calcola che circa 34 milioni di persone che vivono in paesi sviluppati soffrono oggi la fame. Alle carenze da sottoalimentazione cronica generale - che, secondo le stime FAO-WHO, riguardano circa 800 milioni di persone - se ne debbono aggiungere altre più specifiche, derivanti da mancanza di singoli nutrienti (ad esempio, l'anemia da mancanza di ferro, l'osteoporosi da mancanza di calcio e il gozzo da mancanza di iodio), che riguarderebbero circa 2 miliardi di persone in tutto il mondo.

Gli effetti della sottoalimentazione e della malnutrizione nei bambini, che sono i soggetti più vulnerabili e sensibili a queste situazioni di carenza, consistono soprattutto in un ritardo nella crescita e nello sviluppo psico-fisico. Si riscontra inoltre una minore resistenza alle infezioni, dovuta a una ridotta capacità di difesa da parte del sistema immunitario. Secondo la sesta inchiesta alimentare mondiale, condotta dalla FAO-WHO negli anni 1990-1991 in 98 paesi in via di sviluppo, circa 200 milioni di bambini vanno incontro a un ritardo nella crescita: essi presentano infatti altezza insufficiente rispetto all'età o peso insufficiente rispetto all'altezza.

Gli effetti di eccessi e/o squilibri alimentari, invece, determinano soprattutto l'insorgenza di disturbi e malattie di tipo cronico degenerativo, quali l'obesità, il diabete, le malattie cardiovascolari e i tumori. Queste patologie sono legate essenzialmente all'eccesso di calorie rispetto ai reali fabbisogni (in particolare per l'obesità e il diabete) e all'eccessivo consumo di grassi alimentari, in particolare di quelli saturi (malattie cardiovascolari e tumori). Nel caso dei tumori, in particolare quelli del tratto gastrointestinale, un ruolo importante sembra avere un insufficiente apporto di fibra alimentare e anche un insufficiente apporto di vitamina C.

Per i paesi sviluppati e industrializzati, l'aspetto sociale legato alle abitudini alimentari e al livello di istruzione sembra rivestire il ruolo più importante nel determinare o, al contrario, risolvere i problemi della malnutrizione. Così, ad esempio, in Italia l'incidenza dell'obesità nei bambini è più elevata nelle regioni a minor sviluppo economico, come quelle del meridione e delle isole, rispetto alle regioni del nord, economicamente più sviluppate.

Un recente studio pubblicato su "The lancet" (v. Ebbeling e altri, 2002) riporta che l'obesità nei bambini è aumentata notevolmente in tutto il mondo e, per quanto interessi prevalentemente i paesi sviluppati, comincia a manifestarsi anche in alcuni paesi sottosviluppati. Tale patologia causa una serie di complicanze mediche e psico-sociali e inoltre fa aumentare la morbilità e il rischio di morte precoce. Pur conoscendo le basi fisiologiche che regolano il peso corporeo e le ragioni scientifiche che portano all'instaurarsi di questa condizione fisio-patologica, il trattamento dell'obesità infantile rimane molto spesso inefficace, in quanto a determinarla concorrono diversi fattori sociali, comportamentali e ambientali. Secondo gli autori dello studio, per cercare di prevenire e/o limitare il fenomeno dell'obesità infantile occorre una serie di iniziative di tipo socio-economico e politico, oltre che di tipo medico, occorre cioè un approccio multiplo e di buon senso, a livello familiare, scolastico, urbanistico, di marketing e politica industriale (v. tab. VI). Gli interventi che possono assicurare il successo nella prevenzione e nel trattamento dell'obesità infantile debbono essere perciò di tipo socio-culturale e comportamentale.

6. Alimentazione nel prossimo futuro.

Nei paesi in via di sviluppo e anche in quelli in via di transizione esistono a tutt'oggi situazioni di 'insicurezza alimentare' - dovute a indisponibilità di alimenti, insufficiente potere d'acquisto, inappropriata o inadeguata distribuzione dei cibi a livello domestico - che possono essere croniche, provvisorie o stagionali. Per tentare di risolvere in un prossimo futuro questi problemi di sottoalimentazione due sono le vie principali: la prima è quella degli interventi locali, per iniziativa delle autorità preposte che, individuate le carenze di cui soffrono le popolazioni da esse amministrate, cerchino di porvi rimedio con risorse e direttive appropriate; la seconda via è quella delle azioni intraprese dai governi nazionali o da agenzie internazionali che attraverso indagini statisticamente valide determinino le cause della sottoalimentazione e cerchino di rimuoverle adottando politiche alimentari adeguate. Una approfondita analisi dei dati ottenuti dalle indagini è essenziale perché i politici possano operare in modo mirato, dirigendo sforzi e risorse in maniera precisa ed efficace là dove le necessità sono più stringenti.

Combinando l'azione locale con quella più vasta di politica internazionale si può sperare di risolvere il problema della sottoalimentazione in tempi brevi, riducendolo gradualmente nel corso degli anni: è questo l'obiettivo del Piano di azione del World Food Summit del 1996. Uno dei sistemi migliori consisterebbe nella riduzione del debito dei paesi in via di sviluppo nei confronti dei paesi più ricchi, come è nella facoltà della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. La riduzione o l'eliminazione del debito possono aiutare lo sviluppo dell'agricoltura e dell'industria agroalimentare specialmente nelle zone rurali dove la sottoalimentazione è molto diffusa. Secondo un rapporto FAO-WHO (v., 2002), l'adozione di queste politiche unitamente ad azioni di intervento del tipo sopracitato potrebbe ridurre, entro il 2030, di circa la metà la popolazione che oggi soffre di sottoalimentazione nei paesi in via di sviluppo, con particolare riguardo all'India e alla Cina (v. tab. VII).

Sul piano mondiale la FAO stima che la quantità di cibo attualmente prodotto sarebbe sufficiente ad assicurare a tutti una quota di energia adeguata alle necessità dell'organismo (2.720 kcal/pro capite/giorno) con una equilibrata ripartizione dell'energia fra carboidrati (circa 60%), proteine (10-15%) e grassi (25-30%). Invece, nel mondo le situazioni di malnutrizione per difetto o per eccesso riguardano centinaia di milioni di persone. Evidentemente il problema sta non tanto nella produzione, quanto nella distribuzione delle risorse alimentari fra i vari gruppi di popolazione, ed è legato, oltre che a differenze di reddito pro capite, a carenze nei sistemi di trasformazione, conservazione e trasporto dei prodotti alimentari, a diversi stili di vita (credenze, tradizioni, ecc.), nonché al livello di istruzione e di cultura sia generale, sia riferito specificamente all'alimentazione e alla nutrizione.

Nei PS i problemi alimentari e nutrizionali sono diversi, e i più rilevanti sono quelli legati agli eccessi di consumo e alla qualità della dieta adottata, che deve essere adeguata, equilibrata e salutare. Nell'Unione Europea, inoltre, la Commissione, che ha di recente pubblicato il Libro bianco sulla sicurezza alimentare, ha formulato proposte atte a trasformare la politica alimentare dell'UE in uno strumento proattivo, dinamico, coerente e completo per assicurare un elevato livello di salute dell'uomo e di tutela dei consumatori. A tal fine sono state previste azioni molteplici di sorveglianza, controllo e intervento lungo tutta la filiera alimentare (dal campo alla tavola), ivi compresi i mangimi utilizzati nell'alimentazione degli animali di allevamento.

Insieme a una maggiore coscienza 'nutrizionale', che deriva dal riconoscimento dello stretto legame fra alimentazione e salute, si è sviluppata nei PS anche una maggiore coscienza 'ecologica', nata dalla constatazione che i sistemi agricoli ad alta efficienza, come quelli che si sono sviluppati nel recente passato, hanno trascurato gli effetti sulla rinnovabilità e sostenibilità delle risorse naturali su cui si impernia anche l'agricoltura. La minaccia del depauperamento e/o dell'inquinamento delle risorse naturali ha promosso nei PS un gran numero di studi, ricerche e innovazioni tecnologiche mirati a favorire uno sviluppo agroalimentare più ecocompatibile.

Nel prossimo futuro è quindi da prevedere una grande diffusione di alimenti 'biologici', o meglio 'ecocompatibili', che consentano di tutelare la salute del consumatore anche attraverso la salvaguardia delle risorse naturali che lo circondano. In questo quadro rientrano le produzioni alimentari ottenibili con il ricorso a pratiche agricole che non fanno uso di pesticidi e fertilizzanti chimici (la cosiddetta 'agricoltura biologica') e con l'impiego delle moderne biotecnologie. Queste ultime, se da un lato aprono prospettive di grande interesse tecnico-scientifico per la produzione agroalimentare, dall'altro pongono problemi di controllo della loro salubrità e anche di tipo economico, ambientale e sociale. Per questi motivi si prevede uno sviluppo graduale degli alimenti biotecnologici, selezionati in base alla loro effettiva validità, ecocompatibilità, economicità e sicurezza per la salute del consumatore. Inoltre, grazie all'aumento delle conoscenze scientifiche sui singoli componenti alimentari e sulle loro funzioni nell'organismo umano, è prevedibile lo sviluppo di prodotti alimentari sempre più 'sofisticati', nel senso di alimenti sottoposti non a manipolazioni illecite, ma a operazioni sempre più complesse sul piano tecnologico e nutrizionale. In questa prospettiva, valida soprattutto per i paesi sviluppati, si colloca la produzione di alimenti mirati, in grado di rispondere a specifiche esigenze nutrizionali e di salute del consumatore, quali ad esempio i cosiddetti alimenti 'funzionali', ossia quelli arricchiti in nutrienti, o quelli ipocalorici, nonché gli integratori alimentari.

L'obiettivo da raggiungere nel prossimo futuro, sia nei paesi in via di sviluppo che nei paesi sviluppati, è quello della sicurezza alimentare, definito dalla FAO come "accesso fisico ed economico, continuativo e generalizzato all'alimentazione", ma che dovrebbe essere inteso in senso più allargato come possibilità per tutti, bambini, donne e uomini, di accedere a un'alimentazione adeguata e bilanciata, consentendo così a ciascun essere umano la piena espressione dell'innato potenziale genetico per un completo sviluppo e benessere fisico e mentale.

Bibliografia.

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IFPRI (International Food Policy Research Institute), 1999-2000 Annual report. Eradicating malnutrition, Washington: IFPRI, 2000.

Madden, P., Food biotechnology. An introduction, Brussels: The International Life Science Institute (ILSI) Europe, 1995.

The World Bank, World development indicators 2002, Washington: The World Bank Group, 2002.

Organismi vegetali geneticamente modificati

SOMMARIO: 1. Introduzione: a) cos’è un organismo vegetale geneticamente modificato; b) il miglioramento genetico convenzionale. ƒ 2. Dai laboratori ai campi: a) la corsa scientifica; b) il successo commerciale. ƒ 3. La riluttanza europea: a) dai falsi allarmi al doppio standard della biosicurezza; b) la percezione pubblica degli OGM. ƒ 4. Tendenze, sfide e prospettive delle biotecnologie: a) dal miglioramento qualitativo all’ingegneria genetica di precisione; b) rivoluzionare l’agricoltura. ƒ Bibliografia.

1. Introduzione.

a) Cos’è un organismo vegetale geneticamente modificato.

La sigla OGM (organismi geneticamente modificati), quando viene riferita all’agricoltura, indica le piante il cui patrimonio genetico è stato modificato ricorrendo agli strumenti dell’ingegneria genetica. In sostanza, si tratta di piante in cui sono stati inseriti in modo mirato uno o più geni estranei (i cosiddetti ‘transgeni’), che servono a produrre proteine normalmente assenti in quella specie vegetale e in grado di conferirle caratteristiche agronomiche o qualitative desiderate. Più raramente il transgene che viene introdotto serve non a produrre una nuova proteina, ma a sopprimere l’azione di un gene endogeno responsabile di caratteristiche indesiderate. In entrambi i casi si ottengono piante che sarebbe più opportuno definire transgeniche, perché le varietà agricole prodotte per incrocio e chiamate ‘convenzionali’ in realtà sono state geneticamente modificate anch’esse per mezzo di strumenti diversi da quelli dell’ingegneria genetica. Rispetto a queste tecniche convenzionali di miglioramento genetico attraverso incroci, o breeding, l’ingegneria genetica offre almeno due vantaggi sostanziali, in termini di efficienza e di ampiezza del raggio di azione. Gli specialisti che si dedicano al miglioramento genetico utilizzando i sistemi classici (breeders) possono trasferire un carattere alla specie di interesse solo se questo carattere è presente in una pianta donatrice che sia sessualmente compatibile con la ricevente o che possa essere resa tale in condizioni di laboratorio. Un biotecnologo, invece, può cercare in qualsiasi specie (batterica, vegetale o animale) il carattere che desidera trasferire e ha quindi la possibilità di raggiungere risultati che al breeder sono preclusi. Inoltre il breeding è un processo lungo e laborioso, che richiede in media una decina di anni, perché l’incrocio comporta il completo mescolamento dei genomi delle due piante parentali e l’ibrido prodotto, oltre ad acquisire la caratteristica desiderata, eredita dalla pianta donatrice anche migliaia di geni indesiderati che devono essere eliminati attraverso molti cicli di reincrocio. L’ingegneria genetica invece consente di effettuare interventi mirati, perché il gene di interesse viene isolato dall’organismo donatore, modificato in modo da poter essere trascritto efficientemente dall’organismo ricevente e quindi inserito in cellule vegetali che, poste nel terreno di coltura appropriato, sono in grado di dividersi, sviluppare radici e rigenerare intere piante. Il trasferimento di geni nelle cellule vegetali può avvenire sfruttando un batterio (Agrobacterium tumefaciens) che è una sorta di ‘ingegnere’ naturale perché è dotato di un piccolo cromosoma circolare, chiamato plasmide Tumor inducing, capace di indurre la formazione di tumori vegetali integrandosi nei cromosomi della pianta ospite. Una volta rimossi i geni responsabili del tumore e inseriti i geni che si vogliono trasferire alla pianta di interesse, Agrobacterium diventa un efficace vettore per la trasformazione delle cellule vegetali. Tra i metodi disponibili c’è anche quello ‘biolistico’, che sfrutta un getto di aria compressa per bombardare le cellule vegetali con microproiettili di metallo ricoperti con il DNA contenente i geni desiderati (v. fig. 1; v. botanica, vol. X): solo alcune delle cellule vegetali risulteranno trasformate, perciò il gene di interesse viene affiancato da un gene marcatore la cui presenza consente di distinguere rapidamente le cellule transgeniche (tra i primi marcatori utilizzati figurano geni per la resistenza agli erbicidi o ad antibiotici non più in uso nella pratica clinica). Qualunque sia il metodo di trasformazione adottato, non è ancora possibile dirigere l’inserzione del transgene in punti prescelti del genoma vegetale; è perciò necessario esaminare le piante transgeniche prodotte per selezionare quelle in cui il gene estraneo si esprime correttamente senza danneggiare le funzioni vitali e le prestazioni agronomiche della pianta.

b) Il miglioramento genetico convenzionale.

Benché l’attenzione generale sia rivolta esclusivamente alle piante transgeniche, molte delle metodiche convenzionali di miglioramento genetico oggi in uso sono altrettanto artificiali e invasive dell’ingegneria genetica (v. McHughen, 2000, pp. 62-68). I breeders possono infatti forzare l’incrocio tra piante di specie – talvolta addirittura di generi – diverse, producendo combinazioni impossibili da ottenere in natura. Una variante di queste tecniche, nota con il nome di ‘salvataggio degli embrioni’, consente di prelevare gli embrioni abortiti che derivano da questi incroci estremi e di coltivarli in condizioni artificiali simili a quelle fornite dall’endosperma e dai tessuti materni del seme. Se l’incrocio non è possibile neppure in questo modo, si può ricorrere alla fusione di cellule somatiche, fino ad arrivare a veri e propri interventi di manipolazione dei nuclei cellulari o di ingegneria cromosomica. Per velocizzare il lavoro, inoltre, in alcuni casi si può ricorrere al cosiddetto breeding aploide, ossia all’incrocio di piante ottenute raddoppiando artificialmente il corredo cromosomico dei gameti vegetali (polline o ovuli) e che quindi hanno due copie identiche di ogni gene. Un’altra tecnica di miglioramento genetico convenzionale è il cosiddetto mutation breeding, che consiste nell’esporre le piante di interesse ad agenti mutageni (sostanze chimiche o radiazioni ionizzanti) che inducono mutazioni casuali nel loro genoma. La quasi totalità di queste mutazioni ha effetti dannosi o addirittura letali, ma in qualche caso può comparire un tratto genetico interessante dal punto di vista commerciale. In alternativa i breeders possono stimolare le cellule vegetali a dividersi formando una massa callosa, selezionando poi le cellule mutate a causa della proliferazione incontrollata e uccidendo chimicamente tutte le altre.

Paradossalmente, l’opposizione di parte dell’opinione pubblica agli OGM potrebbe contribuire a un rilancio di queste tecnologie, che sono assai più imprecise dell’ingegneria genetica ma non sono soggette a obblighi di etichettatura. Alla fine degli anni novanta, per esempio, sono state messe in commercio una varietà di soia e una di colza resistenti agli erbicidi, prodotte per mutagenesi chimica la prima, e ricorrendo alla selezione cellulare la seconda. Una delle obiezioni che vengono mosse agli OGM riguarda la possibilità che il gene estraneo passi attraverso l’impollinazione ad altre specie sessualmente compatibili presenti nella stessa area geografica. Ma è evidente che la diffusione accidentale ad altre specie vegetali di un carattere nuovo (per esempio la resistenza a un erbicida) presenta lo stesso tipo di rischi, indipendentemente dal fatto che questo carattere derivi da un intervento di ingegneria genetica o da mutagenesi indotta. Considerazioni analoghe valgono per il rischio che l’inserzione del transgene possa interferire con il normale metabolismo della pianta, determinando la comparsa di nuove tossine o una maggiore produzione delle molecole tossiche normalmente presenti. Il miglioramento genetico convenzionale, infatti, può causare lo stesso genere di incidenti e in letteratura sono riportati alcuni casi in cui ciò si è verificato (v. National Research Council, 2000, pp. 70-71). Ciò nonostante, prima di ottenere il via libera alla commercializzazione le piante transgeniche sono sottoposte a severi controlli, che vanno dallo studio del profilo molecolare alle prove tossicologiche su cavie (v. The Royal Society, 2002), mentre per piante analoghe, prodotte con tecniche convenzionali, vale una sorta di deregulation.

2. Dai laboratori ai campi.

a) La corsa scientifica.

I primi OGM vegetali hanno ricevuto l’autorizzazione dalle autorità competenti americane a metà degli anni novanta e sono stati coltivati su scala commerciale, coronando gli sforzi decennali di un piccolo numero di laboratori impegnati a contendersi meriti scientifici e diritti di proprietà intellettuale su ogni scoperta chiave. La nascita ufficiale dell’ingegneria genetica vegetale risale al 18 gennaio 1983, quando al Miami Winter symposium on molecular genetics of plants and animals, tre gruppi di ricerca annunciarono contemporaneamente di aver trasferito per la prima volta in cellule vegetali un gene marcatore, quello per la resistenza all’antibiotico kanamicina. Si trattava di due gruppi (quello di Mary-Dell Chilton, della Washington University di St. Louis, e quello di Jeff Schell e Marc van Montagu, della Ghent University in Belgio) che avevano già contribuito a fondare la nascente disciplina svelando i segreti dell’Agrobacterium tumefaciens e di un’industria agrochimica destinata a guidare la rivoluzione biotecnologica in agricoltura, la Monsanto di St. Louis. Proprio la Monsanto vanta il primato di essere riuscita a produrre le prime piante transgeniche (delle petunie) utilizzando delle cellule vegetali ingegnerizzate; questa industria si è assicurata i diritti di proprietà intellettuale sul promotore virale più utilizzato per far esprimere i transgeni nelle piante (il 35S), ma non è riuscita a ottenere il brevetto statunitense sull’utilizzo dell’Agrobacterium, brevetto non ancora assegnato nonostante venti anni di controversie legali. Per tutti gli anni ottanta, quindi, la prima generazione di biotecnologi vegetali è andata alla ricerca di applicazioni pratiche per gli strumenti molecolari appena messi a punto. Il primo successo commerciale ottenuto dall’ingegneria genetica vegetale è consistito nella produzione di piante resistenti agli erbicidi ad azione totale, che consentono di utilizzare un unico prodotto diserbante per eliminare tutte le specie infestanti senza danneggiare le piante di interesse, liberando gli agricoltori dal compito di diserbare meccanicamente il terreno prima della semina e poi di controllare la crescita delle infestanti applicando diversi prodotti ad azione selettiva. A battere tutti sul tempo è una piccola compagnia californiana, la Calgene, che nel 1985 utilizza un gene per la resistenza all’erbicida Roundup identificato in un batterio mutante; qualche anno dopo essa sarebbe divenuta famosa per la commercializzazione del primo prodotto transgenico (un pomodoro che può essere conservato per un lungo periodo grazie al silenziamento del gene che provoca il rammollimento durante la maturazione, ma che è scomparso rapidamente dal mercato; v. botanica, vol. X). Risultati via via migliori nel campo della resistenza agli erbicidi saranno conseguiti da altre compagnie, tra cui la casa produttrice del Roundup, la Monsanto, utilizzando dapprima un gene di petunia, poi un gene batterico. Nel 1986 è la volta della resistenza ai virus: un ricercatore della Monsanto riesce infatti a introdurre nel DNA del tabacco il gene che esprime una proteina virale di superficie, riproducendo quel fenomeno naturale per cui le piante possono acquisire una certa immunità agli attacchi virali quando sono già state infettate da un virus. Subito dopo viene raggiunto il traguardo della resistenza agli Insetti (Coleotteri, Lepidotteri, Ditteri), grazie all’impiego di una classe di geni che derivano da un batterio del suolo, il Bacillus thuringiensis, le cui spore sono utilizzate da decenni in agricoltura perché una volta ingerite risultano letali per le larve. Questi geni, chiamati Bt, rappresentano da subito uno dei principali obiettivi di tutti i gruppi di ricerca del settore e saranno alla base di alcuni dei prodotti transgenici di maggiore successo. Nel 1987 viene riportato in letteratura che sono state ottenute le prime piante di tabacco Bt, sviluppate dalla compagnia fondata da van Montagu (la Plant Genetic Systems), ma ancora una volta non mancano le contese sull’effettiva paternità dell’invenzione e sui relativi diritti di proprietà intellettuale. Negli anni successivi si tenterà di replicare gli stessi risultati nelle specie di interesse commerciale, le quali si dimostrano però assai meno malleabili alla trasformazione delle piante modello utilizzate nei primi esperimenti. Nasceranno infine i prodotti destinati ad arrivare sul mercato nella seconda metà degli anni novanta: mais, soia, colza e cotone resistenti agli erbicidi; mais Bt resistente alla piralide; cotone Bt resistente a diverse specie di Lepidotteri; patate Bt resistenti alla dorifora, zucchine resistenti a tre diversi virus e papaya resistenti al papaya ringspot virus.

b) Il successo commerciale.

Nei sei anni successivi al loro debutto commerciale, il tasso di adozione delle piante transgeniche a livello mondiale è stato il più alto mai registrato per qualsiasi innovazione tecnologica nel campo dell’agricoltura industriale. L’area adibita a colture transgeniche dal 1996 al 2001 è cresciuta di oltre 30 volte, fino a superare i 50 milioni di ettari, una superficie equivalente a oltre il doppio della Gran Bretagna (v. fig. 2). Gli Stati Uniti sono rimasti il paese leader (68% del totale), seguiti da Argentina (22%), Canada (6%) e Cina (3%). La superficie coltivata con OGM continua a crescere in diversi paesi in via di sviluppo, come il Sudafrica, mentre nel 2001 e nel 2002 Indonesia e India hanno autorizzato per la prima volta la coltivazione di una pianta transgenica, il cotone Bt. La mappa delle colture OGM comunque è certamente più estesa di quanto indicato dalle stime ufficiali, dal momento che il contrabbando di sementi transgeniche è fiorente in diversi paesi (il Brasile innanzitutto). Le piante transgeniche più diffuse nel 2001 continuano a essere soia (63%), mais (19%), cotone (13%) e colza (5%), seguite a grande distanza da patate, zucchine e papaya. I tratti dominanti su scala globale restano la resistenza agli erbicidi e quella agli Insetti, poiché le infezioni virali rappresentano un problema secondario per le colture su cui ha puntato la prima generazione di OGM. Secondo i dati raccolti dall’International Service for the Acquisition of Agri-Biotech Applications, nel 1999 i quattro prodotti più diffusi hanno determinato un vantaggio economico diretto per gli agricoltori dell’ordine di 700 milioni di dollari, ugualmente suddiviso tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo (v. James, 2001).

Proiezioni più aggiornate sono disponibili per gli Stati Uniti, dove secondo uno studio del National Center for Food and Agricultural Policy (NCFAP) le otto varietà transgeniche coltivate su scala commerciale nel 2001 hanno aumentato la produzione alimentare e tessile americana di 1,8 milioni di tonnellate, hanno consentito un risparmio complessivo per gli agricoltori di 1 miliardo e mezzo di dollari e hanno ridotto il consumo di prodotti agrochimici (erbicidi e pesticidi) di 20.000 tonnellate, con ovvi benefici per l’ambiente (v. Gianessi e altri, 2002). Uno dei casi di maggiore successo è quello della papaya resistente ai virus, che nel giro di due soli anni ha salvato la produzione di papaya delle Hawaii, decimata nel corso degli anni novanta dal papaya ringspot virus. Se alle specie già coltivate si affiancassero anche quelle già autorizzate ma non ancora adottate e quelle in via di sviluppo caratterizzate da resistenza a patogeni (Virus, Batteri, Nematodi e Funghi), Insetti o erbicidi, secondo il NCFAP la produzione americana potrebbe crescere di 6,3 milioni di tonnellate, mentre gli agricoltori americani potrebbero risparmiare 2 miliardi e mezzo di dollari e ridurre il consumo di prodotti chimici di 73 mila tonnellate all’anno (v. tab. I).

Il caso cinese è altrettanto esemplare. La coltivazione di due varietà di cotone Bt, una sviluppata localmente e una prodotta da una joint venture con la Monsanto, è stata avviata nel 1997 e nel 2001 aveva già interessato 1 milione e mezzo di ettari, coinvolgendo 5 milioni di agricoltori e dimostrando che questa tecnologia può essere vantaggiosa anche per i piccoli coltivatori. I costi di produzione di un chilogrammo di cotone sono scesi del 28%, garantendo benefici economici complessivi per 334 milioni di dollari nel solo 1999. L’uso di pesticidi tossici (organofosfati e organoclorine), utilizzati in grande quantità dai coltivatori cinesi di cotone per contrastare le forti infestazioni, si è ridotto dell’80% con evidenti effetti benefici per la salute. Non desta stupore quindi che nel 2001 la Cina abbia deciso di aumentare del 400% entro il 2005 i già sostanziosi investimenti nel settore. Se questo impegno sarà rispettato, la potenza asiatica coprirà da sola un terzo della spesa pubblica mondiale destinata alla ricerca agrobiotecnologica (v. Huang e altri, 2002).

3. La riluttanza europea.

a) Dai falsi allarmi al doppio standard della biosicurezza.

La così rapida diffusione delle colture OGM è sorprendente se si considera che, sin dall’arrivo dei primi carichi di soia e mais transgenici nei porti europei nel 1996, una parte dell’opinione pubblica del Vecchio Continente ha iniziato a manifestare una decisa opposizione ai prodotti transgenici, opposizione che ha raggiunto il culmine tra il 1998 e il 1999. Una serie di polemiche innescate da controversi lavori scientifici sui rischi degli OGM ha spinto dapprima supermercati e industrie alimentari a boicottare i prodotti transgenici, inducendo poi alcuni paesi membri dell’Unione Europea (Francia, Grecia, Italia, Danimarca e Lussemburgo) a proclamare una moratoria di fatto, bloccando le autorizzazioni per nuovi OGM in tutta l’Unione (giugno 1999). Solo la Spagna ha continuato a destinare una modesta superficie alla coltivazione del mais Bt, mentre negli altri paesi dell’Europa occidentale gli unici ‘rilasci nell’ambiente’, vale a dire le uniche coltivazioni di OGM in spazi non confinati, sono fatti a fini sperimentali.

L’opposizione agli OGM è partita dalla Gran Bretagna, dove l’opinione pubblica era ancora scossa dall’emergenza determinata dell’encefalopatia spongiforme bovina (BSE), per poi estendersi in tutta Europa. L’episodio che scatena le polemiche nel 1998 è la rivelazione, subito contestata dalla comunità scientifica internazionale, che ratti nutriti con una varietà di patate transgeniche mai entrata in commercio mostrerebbero anomalie a carico dell’apparato digerente (v. Ewen e Pusztai, 1999; v. Kuiper e altri, 1999; v. The Royal Society, 1999). Successivamente, un esperimento di laboratorio, poi smentito da ricerche più approfondite, fa scoppiare il caso delle farfalle monarca, suggerendo che il polline del mais Bt metta a rischio questa specie di insetti benefici (v. Losey e altri, 1999; v. Hellmich e altri, 2001; v. Oberhauser e altri, 2001; v. Pleasants e altri, 2001; Sears e altri, 2001; v. Stanley-Horn e altri, 2001; v. Zangerl e altri, 2001). È sulla scia di questi allarmi che l’Unione Europea decide di avviare un lungo processo di revisione del proprio quadro normativo sugli OGM, già ispirato a un approccio precauzionale, fissando norme più severe per il monitoraggio dei rischi e per l’etichettatura dei prodotti. La riluttanza europea sembra compromettere le prospettive del settore, al punto da innescare alla fine del 1999 un’ondata di riorganizzazioni industriali che mette fine alla stagione delle fusioni e vede le grandi compagnie impegnate a separare il proprio comparto farmaceutico da quello agrobiotecnologico. L’approvazione di nuovi prodotti, anche nei paesi d’oltreoceano, rallenta inevitabilmente: segregare perfettamente le sementi transgeniche da quelle convenzionali è difficile e costoso, e il rischio in caso di contaminazione accidentale è quello di vedere sequestrati i carichi esportati in Europa. Molti paesi europei (Gran Bretagna, Francia e Germania innanzitutto) continuano però a investire nella ricerca agrobiotecnologica per non precludersi la possibilità di competere con gli Stati Uniti in un settore di sviluppo strategico. La fine della moratoria è attesa per il 2004, quando i nuovi regolamenti europei saranno formalmente approvati; in caso contrario l’ipotesi che le titubanze europee possano nascondere una politica di stampo protezionistico potrebbe spingere gli Stati Uniti a rispondere con pesanti ritorsioni commerciali. Non esiste un giudizio unanime su quanto la sovraregolamentazione peserà sullo sviluppo immediato del settore, ma il doppio standard normativo, uno per le piante transgeniche e uno per quelle convenzionali, che l’Europa ha scelto è destinato a durare per qualche tempo e forse a espandersi in altre aree geografiche. L’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), per esempio, ha rilevato che l’approccio precauzionale europeo rischia di condizionare le decisioni dei paesi in via di sviluppo ancora incerti, prevalendo sul criterio di una scelta autonoma, basata su una valutazione rischi/benefici effettuata su scala locale (v. UNDP, 2001, p. 81). Sul lungo termine, comunque, sembra inevitabile un ripensamento dei criteri di valutazione del rischio connesso a piante e alimenti, che dovrebbero dipendere più dalle caratteristiche dei singoli prodotti che dai metodi utilizzati per svilupparli. Sebbene alcuni analisti invochino un’attenuazione delle normative sugli OGM, giudicate eccessive, c’è chi ritiene che per rispondere all’accresciuta sensibilità pubblica in materia di protezione dell’ambiente e di diritti dei consumatori si debba procedere nella direzione opposta, cercando le risorse per estendere almeno parte dei controlli a cui sono sottoposti gli OGM anche alle altre pratiche agricole (v. National Research Council, 2002, pp. 250-254).

b) La percezione pubblica degli OGM.

È convinzione diffusa che relativamente ai prodotti dell’ingegneria genetica si verifichi una distorsione nella percezione pubblica del rischio, perché i pericoli che appaiono arcani e invisibili tendono a generare maggiore ansia rispetto a quelli concreti e visibili. La diversa accoglienza riservata agli OGM in Europa e negli Stati Uniti, spesso indicata con l’espressione Atlantic divide, viene generalmente spiegata con molteplici argomentazioni, il cui peso relativo è difficilmente quantificabile. Certamente l’ingresso delle biotecnologie sulla scena americana è avvenuto in maniera più graduale, con l’ausilio di istituzioni e infrastrutture più sviluppate e che godono della fiducia dell’opinione pubblica, senza interventi normativi straordinari, in una cultura tradizionalmente favorevole alle innovazioni tecnologiche, che ha sempre sostenuto gli investimenti in ricerca e sviluppo e le sinergie tra scienza e mercato. L’Europa è partita in ritardo, senza poter contare sulla stessa capacità di pianificazione strategica né sulla condivisione sociale di un modello di sviluppo economico ben definito, senza agenzie o istituzioni che godano di una autorevolezza paragonabile a quelle americane, con il peso di scandali alimentari gestiti in maniera talvolta inadeguata e una concreta difficoltà ad armonizzare gli approcci dei diversi Stati membri all’interno di un sistema politico europeo ancora in via di costruzione. Mentre negli Stati Uniti gli OGM sono subito apparsi come uno strumento per ridurre i costi di produzione sostenendo le esportazioni e risolvendo il problema del calo dei redditi agricoli, gli stessi prodotti sono arrivati nel Vecchio Continente in un momento di riforma delle politiche agricole comunitarie, in cui l’annunciato ridimensionamento dei sussidi ha fatto temere alle associazioni di categoria la concorrenza dell’agricoltura d’oltreoceano. Le strategie di marketing delle grandi compagnie agrobiotecnologiche, inoltre, hanno trascurato le differenze culturali esistenti tra le due sponde dell’Atlantico, finendo per generare maggiore ostilità. L’opinione pubblica europea, già di per sé meno aperta ai cambiamenti e più propensa a identificarsi con le tradizioni alimentari locali, è stata sottoposta a una campagna mediatica sbilanciata in favore degli oppositori delle biotecnologie agricole. L’assenza nel Vecchio Continente di ampi spazi occupati da ecosistemi selvatici, infine, potrebbe aver favorito una percezione delle campagne come aree naturali da preservare e una reazione di sconcerto di fronte all’industrializzazione delle attività agricole già operante anche in Europa. La risultante di tutti questi fattori è che, secondo i sondaggi svolti nei 15 paesi membri dell’Unione, l’indice di ottimismo nei confronti di tutte le applicazioni biotecnologiche si è ridotto in modo sostanziale durante gli anni novanta, penalizzando particolarmente le agrobiotecnologie (v. Gaskell e Bauer, 2001). L’impopolarità degli OGM risulterebbe legata a timori relativi ai rischi alimentari prima che ambientali, e anche alla convinzione di una scarsa utilità e di una bassa accettabilità morale di questi prodotti in quanto ritenuti ‘innaturali’. A differenza dei sondaggi, le analisi qualitative (focus group) suggeriscono che l’ostilità dell’opinione pubblica sarebbe dovuta piuttosto a preoccupazioni che riguardano l’equità delle agrobiotecnologie, in particolar modo la presunta asimmetria con cui rischi e benefici degli OGM sarebbero distribuiti in segmenti diversi della società, e a una scarsa fiducia nei confronti della capacità del mondo politico e delle istituzioni di difendere il benessere collettivo resistendo alle pressioni economiche in gioco (v. Marris e altri, 2001). Anche se entrambi i tipi di indagine, quantitativa e qualitativa, mettono in dubbio l’esistenza di un rapporto causale diretto tra conoscenza e accettazione delle biotecnologie agricole, esistono chiare evidenze di una scarsa conoscenza scientifica di base da parte del pubblico, di una forte richiesta di informazioni in materia di OGM e di un orientamento più favorevole a questi prodotti da parte delle persone più informate. I giudizi espressi dai cittadini europei, comunque, non consentono di prevedere i comportamenti effettivi dei consumatori di fronte al ritorno sul mercato dei prodotti transgenici etichettati. I pochi dati disponibili a questo riguardo, ottenuti attraverso aste sperimentali su campioni limitati di consumatori, inducono a ritenere che solo una piccola parte delle opinioni ostili potrebbe concretizzarsi in atti di boicottaggio e che un segmento di popolazione non trascurabile potrebbe decidere di non modificare le propria propensione all’acquisto di fronte a prodotti che siano dichiaratamente transgenici (v. Ruffieux e Robin, 2002).

4. Tendenze, sfide e prospettive delle biotecnologie.

a) Dal miglioramento qualitativo all’ingegneria genetica di precisione.

La tiepida accoglienza riservata ai primi OGM da parte dell’opinione pubblica viene in parte attribuita al fatto che la prima generazione di piante transgeniche ha puntato su caratteristiche utili soprattutto agli agricoltori; la seconda generazione di prodotti, dunque, viene progettata innanzitutto per conquistare i consumatori. L’ingegneria genetica, infatti, consente di migliorare la qualità degli alimenti, abbassando la concentrazione delle sostanze nocive normalmente presenti in alcune piante o aumentando il contenuto di sostanze utili all’organismo umano. Il celebre golden rice (il riso arricchito di provitamina A grazie al trasferimento di 3 geni, uno batterico e due della giunchiglia) è stato ideato per attenuare le carenze alimentari diffuse nei paesi in via di sviluppo (v. Ye e altri, 2000), ma la lista dei prodotti a elevato valore dietetico-nutrizionale che potrebbero trovare un mercato nei paesi industrializzati è lunga: alimenti ipo-allergenici, olio di semi ad alto contenuto di acido oleico, pomodori arricchiti con sostanze antitumorali come il licopene, cereali a elevato contenuto proteico, varietà di soia con una diversa concentrazione di estrogeni vegetali a seconda delle tipologie di consumatori, e così via. La linea di demarcazione tra agricoltura e salute è destinata ad assottigliarsi ulteriormente grazie al prossimo utilizzo delle piante transgeniche come biofabbriche per la produzione di farmaci e vaccini, alcuni dei quali sono già in uno stato avanzato di sperimentazione (v. Daniell e altri, 2001).

La crescente attenzione pubblica per i rischi alimentari e ambientali, inoltre, ha dato impulso alla ricerca di strategie per innalzare il più possibile gli standard di biosicurezza. Gli OGM del futuro con ogni probabilità saranno dotati di promotori inducibili, capaci di attivare la produzione delle proteine estranee solo nei tessuti vegetali che richiedono la loro presenza e solo in risposta a precisi stimoli. Se un parassita si nutre solo delle foglie, per esempio, l’obiettivo sarà quello di far produrre la proteina insetticida soltanto in questo tessuto e magari soltanto in seguito all’attacco del parassita, e non in altre parti della pianta destinate al consumo umano. Per limitare il rischio che i transgeni si diffondano dagli OGM alle piante selvatiche affini sono allo studio diverse tecniche di contenimento genico, come la sterilità maschile (sono già in commercio piante di colza modificate in modo da non produrre polline) o l’ingegneria genetica dei cloroplasti (il transgene può essere inserito nel DNA di questi organelli di cui il polline è generalmente privo). Un’altra tecnologia, che però non è ancora stata sperimentata sul campo, è quella della sterilità dei semi, nota anche con il nome terminator (la germinazione dei semi viene bloccata da una serie di reazioni innescate da uno stimolo chimico esterno). Tra gli approcci più avveniristici figurano la cleistogamia (che mira a modificare lo sviluppo dei fiori in modo che possano autofecondarsi senza aprirsi), l’incompatibilità genomica (che mira a rendere le colture geneticamente incompatibili con le piante selvatiche affini) e l’escissione temporale del transgene (che servirebbe a rimuovere il DNA estraneo dal genoma della pianta prima della fioritura; v. Daniell, 2002). L’ingegneria genetica di precisione punterà a dirigere l’inserzione dei transgeni in punti noti del genoma vegetale per limitare al massimo qualsiasi interferenza con i geni della pianta ricevente. E quando possibile si cercherà di evitare del tutto il trasferimento di DNA estraneo, modificando in modo mirato soltanto alcune basi dei geni endogeni della pianta o intervenendo esclusivamente sulla loro regolazione. Un contributo prezioso in questo senso arriverà dal sequenziamento del genoma di un numero crescente di specie vegetali. La genomica consentirà infatti di individuare i geni endogeni della pianta su cui occorre intervenire per potenziare determinati caratteri, e se la pianta non dispone di geni utili allo scopo servirà a identificarli in piante affini a quella di interesse in modo da ridurre i trasferimenti genici tra specie distanti dal punto di vista evolutivo.

b) Rivoluzionare l’agricoltura.

Nonostante gli OGM evochino immagini grandiose, nel bene e nel male, il contributo dell’ingegneria genetica alla produzione alimentare globale è destinato a concretizzarsi in modo non dissimile da quello delle innovazioni agricole che l’hanno preceduta. Le sue potenzialità, insomma, si tradurranno probabilmente in tanti piccoli progressi incrementali, piuttosto che in un’unica improvvisa rivoluzione. Alcuni di questi passi in avanti potranno però avere un forte impatto locale in particolari contesti sociali ed ecologici. In linea teorica, per esempio, le conoscenze attuali consentono già di salvaguardare le rese dei piccoli agricoltori subsahariani difendendo le coltivazioni da malattie che nelle annate peggiori possono arrivare a distruggere l’intero raccolto, ed è soprattutto in questa prospettiva che ha senso affermare che le biotecnologie possono apportare un contributo decisivo alla sicurezza alimentare globale. Altri obiettivi, come quello di estendere le superfici coltivabili senza sacrificare gli ecosistemi naturali ancora integri grazie allo sviluppo di piante capaci di crescere nelle zone ecologicamente marginali del pianeta, sono più lontani, ma i risultati incoraggianti non mancano. Circa il 40% della terra arabile è interessato da fenomeni di acidificazione, ma l’ingegneria genetica può proteggere le piante dall’alluminio, che nei suoli acidi diventa solubile e rappresenta il principale fattore limitante per la produzione agricola. Piante di papaya e tabacco dotate di un gene batterico per la produzione di acido citrico, infatti, riescono a crescere anche a una concentrazione di alluminio sei volte superiore a quella che inibisce la crescita delle piante convenzionali, perché l’acido citrico rilasciato nel terreno si lega al metallo, prevenendone l’assorbimento da parte degli apparati radicali, e facilita invece l’assorbimento del fosfato (v. de la Fuente e altri, 1997; v. López-Bucio e altri, 2000). L’eccessiva salinità del terreno è un problema che affligge oltre 80 milioni di ettari di terra arabile, e in letteratura sono già riportati esempi di piante transgeniche capaci di crescere in presenza di elevate concentrazioni di sale. Nel pomodoro e nella colza è stato trasferito un gene dell’infestante Arabidopsis thaliana che previene l’accumulo di sodio nelle regioni vitali della cellula, confinandolo nei vacuoli delle foglie senza provocare limitazioni di resa né cambiamenti organolettici delle parti edibili della pianta (v. Zhang e Blumwald, 2001; v. Zhang e altri, 2001). Potenziando la produzione di carotenoidi protettivi sono già state ottenute le prime piante resistenti alle temperature elevate (v. Davison e altri, 2002), e poiché la resistenza alla siccità implica adattamenti complessi sono in corso diversi programmi di genomica per identificare i geni che consentono ad alcune specie di reagire in modo tempestivo ed efficace agli stress termici. Tra i progetti più ambiziosi per aumentare la produttività c’è quello di replicare l’efficiente sistema fotosintetico tipico del mais in piante come il grano o il riso, ma caratteri multigenici come questi sembrano difficili, forse impossibili, da ricostruire artificialmente perché richiedono un perfetto coordinamento dell’attività di decine di geni. Una delle sfide più appassionanti, infine, riguarda la riproduzione asessuata dei semi, o apomissi (v. fig. 3). Lo sviluppo degli ibridi ha contribuito in modo sostanziale all’aumento globale delle rese, perché le piante che derivano dall’incrocio di due diverse linee pure manifestano un fenomeno chiamato ‘vigore dell’ibrido’ che garantisce prestazioni agronomiche superiori a quelle delle piante parentali. Nei paesi in via di sviluppo, però, non tutti hanno potuto godere di questi benefici; infatti, i semi prodotti per incrocio devono essere acquistati ogni anno dalle compagnie sementiere, perché se si semina, invece, parte del raccolto dell’anno precedente le rese degli ibridi (diversamente da quanto accade con le linee pure) subiscono una flessione. Oltre 400 specie vegetali sono in grado di riprodursi per via asessuata producendo semi geneticamente identici alla pianta madre, e se fosse possibile trasferire questo carattere alle specie che ne sono prive non solo si ridurrebbero tempi e costi per lo sviluppo e la produzione di nuovi ibridi, ma gli agricoltori potrebbero riciclare i semi indefinitamente. Dal 1993 un gruppo di ricerca franco-messicano lavora per isolare i geni che consentono a una pianta erbacea (il Tripsacum) di riprodursi in questo modo e per trasferirli nel mais (v. Grimanelli e altri, 2001). Se il progetto dovesse avere successo l’industria sementiera potrebbe cambiare volto e l’accesso alle varietà di ibridi più sofisticate potrebbe finalmente diventare generalizzato.

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Didascalie

Figura 1. – Rappresentazione schematica dei due metodi più utilizzati per la produzione di piante transgeniche. Agrobacterium tumefaciens è in grado di inserire una parte del proprio DNA nel genoma della pianta che lo ospita e può quindi funzionare da vettore per il gene di interesse. Il metodo biolistico utilizza invece una ‘pistola genica’ per bombardare i tessuti vegetali con particelle metalliche ricoperte di DNA. I microproiettili penetrano nelle cellule vegetali e il DNA si integra nei cromosomi vegetali. Le cellule vegetali trasformate con entrambi i metodi vengono quindi coltivate in vitro e in presenza di alcuni ormoni sono in grado di differenziarsi dando origine a piante composte interamente da cellule transgeniche.

Figura 2. – Aumento della superficie globale destinata alla coltivazione di piante transgeniche dal 1995 al 2001. Il numero dei paesi coinvolti è passato da 6 nel 1996 a 13 nel 2001. Il tasso di adozione degli OGM nei paesi industrializzati ha subito un rallentamento tra il 1999 e il 2000, quando le polemiche sull’argomento erano più acute in Europa, per poi tornare a crescere nel 2001. Nei paesi in via di sviluppo la coltivazione di OGM è partita in ritardo e la crescita assoluta della superficie coltivata con piante transgeniche tra il 2000 e il 2001 era ancora la metà di quella dei paesi industrializzati. In termini percentuali, però, l’area coltivata con OGM è cresciuta nello stesso anno a un ritmo maggiore proprio nei paesi in via di sviluppo, che nel 2001 sono arrivati a coprire un quarto della superficie globale destinata a OGM. (Da James, 2001).

Figura 3. – Rappresentazione schematica dei vantaggi dell’apomissi rispetto alla riproduzione sessuata nel mais. Se si riuscisse a produrre gli ibridi di mais per via asessuata o apomittica, grazie al trasferimento dei geni che regolano questa modalità di riproduzione in altre specie vegetali, questi ibridi manterrebbero un profilo genetico identico e quindi le stesse prestazioni agronomiche ottimali anche nelle generazioni successive alla prima.

Allevamento degli animali

SOMMARIO: 1. Le attività zootecniche. ƒ 2. Il tessuto socio-economico della zootecnia italiana: a) il patrimonio zootecnico e i diversi modelli produttivi; b) i bacini geografici delle produzioni zootecniche; c) le caratteristiche socio-strutturali. ƒ 3. La filiera zootecnica italiana: a) il consumo di prodotti zootecnici; b) la distribuzione; c) la trasformazione; d) le dimensioni economiche dell’allevamento italiano; e) i fornitori di mezzi tecnici e l’industria mangimistica. ƒ 4. La filiera zootecnica in una prospettiva internazionale. ƒ 5. Aspetti sanitari e ambientali. ƒ Bibliografia.

1. Le attività zootecniche.

Dal secondo dopoguerra a oggi le attività agricole sono state caratterizzate, in Italia come nel resto dell’Europa, da un rilevante processo evolutivo. L’agricoltura ha prodotto importanti sforzi di modernizzazione, ma al tempo stesso ha subito un ridimensionamento del proprio ruolo a vantaggio della crescita di altri settori economici (industria e terziario).

Nonostante tali profondi cambiamenti, il settore agroalimentare, nel suo complesso, rappresenta ancora oggi una importante componente del tessuto economico e sociale del nostro paese. Tale ruolo, tuttavia, non va misurato in termini economici assoluti: infatti, il peso delle attività agricole sul sistema economico italiano, espresso dal valore aggiunto agricolo sul PIL (Prodotto Interno Lordo), è stato nel 2000 pari ad appena il 2,4%, un dato, questo, caratteristico delle economie avanzate (la media dell’Unione Europea nello stesso anno è stata pari all’1,7%). Occorre invece prendere in considerazione, da un lato, l’ampio e complesso sistema di relazioni che oggi lega il settore agricolo alle altre componenti della filiera agroalimentare (industria alimentare e dei mezzi tecnici, distribuzione e consumo) e, dall’altro, gli importanti effetti che le attività agricole generano sul territorio e sull’ambiente. Infine, non vanno trascurate le importanti implicazioni di natura sociale. In una società caratterizzata da un tasso di urbanizzazione in crescita esponenziale nel corso degli ultimi decenni, il settore primario garantisce ancora un forte legame diretto con le aree rurali, consentendo di presidiare ambiti territoriali difficili, destinati altrimenti a essere abbandonati per la loro marginalità. Secondo questa chiave di lettura, le attività zootecniche – cioè rivolte alla riproduzione e all’allevamento di animali, nonché allo sfruttamento a fini alimentari (e non) dei loro prodotti – rappresentano una parte di primario rilievo dell’agricoltura (la zootecnia in senso lato comprende anche l’allevamento ittico, che però non è oggetto della presente trattazione).

Nella fig. 1 sono riportate le principali tipologie di bestiame allevato nel nostro paese e le relative destinazioni economiche (esistono comunque anche produzioni zootecniche minori, quali ad esempio la produzione di selvaggina per il ripopolamento e le attività venatorie, l’allevamento delle lumache o elicicoltura, ecc.). I prodotti derivanti da tali allevamenti sono numerosi e differenziati in funzione delle specie animali allevate: quelli alimentari sono costituiti dal latte e suoi derivati (burro e formaggi), dalla carne e suoi derivati (salumi e insaccati), dalle uova e dal miele, mentre a fini non alimentari vengono prodotte pelli e lana; gli animali possono inoltre essere impiegati in ambiti ludico-ricreativi e agonistici. Fra i sottoprodotti dell’allevamento figurano, inoltre, le deiezioni animali (letame, liquami, ecc.) che vengono riutilizzate – tal quali o dopo aver subito dei processi di trasformazione – nell’azienda agricola per migliorare le caratteristiche chimico-fisiche del terreno. L’allevamento finalizzato all’impiego degli animali per prestazioni di lavoro (ad esempio, aratura e trasporto), particolarmente diffuso in passato, oggi è stato soppiantato dalla completa meccanizzazione delle operazioni agricole e dai notevoli progressi realizzati nei sistemi di trasporto.

2. Il tessuto socio-economico della zootecnia italiana.

a) Il patrimonio zootecnico e i diversi modelli produttivi.

All’interno dell’Unione Europea l’Italia, con il suo patrimonio zootecnico di grande rilievo, rappresenta, accanto a Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, uno dei principali paesi vocati all’allevamento. La tab. I riporta il quadro relativo al numero di capi per le più importanti specie allevate. Sebbene le consistenze varino di anno in anno per effetto degli andamenti di mercato e delle problematiche sanitarie, tali dati consentono di individuare le caratteristiche di rilievo del patrimonio zootecnico nazionale.

I bovini e bufalini superano i 7,4 milioni di capi, con netta predominanza dei bovini (oltre il 97% dei capi allevati nel 2000). Più di 3,8 milioni sono capi giovani con meno di due anni, mentre la restante parte è costituita da animali adulti, fra i quali quasi 2,2 milioni (29%) sono vacche indirizzate alla produzione di latte. I suini ammontano a oltre 8,3 milioni di capi, mentre gli ovini sfiorano i 12,5 milioni (di cui il 67% è costituito da pecore). Minore importanza in termini di consistenza hanno i caprini (meno di 1,4 milioni di capi) e gli equini (323.000 capi), mentre in termini numerici gli avicoli, con oltre 555 milioni di capi, rappresentano la quota più rilevante del patrimonio nazionale, grazie soprattutto all’elevato numero di polli destinati alla produzione di carne (oltre l’80%).

Tale patrimonio zootecnico è detenuto da circa 640.000 aziende agricole distribuite sull’intero territorio nazionale (v. ISTAT, 2002). Tale dato comprende sia le imprese cosiddette professionali, che presentano dimensioni economiche competitive, sia quelle di carattere marginale. Dato l’elevato numero di specie animali e l’ampia gamma di produzioni realizzabili, infatti, la zootecnia racchiude in sé tipologie produttive estremamente differenti, caratterizzate da specifici modelli di allevamento.

Alcune specie animali vengono allevate con metodi intensivi, che si sono progressivamente allontanati da quelli tipici delle produzioni legate ai cicli biologici, per avvicinarsi a modelli di carattere industriale. È questo, in particolare, il caso degli allevamenti avicoli caratterizzati da una forte integrazione con l’industria mangimistica, a monte, e con l’industria delle trasformazioni alimentari, a valle. Queste aziende professionali (con oltre 10.000 capi per azienda) pur rappresentando una quota inferiore all’1% del totale delle imprese dedite all’allevamento avicolo in Italia, detengono circa il 90% del patrimonio avicolo nazionale.

Modelli di allevamento intensivo sono presenti anche nel comparto suinicolo e in quello bovino da latte e da carne. Gli allevamenti suini con più di 1.000 capi, che rappresentano una quota di poco inferiore all’1% del totale nazionale, detengono circa il 70% del patrimonio suinicolo italiano. Si tratta, prevalentemente, di imprese dedite all’allevamento del suino pesante destinato alla produzione di salumi e insaccati.

Nel caso dei bovini, gli allevamenti professionali (con più di 100 capi) rappresentano il 7% circa delle aziende nazionali e detengono il 50% dei capi; relativamente alla produzione di carne, si tratta di allevamenti di vitelli a carne bianca e centri per l’ingrasso dei vitelloni (in media 800 capi per azienda, con punte di 2.000) di provenienza nazionale o estera che completano il ciclo di accrescimento in Italia. Nelle aree marginali di collina e montagna è invece più diffuso l’allevamento estensivo, che utilizza spesso razze tipiche del nostro paese (Marchigiana, Chianina, Maremmana, ecc.) con pascolo libero dei capi (con l’adozione della cosiddetta ‘linea vacca-vitello’: i vitelli non vengono allontanati dalla madre, che li svezza, e crescono con quest’ultima alimentandosi al pascolo).

La produzione di latte, invece, coinvolge in genere imprese integrate con la fase della trasformazione, per quanto riguarda sia il latte alimentare fresco di alta qualità, sia i formaggi e gli altri derivati lattiero-caseari, fra i quali hanno grande rilevanza le produzioni tipiche (Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Gorgonzola, Provolone, Asiago e Mozzarella). Meno concorrenziali risultano gli allevamenti per la produzione di latte generico con scarsa integrazione di filiera, in quanto soggetti a una forte pressione competitiva internazionale.

Le produzioni ovi-caprine sono tipicamente caratterizzate da sistemi di allevamento estensivi, in quanto a queste specie rustiche sono di solito destinate le aree del territorio più marginali e meno adatte al più remunerativo allevamento bovino. Le produzioni di rilievo – carne e latte – sono strettamente complementari: in genere vengono macellati e indirizzati alla produzione di carne i capi giovani non reintegrati nel ciclo di produzione del latte, che viene destinato prevalentemente alla caseificazione, con una notevole importanza delle produzioni tipiche (Pecorino Romano, Toscano, Siciliano, Sardo, ecc.).

b) I bacini geografici delle produzioni zootecniche.

Il sistema zootecnico italiano si caratterizza per la spiccata specializzazione produttiva di alcune aree del territorio. L’allevamento professionale di grandi dimensioni è, infatti, una prerogativa dell’Italia settentrionale e in particolare di quattro regioni: il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna. Le imprese per l’allevamento bovino – una rete aziendale di circa 170.700 unità distribuite sull’intero territorio nazionale – sono infatti localizzate per il 40% in queste quattro regioni e detengono circa il 65% del patrimonio bovino nazionale. Si tratta in gran parte di allevamenti intensivi, caratterizzati da mandrie con un elevato numero di capi e da una maggiore densità di capi per unità di superficie. A sancire il legame con il territorio, in queste regioni è concentrata anche gran parte dell’industria di trasformazione (macellazione, produzione di latte fresco e di formaggi) ormai improntata a modelli di ampie dimensioni e fortemente competitivi sui mercati esteri, ma che privilegia anche le produzioni tradizionali e tipiche (Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Gorgonzola, Asiago) a testimonianza di una radicata e consolidata cultura delle produzioni zootecniche.

La specializzazione zootecnica di queste regioni è confermata anche nel caso degli allevamenti suini. Sebbene, infatti, le imprese dedite all’allevamento suino presenti in tali aree siano pari al 13% del totale nazionale (182.300 unità), esse detengono il 70% circa del patrimonio suinicolo italiano. Anche in questo caso l’integrazione con l’industria alimentare è forte e testimoniata da importanti prodotti della trasformazione del suino (ad esempio il Prosciutto di Parma). Nell’Italia centrale e meridionale si riscontra una massiccia presenza di allevamenti suini (circa l’80% del totale), generalmente di tipo estensivo, con una densità di capi per azienda notevolmente bassa rispetto alle imprese intensive a elevata produttività dell’Italia settentrionale.

Anche per gli allevamenti avicoli, infine, l’area di riferimento è rappresentata da Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e soprattutto Veneto, che complessivamente detengono il 70% del patrimonio avicolo nazionale. Il ruolo dell’industria di trasformazione, in questo comparto zootecnico fortemente integrato, è di primo rilievo e caratterizzato da un maggior grado di trasformazione delle carni (terze e quarte lavorazioni e piatti pronti).

Per gli ovi-caprini, invece, esistono due bacini di riferimento: il centro, con la Toscana e il Lazio, e le isole, che insieme comprendono il 35% delle imprese nazionali. Sicilia e Sardegna, infatti, ospitano oltre il 50% del patrimonio ovino nazionale – ben il 40% la sola Sardegna – mentre le due regioni del centro contribuiscono con un ulteriore 20%. Il distretto di produzione del Pecorino Romano – attualmente il formaggio italiano più esportato – si estende sull’intera Sardegna, rappresentando un chiaro esempio di valorizzazione delle produzioni ovi-caprine e fungendo da volano per l’intero bacino produttivo dei formaggi ovini e misti.

c) Le caratteristiche socio-strutturali.

I dati riportati mostrano il forte bipolarismo che caratterizza il tessuto produttivo dell’allevamento, in analogia con le caratteristiche socio-strutturali dell’intera agricoltura italiana. Nel corso degli ultimi dieci anni si è assistito, infatti, a una progressiva contrazione del numero di imprese dedite all’allevamento: si è passati da oltre un milione di aziende del 1990 alle 640.000 unità del 2000, con un decremento che sfiora il 40% (v. ISTAT, 2002). Nello stesso periodo si è ridotto anche il numero di imprese agricole (con produzioni vegetali e produzioni animali), ma in maniera molto meno marcata (–13%).

Ciò nonostante, esiste ancora oggi un numero eccessivo di unità produttive, soprattutto se posto in relazione con le reali dimensioni economiche delle imprese. Da un lato, infatti, si affermano le aziende professionali – con criteri di gestione improntati a produttività, efficienza e stretto legame col mercato – caratterizzate da modelli intensivi (cioè con un’elevata densità di capi per unità di superficie) e dislocate in aree di pianura o ad agricoltura ricca. Si tratta in genere di imprese gestite da giovani o che, comunque, non hanno problemi di ricambio nella conduzione, in quanto presentano ancora una significativa attrattività, anche rispetto ad altre attività extra-agricole. Dall’altro lato, esiste un gran numero di aziende marginali, scarsamente orientate al mercato, localizzate in aree svantaggiate e caratterizzate da modelli di allevamento estensivi; si tratta in prevalenza di imprese gestite da anziani, che spesso richiedono un impegno solo part-time e sono destinate a essere via via abbandonate, poiché difficilmente potranno fornire un reddito soddisfacente a un giovane che voglia insediarvisi. Sebbene il loro ruolo economico sia limitato rispetto a quello delle imprese professionali, le aziende marginali rappresentano comunque un potenziale da valorizzare, purché si riesca ad ampliarne le prospettive invece di limitarle alla semplice produzione di beni primari.

Oggi si vanno infatti affermando i concetti più ampi di ‘multifunzionalità’ e di ‘mondo rurale’, in base ai quali l’agricoltura e gli allevamenti acquisiscono nuove importanti funzioni, che vanno dalla tutela del territorio e dalla conservazione del paesaggio fino al mantenimento e alla promozione del patrimonio culturale rurale. Ciò è possibile grazie anche all’integrazione della principale funzione produttiva – peraltro spesso legata alle produzioni tipiche (formaggi e salumi DOP, Denominazione di Origine Protetta, e IGP, Indicazione Geografica Protetta) o biologiche – con nuove attività, come quella agrituristica o quella di controllo e presidio del territorio (ad esempio, consolidamento delle pendici, mantenimento di prati e pascoli, ecc.). Questa apertura negli indirizzi perseguiti giustifica, inoltre, lo sviluppo di forme di gestione part-time delle aziende agricole e consente di contrastare la senilizzazione e più in generale lo spopolamento di queste aree marginali, ormai sempre meno attraenti rispetto a quelle più avanzate, soprattutto per le fasce giovani della popolazione. In particolare, l’integrazione con il turismo rappresenta un importante veicolo per favorire e consolidare anche il ruolo femminile nell’impresa agricola, attualmente limitato e in genere legato a funzioni accessorie rispetto alla conduzione dell’azienda. In questo ambito, l’allevamento bovino e quello ovi-caprino rappresentano una componente fondamentale, ad esempio, per l’agricoltura di montagna.

3. La filiera zootecnica italiana.

L’allevamento non rappresenta, come emerso nei capitoli precedenti, un’entità economica isolata, ma riveste un ruolo preciso nell’ambito di un sistema più ampio, in cui i diversi soggetti economici coinvolti sono legati fra loro da specifiche relazioni. Esso costituisce un anello di una catena (v. fig. 2) che vede coinvolte, a monte, l’agricoltura – con la produzione vegetale destinata all’alimentazione del bestiame –, le industrie mangimistica, farmaceutica e dei mezzi tecnici e, a valle, l’industria della trasformazione (lattiero-caseario, macellazione, lavorazione delle carni, ecc.) e i servizi distributivi, quali il catering (ristoranti, bar, ristorazione collettiva, ecc.), la distribuzione tradizionale (latterie, macellerie, salumerie, ecc.) e la distribuzione moderna a libero servizio (supermercati, ipermercati e discount markets). L’anello finale della filiera è dunque la distribuzione, cerniera fra le attività di produzione e trasformazione e il consumo.

Per chiarire quale ruolo la zootecnia rivesta nel contesto economico nazionale non dovremo, allora, limitarci ad analizzare il singolo anello della filiera, ma dovremo considerare tutto l’indotto che l’allevamento alimenta.

a) Il consumo di prodotti zootecnici.

Le produzioni zootecniche, infatti, sono destinate prevalentemente ai consumi alimentari. Nel corso degli ultimi decenni, grazie al maggiore benessere raggiunto nel nostro paese, il paniere dei prodotti alimentari consumato dalle famiglie italiane si è progressivamente modificato, facendo registrare un incremento delle produzioni agricole di maggior pregio, come quelle di derivazione animale (latte e formaggi, carne e uova). La spesa in beni alimentari e bevande delle famiglie italiane (v. fig. 3), che ha sfiorato nel 2000 i 109.000 milioni di euro, vede al primo posto tra i prodotti acquistati la carne (con un valore di oltre 24.000 milioni di euro, ossia il 22,6% del totale), seguita da pane e cereali e dai prodotti ortofrutticoli, entrambi al 17%, e dalle altre produzioni zootecniche, quali latte, formaggi e uova (15.000 milioni di euro, pari al 14%). Complessivamente le produzioni animali rappresentano quindi oltre il 36% in valore dei prodotti alimentari acquistati in Italia (v. ISTAT, 2001).

Il consumo medio pro capite di carne – considerando il prodotto sia fresco che trasformato (salumi) – si è attestato nel 2000 sui 91,1 kg (v. Commissione delle Comunità Europee, 2001). Tra i differenti tipi di carne gli Italiani hanno preferito quelle suine (36,1 kg pro capite), seguite dalle carni bovine (25,5 kg pro capite) e da quelle avicole (18,3 kg pro capite), mentre minore interesse hanno riscosso le altre carni (cunicole, ovi-caprine ed equine). Fra i prodotti lattiero-caseari, i consumi di latte hanno raggiunto i 71,8 kg pro capite, quelli di formaggio i 18,7 kg pro capite e quelli di burro i 2,5 kg pro capite; infine, il consumo di uova è arrivato a 11,8 kg pro capite.

Sebbene nel corso degli anni passati il consumo di questi prodotti sia cresciuto, lo scenario dei prossimi anni potrebbe presentare alcuni elementi di novità, in grado di orientare e condizionare il mercato finale delle produzioni zootecniche. Nelle abitudini alimentari vanno assumendo maggiore importanza le considerazioni relative al benessere, alla salute e alla qualità. La crescente richiesta di prodotti a basso contenuto calorico, l’attenzione rivolta ai prodotti tipici e tradizionali, la domanda di processi produttivi meno industrializzati (ad esempio, produzioni biologiche) e la grande importanza oggi attribuita alla sicurezza degli alimenti rappresentano elementi con i quali l’intera filiera produttiva zootecnica si deve confrontare. La crescita del riconoscimento di produzioni a denominazione di origine comunitaria (DOP e IGP), l’attuazione di efficaci sistemi di rintracciabilità che offrono maggiori garanzie della sicurezza degli alimenti (obbligatori per la carne bovina, ma in progressiva diffusione anche per il latte fresco), la diffusione dei sistemi di produzione integrati e biologici (con impiego limitato o nullo di prodotti chimici), recentemente estesi dalle produzioni vegetali anche alla zootecnia, rappresentano importanti risposte alle nuove richieste del consumatore.

b) La distribuzione.

In Italia la distribuzione può contare su un’articolata rete di vendita, che nel corso degli ultimi anni ha visto affermarsi il ruolo della grande distribuzione. Nel 2000 il numero di supermercati, ipermercati e discount markets ha superato le 6.500 unità, per una superficie complessiva superiore ai 7 milioni di metri quadrati, pari a oltre 123 mq ogni 100.000 abitanti. Sebbene si sia ancora lontani dai livelli di altri paesi comunitari, la grande distribuzione tende progressivamente ad accrescere la propria presenza sul territorio, soprattutto nell’Italia settentrionale e centrale (oltre 160 mq di superficie ogni 100.000 abitanti), mentre al Sud stenta ancora ad affermarsi (70 mq).

Un importante ruolo nella distribuzione viene ancora svolto dalla fitta rete di esercizi commerciali al dettaglio, destinati alla vendita di carne e prodotti a base di carne (macellerie, salumerie, ecc.) e di prodotti lattiero-caseari (latterie, formaggerie, ecc.). I punti di forza di questo canale sono il rapporto di fiducia con il consumatore e la personalizzazione del servizio offerto. La diffusione di questi esercizi può integrare la grande distribuzione alimentare là dove questa non si è ancora pienamente affermata: al Sud, infatti, ove supermercati e ipermercati stentano a imporsi, la rete delle macellerie è particolarmente capillare, raggiungendo valori di densità per abitante (oltre 1.000 unità ogni 100.000 abitanti) più che doppi rispetto a quelli del Nord.

Infine, un canale attualmente di minor peso economico ma in progressivo sviluppo nella veicolazione dei prodotti al consumo finale è rappresentato dal consumo alimentare al di fuori delle mura domestiche. Questo settore comprende i segmenti della ristorazione commerciale (ristoranti, bar, pizzerie, ecc.) e della ristorazione collettiva (mense in vari ambiti: lavoro, istruzione, sanità, sociale). Le nuove abitudini alimentari legate sia a motivazioni edonistiche, sia alla diffusione sempre più ampia di forme di studio e lavoro con orario continuato e distanti dal luogo di residenza, unitamente al crescente numero di donne lavoratrici, hanno infatti profondamente inciso sulla struttura dei consumi, orientandoli verso un incremento della componente extra-domestica.

c) La trasformazione.

L’industria che trasforma i prodotti di origine zootecnica rappresenta una delle branche più importanti del comparto alimentare italiano. Nel 2000, infatti, le imprese della trasformazione di prodotti lattiero-caseari, della macellazione e lavorazione di carni e della macellazione e trasformazione di prodotti avicoli (uova comprese) hanno raggiunto un valore di fatturato che ha sfiorato i 24.800 milioni di euro (v. tab. II), pari a circa il 30% del fatturato alimentare totale (oltre 84.000 milioni di euro).

L’industria lattiero-casearia, con un fatturato di circa 13.000 milioni di euro, riunisce una vasta ed eterogenea compagine di imprese, piccoli caseifici e industrie di trasformazione, che offrono una pluralità di prodotti, in molti casi in stretta relazione con il territorio di origine. Nell’ambito della produzione lattiero-casearia italiana, un ruolo di primissimo rilievo è ricoperto dalle produzioni tipiche e, in particolare, dai formaggi a denominazione protetta. I formaggi italiani che hanno ottenuto il marchio DOP/IGP sono 30 e rappresentano il 21% del totale europeo con denominazione comunitaria. Nella classifica dei paesi UE, l’Italia è preceduta solo dalla Francia, che annovera 39 formaggi riconosciuti. Se però il confronto viene condotto sul valore di mercato invece che sul numero di DOP/IGP, l’Italia recupera ampiamente la prima posizione.

In termini produttivi, quasi il 50% del latte crudo ottenuto in Italia (di tutte le specie) è trasformato in formaggi DOP/IGP, per una produzione complessiva che oscilla tra le 410.000 e le 420.000 tonnellate e coinvolge oltre 1.700 caseifici. In termini strutturali, oltre l’82% della produzione casearia DOP nazionale riguarda cinque formaggi: Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Gorgonzola, Pecorino Romano e Provolone Valpadana. Esaminando la struttura delle imprese di trasformazione, si rileva che proprio in tali produzioni – con l’eccezione del Parmigiano Reggiano, che presenta un più alto livello di polverizzazione della produzione – operano strutture industriali di dimensioni medio-grandi. Pertanto, si configura una situazione in cui proprio l’industria più organizzata e con dimensioni di scala elevate è artefice del successo delle grandi produzioni italiane tutelate.

Nell’ambito delle produzioni zootecniche, un ruolo di grande rilievo è svolto anche dall’industria delle carni rosse – bovini, suini e ovi-caprini – che, con un fatturato di oltre 7.300 milioni di euro, raggruppa le attività di macellazione e di preparazione delle carni (salumi, carni in scatola, ecc.).

Le attività di macellazione fanno capo a circa 2.900 imprese, delle quali circa 2/3 specializzate nella macellazione bovina. In realtà, fra queste ultime solo una quota pari a circa il 30% può essere considerata specializzata esclusivamente nella macellazione delle carni bovine, mentre la maggior parte – soprattutto le imprese di dimensioni minori – lavora anche specie diverse. La struttura delle imprese di macellazione è fortemente polarizzata: da un lato si assiste a una progressiva concentrazione delle imprese di maggiori dimensioni per avvicinarsi agli standard europei, dall’altro sopravvive ancora una miriade di piccole unità di macellazione disperse sul territorio, destinate progressivamente a cedere di fronte alla crescente pressione competitiva. In particolare, un forte elemento discriminante è rappresentato dalla capacità delle strutture di macellazione di operare nel rispetto dei requisiti igienico-sanitari definiti dalla Dir. 64/433/CEE – il cosiddetto ‘Bollo CE’. Solo il 15% dei macelli che lavorano carni rosse è attualmente in regola con le indicazioni della normativa comunitaria, mentre il 78% ne è esonerato perché di dimensione inferiore alle 1.000 unità macellate per anno, definita dalla Comunità come soglia minima per l’obbligatorietà dell’adeguamento. Una quota pari al 7%, infine, opera in deroga alle regole comunitarie grazie a specifiche normative nazionali. Di rilievo è anche il numero delle imprese di sezionamento – 1.700 per le carni rosse, delle quali il 38% è in possesso del Bollo CE –, che completano il circuito della lavorazione delle carni, garantendo il collegamento tra industria e mercato finale.

La produzione di conserve animali a base di carni suine (prosciutto crudo, prosciutto cotto, mortadella, salame, ecc.) e bovine (bresaola) rappresenta una realtà di spicco del settore agroalimentare nazionale. Anche l’industria dei salumi, però, è caratterizzata da un’elevata frammentazione e dalla presenza di strutture a carattere artigianale, orientate verso le produzioni tipiche e localizzate nei bacini di produzione suinicola (Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna). La specializzazione in questo tipo di produzioni è testimoniata dalla presenza nel 2000 di oltre 23 prodotti DOP/IGP, fra i quali figurano produzioni di grande pregio a livello nazionale ed estero, quali il Prosciutto di Parma, il Prosciutto San Daniele, lo Speck Alto Adige, la Bresaola della Valtellina.

Infine, il comparto avicolo – carni e uova – contribuisce per circa il 18% al fatturato delle imprese di trasformazione delle produzioni zootecniche (circa 4.500 milioni di euro). Caratteristica del comparto è la forte integrazione verticale, che riguarda nel nostro paese circa il 90% della produzione delle carni avicole e il 60% delle uova da consumo. Tale integrazione si esplica attraverso uno stretto coordinamento dei diversi anelli della filiera (industria mangimistica, allevamento e trasformazione). Le aziende produttrici hanno infatti allevamenti di riproduttori, incubatoi, producono i mangimi utilizzati per nutrire gli animali, allevano gli stessi (in allevamenti propri, o convenzionati, o di soci conferenti), possiedono propri macelli e propri laboratori per la trasformazione delle carni e propri impianti di selezione e imballaggio delle uova da consumo.

d) Le dimensioni economiche dell’allevamento italiano.

Nel contesto di filiera il ruolo della fase primaria – l’allevamento – è di grande rilievo. La zootecnia rappresenta, infatti, una componente fondamentale dell’agricoltura italiana, tanto che nel 2000 ha contribuito per il 33% alla formazione della produzione agricola, di poco inferiore ai 42.400 milioni di euro (v. Ministero delle Politiche Agricole e Forestali-INEA, 2001).

Le carni rappresentano la quota più rilevante della ricchezza prodotta; con un valore complessivo di 8.700 milioni di euro raggiungono una quota del 21% della produzione agricola nazionale, seguite dal latte, con 4.200 milioni di euro (10%), e dalle uova e altri prodotti con circa 1.000 milioni di euro (2%). Fra le carni, il comparto di maggiore rilievo è rappresentato dalle carni bovine (39% del totale della produzione nazionale), seguite a distanza dalle carni suine (25%), da quelle avicole (22%), da conigli e selvaggina (9%) e dalle carni ovi-caprine (4%).

Per quanto riguarda il latte, prevalgono le produzioni vaccine e bufaline (90% del valore della produzione nazionale) rispetto a quelle ovi-caprine (10%). In termini quantitativi, circa il 35% del latte di vacca viene impiegato per il consumo diretto, mentre la restante quota viene destinata alla trasformazione in formaggio e altri prodotti lattiero-caseari (burro, yogurt, panna, ecc.). Nel caso del latte ovi-caprino, la quota destinata al consumo diretto si riduce al 10%.

Nonostante l’Italia rappresenti uno dei principali paesi europei per vocazione zootecnica, gli elevati livelli produttivi non riescono a compensare la forte richiesta del mercato interno (v. tab. III). Pertanto, il rapporto fra la produzione interna e il consumo – definito dal grado di autoapprovvigionamento – risulta, con la sola eccezione delle carni avi-cunicole, largamente deficitario, alimentando di fatto un forte flusso di importazione di prodotti zootecnici – in particolare di carne bovina, suina e di latte, e in minor misura di carne ovi-caprina ed equina e di uova – che incide negativamente sulla bilancia commerciale agroalimentare italiana.

Complessivamente, il valore delle importazioni di prodotti zootecnici (settore primario e industria alimentare) ha superato nel 2000 gli 8.000 milioni di euro, contro un valore delle esportazioni di poco superiore ai 2.000 milioni e un saldo negativo di 6.000 milioni. L’incidenza sulla bilancia commerciale agroalimentare nazionale è notevole: il saldo negativo dei prodotti zootecnici contribuisce per circa il 75% al deficit totale (v. fig. 4).

e) I fornitori di mezzi tecnici e l’industria mangimistica.

Il primo anello a monte della filiera zootecnica è rappresentato dall’industria fornitrice di mezzi tecnici per l’allevamento. Il ruolo di maggior rilievo è quello dell’industria mangimistica, che nel 2000 contava 930 stabilimenti, con una produzione di oltre 7,5 milioni di tonnellate di alimenti completi e complementari, destinati a tutte le specie animali allevate. A questa si affiancano l’industria meccanica e quella di prodotti chimici (concimi, diserbanti, prodotti fitosanitari), che presentano, però, un legame più stretto con quella parte dell’agricoltura relativa ai vegetali destinati all’alimentazione animale (cerealicoltura, produzione di semi oleosi, foraggicoltura, ecc.). Infine, l’industria farmaceutica fornisce i prodotti veterinari da impiegare nel ciclo produttivo per la cura degli animali.

4. La filiera zootecnica in una prospettiva internazionale.

L’analisi sviluppata consente di mettere a fuoco l’importante ruolo economico che la filiera zootecnica riveste a livello nazionale. Ma anche nel contesto europeo la realtà italiana rappresenta un elemento di spicco: essa, infatti, contribuisce per oltre il 12% (pari, nel 2000, a circa 109 milioni di euro) alla produzione agricola zootecnica dell’intera Unione Europea. Questo ruolo di primo piano dell’Italia riguarda tutte le principali produzioni zootecniche, con una maggiore incidenza nel comparto della carne bovina e una minore in quello suino. Tale apporto è inferiore a quello di Francia e Germania (rispettivamente 20% e 18% della produzione agricola zootecnica europea) e precede quello di altri importanti paesi a forte vocazione zootecnica, quali Spagna, Regno Unito, Olanda (v. fig. 5). Nonostante la decisa preminenza in questo settore di questi sei paesi, che da soli generano quasi l’80% della ricchezza ricavata dall’allevamento, i loro modelli agricoli sono meno legati alle produzioni zootecniche di quanto non si verifichi negli altri paesi dell’Unione. In realtà, in base a un indicatore che illustra la specializzazione zootecnica della produzione agricola di ciascun paese dell’UE (v. fig. 6), risulta una marcata divisione fra Europa centro-settentrionale, a maggiore vocazione per l’allevamento, e area mediterranea, in cui l’agricoltura è invece prevalentemente orientata verso le produzioni vegetali. Nonostante ciò, i principali produttori – con la sola eccezione del Regno Unito – appartengono o sono più affini a questo secondo gruppo.

Nel contesto mondiale, le dinamiche dell’allevamento sono diverse a seconda dello specifico comparto analizzato. Il ruolo dell’Unione Europea è di primo piano nel comparto delle carni, in cui figura sempre fra i primi tre produttori mondiali. Nella bovinicoltura da carne, in particolare, il leader mondiale è rappresentato dagli Stati Uniti, cui si affiancano alcuni paesi dell’America Latina (Brasile e Argentina) e la Cina, la quale è anche il principale produttore di carni suine e ovine, oltre a detenere una quota di rilievo dei prodotti avicoli. L’Unione Europea è invece il leader mondiale nel settore lattiero-caseario, seguita a forte distanza dagli Stati Uniti e dall’India.

5. Aspetti sanitari e ambientali.

Gli aspetti sanitari hanno ovviamente un ruolo di grande importanza nell’allevamento degli animali e pertanto sono state emanate specifiche normative al riguardo. È infatti necessario dedicare una profonda attenzione alle condizioni igienico-sanitarie degli allevamenti non solo in un’ottica di migliore efficienza produttiva e a tutela del benessere degli animali, ma soprattutto perché la destinazione finale delle produzioni zootecniche è prevalentemente l’alimentazione umana. I recenti scandali alimentari che hanno coinvolto il settore zootecnico (‘mucca pazza’, pollo alla diossina, ‘lingua blu’ della pecora) hanno suscitato una crescente esigenza di sicurezza e di qualità degli alimenti, determinando una maggiore attenzione anche sul fronte normativo.

Un primo importante capitolo di norme è dedicato alla salute degli animali, alla prevenzione dell’insorgenza di malattie e al loro controllo. Tale normativa varia ovviamente a seconda delle singole specie allevate e delle principali affezioni che le colpiscono. Attraverso le norme relative al benessere degli animali – che riguardano le fasi dell’allevamento (condizioni di alimentazione, dimensione degli spazi, cura e protezione), del trasporto (ad esempio durata e densità di carico) e della macellazione – si cerca di rendere minime, e comunque limitate allo stretto necessario, le eventuali sofferenze arrecate agli animali stessi. La tutela del consumatore, garantita in precedenza da una serie di norme verticali specifiche per singoli prodotti, è stata recentemente rafforzata grazie all’introduzione di norme orizzontali, che possono essere applicate trasversalmente a tutte le produzioni alimentari.

A garanzia sia della salute degli animali, sia della sicurezza dei prodotti alimentari da essi derivati vi è stata un’importante azione pubblica nazionale e internazionale: sono stati infatti stipulati accordi mondiali e sono state emanate specifiche regolamentazioni a livello tanto di Unione Europea, quanto nazionale e regionale.

La presenza di normative sanitarie non omogenee a livello internazionale può rappresentare un vincolo al libero scambio delle produzioni zootecniche e di fatto introduce una turbativa nei mercati e nella libera concorrenza. Un esempio classico e straordinariamente attuale è la possibilità di impiego, negli allevamenti statunitensi, di ormoni della crescita, proibiti invece nell’Unione Europea. Il divieto di ingresso di carni gonfiate con ormoni nei confini comunitari viene considerato dagli Stati Uniti strumentale a una politica protezionistica dell’UE, e ciò alimenta un importante contenzioso a livello della massima istituzione che presiede agli scambi commerciali internazionali, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Infatti, in questa sede è stato siglato l’Accordo sull’applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS), col quale l’OMC si propone di evitare che le misure sanitarie siano usate a scopi protezionistici nel commercio internazionale, pur garantendo a ogni Stato il diritto di assicurare il livello di protezione sanitaria che ritiene più appropriato.

Accanto all’OMC operano altri importanti organismi internazionali, quali l’Ufficio internazionale delle epizoozie (OIE), con compiti consultivi e di referenza per i servizi sanitari dei differenti paesi, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

L’Unione Europea, inoltre, dispone di un proprio corpo di norme che riguardano il settore veterinario e fitosanitario, il benessere degli animali e la sicurezza alimentare; tali norme sono vincolanti per tutti gli Stati membri e valgono, almeno in parte, anche nei paesi terzi che esportano animali, piante e prodotti animali e vegetali verso l’UE. La responsabilità principale di garantire l’osservanza di queste norme spetta ai singoli Stati membri, ma anche la Commissione deve vigilare affinché esse siano correttamente applicate. In particolare, questa funzione di vigilanza viene svolta dalla Direzione Generale per la tutela e la salute dei consumatori (DG XXIV), nell’ambito della quale opera l’Ufficio Alimentare e Veterinario (UAV), istituito nell’aprile 1997 con i seguenti compiti: promuovere sistemi di controllo efficaci in materia di sicurezza e qualità dei generi alimentari, veterinari e fitosanitari; controllare il rispetto delle prescrizioni della legislazione comunitaria riguardanti la sicurezza e la qualità dei generi alimentari, veterinari e fitosanitari in seno all’Unione Europea e nei paesi terzi che esportano verso di essa; contribuire all’elaborazione della politica comunitaria in materia di sicurezza e qualità dei generi alimentari, veterinari e fitosanitari; informare le parti interessate sui risultati delle valutazioni.

L’attività principale dell’UAV consiste nel condurre ispezioni – veterinarie, fitosanitarie, sulla contaminazione di materiali per alimenti e mangimi, su igiene alimentare, irradiazione degli alimenti, alimenti geneticamente modificati, pesticidi, nonché nel settore dell’agricoltura biologica – negli Stati membri e in paesi terzi e nel verificare se le autorità competenti applicano la legislazione comunitaria; inoltre, vengono effettuate verifiche dei controlli sulla commercializzazione/utilizzazione di prodotti fitosanitari e sui residui di pesticidi nei prodotti alimentari. I risultati di queste ispezioni sono contenuti nei rapporti d’ispezione, accompagnati da conclusioni e raccomandazioni che vengono inoltrate alle autorità competenti del paese interessato per invitarle a porre rimedio a eventuali irregolarità.

A livello nazionale, infine, il sistema di controllo, impostato sugli standard comunitari, è sotto la diretta responsabilità del Dipartimento degli alimenti e della sanità pubblica veterinaria del Ministero della Salute e opera attraverso i servizi veterinari, strutturati a livello centrale, regionale e periferico. In particolare, sono competenze del livello centrale l’elaborazione di una politica nazionale, l’individuazione di standard di riferimento, il coordinamento delle attività realizzate a livello regionale e locale, i rapporti con i paesi terzi e gli organismi internazionali e la trasposizione della normativa comunitaria. La maggior parte delle competenze sanitarie è stata tuttavia delegata, a livello sia amministrativo-finanziario che legislativo, ai servizi regionali, i quali si occupano della pianificazione, dell’organizzazione e del coordinamento delle attività, mentre i servizi locali effettuano la maggior parte delle attività gestionali. Una disposizione legislativa a carattere regionale, comunque, non può essere in contrasto con una nazionale, e quest’ultima a sua volta deve essere coerente con la legislazione comunitaria. Le principali funzioni svolte a livello regionale consistono nella prevenzione delle malattie infettive e contagiose, nell’applicazione delle misure stabilite dal Ministero della Salute e nella supervisione e nel coordinamento delle attività effettuate dai servizi veterinari locali. Sul territorio nazionale operano, infine, dieci Istituti zooprofilattici sperimentali, con 95 sezioni provinciali, che costituiscono i laboratori veterinari locali. I Centri di referenza nazionali e i Centri di referenza e di collaborazione OMS/FAO/OIE sono situati in alcuni Istituti zooprofilattici sperimentali. Circa 5.000 veterinari sono impiegati nei Servizi veterinari, 4.500 dei quali a livello locale.

I nuovi orientamenti dell’Unione Europea relativamente alla garanzia della sicurezza alimentare sono stati efficacemente espressi nel Libro bianco del 12 gennaio 2000, che punta a modernizzare la legislazione di riferimento strutturandola in un complesso di norme coerenti e trasparenti, potenziando i controlli dall’impresa agricola alla tavola e rafforzando le capacità del sistema di consulenza scientifica per garantire un elevato livello di protezione della salute umana e di tutela dei consumatori. Sulla base di tali principî, la Commissione Europea (Reg. CE n. 178/2002) ha creato un’Autorità europea per la sicurezza alimentare, con il compito di fornire contributi e pareri scientifici indipendenti e di costituire una fitta rete per la cooperazione con organismi analoghi negli Stati membri. L’Autorità valuta i rischi connessi alla catena alimentare e informa l’opinione pubblica sui possibili allarmi che riguardano i prodotti. La creazione di questa struttura, quindi, fornisce al consumatore le necessarie rassicurazioni e informazioni sul sistema di garanzia posto a tutela del consumo di prodotti alimentari, del benessere degli animali e del settore veterinario nell’Unione e nei singoli Stati membri.

Il settore bovino ha fatto un ulteriore passo in avanti, in seguito all’epidemia di BSE (Bovine Spongiform Encephalopathy), con la messa al bando delle farine animali nel 1994; inoltre, l’Unione Europea ha istituito un regime obbligatorio (Reg. CE 1760/2000 e 1875/2000) che dal 2001 consente di tracciare l’intero percorso di produzione di un taglio di carne bovina (from farm to table) e impone di indicare in etichetta una serie di informazioni che possono orientare il consumatore nella scelta del prodotto da acquistare.

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Didascalie

Figura 1. – Principali tipologie di allevamenti diffusi in Italia e prodotti cui questi danno origine.

Figura 2. – La filiera zootecnica.

Figura 3. – Consumi alimentari per tipologia in Italia (2000). (Da Ministero delle Politiche Agricole e Forestali-INEA, 2001).

Figura 4. – Bilancia commerciale italiana (in milioni di euro) dei prodotti zootecnici. (Elaborata su dati ISTAT).

Figura 5. – La produzione agricola zootecnica (a prezzi di base) nei paesi dell’Unione Europea (anno 2000). (Elaborata su dati della Commissione Europea, Direzione generale dell’Agricoltura).

Figura 6. – Incidenza percentuale del valore delle produzioni zootecniche sulla produzione agricola totale (a prezzi di base) nei paesi dell’Unione Europea (anno 2000). (Elaborata su dati della Commissione Europea, Direzione generale dell’Agricoltura).

Patologie connesse con l’alimentazione

SOMMARIO: 1. Introduzione. ƒ 2. Rapporti tra alimentazione e patologie nei paesi industrializzati: a) alimentazione e malattie cardiovascolari; b) obesità, diabete di tipo 2 e ipertensione; c) alimentazione e cancro. ƒ 3. Patologie da carenza alimentare nei paesi in via di sviluppo: a) malnutrizione proteico-energetica; b) carenza di micronutrienti. ƒ 4. Sostanze potenzialmente dannose veicolate dagli alimenti: a) sostanze antinutrizionali; b) sostanze potenzialmente tossiche; c) allergeni. ƒ 5. Alimentazione e agricoltura. ƒ Bibliografia.

1. Introduzione.

Alimentarsi è un’esigenza primaria di ogni organismo vivente. L’invenzione dell’agricoltura, nota anche come ‘rivoluzione neolitica’, ha assicurato agli esseri umani una maggiore disponibilità alimentare, dando loro la possibilità di dedicarsi ad altre attività e di sviluppare la civiltà.

I viaggi in terre lontane e la scoperta di nuovi continenti, come le Americhe e l’Estremo Oriente, via via più frequenti a partire dal XV secolo, hanno costituito un’altra tappa importante, perché hanno consentito lo scambio di numerose specie di piante coltivate e di animali domestici e quindi l’arricchimento, la stabilizzazione e la diversificazione delle derrate alimentari. L’aumentata disponibilità alimentare, liberando forza-lavoro, ha consentito la rivoluzione manifatturiera e poi industriale, anche se l’urbanizzazione che ne è conseguita ha avuto risultati positivi solo nel lungo periodo, in quanto molti gruppi sociali si trovarono a vivere in quartieri urbani malsani e ad avere un’alimentazione poco diversificata e carente di quei nutrienti essenziali ai quali avevano in precedenza più facile accesso: un fenomeno analogo a quello che attualmente sperimentano molte popolazioni dei paesi in via di sviluppo.

Nel XIX secolo, la ricerca scientifica nei settori della chimica e della biologia e l’introduzione di nuove tecniche messe a punto grazie all’ampliamento delle conoscenze hanno avuto un significativo impatto sulla disponibilità di alimenti e sulla salute umana, dando luogo a un graduale e diffuso miglioramento delle condizioni di alimentazione e di vita in generale.

L’attuale produzione mondiale di derrate alimentari potrebbe essere sufficiente a fornire a ogni essere umano oltre 2.700 calorie al giorno, un apporto energetico in grado di consentire una vita sana e attiva, se non esistessero sperequazioni geografiche senza precedenti (v. tab. I). Così mentre in Europa, Nordamerica, Giappone e Australia la popolazione dispone giornalmente di circa 3.400 calorie pro capite, in altre parti del mondo, come l’Africa sub-sahariana e l’Asia meridionale, le calorie disponibili sono inferiori, e ammontano, rispettivamente, a circa 2.200 e 2.400, e il 15% della popolazione mondiale è in condizioni di sottonutrizione cronica, potendo disporre di meno di 2.000 calorie al giorno. A ciò si aggiungano le carenze di uno o più nutrienti essenziali, con conseguente difficoltà e spesso incapacità di far fronte alle malattie. La situazione è particolarmente grave nei bambini: le statistiche indicano infatti che nel mondo oltre 17 milioni di bambini muoiono ogni anno prima di aver compiuto i 5 anni di età e che più di un terzo di questi decessi è dovuto a malnutrizione.

Per contro, nei paesi sviluppati, dove le disponibilità alimentari sono in eccedenza, le patologie che hanno come concausa un’errata alimentazione, in particolare le malattie cardiovascolari e il cancro, sono le più comuni cause di morte precoce e, sulla base delle attuali proiezioni a breve-medio termine, sembrano destinate a rappresentare il più grave problema sanitario in pressoché tutti i paesi del mondo. Nell’ultimo decennio, infatti, lo stile di vita e le abitudini alimentari si sono modificati in misura crescente anche nelle popolazioni dei paesi in via di sviluppo e in transizione, con un impatto significativo sul loro stato nutrizionale e sulla loro salute (v. Ezzati e altri, 2002). Accanto ai miglioramenti nello standard di vita si va affermando un regime alimentare sempre più caratterizzato da elevato consumo di grassi, specialmente saturi, e di zuccheri semplici, contro un consumo relativamente basso di carboidrati complessi (amido, fibra), con un conseguente aumento delle malattie croniche legate alla dieta anche tra le popolazioni povere.

2. Rapporti tra alimentazione e patologie nei paesi industrializzati.

Nei paesi industrializzati, in particolare nel Nordamerica e in Europa, le malattie croniche non trasmissibili per le quali esiste un largo consenso circa l’influenza dell’alimentazione sono le malattie cardiovascolari, il diabete non-insulino-dipendente o di tipo 2, l’ipertensione, la carie dentale e l’obesità, quest’ultima causa indipendente di quasi tutte le patologie elencate. L’alimentazione scorretta sembra possa costituire un fattore di rischio anche per alcune forme tumorali. In Europa, dove lo sviluppo politico e socio-economico ha determinato, a partire dagli anni quaranta del secolo scorso, un’abbondante disponibilità di alimenti e un aumento della speranza di vita, l’attuale regime alimentare e lo stile di vita poco attivo, oltre a causare obesità e sovrappeso, sono implicati in circa il 30-40% dei casi di cancro e in almeno un terzo delle morti precoci per malattie cardiovascolari.

a) Alimentazione e malattie cardiovascolari.

La diversa incidenza delle malattie cardiovascolari nei paesi sviluppati (in Finlandia è cinque volte più alta che in Giappone) e anche all’interno di una stessa popolazione, a seconda della classe socio-economica e dell’appartenenza etnica e geografica, sottolinea l’importante ruolo svolto dall’ambiente, di cui l’alimentazione, assieme allo stile di vita, è parte fondamentale.

Di particolare rilevanza, per quanto riguarda il rapporto tra alimentazione e malattie cardiovascolari, sono la quantità e la qualità dei grassi giornalmente assunti con la dieta. Tali malattie sono in relazione con parametri quali il livello del colesterolo ematico e le sue forme (HDL, High Density Lipoprotein, e LDL, Low Density Lipoprotein), generalmente considerati indicatori del grado di rischio. I grassi alimentari sono costituiti da molecole di triacilglicerolo e le loro caratteristiche qualitative sono determinate dai diversi acidi grassi che esterificano il glicerolo e che sono responsabili della modulazione verso l’alto o verso il basso del livello di colesterolo ematico.

In rapporto al grado di saturazione, gli acidi grassi possono essere saturi, monoinsaturi o polinsaturi. Andrebbe evitato un eccesso di grassi di origine animale, che sono in prevalenza acidi grassi saturi. Tra questi gli acidi laurico, miristico e palmitico, che insieme costituiscono il 32% dei grassi del burro e dei prodotti lattiero-caseari, sono i più colesterolemici. I grassi di origine vegetale e marina, ricchi di acidi grassi polinsaturi, modulano invece verso il basso il colesterolo ematico. Il fatto che gli Eschimesi – la cui dieta si caratterizza per un contenuto di grassi superiore al 50%, peraltro di origine marina (e pertanto ricchi di acidi grassi polinsaturi del tipo w–3) – presentino una bassa incidenza di malattie coronariche, conferma l’importanza della presenza del pesce nella dieta abituale. Per quanto riguarda gli acidi grassi monoinsaturi, è interessante osservare che in alcuni paesi del Mediterraneo, anch’essi caratterizzati da un elevato consumo di grassi (40%), in questo caso costituiti per la massima parte da olio di oliva (contenente intorno al 73-74% di acido oleico monoinsaturo), l’incidenza di malattie delle coronarie rimane bassa, anche se non sono da escludere gli effetti di altri fattori.

Queste osservazioni hanno indotto a rivolgere una particolare attenzione non solo alla quantità, ma anche alla qualità dei grassi contenuti nei prodotti alimentari, sia naturali che trasformati. Da uno studio recente risulta che le carni bovine maggiormente consumate in Italia presentano un contenuto in grassi totali relativamente basso, in cui la percentuale di acidi grassi polinsaturi può raggiungere il 20% (v. Carnovale e Nicoli, 2000). Dal punto di vista pratico non si tratta di bandire un determinato tipo di grasso alimentare, bensì di dosarne opportunamente le proporzioni.

Un altro aspetto che merita attenzione, nell’associazione alimentazione-malattie coronariche, riguarda l’eventuale effetto del colesterolo alimentare sul colesterolo ematico. La maggior parte degli individui è in grado di compensare consumi di colesterolo compresi tra 200 e 900 mg/giorno (un uovo contiene circa 270 mg di colesterolo) riducendo la sintesi del colesterolo endogeno, ma coloro che non sono geneticamente in grado di effettuare questa compensazione sono sensibili al colesterolo presente negli alimenti; anche il grado di assorbimento a livello intestinale varia da individuo a individuo.

Peraltro, l’ipotesi secondo cui i lipidi sono implicati nell’insorgenza delle malattie cardiovascolari non spiega interamente l’associazione tra tali malattie e l’alimentazione. Alcuni studi sperimentali, che avvalorano i risultati delle ricerche condotte in paesi con diversi regimi alimentari, mettono in evidenza l’importanza del ruolo svolto dall’assunzione di fibre nel modulare i valori del colesterolo ematico; tale ruolo è confermato dal fatto che nei sottogruppi di popolazione la cui dieta è caratterizzata da un abbondante consumo di alimenti vegetali ricchi di fibra, l’incidenza delle malattie delle coronarie è inferiore.

A complicare ulteriormente la relazione tra grassi alimentari e malattie delle coronarie contribuisce l’ipotesi secondo cui l’aterogenicità delle LDL, apolipoproteine con funzione di trasporto del colesterolo nel sangue, deriverebbe dalla loro ossidazione a opera di forme altamente reattive dell’ossigeno, ossidazione che, almeno in vitro, viene ostacolata dalle vitamine E e C. Tale ipotesi è sostenuta da alcune ricerche che mostrano una più bassa incidenza di malattie cardiovascolari negli individui con una quantità elevata di antiossidanti ematici, anche se ciò non implica con certezza l’esistenza di un rapporto causale. La dieta di questi individui è di solito ricca di frutta e verdura, e quindi di fibra e molecole antiossidanti che potrebbero svolgere un’azione protettiva dalle malattie delle coronarie.

Un’altra interessante osservazione riguarda la correlazione positiva tra valori di omocisteina circolante superiori alla norma, dovuti ad alterazioni del metabolismo di tale amminoacido, e rischio di malattie cardiovascolari. Anche se i meccanismi non sono ancora stati chiariti, indubbiamente tale correlazione amplia e complica il rapporto tra composizione della dieta e rischio di malattie cardiovascolari, specialmente se si tiene conto che l’iperomocisteinemia, quando non è di origine genetica, può essere ricollegata a carenza di acido folico e di vitamina B2 o di vitamina B6 (v. Selhub, 1999).

Anche il consumo di alcool influenza la comparsa di malattie cardiovascolari. Il rischio è leggermente minore nei bevitori moderati rispetto agli astemi, come è dimostrato da studi condotti in Israele, Scozia, Stati Uniti ed ex Iugoslavia.

b) Obesità, diabete di tipo 2 e ipertensione.

Sovrappeso e obesità, dovuti a uno squilibrio tra l’introduzione e il consumo di energia, sono in crescita in tutto il mondo. A essere maggiormente colpiti sono gli adulti, ma i casi vanno aumentando anche tra i bambini, il che suggerisce che in futuro l’obesità costituirà una delle sfide maggiori per la salute pubblica.

Il sovrappeso e l’obesità vengono definiti in base all’Indice di Massa Corporea (BMI, Body Mass Index), dato dal rapporto peso in kg/altezza in m al quadrato. Un BMI inferiore a 19 denota sottopeso e comporta un moderato grado di rischio; un valore superiore a 25 indica sovrappeso, che diviene obesità di vario grado a partire dalla soglia di 30. A livello di popolazione, un BMI tra 19 e 25, che è considerato normale, comporta un valore medio di 22, ma poiché quasi sempre il BMI medio si colloca intorno a 24-26, se ne deduce che una porzione consistente della popolazione è sovrappeso od obesa.

Un recente esame condotto su un campione di persone di età compresa tra 35 e 64 anni ha indicato che in Europa sono obesi circa il 15% degli uomini e il 22% delle donne, con valori che vanno dal 7% al 22% per gli uomini e dal 9% al 45% per le donne (i valori minimi si riferiscono alla Svezia, quelli massimi alla Lituania). Un’indagine condotta nel 1996 indicava inoltre che nei paesi europei l’obesità era aumentata del 10-40% in soli dieci anni. Un andamento simile si riscontra anche in Italia, dove un’inchiesta nazionale condotta nel 1994 ha indicato che il 7% della popolazione poteva essere classificato come obeso, con un picco nel Sud, dove è risultato obeso il 14% delle donne.

Anche se l’eccesso di peso è la conseguenza di un’eccessiva introduzione di energia, indipendentemente dalla sua natura (grassi e/o carboidrati), la responsabilità principale va attribuita ai grassi, che, oltre a costituire una forma concentrata di energia, sono immagazzinati più rapidamente dei carboidrati. L’obesità comporta molte affezioni debilitanti – come osteoartriti, problemi di carico alle articolazioni, ernie e vene varicose – e, cosa molto più grave, costituisce un fattore indipendente di rischio per le malattie delle coronarie e per l’ipertensione, fa aumentare i disturbi gastrointestinali, alcuni tipi di tumore e la prevalenza del diabete di tipo 2. Si presume che il numero dei casi di quest’ultima patologia, di cui è responsabile anche l’inattività fisica, raddoppieranno nei prossimi venti anni, e il fenomeno non interessa solo i paesi sviluppati, ma anche quelli in transizione e in via di sviluppo.

Per quanto riguarda l’ipertensione, un ampio studio svolto da 52 centri in 32 paesi diversi ha messo in evidenza che un elevato BMI e un elevato consumo di alcool hanno una forte e indipendente incidenza sull’innalzamento della pressione sanguigna. Il sale (cloruro di sodio) ha un’incidenza più debole, ma pur sempre significativa, in particolare in funzione dell’età, mentre altri elementi, come il potassio e il magnesio presenti in diete ricche di carboidrati complessi, sembrerebbero avere un ruolo di protezione. Per soggetti non geneticamente predisposti, è sufficiente mantenere il peso nella norma, adottare un’alimentazione povera di grassi e ricca di fibra, e ridurre il consumo di alcolici. Un altro accorgimento è quello di introdurre l’abitudine fin dall’infanzia a consumare alimenti poco salati.

c) Alimentazione e cancro.

Dopo le malattie cardiovascolari, i tumori rappresentano una delle principali cause di morte nei paesi sviluppati; tuttavia, con il progredire dell’urbanizzazione e l’occidentalizzazione della dieta e dello stile di vita questo tipo di patologia è in aumento anche nei paesi in via di sviluppo. Ciò conferma, fra l’altro, l’influenza dell’ambiente sull’insorgenza dei tumori, mentre i fattori genetici risultano quantitativamente meno rilevanti.

L’analisi dei dati disponibili (v. WCRF-AICR, 1997) attesta che una dieta ricca di grassi aumenta il rischio di tumore al colon e, in caso di obesità, anche alla prostata e all’endometrio, nonché, dopo la menopausa, al seno; un elevato consumo di sale o di alimenti sotto sale o affumicati fa aumentare il rischio di cancro allo stomaco, mentre bevande e cibi molto caldi favoriscono l’insorgenza di neoplasie della cavità orale, della faringe e dell’esofago; un elevato consumo di carne rossa sembra associato a un modesto aumento del rischio di cancro colon-rettale, ed è inoltre consigliabile consumare solo occasionalmente carne o pesce cotti alla brace. Quest’ultima osservazione indica come spesso il fattore di rischio non sia costituito tanto dall’alimento in sé, quanto piuttosto dalle modalità con le quali viene preparato.

Particolarmente degna di nota è l’osservazione che un’alimentazione ricca di frutta e verdure riduce il rischio di tumore, con un più specifico effetto protettivo nei confronti dei tumori a carico di colon, bocca, faringe, laringe, polmoni, stomaco e probabilmente anche di pancreas, seno e vescica, e forse nei confronti del cancro in generale. La frutta e le verdure svolgono un’azione protettiva non solo per la presenza di micronutrienti antiossidanti – come caroteni, vitamina C, vitamina E e selenio – ma anche per i numerosi microcostituenti, ancora non tutti identificati, più o meno presenti nei diversi prodotti e definiti correntemente ‘bioattivi’.

L’estrema complessità e molteplicità dei costituenti dei vegetali rende difficile attribuire l’effetto protettivo a un singolo elemento, e d’altra parte sono possibili antagonismi, agonismi e alterazioni nella biodisponibilità anche in rapporto al modo in cui i diversi alimenti vengono associati e preparati. Dal punto di vista pratico è comunque importante il fatto che le evidenze relative a un’azione protettiva di frutta e verdura sono fra le più convincenti, quali che siano i meccanismi sottostanti.

3. Patologie da carenza alimentare nei paesi in via di sviluppo.

L’iponutrizione e la malnutrizione sono tra i problemi più devastanti per le masse di poveri e bisognosi del mondo. Circa il 30% dell’umanità soffre di una o più forme di malnutrizione, e anche se il problema va, nel complesso, gradualmente migliorando, permangono ancora gravi situazioni di carenza alimentare, che minano seriamente la salute sin dalla vita fetale. La malnutrizione è responsabile, oltre che del ritardo nella crescita, anche di patologie dovute a carenze specifiche, in particolare di vitamine A (che può provocare cecità), B2 (riboflavina) e C, nonché di ferro e di iodio.

a) Malnutrizione proteico-energetica.

La malnutrizione proteico-energetica è la più diffusa forma di malnutrizione fra i bambini dei paesi in via di sviluppo (v. de Onis e altri, 1993 e 2000). I bambini sono di statura inferiore alla media se la malnutrizione è cronica, e sottopeso se soffrono di malnutrizione acuta, condizione che, in mancanza di opportuni interventi, può evolvere nel marasma, una forma estrema di deperimento che può portare alla morte. Come risulta dal quarto rapporto dell’ONU sulla situazione mondiale della nutrizione (marzo 2002), nei paesi in via di sviluppo nascono ogni anno circa 30 milioni di bambini sottopeso a causa della scarsa nutrizione durante la vita fetale (v. UN, 2002). Il basso peso alla nascita è un problema diffuso e particolarmente serio nell’Asia centromeridionale, dove interessa il 21% dei neonati, mentre nell’Africa centrale e occidentale la percentuale di bambini sottopeso è, rispettivamente, del 15% e dell’11%. Nell’America centromeridionale e nel Sud-Est asiatico, i valori sono intorno al 6%, un livello vicino a quello dei paesi industrializzati. Poiché la malnutrizione fetale è correlata a malattie croniche nell’età adulta, investire nella prevenzione potrebbe scongiurare l’insorgenza di queste malattie, oltre a migliorare lo stato nutrizionale della madre e del bambino.

Nel 2000 circa 182 milioni di bambini in età prescolare, corrispondente al 33% dei bambini sotto i 5 anni, presentavano un ritardo della crescita: un miglioramento rispetto alla percentuale del 47% registrata nel 1980 e che potrebbe ridursi ulteriormente scendendo sotto il 30% nel 2005. Ma l’aumento della natalità mantiene queste percentuali molto elevate. Complessivamente, il 70% dei bambini con un ritardo della crescita vive in Asia, principalmente in quella centromeridionale (dove vive il 50% dei bambini malnutriti), il 26% in Africa e il 4% nell’America Latina e nei Caraibi.

I recenti progressi nella lotta alla malnutrizione sono molto diseguali e in alcune aree del tutto inconsistenti (come nell’Africa sub-sahariana dove il 42% dei bambini, pari a circa 37 milioni, è sottopeso), quando non di segno negativo, come nell’Africa orientale dove il 48% dei bambini (contro il 47% di dieci anni fa) presenta un ritardo della crescita. L’attuale tendenza all’aumento di questi valori è determinata, come si diceva, dal costante sviluppo demografico.

Fortunatamente, in altre regioni la percentuale di bambini con ritardo della crescita fa registrare una diminuzione dello 0,6 ÷ 0,9% all’anno. Progressi notevoli sono stati conseguiti in Sudamerica (ove si hanno ormai valori inferiori al 10%, contro il 25% del 1980) in Nordafrica e nei Caraibi (ove si hanno valori del 20% e 16%, rispettivamente, contro valori del 33% e del 25% del 1980) nel Sud-Est asiatico (da 52% a 33%) nell’Asia centromeridionale (da 61% a 44%), dove il numero di bambini affetti da malnutrizione acuta è in diminuzione, anche se essa rimane largamente diffusa (v. fig. 1).

Le informazioni sullo stato di nutrizione degli adolescenti e sui suoi effetti sulla crescita sono molto scarse. Fra gli adulti in parecchi paesi si riscontrano contemporaneamente ipo- e ipernutrizione. Mentre il sottopeso è comune fra le donne dell’Asia centromeridionale, le donne africane presentano condizioni sia di sottopeso che di sovrappeso. Nei Caraibi e nell’America Latina il sovrappeso interessa una donna su quattro. A rischio di malnutrizione sono particolarmente le donne gravide, le nutrici e i loro piccoli, che hanno un maggior fabbisogno di alimenti nutrienti rispetto ad altre categorie. Quando la disponibilità alimentare della famiglia è limitata, le donne e i bambini sono i primi a presentare segni di iponutrizione. Le donne con un aumento di peso inferiore alla norma durante la gravidanza molto spesso danno alla luce neonati sottopeso, maggiormente esposti a malattie e infezioni.

Molto scarse, se non addirittura inesistenti, sono le informazioni sullo stato di nutrizione degli anziani.

b) Carenza di micronutrienti.

La carenza alimentare di micronutrienti è ancora largamente diffusa nei paesi in via di sviluppo. Le carenze di ferro, iodio e vitamina A sono le più gravi per conseguenze e diffusione. Carenze meno diffuse, o forse meno conosciute nella loro estensione, sono quelle di vitamina C, che può provocare lo scorbuto, di vitamina B12 e di acido folico, con le conseguenti anemie. In alcune zone queste carenze sono il risultato di un’alimentazione povera dal lato non solo qualitativo, ma anche quantitativo, per cui si intrecciano con una malnutrizione proteico-energetica più o meno accentuata, a sua volta causa di una riduzione dell’assorbimento e dell’utilizzazione di questi micronutrienti già scarsi nella dieta abituale, determinando un circolo vizioso.

Carenza di ferro. – La carenza di ferro interessa più di un miliardo di persone nei paesi in via di sviluppo, dove si calcola che più di due persone su tre ne soffrano. L’anemia che ne consegue influenza lo sviluppo cognitivo dei bambini diminuendo le loro capacità di apprendimento, causa perdite nella produttività e fa aumentare la morbilità e la mortalità delle madri. La quantità di ferro assunta con gli alimenti varia considerevolmente nelle diverse regioni, ma non esiste necessariamente un rapporto diretto tra quantità di minerale presente negli alimenti e anemia, perché il grado di biodisponibilità del ferro varia nei diversi cibi e la presenza di parassiti intestinali ne può compromettere fortemente l’utilizzazione. Una situazione di questo tipo si verifica in Africa, dove, malgrado l’assunzione di ferro sia mediamente superiore a quella richiesta, circa il 60% delle donne gravide risulta affetta da forme di anemia più o meno gravi. La diffusione e le conseguenze della carenza di ferro costituiscono uno dei più rilevanti problemi sociali.

Carenza di iodio. – La carenza di iodio si riscontra prevalentemente in aree con basso contenuto di questo elemento nel terreno e nelle acque, e di conseguenza negli alimenti. Particolarmente povere di iodio sono non solo le aree montane, come ad esempio le Ande e l’Himalaya, ma anche aree costiere o di pianura soggette a frequenti inondazioni. Un’altra importante causa di carenza di iodio è l’eccessivo consumo di alimenti, come brassicacee e manioca, che contengono sostanze gozzigene; si tratta di un fenomeno particolarmente evidente nell’Africa centrale, dove la manioca è un alimento largamente consumato, e nell’America Latina, dove sostanze gozzigene si trovano anche nelle acque. Il problema della carenza di iodio è molto serio nei paesi asiatici, in particolare nel Bangladesh. La sua incidenza nel Sud-Est asiatico supera quella registrata in tutte le altre regioni del mondo.

La carenza di iodio dà luogo a un un’ampia gamma di patologie, che va da un modesto ingrossamento della tiroide a forme di cretinismo neurologico, con tutta una serie di manifestazioni intermedie. Questi effetti sono particolarmente gravi durante lo sviluppo fetale e nei primi due anni di vita. A livello mondiale la carenza di iodio è la più diffusa causa di danno mentale. La iodurazione del sale, introdotta nei paesi dove le patologie dovute a scarsezza di iodio hanno maggiore incidenza, sta conseguendo buoni risultati.

Carenza di vitamina A. – Come abbiamo già accennato, una grave carenza di vitamina A può portare alla cecità sin dalla prima infanzia e nelle età successive ha effetti negativi sulla salute. Essa è da ascrivere a una dieta inadeguata, dovuta a povertà e deprivazione, e tende ad aggravarsi anche per la tendenza a eliminare i vegetali freschi dalla dieta dei bambini. Per quanto la carenza grave di vitamina A, la xeroftalmia, e la conseguente cecità siano in diminuzione, la carenza sub-clinica colpisce ancora circa 250 milioni di bambini in età prescolare e un numero ancora maggiore di bambini in età scolare, donne gravide e altre categorie di persone; inoltre, essa contribuisce in maniera significativa all’aumento della morbilità e della mortalità nelle popolazioni a rischio. Nelle aree dove essa è largamente diffusa vivono 118-190 milioni di bambini che, pur non presentando xeroftalmia, sono probabilmente più esposti al rischio di contrarre infezioni a causa delle ridotte difese immunitarie.

Anche se la maggior parte dei paesi colpiti è situata soprattutto nel continente africano, la maggioranza dei bambini che soffrono di carenza di vitamina A si trova nel Sud-Est asiatico, dove a causa dell’elevata densità della popolazione la disponibilità alimentare media è molto inferiore al fabbisogno. Per quanto si osservi una tendenza al miglioramento, dovuta anche ai trattamenti con vitamina A, la xeroftalmia resta un problema particolarmente grave. Nei paesi in via di sviluppo, inoltre, molto spesso la grave carenza di vitamina A è associata a malnutrizione proteico-energetica e porta a un aumento della mortalità infantile. Nella provincia di Kivu, nello Zaire, dove la malnutrizione proteico-energetica è endemica, la mortalità annuale si aggira intorno al 50‰.

4. Sostanze potenzialmente dannose veicolate dagli alimenti.

Gli alimenti, oltre ai macronutrienti e ai micronutrienti, contengono una serie di sostanze che potrebbero essere dannose – generalmente classificate come sostanze antinutrizionali, potenzialmente tossiche e allergeni –, molte delle quali vengono distrutte dalla cottura o sono presenti in quantità talmente piccole da essere eliminate dai meccanismi di detossificazione propri dell’organismo. I problemi nascono dal fatto che non sempre è noto quali siano i livelli tollerabili, se un consumo continuato di piccole quantità possa costituire un rischio per la salute, se alcuni individui siano più sensibili di altri e in che misura le sostanze sospette vengano realmente assimilate.

a) Sostanze antinutrizionali.

Di regola, le sostanze antinutrizionali agiscono riducendo la biodisponibilità di uno o più nutrienti. Ad esempio, i gozzigeni presenti nelle brassicacee e nelle crucifere sono sostanze del tipo dei glucosinolati, i quali in seguito a idrolisi danno origine a isotiocianati e ossazolidone–2–tione, che a loro volta inibiscono la via di utilizzazione dello iodio nella sintesi dell’ormone tiroxina. Gozzigeni sono presenti in particolare nella manioca, che nei paesi tropicali costituisce l’alimento base per circa 250 milioni di persone.

Altre sostanze antinutrizionali che inibiscono l’assorbimento dei nutrienti sono i sali dell’acido fitico, o fitati, i quali aggravano ulteriormente la condizione di rischio per le popolazioni tra le quali è diffusa la carenza di ferro, zinco e calcio. Se si considera che alcuni alimenti ricchi di fitati, come la farina di avena e il frumento integrale, sono anche ricchi di fibra, che di per sé può ridurre la biodisponibilità di tali minerali, gli effetti negativi sulla salute risultano ancora più gravi. Nei casi in cui la dieta è molto povera di calcio, il suo assorbimento può essere ridotto anche dall’eccessivo consumo di vegetali verdi ricchi di ossalati, quali bietole, spinaci, rabarbaro, ecc.

Sostanze antinutrizionali, come gli inibitori delle proteasi e delle amilasi, presenti nei legumi, non pongono particolari problemi in quanto vengono distrutte con la cottura.

b) Sostanze potenzialmente tossiche.

Sostanze potenzialmente tossiche possono essere naturalmente presenti negli alimenti, oppure possono derivare da preparazioni domestiche e industriali o da processi di contaminazione. Si tratta di un problema molto complesso, sia perché le sostanze non nutrienti presenti negli alimenti vegetali e animali sono migliaia e non sempre sono noti i loro effetti sull’organismo umano, sia perché non si sa con precisione quante di queste sostanze vengano assunte giornalmente dai singoli individui. Ogni sostanza chimica, sia sintetica che naturale, risulta tossica a determinati livelli e pertanto il rischio zero praticamente non esiste; tuttavia, fortunatamente, sono poche quelle naturalmente presenti negli abituali alimenti in quantità tali da produrre effetti tossici. Diverso può essere il caso di contaminanti accidentalmente presenti in particolari situazioni.

A parte i ben noti alcaloidi tossici, presenti in alcune specie di funghi, o la neurotossina di origine batterica (tetrodoxina, TTX) presente in diversi animali (di cui il più noto è il pesce palla), particolare interesse hanno i glucosidi cianogeni che si trovano in molte specie vegetali, come patate dolci, mais, miglio, canna da zucchero, mandorle amare e noccioli di ciliege, prugne, albicocche e soprattutto nella manioca. Anche se le popolazioni per le quali la manioca costituisce l’alimento base hanno elaborato tecniche per eliminare il cianuro, le intossicazioni gravi non sono rare, e in alcune aree l’ingestione cronica di piccole quantità crea seri problemi.

Il consumo dei semi di alcune specie di legumi, come la cicerchia (Lathyrus), che causa una grave malattia del sistema nervoso centrale, nota come latirismo, continua a essere un problema in paesi, come ad esempio l’India, in cui la coltivazione di questa specie, capace di crescere in condizioni particolarmente avverse, può costituire l’unica risorsa in tempi di carestia.

Nei soggetti con deficit ereditario dell’enzima glucosio–6–fosfato deidrogenasi, i glucosidi vicina e convicina presenti nelle fave provocano il favismo, una crisi emolitica acuta che può risultare mortale se non si interviene tempestivamente. Questa malattia, che interessa potenzialmente circa 100 milioni di persone, è largamente diffusa nel bacino del Mediterraneo e, per quanto riguarda l’Italia, in Sicilia e ancor più in Sardegna.

L’elenco delle sostanze potenzialmente tossiche comprende inoltre emoagglutinine, saponine, fitoalessine e il gossipolo, una sostanza presente nei semi di cotone la cui tossicità costituisce un grave problema soprattutto per i paesi dell’Africa sub-sahariana.

Il problema delle sostanze potenzialmente tossiche merita particolare attenzione in quanto alcune di esse hanno azione mutagena e quindi potrebbero risultare cancerogene (v. Pariza, 19963). Alla lunga lista di queste sostanze appartengono la piperina del pepe nero, l’acido caffeico, la teobromina del tè e del cacao e diversi composti polifenolici in alimenti vegetali. Per contro, per alcuni composti polifenolici come i flavonoidi, ad esempio la quercetina, è stata ipotizzata un’azione protettiva nei confronti delle malattie cardiovascolari e del cancro dovuta alle loro proprietà antiossidanti, anche se gli studi epidemiologici finora condotti non permettono di trarre conclusioni definitive (v. Ross e Kasum, 2002).

Nei paesi con climi caldi e umidi un altro rischio alimentare è legato alla conservazione di granaglie, semi e riso, che possono essere contaminati da funghi, ad esempio, Aspergillus spp. e Pennicilium spp., i quali producono aflatossine e ocratossine che, oltre a essere potentissimi veleni, sono ritenute fortemente cancerogene. Nei paesi dell’Africa, la contaminazione da funghi rende inutilizzabile circa il 30% degli alimenti; una recente ricerca condotta nell’Africa centro-occidentale ha indicato che solo due bambini su 500 al di sotto dei due anni non presentavano valori di aflatossina superiori ai limiti indicati dalla WHO.

Recentemente, è sorto il sospetto che l’uso di concimi animali non adeguatamente stabilizzati per la produzione di alimenti biologici possa essere all’origine di contaminazioni da Escherichia coli (O157:H7) e rappresentare un ulteriore rischio per il consumatore.

c) Allergeni.

Le allergie di natura alimentare sono oggetto di crescente attenzione anche perché stanno divenendo sempre più frequenti. Il fenomeno allergico si scatena quando un componente di un alimento – in particolare una proteina o carboidrati complessi legati a una proteina –, normalmente innocuo, è riconosciuto come dannoso da parte dell’organismo. Il sistema immunitario reagisce allora producendo anticorpi specifici, per cui tutte le volte che quell’alimento viene ingerito si scatena una serie di sintomi allergici che coinvolgono il sistema respiratorio, il tratto gastrointestinale, la pelle o il sistema cardiovascolare. La risposta è individuale e quindi può essere causata da qualsiasi alimento (i più comuni sono il latte, le uova, il frumento, la soia e i crostacei); quando coinvolge diffusamente una popolazione richiede un’attenta vigilanza.

Una particolare forma di allergia è costituita dal morbo celiaco; nei soggetti predisposti l’assunzione di gliadina, uno dei due costituenti del glutine di frumento, provoca un danno della mucosa intestinale con conseguente grave deficit nell’assorbimento dei nutrienti e una deficienza secondaria della lattasi. Una risposta analoga si verifica anche con l’orzo e l’avena.

5. Alimentazione e agricoltura.

Nella seconda metà del XX secolo si è posto il problema di alimentare una popolazione raddoppiata nel giro di soli quarant’anni. La situazione è evoluta in modo diverso da zona a zona. In Nordamerica e in Oceania la sicurezza alimentare non è mai stata un vero problema, dato che l’agricoltura ha sempre fornito derrate sia per uso interno che per il mercato internazionale. Tuttavia, i casi di malnutrizione non sono mancati, e anzi sono tuttora diffusi. In Europa, ove le derrate prodotte non erano sufficienti, sono state dapprima adottate politiche che hanno stimolato la messa a punto e l’adozione di tecnologie capaci di aumentare la produzione quantitativa, senza troppo preoccuparsi degli aspetti qualitativi – tecnologici e nutrizionali – che sono emersi solo in epoche più recenti e sono divenuti prioritari dopo che è stata raggiunta la sicurezza grazie all’accumulazione di surplus. Solo allora le politiche sono state indirizzate alla protezione ambientale, alla salubrità degli alimenti, al soddisfacimento delle esigenze del consumatore. Anche in Europa, peraltro, la malnutrizione, per eccesso o per squilibrio, rappresenta un problema le cui proporzioni sono attualmente in crescita. Abbastanza simile è la situazione in Giappone.

Assai più complessa è invece la situazione nei paesi in via di sviluppo, alcuni dei quali hanno puntato in passato sulla produzione quantitativa ottenendo notevoli successi, ma la condizione di povertà e le differenze di preparazione e imprenditorialità tra le diverse etnie hanno impedito di debellare la fame e la malnutrizione a livello nazionale (v. tab. I).

La sfida per il futuro sarà quella di riuscire a nutrire un maggior numero di persone nonostante che le condizioni si presentino sempre più difficoltose. La popolazione mondiale continua infatti a crescere di circa 85 milioni di persone all’anno e il maggiore aumento demografico si registra principalmente nelle regioni già sovrappopolate, sottosviluppate e più povere di Asia, Africa e America Latina, che entro un quarto di secolo ospiteranno circa l’85% della popolazione mondiale. La crescita è particolarmente sostenuta nelle aree urbane e comporterà modificazioni sempre maggiori nelle preferenze alimentari, con aumento del consumo di proteine, grassi animali, frutta e diminuzione del consumo di alimenti di base; l’abbandono degli alimenti tradizionali potrebbe determinare un cambiamento nella fonte di carboidrati e portare a preferire zuccheri, cereali finemente macinati e altri alimenti trasformati. Nell’Africa sub-sahariana, ad esempio, è in aumento il consumo di cereali come frumento, riso e mais, mentre in America Latina cresce quello di frumento, zucchero, olio e proteine animali.

Dal punto di vista della qualità, queste novità dovrebbero costituire un miglioramento, perché consentiranno di evitare l’involontaria esposizione del consumatore alle sostanze nocive contenute negli alimenti (dato che le sostanze presenti nei semi dei cereali sono generalmente meno dannose di quelle che si trovano in tuberi e radici, o lo sono solo per individui con particolari predisposizioni) e alle sostanze tossiche prodotte da batteri e funghi (dato che i semi, una volta secchi, possono essere conservati meglio di tuberi e radici). Dal punto di vista quantitativo, tuttavia, la situazione è meno confortante, perché le fluttuazioni annuali nella produzione dei semi sono più elevate di quelle di tuberi e radici, e possono compromettere la sicurezza alimentare di popolazioni generalmente prive di meccanismi che consentano di tamponare le crisi causate da mancati raccolti.

L’evoluzione delle abitudini alimentari richiederà una produzione di derrate alimentari assai superiore a quella attuale; per produrre 1 kg di carne di pollo è infatti necessario l’equivalente di almeno 3 kg di frumento e per 1 kg di carne bovina di almeno 8 kg di frumento.

Ad aggravare la situazione concorre il fatto che le terre adatte alla coltivazione sono limitate e per la maggior parte già sfruttate. Si stima che a metà degli anni ottanta fossero in coltivazione circa 1.500 milioni di ettari di terreno, ma che solo meno di un quarto di questi terreni avesse caratteristiche idonee a fornire elevate produzioni. Analoghi problemi presentavano i 200 milioni di ettari di pascolo e i 100 milioni di ettari di foreste: la coltivazione dei terreni da pascolo avrebbe infatti compromesso la produzione animale insieme a tutti gli effetti complementari, ai benefici che essa porta all’umanità e alla fertilità dei terreni, e quella delle foreste avrebbe determinato un’ulteriore erosione di risorse biologiche. Per di più le terre potenzialmente coltivabili si trovavano nella quasi totalità in Africa (45%) e in America Latina (45%), lontano cioè dai mercati internazionali e scarsamente collegate con strade, ferrovie e aeroporti. Le altre terre coltivate erano di qualità modesta, ed erano coltivate solo grazie a interventi agronomici, il cui abuso è stato spesso causa di inquinamento e di erosione.

L’aumentata domanda di alimenti sembrava potesse essere fronteggiata solo con una più alta resa per unità di superficie, secondo lo schema della rivoluzione verde che, negli anni sessanta e settanta, ha fornito alimenti a una serie di paesi su cui incombeva lo spettro della fame. Nuove tecnologie, incentrate su varietà più produttive, e il rifornimento di adeguati mezzi tecnici, come fertilizzanti, irrigazione, ecc., consentirono di aumentare la produzione complessiva di frumento, riso e mais raggiungendo quantità per ottenere le quali, adoperando le varietà e i mezzi tecnici tradizionali, sarebbe stato necessario mettere in coltivazione oltre 300 milioni di ettari di terreni a foresta e/o a pascolo.

Dalla metà degli anni ottanta in poi, gli aumenti di produzione globale sono invece derivati dall’espansione delle colture su terreni poco fertili ed economicamente marginali. Ma la diminuzione dei fondi destinati alla ricerca non ha consentito di mettere a punto tecnologie (varietà coltivate e tecniche agronomiche) sempre più efficaci, e si è riusciti solo a tamponare la perdita di produzione per unità di superficie dovuta alla fertilità inferiore dei terreni messi a coltura; inoltre, la mancanza di politiche e di infrastrutture ha limitato o vanificato il favorevole impatto sociale che l’aumentata produzione avrebbe potuto avere. L’espansione delle colture su terreni marginali ha anzi determinato la produzione di alimenti poveri di quei micronutrienti di cui si è detto in precedenza, che sono essenziali per una vita sana.

Ma l’agricoltura intensiva, basata su un massiccio uso di mezzi tecnici esogeni, non è la soluzione appropriata, risultando insostenibile per la maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Oltre ai suoi elevati costi energetici – bisogna infatti immettere 10 calorie sotto differenti forme (petrolio, fertilizzanti, controllo di parassiti, malattie ed erbe infestanti, costruzione e gestione dei macchinari) per ottenere una caloria di energia alimentare –, essa determina esternalità, ossia inconvenienti di diversa natura, come salinità del terreno, ristagno idrico, erosione, impoverimento delle falde acquifere, ecc.

La soluzione migliore sembra essere quella di colture che interagiscono con la natura, in modo da ridurre la necessità dell’uso intensivo di mezzi tecnici esogeni, sostituendo il materiale con la conoscenza. Occorre quindi proseguire e intensificare il processo, avviato nel secolo scorso, di messa a punto e sfruttamento di strumenti derivanti da materia prima molto abbondante e di scarso valore intrinseco, ma arricchiti di elevato contenuto tecnologico, grazie all’aumento delle conoscenze reso possibile dalla istituzionalizzazione della ricerca. Due punti debbono essere estremamente chiari in proposito. Il primo è che i progressi delle scienze naturali e sociali hanno dato un significativo contributo ai cambiamenti tecnici e istituzionali permettendo alla società moderna di instaurare con la natura una relazione più produttiva e bilanciata di quella che avevano le società delle antiche civiltà o dei primi stadi della rivoluzione industriale. Il secondo punto riguarda il ritardo che si è registrato nello sviluppo delle innovazioni istituzionali, cioè nell’ideare e costituire nuove istituzioni o nel modificare quelle esistenti in modo da promuovere e garantire la compatibilità tra gli obiettivi dell’individuo, delle organizzazioni e della società. Un ritardo dovuto, negli ultimi cinquant’anni, a diverse vicende e di cui oggi risentono in particolare la qualità dell’ambiente, la salute umana e la produzione alimentare.

La ricerca ha iniziato a considerare con più attenzione i complessi problemi del mantenimento della base produttiva dell’agricoltura, combinando insieme le esigenze di debellare la fame, di offrire prodotti di miglior qualità e di evitare danni all’ambiente e pericoli per il consumatore. In essa risiede la speranza di sviluppare un’agricoltura che fornisca un’alimentazione più abbondante, salubre e nutriente. La conoscenza delle caratteristiche dei terreni e dei bisogni fisiologici delle piante consente una più elevata produzione di alimenti; lo studio delle funzioni dei geni delle piante permetterà di ottenere prodotti alimentari più consoni alle esigenze nutrizionali e al benessere delle popolazioni, sia per il contenuto di particolari nutrienti che per l’eliminazione di fattori antinutrizionali.

L’idea di modificare il metabolismo delle piante anziché arricchire di additivi gli alimenti sta guadagnando terreno e rappresenta il primo passo verso un nuovo modo di disporre di alimenti più sani e nutrienti. Ad esempio, si è detto che uno dei problemi nutrizionali più importanti è rappresentato dalla carenza di vitamina A, e che il miglior modo di risolvere questa carenza è quello di attivare i caroteni (in particolare il beta carotene, presente nella frutta e nella verdura). Uno dei risultati che la ricerca attuale si propone è quello di ottenere piante naturalmente ricche di tali componenti che possano essere coltivate in regioni molto diverse del mondo.

La ricerca può aiutare anche a ridurre i fattori antinutrizionali. Si è citato il ruolo del colesterolo LDL nelle patologie cardiovascolari, ed è noto che i fitosteroli hanno la capacità di ridurre il colesterolo ematico del 10 ÷ 15% ostacolandone l’assorbimento gastrointestinale. I fitosteroli non sono presenti negli alimenti in quantità sufficienti a esercitare un ruolo attivo, ma l’individuazione dei geni che regolano il contenuto di steroli nei tessuti vegetali lascia intravedere la possibilità di produrre vegetali con maggiori quantità di queste sostanze. Analogamente, interessanti prospettive per una vita più sana e più lunga sono aperte dalla possibilità di regolare i livelli di una serie di composti, come gli acidi grassi, che – come abbiamo visto – hanno la capacità di modulare le reazioni infiammatorie, o le vitamine (come la C e la E) e altre molecole, che hanno effetti antiossidanti nell’organismo umano.

La lotta biologica può controllare gli insetti dannosi per le piante (come dimostrano gli oltre nove milioni di ettari di manioca, che in Africa sono stati liberati dagli attacchi di un insetto grazie all’introduzione di un suo predatore), ma ciò richiede una profonda conoscenza dell’etologia degli insetti, dei loro cicli biologici, delle loro esigenze climatiche, ecc. (v. lotta biologica, voll. III e XIII). Le produzioni dei terreni poco fertili possono essere migliorate grazie ai batteri azotofissatori e alle micorrizze, ma le scarse e frammentarie conoscenze su questi organismi impediscono un loro uso programmato.

La scienza, se correttamente impiegata, è in grado di fornire piante capaci di dare derrate migliori, di aggiungere valore lungo la filiera che porta dal campo al commerciante e infine al consumatore, di aumentare la quantità e la qualità degli alimenti. È importante considerare gli alimenti in modo olistico, dalla produzione al loro apporto nutritivo.

Ma la scienza da sola non è sufficiente, può far poco senza la politica. Tale convinzione ha spinto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a formulare una serie di raccomandazioni di politica alimentare per i paesi in via di sviluppo; fra queste risulta prioritario l’invito ai governi a identificare gli alimenti vegetali indigeni di alto valore nutrizionale, a incoraggiarne la produzione e il consumo, a indirizzare l’industria alimentare locale a sviluppare processi che non aggiungano grassi, zuccheri o sali ai prodotti alimentari. A loro volta le politiche economiche legate all’import/export non devono portare all’introduzione di abitudini alimentari pericolose, soprattutto per le popolazioni povere e urbanizzate dei paesi in via di sviluppo, già indebolite da pregresse carenze alimentari. Si deve intervenire prima che il modello tipico della dieta occidentale associato all’abbondanza si diffonda e si stabilizzi, per non doversi trovare a fronteggiare contemporaneamente i due problemi della super- e dell’ipoalimentazione quando non si è in grado di risolverne nemmeno uno.

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