ALI

Enciclopedia Italiana (1929)

ALI (‛Alī; l'accentuazione Alì è dovuta all'influsso della pronuncia turca)

Giorgio Levi Della Vida

Quarto califfo degli Arabi, l'ultimo dei cosiddetti Rāshidūn "i ben diretti" (v. califfato). Stretto parente di Maometto, essendo suo padre, Abū Ṭālib, fratello del padre di Maometto (erano figli di ‛Abd al-Muṭṭalib, figlio di Hāshim, dal quale antenato prendeva il nome l'intera famiglia), era però di parecchi anni, forse una trentina, più giovane di lui. Benché non sia da prestar fede alla tradizione che fa di lui il secondo o il terzo seguace dell'Islām, certo è che egli fu tra i primi ad abbracciare le idee religiose del cugino e lo seguì nell'ègira, (l'emigrazione a Medina), non però lo accompagnò all'atto della partenza (la pia tradizione si è ingegnata di giustificare questo ritardo). Il suo matrimonio con la figlia primogenita di Maometto, Fāṭimah (v.), rese più stretti i suoi vincoli di parentela col Profeta: tuttavia, benché partecipasse valorosamente a tutte le battaglie dell'Islām nascente e fosse mandato da Maometto in missione politica nel Yemen, non sembra aver goduto di alcuna posizione di privilegio presso il suocero, sul quale invece esercitavano un influsso incontestato la giovane moglie ‛Ā'ishah (v.), il padre di lei Abū Bekr (v.) e ‛Omar (v.). Sicché, alla morte di Maometto, Alì rimase escluso non solo dalla successione, ma anche da qualsiasi partecipazione alla vita politica, il che non soltanto fu sentito da lui come un grave affronto fatto alla sua condizione di stretto parente del Profeta (questa, secondo le norme consuetudinarie dell'Arabia preislamica, non gli conferiva un diritto specifico alla successione, ma costituiva pur sempre un titolo di preferenza che poteva esser fatto valere accanto ad altri), ma fece di lui il centro dell'opposizione manifestatasi in seno alla comunità musulmana contro il favore sempre crescente che i membri della classe dirigente meccana, convertiti dell'undecima ora, godevano presso i califfi a danno dei più antichi e più fedeli compagni del Profeta, e specialmente dei Medinesi, che lo avevano accolto profugo e assistito nei difficili inizî della sua azione politico-religiosa (i cosiddetti Anṣār "gli aiutatori"). Tale opposizione raggiunse il colmo negli ultimi anni del califfato di ‛Othmān (v.), e quando questi fu ucciso a Medina (35 ègira = 656 d. C.), Alì, nello scompiglio suscitato dall'eccidio e tra lo sbigottimento dei partigiani dell'assassinato, fu proclamato califfo dai notabili Anṣār e da altri autorevoli compagni. È dubbio se egli sia stato responsabile dell'uccisione di ‛Othmān: forse non vi ebbe parte diretta, ma il suo prolungato atteggiamento di oppositore irreducibile e il vantaggio che egli ne trasse dovevano facilmente dare appiglio ai peggiori sospetti, tanto più che proprio tra i suoi più fanatici partigiani si trovavano i promotori della rivolta finita nell'assassinio. Nonostante il trionfo di Medina, Alì si trovò, fin dall'inizio del suo regno, impigliato nelle più aspre difficoltà; alla Mecca scoppiò una rivolta facente capo ad ‛Ā'ishah e ai due autorevoli compagni Ṭalḥah e az-Zubair: delle provincie, mentre l'‛Irāq e l'Egitto erano divisi tra partigiani e oppositori, la Siria, il cui governatore Mu‛āwiyah (v.), stretto congiunto di ‛Othmān, disponeva di un esercito agguerrito e disciplinato, era tutta intera contro di lui. Alì, per non lasciarsi prevenire dai ribelli della Mecca che si erano diretti verso l'‛Irāq, mosse a quella volta e costituì la sua sede ad al-Kūfah, mentre quelli s'impadronivano di al-Baṣrah l'altro grande centro della regione. La disfatta dei ribelli nella battaglia del Cammello (36 èg. = novembre 656) e il prevalere dei suoi partigiani in Egitto parvero assicurare il successo ad Alì: gli restava da sconfiggere Mu‛āwiyah, pericoloso non solo per la sua forza militare, ma altresì per il grande prestigio che la sua situazione di vendicatore del parente ucciso gli conferiva secondo la mentalità araba, che seguitava a considerare i conflitti politici alla stregua delle tradizionali lotte di tribù sorgenti da questioni relative alla vendetta del sangue. Tale situazione fu abilmente sfruttata da Mu‛āwiyah, mentre Alì non si mostrò politico avveduto. Scontratisi i due contendenti a Ṣiffīn (località sulla riva destra del medio Eufrate), Mu‛āwiyah, che si era accordato con l'astuto ex-governatore dell'Egitto ‛Amr ibn al-‛Āṣ (v.), riuscì a far sospendere le ostilità e a indurre Alì, che era riluttante e consentì solo sotto la pressione di una parte dei suoi seguaci, ad accedere a un giudizio arbitrale. Questo non ebbe invero alcun risultato, ma da una parte fece guadagnar tempo a Mu‛āwiyah e gli valse la conquista dell'Egitto, dall'altra provocò la scissione dei seguaci di Alì, molti dei quali lo abbandonarono, costituendo quella che divenne poi una delle principali sètte politico-religiose dell'Islām, i Khārigiti (v.). Essi, benché Alì ne facesse strage (38 èg. = luglio 657), non furono interamente distrutti, e andarono anzi aumentando continuamente di numero, provocando movimenti insurrezionali nel territorio già sottomesso ad Alì. Questi fu poi a poco a poco abbandonato da alcuni dei più ragguardevoli dei suoi partigiani, i quali, vedendo che la sorte gli si faceva contraria, si lasciarono sedurre dalle lusinghe di Mu‛āwiyah; e questi, sicuro ormai di un vicino trionfo rinunziando ad ulteriori azioni guerresche in grande stile, esaurì gradatamente le forze di Alì e ne scalzò il prestigio con una serie di scorrerie, che giunsero talvolta al centro stesso del suo territorio. Alì era senza dubbio prossimo alla rovina definitiva quando cadde assassinato, ad al-Kūfah, dal khārigita ‛Abd ar-Raḥmān ibn Mulgiam (40 èg. = gennaio 661), dopo poco più di quattro anni di regno, durante i quali la sua sovranità non era stata effettiva che sopra una parte soltanto dell'impero arabo.

Il giudizio storico sul carattere di Alì è reso difficile dalla circostanza che il prevalere delle tendenze favorevoli a lui, nel campo della politica e della religione, ha invaso anche la storiografia araba, sì che riesce arduo il distinguere il nucleo primitivo della tradizione dalle alterazioni tendenziose. Tuttavia i frammenti avanzati della storiografia omayyade e le allusioni e gli spunti polemici della stessa tradizione alida permettono alla critica di ricostruire le linee maestre del processo storico e di farsi un concetto adeguato della personalità di Alì. Egli fu senza dubbio uomo valoroso, ma gli mancarono le doti essenziali dell'uomo politico, prime fra tutte l'intuizione del momento favorevole e la conoscenza degli uomini, doti che il suo avversario possedeva invece in sommo grado. La sua morte tragica e, più ancora, l'antagonismo tra Siria e ‛Irāq, che, dovuto a cause complesse, s'impersonò nel contrasto tra gli Omayyadi e gli Alidi conferirono ad Alì un prestigio religioso superiore a quello di qualunque altro compagno di Maometto. La sua leggenda, che dovette costituirsi, nelle sue linee essenziali, a pochi anni dalla sua morte, è entrata a far parte del corpo ufficiale delle credenze musulmane in seguito al trionfo degli Abbasidi (v.); pertanto l'ortodossia musulmana è unanime nell'attribuire ad Alì meriti eccezionali (che gli sono invece negati dagli eretici khārigiti) e a ravvisare in lui il maestro e il modello di ogni virtù e dottrina religiosa, della sapienza giuridica e perfino delle scienze profane (p. es. della grammatica). Migliaia di tradizioni religiose e giuridiche (v. ḥadīth, sunnah) sono fatte risalire a lui, e anche nello sviluppo delle dottrine mistiche egli compare come uno dei sommi maestri (v. ṣūfismo).

Ma molto più innanzi procedono nell'ammirazione e nella venerazione per Alì le dottrine degli Sciiti (v.), per i quali Alì non solo è il più grande tra i discepoli di Maometto, ma è addirittura collocato in una categoria a parte, a un'altezza incommensurabilmente superiore; gli estremisti sciiti, come sarà detto a suo luogo, giungono perfino a porre Alì al disopra di Maometto (che ne avrebbe usurpato il posto) e a deificarlo (v. anche ahl-i ḥaqq).

Il nome ‛Alī, appunto in grazia della venerazione di cui il califfo è fatto segno, è frequentissimo nell'onomastica musulmana così antica come moderna. In quest'ultima esso si ritrova spesso accoppiato a quello di Maometto (Moḥammed Alī). Diffuso è anche, ma solo nelle regioni orientali dell'Islām (Persia, Ihhdia), il soprannome Ḥaidar che fu dato ad Alì e che, benché la tradizione lo interpreti in significato onorifico ("il leone"), è certamente un nomignolo ingiurioso affibbiatogli dai nemici (forse "il panciuto": v. Levi Della Vida, in Riv. d. studi or., IV, p. 1075), così come significato originariamente dispregiativo ha la kunyah (v.), sotto la quale Alì è spesso designato, Abū Turāb "il polveroso" (v. Nöldeke, in Zeitschr. d. deutschen Morgenl. Ges., LII, pp. 29-30), che poi fu anch'essa interpretata in senso onorifico. La kunyah che Alì stesso portava era, del resto, Abū'l-Ḥasan, dal nome del suo figlio primogenito (v. alidi).

La fama di Alì, in quanto oggetto della particolare venerazione degli Sciiti, ha fatto sì che egli sia uno dei pochissimi eroi dell'Islām primitivo di cui sia giunta notizia al Medioevo cristiano: Dante, come è noto, lo menziona (Inf., XXVIII, 32).

Bibl.: Le fonti sono raccolte in traduzione e criticamente ordinate in L. Caetani, Ann. dell'Islām, IX-X, Milano 1926; ricchissimo materiale anche in varî scritti del p. H. Lammens, specialmente in Études sur le règne de Moāwia 1er (Mél. de la Faculté orient., I-III), Beirut 1906-1908, e in Fatima et les filles de Mahomet, Roma 1913; G. Levi Della Vida, Il califfato di Ali secondo il kitāb ansāb al-ashrāf, in Riv. d. studi or., VI, Roma 1913.

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