Manzoni, Alessandro

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia (2012)

Alessandro Manzoni

Salvatore Silvano Nigro

Alessandro Manzoni non fu un filosofo. Tuttavia attraversò le discussioni filosofiche del suo tempo alla ricerca costante di una conciliazione tra filosofia morale e storia, passando per la crisi dell’Illuminismo, le posizioni liberali degli idéologues e il rigorismo dei giansenisti, fino a interrogarsi con Antonio Rosmini sulle responsabilità storiche del pensiero filosofico utilitaristico che si fa azione e degenerazione politica: attenendosi sempre alla centralità del Vangelo, nelle Osservazioni sulla morale cattolica come nel dialogo Dell’invenzione, e alla lezione del Pascal delle Lettres provinciales contro ogni possibile lassismo o probabilismo di specie gesuitica.

La vita

Alessando Manzoni nacque a Milano il 7 marzo del 1785 da Giulia Beccaria, figlia di Cesare, autore del saggio Dei delitti e delle pene, e dal conte Pietro Manzoni. Suo padre naturale fu però Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro che con Cesare Beccaria avevano animato la rivista dell’Illuminismo lombardo «Il Caffè». I coniugi Manzoni si separarono nel 1792. Alessandro era già stato mandato a studiare nel collegio di Merate dei padri somaschi. Nel luglio del 1805 il giovane Manzoni si recò a Parigi per ricongiungersi con la madre. Era da poco morto il convivente di Giulia, Giovanni Carlo Imbonati. A Parigi Alessandro, che si faceva chiamare Beccaria, frequentò la Maisonette di Meulan, residenza di Sophie de Condorcet. Qui venne in contatto con il gruppo degli idéologues, in particolare con Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy e con Pierre-Jean-Georges Cabanis; e soprattutto con lo studioso di letteratura medievale, francese e italiana, Claude Fauriel. Rientrò a Milano, insieme alla madre, nel 1807. Nel mese di marzo dello stesso anno morì Pietro Manzoni. L’anno dopo Alessandro sposò con rito civile la diciassettenne Enrichetta Blondel, di fede calvinista. Gli sposi, accompagnati da Giulia Beccaria, si trasferirono a Parigi. E nel 1810 l’intera famiglia, prima di rientrare a Milano, vi iniziò un percorso di fede. Enrichetta abiurò il calvinismo, Alessandro si convertì al cattolicesimo: il matrimonio venne celebrato di nuovo con rito cattolico.

Nel 1815 apparvero a stampa i primi quattro Inni sacri; e prima, Alessandro aveva scritto il «frammento di canzone» Il proclama di Rimini, sulle speranze di libertà nazionale riposte in Gioacchino Murat, preceduto dalla canzone politica Aprile 1814. Si acuirono i sintomi di un «mal di nervi», manifestatosi nel 1810 dopo che a Parigi Manzoni era stato preso da un attacco di panico per avere smarrito la moglie tra la folla che festeggiava le nozze di Napoleone I Bonaparte. Si pensò che un viaggio avrebbe attenuato i disturbi. La famiglia Manzoni, padre, madre e figli, tutta un’‘Arca di Noè’, riparò a Parigi nell’ottobre del 1819. Tornò a Milano l’8 agosto del 1820. Dopo la morte di Carlo Porta, l’arresto di Federico Confalonieri e di Silvio Pellico, e la dispersione del gruppo della rivista «Il Conciliatore», nel 1821 Manzoni si ritirò nella villa di Brusuglio. Scrisse Il cinque maggio, contro la titanica mitologia napoleonica e in nome dell’umiltà e della pietà cristiana. Nel 1823 Fauriel pubblicò a Parigi la traduzione francese delle tragedie manzoniane (Il Conte di Carmagnola e Adelchi). L’accompagnò con scritti critici (fra i quali il giudizio di Johann Wolfgang von Goethe) e con la Lettre à Monsieur Chauvet.

Il 1826 fu l’anno del primo incontro tra Manzoni e Antonio Rosmini-Serbati. Con la prefazione di Goethe apparvero a Jena le Opere poetiche di Manzoni. Il 25 dicembre del 1833 morì Enrichetta Blondel. Nel 1837 Manzoni si risposò con Teresa Borri, vedova Stampa. Era il 2 di gennaio. L’8 luglio 1841 morì Giulia Beccaria. Nel novembre del 1842 si concluse la stampa della versione definitiva e illustrata dei Promessi sposi. In seguito alle Cinque giornate di Milano, il figlio di Manzoni, Filippo, fu arrestato il 18 marzo del 1848 e rimase ostaggio degli austriaci fino alla metà di giugno. Il 20 Manzoni firmò l’appello dei milanesi a Carlo Alberto. Rinunciò alla carica di deputato della Camera subalpina. Nel 1859, il 9 agosto, Vittorio Emanuele II gli offrì la presidenza del Real Istituto lombardo e gli assegnò un vitalizio annuo di dodicimila lire, «a titolo di ricompensa nazionale». Nel 1860 fu nominato senatore del Regno d’Italia. In Senato, a Torino, nel 1861, diede voto favorevole al progetto di legge per la proclamazione di Vittorio Emanuele a re d’Italia. Il 23 agosto gli morì la seconda moglie. Il 10 dicembre del 1864 votò in Senato a favore del trasferimento della capitale da Torino a Firenze, con l’augurio di un definitivo trasferimento a Roma. Il ministro della Pubblica istruzione, Emilio Broglio, nel gennaio del 1868 lo nominò presidente della commissione che aveva il compito di formulare proposte per la diffusione della lingua unitaria italiana. Manzoni morì il 22 maggio del 1873. Il 29 maggio gli si tributarono solenni funerali alla presenza del futuro re Umberto I.

Contro Manzoni

Alessandro Manzoni continua a essere vittima dell’antimanzonismo. Non tanto di quello dichiarato, ideologico, e in fondo pretestuoso e innocuo, secondo il quale la letteratura italiana è riuscita ad andare avanti nonostante I promessi sposi; quanto di quello sottilmente applicato che, nell’imporre un Manzoni obbligatoriamente scolastico, ha operato una sostanziale falsificazione nazional-popolare dell’opera dello scrittore e ha diffuso una vulgata che, all’insegna di un manzonismo decorativo e di cerimonia, si è dotata di una filologia dei tagli, questa sì ideologicamente dannosa, che è arrivata a manomettere i testi.

Il romanzo intitolato I promessi sposi, nell’edizione definitiva del 1842, così come Manzoni fortemente volle, comprende la Storia della colonna infame; e si presenta come testo unico e indivisibile (con la parola «Fine» posta in evidenza dopo la Colonna infame), e come libro illustrato dallo stesso scrittore che per l’occasione si fece produttore, regista e sceneggiatore (attento ai dispositivi tipografici, alle spaziature, agli stacchi) della narrazione disegnata. Si ripete che Manzoni volle così tirare al soldo scoraggiando, con la complessità dell’operazione illustrativa, le contraffazioni delle edizioni pirata. Ed è cosa vera. Tanto più se si mette in conto che a Manzoni si deve la lettera a Gerolamo Boccardo Intorno a una questione di così detta proprietà letteraria (1860); e soprattutto la vertenza con l’editore pirata Felice Le Monnier, che si concluse con il riconoscimento dei diritti d’autore e il risarcimento di ben 34.000 lire. Ma questo non toglie nulla alla serietà dell’impegno manzoniano e alla rilevanza della scrittura verbo-visiva, al nuovo raccontar anche per immagini.

Manzoni scrisse le Istruzioni per il disegnatore Francesco Gonin e la sua squadra di incisori. E sorvegliò che la realizzazione fosse fedele alle sue intenzioni: alle parentele figurative imposte, all’azione scenica predisposta, al ritmo della lettura così come l’aveva programmata calcolando la durata della lettura visiva; alle fisionomie, ai gesti, agli arredi, fino alle millimetrate dimensioni delle vignette. Le illustrazioni fanno parte della scrittura manzoniana: sono scritture esse stesse; e danno nuove indicazioni narrative, evidenze documentative attraverso la riproduzione diretta dei documenti storici, integrazioni di commento, ‘animando’ il racconto e suggerendo relazioni fra sezioni lontane e confronti ravvicinati nelle pagine affacciate o nel rapporto tra recto e verso delle singole pagine. Ebbene è invalsa l’abitudine di scorporare la Colonna infame dal resto del romanzo, e di eliminare le illustrazioni come se non fossero testo d’autore anch’esse; e capita magari che qualche illustrazione venga riprodotta, ma a caso e senza criterio, dove capita capita. E passi (fino a un certo punto) per il maluso delle edizioni scolastiche e di quelle popolari. Intollerabile è però l’arbitrio dell’Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni dell’autorevole Centro nazionale studi manzoniani di Milano, che non si limita a estrapolare la Colonna infame e a pubblicarla a parte; sostituisce infatti (non si sa perché) le illustrazioni originarie con quelle (d’altro gusto, e comunque esornative) di Gaetano Previati (1897-1899, 1900; A. Manzoni, Storia della colonna infame, a cura di C. Riccardi, 2002). Il manzonismo censura Manzoni.

Non è questione da poco. Non è semplice iconofobia o invadenza pseudofilologica. Resecare il romanzo di Manzoni e raschiarlo, e magari innestarlo con materiali spuri, impoverisce e altera la lettura. Sottrae l’opera al rigoroso ‘sistema’ dell’autore che, passato dal giacobinismo all’istanza critico-analitica degli idéologues e poi alla dottrina dei grandi moralisti francesi del Seicento, connette arte e morale, verità e giustizia nell’invenzione di un romanzo, nel tentativo di allargare il numero dei lettori, nella ricerca di una lingua d’uso, nell’andare fin dentro la profondità delle parole: là dove si rivela l’attrito tra sacro e profano nella superiore sintesi di un linguaggio religioso.

Valgano gli esempi della doppia fiamma di Ermengarda, con quell’«ebbrezza» dell’«amor tremendo» che contunde con i «placidi gaudii d’un altro amor», nella tragedia Adelchi del 1822; di Napoleone nel Cinque maggio, con quella vertigine dell’«Ei si nomò», che rapisce il Deus nominavit della Bibbia e lo ribalta nella bestemmia di un superbo che non riconosce la dipendenza della sua grandezza dalla nomina divina; dell’innominato, che è il Conte del Sagrato nel «primo» romanzo (inedito) conosciuto come Fermo e Lucia: un bandito che non riconosce nessuno «superiore a sé», e si presenta nel «secondo» romanzo, I promessi sposi del 1827, come uno che non sente nessuna «orma» «brulicare al di sopra del suo capo», per trasformarsi, nel «terzo» romanzo, nei Promessi sposi del 1840-42 illustrati e con l’aggiunta della Colonna, in un grande peccatore che misconosce e bestemmia Dio non vedendo «mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto»; e si vede subito come la formula giuridica del «superiorem non recognoscere» si incendi dentro la condanna religiosa di chi non riconosce le autorità politiche e neppure, ancora più su, l’autorità di Dio (cfr. L’antimanzonismo, 2009; Coletti 2003; Ceccarelli, Ragone 2009; Tonani 2010).

La catastrofe giuridica, che nella Storia della colonna infame Manzoni lascia dilagare dai documenti e dalle contrastanti e drammatiche testimonianze messe a verbale durante il processo agli untori del 1630, è in qualche modo parallela alla catastrofe naturale del terremoto di Lisbona del 1755: filosoficamente parlando, s’intende, per quella comune reazione intellettuale che indusse Voltaire e Jean-Jacques Rousseau (e più tardi Immanuel Kant e Walter Benjamin) a dibattere sul mutismo di Dio, sulla giustizia, sullo scandalo del male, e che portò il romanziere a interrogarsi sull’infamia del fanatismo, sugli errori giudiziari, e sulla Provvidenza. In entrambi i casi venne riesumato il De ira Dei di Lattanzio, e con esso l’«argumentum Epicuri», ovvero il «formidolosum argumentum»: il dilemma del pensiero che, di fronte all’orrore, «si trova con raccapriccio condotto a esitare», dice Manzoni proprio all’inizio della Colonna, «tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla». Ed è un’insidia, questa, che dalla storia e dalla filosofia, si riverbera sul romanzo di Renzo e Lucia (cfr. Spaggiari 2007, e i testi presenti nella raccolta Sulla catastrofe, 2004).

Il romanzo di Manzoni va riletto travalicando quel presunto silenzio letterario che il manzonismo subdolo ha attribuito allo scrittore anziano, per poter tenere in sordina opere come il dialogo Dell’invenzione, portato a termine nel 1850, e il racconto storico-saggistico La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, iniziato nel 1861, continuato fino al 1872, e mai concluso. In queste tarde opere, sollecitato dalla filosofia di Antonio Rosmini, e dal suo identificare utilitarismo e socialismo, Manzoni torna a riflettere – come già nelle Osservazioni sulla morale cattolica (1819) e, narrativamente, nei Promessi sposi – sul vizio filosofico e sull’immoralità dell’utilitarismo che nei fatti (siano essi intimi e patologici, ed è il caso di don Abbondio e della sua vigliaccheria; siano essi politici, come nel caso della Rivoluzione francese adombrata nel romanzo fra le pieghe della rivolta del pane) si assolvono trovando alibi nel condizionamento storico e nelle cattive istituzioni. Scrive, Manzoni, nel dialogo Dell’invenzione, a proposito di Maximilien-François-Isidore de Robespierre:

Giudicato dalla posterità, dirò così, immediata e contemporanea, per null’altro che un mostro di crudeltà e di ambizione, non si tardò a vedere che quel giudizio, come accade spesso de’ primi, era troppo semplice; che quelle due parole non bastavano a spiegare tal complesso d’intenti e d’azioni; che, nel mostro, c’era anche del mistero. Non si poté non riconoscere in quell’uomo una persuasione, indipendente da ogni suo interesse esclusivo e individuale, della possibilità d’un novo, straordinario, e rapido perfezionamento e nella condizione e nello stato morale dell’umanità; e un ardore tanto vivo e ostinato a raggiunger quello scopo, quanto la persuasione era ferma. E di più, la probità privata, la non curanza delle ricchezze e de’ piaceri, la gravità e la semplicità de’ costumi, non sono cose che s’accordino facilmente con un’indole naturalmente perversa e portata al male per genio del male; né che possano attribuirsi a un’ipocrisia dell’ambizione, quando, com’era il caso, non abbiano aspettato a comparire nel momento che all’ambizione s’apriva un campo inaspettato anche alle più ardite aspettative. Ma un’astrazione filosofica, una speculazione metafisica, che dominava i pensieri e le deliberazioni di quell’infelice, spiega, se non m’inganno, il mistero, e concilia le contradizioni. Aveva imparato da Giangiacomo Rousseau, degli scritti del quale era ammiratore appassionato, e lettore indefesso, fino a tenerne qualche volume sul tavolino, anche nella maggior furia degli affari e de’ pericoli, aveva dico, imparato che l’uomo nasce bono, senza alcuna inclinazione viziosa; e che la sola cagione del male che fa e del male che soffre, sono le viziose istituzioni sociali. È vero che il catechismo gli aveva insegnato il contrario, e che glielo poteva insegnare l’esperienza. Ma il catechismo, via, non occorre parlarne; e l’esperienza, tutt’altro che disprezzata in parole, anzi esaltata, raccomandata, prescritta, era, in fatto, da quelli che non si curavano del catechismo, contata e consultata quanto il catechismo, e ne’ casi appunto dove il bisogno era maggiore; cioè dove si trattava di verificare de’ fatti posti come assiomi fondamentali, con affermazioni tanto sicure, quanto nude, con de’ sic volo, sic jubeo. Sul fondamento dunque di quell’assioma, era fermamente persuaso che, levate di mezzo l’istituzioni artifiziali, unico impedimento alla bontà e alla felicità degli uomini, e sostituite a queste dell’altre conformi alle tendenze sempre rette, e ai precetti semplici, chiari e, per sé, facili della natura (parola tanto più efficace, quanto meno spiegata), il mondo si cambierebbe in un paradiso terrestre (Dell’invenzione. Dialogo, a cura di P. Prini, 1986, pp. 149-50).

Torniamo ai Promessi sposi. In fondo non ci si è allontanati molto.

Dentro il romanzo

Renzo è il «primo uomo» della storia, dice Manzoni. E come tale lo addita da subito. Lo pone in cima al catafalco barocco che fa da frontespizio al romanzo illustrato. Sul suo asse pone, a discendere, una Lucia in posa di malinconia e, proprio in basso, un ambiguo don Rodrigo che come Venere emerge da una conchiglia, con addosso gli abiti riduttivi di un mercante del Seicento: secondo le precise indicazioni che ha dato al disegnatore. Fanno da sostegno all’impalcatura fra Cristoforo e una sventurata Monaca di Monza; il leguleio Azzeccagarbugli e la madre di Lucia, Agnese; don Abbondio con il suo breviario e un potente spagnolesco; due madri dolenti con le loro creature sulle ginocchia; le maschere del tragico e del comico. Renzo è minacciato da un bravo e insidiato da un oste con la bottiglia in mano. È comunque il «primo uomo». Sta in alto, ed è all’origine del romanzo.

La mossa è ardua. Manzoni si è abbassato a scrivere un romanzo, si mormorava. E a scegliere come attori di rilievo «gente di nessuno»: due filatori di seta. Non solo. Dopo essersi scostato dal modello scottiano attivo nella prima forma del romanzo, nel Fermo e Lucia, che imponeva il ritrovamento di un manoscritto inedito da trascrivere, aveva guardato alla struttura più mossa del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes; e aveva messo all’origine del suo romanzo i racconti alla carlona che Renzo aveva riversato nelle orecchie di un trascrittore infedele, a sua volta trascritto e verificato due secoli dopo. Il primo autore del romanzo ambientato nel Seicento lombardo era Renzo, quindi. Poi, nella finzione, era venuto il primo trascrittore. E infine era arrivato Manzoni.

Renzo è il «primo uomo» della storia sia perché involontariamente responsabile della trafila romanzesca, sia perché sui suoi piedi procede l’attraversamento della grande Storia: della carestia, della politica, della peste. Mentre Lucia abita i luoghi chiusi di case private, di un convento e di un castello, Renzo sta sulla strada. E deve confrontarsi con i linguaggi che lo circondano. Deve fare esperienza dei pericoli della comunicazione e della decodificazione, nel secolo della retorica, della simulazione e della dissimulazione. A partire da quel momento non certo minore in cui cade nella trappola di un finto amico che lo lascia parlare per carpirgli una storia da scrivere a modo suo, e non certo a favore del locutore.

Renzo è di buona pasta. Fin troppo, sospetta Agnese. Ma è capace di sogni di sangue. Sente il richiamo di Marco Giunio Bruto, del suo pugnale: la tentazione della rivolta (che Manzoni, che viene dopo, molto dopo, non può non mettere in relazione con l’idea che lui ha della Rivoluzione francese). Renzo deve imparare. Lui, a differenza del suo antenato romanzesco che stava socialmente «fermo», è un personaggio in ascesa. Sognerà di farsi valere come operaio in terra di San Marco, facendo la voce grossa e minacciando scioperi. Finirà per diventare un imprenditore aiutato dall’alto nella carriera, e approfitterà della «cuccagna» delle esenzioni fiscali e del blocco dei salari. «Cuccagna» è parola forte, nella lingua di Manzoni; compromessa com’è con l’idea di ‘cuccagna’ come illusione di ritorno dell’abbondanza attraverso la rivolta e la violenza, la dissipazione della farina e la distruzione dei forni, durante la carestia secentesca (e come riconquista dell’età dell’oro attraverso il terrore, nel Settecento).

Renzo è al centro di una serie di disturbi della comunicazione. Anche perché non ha avuto modo di far sua quella «birberia» chiamata leggere e scrivere. Non ha potuto mettere nero su bianco il suo romanzo. E non ha potuto corrispondere da lontano, direttamente, con una penna sua, durante la fuga causata dalla persecuzione di don Rodrigo insidiatore di Lucia e complicata dagli equivoci della politica:

Pensate se si struggeva di mandar le sue nuove alle donne, e d’aver le loro; ma c’eran due gran difficoltà. Una, che avrebbe dovuto […] confidarsi a un segretario, perché il poverino non sapeva scrivere, e neppur leggere, nel senso esteso della parola […]. Era dunque costretto a mettere un terzo a parte de’ suoi interessi, d’un segreto così geloso: e un uomo che sapesse tener la penna in mano, e di cui uno si potesse fidare, a que’ tempi non si trovava così facilmente […]. Finalmente, cerca e ricerca, trovò chi scrivesse per lui […]. Agnese […] se la fece leggere e spiegare da quell’Alessio suo cugino: concertò con lui una risposta, che questo mise in carta […]. Renzo ebbe la risposta, e fece riscrivere. In somma, s’avviò tra le due parti un carteggio, né rapido né regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli, continuato.

Ma per avere un’idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato.

Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell’arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco; l’informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell’altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c’è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po’ a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt’altro: accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell’abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d’intendere; perché l’interessato, fondandosi sulla cognizione de’ fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un’altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l’incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un’interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po’ geloso; se c’entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c’è stata anche l’intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr’ore disputassero sull’entelechia: per non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto (I promessi sposi, cap. XXVII).

Renzo si è compromesso con lo scrittore primo del suo romanzo. Ha dovuto sperimentare, dentro e fuori di un’osteria, lucido o brillo che fosse, quasi un «poeta» ispirato, come le parole di un analfabeta possano essere malamente infilzate da una penna e come capiti, con lo scilinguagnolo, di firmare (si fa per dire) pagine in bianco a un malintenzionato. Il Seicento, sudicio e sfarzoso, fatto di cenci e gale, di «latinorum» e di biascicate parole spagnole, è, nei Promessi sposi, un secolo segretariesco: negli strati più alti della politica, e in quelli più umili della povera gente. Il conte duca è «una volpe vecchia». Sa come servirsi dei suoi segretari ai fini della ragion di Stato. E questi segretari risulteranno alla fine non meno imbrogliati di quelli improvvisatisi tali in campagna:

Il conte duca [...] farebbe perder la traccia a chi si sia: e, quando accenna a destra, si può esser sicuri che batterà a sinistra: ond’è che nessuno può mai vantarsi di conoscere i suoi disegni; e quegli stessi che devon metterli in esecuzione, quegli stessi che scrivono i dispacci, non ne capiscon niente (I promessi sposi, cap. V).

I politiconi sono fatti così. Il conte zio ha tutto un suo «parlare ambiguo» e un suo «tacer significativo». La politica è inoltre un’arte pittorica. Lavora con malizia sui visi, «a più mani» di velature. E non sempre aiutano i «giudizi fisionomici».

Esiste un «gergo segretariesco». E ci sono abitudini segretariesche. Don Ferrante che con la sua scienza nega la peste, mentre di peste muore, è il segretario della moglie, donna Prassede: presta la sua penna alla consorte, ed è tutto un rifiorir sulla pagina di metafore stirate alla Claudio Achillini. Lo stesso don Abbondio, il pavido che si rifiuta di celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia, solo perché è stato minacciato dai bravi di quel don Rodrigo che fa professione di prepotenza e libertinaggio (e contro la vigliaccheria del parroco «pulcino» nulla potrà neppure quell’«aquila» di santità che è il cardinale Federico Borromeo), una volta che è costretto a un’opera buona, ad andare a prelevare Lucia nel castello dell’innominato ormai convertitosi, si ritrova a dover cavalcare «la mula del segretario, che è un letterato»: una «bestia» che «pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori, e a metter proprio le zampe sull’orlo» dei precipizi. Prima d’allora don Abbondio non aveva conosciuto «bestia». Come «cavallo» usava il bastone.

I segretari sono letterati. E i letterati non sono affidabili. I lettori devono stare in guardia. Dovevano essere sospettosi nel Seicento dell’anonimo amanuense. Devono continuare a esserlo nell’Ottocento tipografico di Manzoni. La comunicazione letteraria si basa sulla finzione, sull’andare a indovinare quel che non si sa, sull’arte della menzogna.

Al lettore si rivolge spesso Manzoni, nel romanzo scritto. Ma non è un personaggio della vicenda. Lo era, in parte, nel Fermo e Lucia. Almeno una volta, quando insorge per chiedere all’autore conto e ragione della separazione fredda dei due promessi in fuga, senza effusioni. L’autore se la cavò con una risposta paradossale, allora, con una freddura alla Laurence Sterne: non voleva in nessun modo incrementare l’amore nei lettori con l’assentimento (il libro poteva cadere in mano a una vecchia zitella senza dote e a un giovane prete troppo focoso: meglio non stuzzicare); di amore, inoltre, ce n’era fin troppo nel mondo: più di quanto, malthusianamente calcolando, fosse necessario alla conservazione della specie.

Il lettore del Fermo e Lucia era solo un indicatore di comodo, per una presa di posizione ideologica sull’amore. Non era un vero e proprio personaggio del romanzo. Lo diventa nel romanzo illustrato. Ed entra in scena con il suo corpo, con i suoi gesti, con i suoi abiti. In un momento cruciale, nel passaggio dal capitolo XXVI al capitolo XXVII: quando si arriva alle mene della politica internazionale, alla guerra di successione di Mantova e del Monferrato; alla biblioteca di don Ferrante, abitata negli scaffali dai filosofi della scienza magica e della politica (con Francesco Guicciardini, Niccolò Machiavelli e Giovanni Botero, Gerolamo Cardano e Martín Antonio Del Río). Ma più che un lettore è uno spettatore. Deve guardare il paesaggio politico che gli scorre sotto gli occhi, senza lasciarsi ingannare dalle apparenze. Non esiste, il personaggio, dentro la narrazione. Manzoni lo vuole fuori dell’azione, come uno che sta alle viste. Esige che gli venga disegnato nello spazio neutro, tra un capitolo e l’altro, come «parte di figura coll’indice d’una mano sotto un occhio; quell’atto cioè con cui si burla familiarmente uno che, credendo d’averla indovinata, s’inganna».

Quell’«atto» di osservazione astuta degli eventi era già apparso nel romanzo. In una precedente illustrazione, nel capitolo XIV, Antonio Ferrer era accorso per arrestare il vicario di provvisione. Così voleva far credere. In effetti si era precipitato a salvarlo. Ne era nata tra gli spettatori una «babilonia di discorsi». Alcuni credevano nell’onestà politica di Ferrer, sordi anche alla doppiezza della sua lingua. Altri non abboccarono. Ci fu chi «sghignazzando, diceva: “non abbiate paura, che non l’ammazzeranno: il lupo non mangia la carne del lupo”». Quest’ultimo si differenziò nel crocchio, dentro la vignetta aggiunta, portandosi l’«indice d’una mano sotto un occhio». Una trama più sottile, una trama di immagini, si stringe nei Promessi sposi. Ed è trama che non può essere ignorata, e ancor meno cancellata.

Anche le parole hanno nel romanzo una loro forza visiva, che non può essere disattesa, interagendo alla fine con le vignette.

L’anonimo secentesco si affaccia subito sulla scena con la sua penna onusta di orpelli barocchi ed echi latini. Scrive: «L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo». La definizione del racconto storico è qui oraziana. Allude all’innalzamento di un monumento imperituro.

Nell’Introduzione alla Colonna infame, una storia anch’essa, Manzoni fa dell’ironia sul «giudizio» «memorabile» dei giudici che processarono, torturarono e condannarono a morte atroce degli innocenti; demolirono la casa «d’uno di quegli sventurati», e vi piantarono una colonna a futura memoria. E se si legge il brano nella prima redazione (1827-33) della Storia della colonna infame, appare subito chiaro come Manzoni, prendendo la parola in prima persona, abbia inteso riprendere piccatamente e correggere l’incipit del romanzo barocco:

parve ai giudici di aver fatto qualche cosa di così egregio e degno di memoria, che decretarono essi stessi un monumento per mantenerla […]. Ma un monumento non è una storia: anzi talvolta è, non solo molto meno, ma qualche cosa di contrario alla storia.

Non solo i cosiddetti untori erano stati condannati per «un delitto che non c’era», ma i giudici avevano opposto la forza alla ragione secondo quella regola che unifica le violenze contro gli umili da romanzo e contro le vittime storiche: avevano fatto ricorso alla tortura, i giudici, e avevano creduto che «la natura avesse creati i corpi de’ rei perché essi potessero straziarli a loro capriccio»; così come il tirannello don Rodrigo s’era convinto, glielo rinfaccia fra Cristoforo, che Dio avesse «fatta una creatura a sua immagine» per dargli «il piacere» di «tormentarla». La «breve storia» della Colonna infame si affaccia sugli «orrori già conosciuti» attraverso l’invenzione narrativa del romanzo. E con la sua storia inverosimile, fatta di forzature e violenze legali, conferma la verosimiglianza dell’invenzione.

La «trista storia» della Colonna infame, con la sua vittoria dell’errore contro la verità, e del furore contro l’innocenza disarmata, è messa in moto da due donne infernali, che vedono un poveruomo sulla strada e lo accusano di essere un untore. Era accaduto già a Renzo, che è un personaggio di fantasia, sulla strada, davanti al portone di don Ferrante, mentre cercava Lucia nella Milano della peste. La storia conferma e valorizza la letteratura. E se la vicenda di Renzo e Lucia si conclude, anche in vignetta, con la costruzione di una casa, di una famiglia, la Colonna infame accosta alla vignetta della famiglia felice l’illustrazione con lo sciagurato monumento che dissimula, a pagina girata, la distruzione di una casa e la dispersione di una famiglia. Il lieto fine del romanzo affoga nella tragica fine della Storia della colonna infame. Fra Cristoforo era stato profeta. Aveva consegnato ai suoi protetti, Renzo e Lucia, il pane del perdono che aveva ottenuto dopo avere ucciso in duello un suo avversario. Aveva detto: «fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi». Le parole del frate si sono aperte e hanno preso corpo nelle immagini desolate dei ruderi della Colonna infame. Fra quei ruderi, dopo la strage di Stato immortalata da una colonna di granito, si sarebbero trovati a convivere i figli di Renzo e Lucia e i figli degli untori, senza padri e senza casa. Ci sarà bisogno di molto perdono sociale, per poter convivere tra tanta rovina. A nulla varrà prendersela con la Provvidenza, come ai tempi del terremoto di Lisbona. E neppure con il condizionamento dei tempi. Restava la colpa, tremenda, di chi non aveva voluto cercare la verità: «trovando i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si voleva»; e «se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere». «Di tali fatti», insegna (e insegnerà) la storia, «si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori».

Opere

Tutte le lettere, a cura di C. Arieti, con un’aggiunta di lettere inedite o disperse a cura di D. Isella, 3 voll., Milano 1986.

Il Conte di Carmagnola, 1820, a cura di G. Lonardi, P. Azzolini, Venezia 1989.

Adelchi, a cura di G. Lonardi, P. Azzolini, Venezia 1992, 20053.

Poesie prima della conversione, a cura di F. Gavazzeni, Torino 1992.

Inni sacri, a cura di F. Gavazzeni, Milano 1997, 20052.

I romanzi, a cura di S.S. Nigro, E. Paccagnini, 2 voll. (il 2° vol. in 2 tt.), Milano 2002 (da questa edizione sono tratte tutte le citazioni dei Promessi sposi).

I promessi sposi. Fermo e Lucia: prima minuta (1821-1823), ed. critica diretta da D. Isella, a cura di B. Colli, P. Italia, G. Raboni, 2 voll., Milano 2006.

I promessi sposi... Storia della colonna infame, [edizione riveduta del testo illustrato del 1842] a cura di L. Badini Confalonieri, 2 voll., Roma 2006.

Lettre à M.r C*** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, a cura di C. Riccardi, Roma 2008.

Dal 1999 stanno uscendo i volumi dell’Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, già presieduta da G. Vigorelli, e ora da A. Stella. Il progetto prevede trentasei volumi. Ne sono usciti sedici.

Si veda inoltre:

Le Stresiane. Dialoghi tra Antonio Rosmini e Alessandro Manzoni raccolti a Stresa da Ruggero Bonghi, a cura di P. Prini, 1997.

Bibliografia

Si dispone di ottimi repertori bibliografici manzoniani. In particolare si vedano:

Bibliografia manzoniana 1949-1973, a cura di S. Brusamolino Isella, S. Usuelli Castellani, Milano 1974.

Bibliografia manzoniana 1980-1995, a cura di M. Goffredo De Robertis, Milano 1998.

A. Pallotta, Alessandro Manzoni. A critical bibliography 1950-2000, Pisa-Roma 2007.

D. Ellero, Rassegna manzoniana (2005-2008), «Lettere italiane», 2009, 4, pp. 602-41.

Per i problemi qui affrontati ci si limita a segnalare:

E. Garin, Alessandro Manzoni e la filosofia, in Atti del Convegno di studi manzoniani, Roma-Firenze 1973, Roma 1974, pp. 89-103.

V. Coletti, Distanza dai “Promessi sposi”. Alessandro Manzoni. “I promessi sposi” 1827 e 1840-42, in Il romanzo, a cura di F. Moretti, 5° vol., Lezioni, a cura di F. Moretti, P.V. Mengaldo, E. Franco, Torino 2003, pp. 153-72.

M. D’Addio, Manzoni politico, Lungro di Cosenza 2005.

G. Langella, La corda civile di Manzoni, in Id., Amor di patria. Manzoni e altra letteratura del Risorgimento, Novara 2005, pp. 11-108.

E. Raimondi, Il sugo della storia, in La letteratura italiana, diretta da E. Raimondi, Manzoni. Profilo e antologia critica, a cura di C. Varotti, Milano 2006, pp. IX-XV.

P. Floriani, Manzoni Alessandro, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 69° vol., Roma 2007, ad vocem.

F. Mercadante, Manzoni e le sue contraddizioni in materia di proprietà letteraria, «L’illuminista», 2007, 19, pp. 133-42.

A. Malinconico, Diritto e letteratura. Manzoni e Pirandello, introduzione di N. Borsellino, Roma 2008.

A. Ceccarelli, G. Ragone, I tormenti dei “Promessi sposi”, in G. Ragone, Classici dietro le quinte. Storie di libri e di editori. Da Dante a Pasolini, Roma-Bari 2009, pp. 177-96.

L’antimanzonismo, Atti del convegno, Chieti 2008, a cura di G. Oliva, Milano 2009.

D. Ellero, Manzoni. La politica, le parole, Milano 2010.

E. Raimondi, Un teatro delle idee. Ragione e immaginazione dal Risorgimento al Romanticismo, a cura di D. Monda, Milano 2011 (in partic. La scommessa manzoniana, pp. 379-416; Alessandro Manzoni, un’intelligenza europea, pp. 417- 34).

Sul romanzo ottocentesco si veda:

E. Tonani, Il romanzo in bianco e nero. Ricerche sull’uso degli spazi bianchi e dell’interpunzione nella narrativa italiana dall’Ottocento a oggi, Firenze 2010.

Inoltre sul tema della catastrofe nel periodo dell’Illuminismo si veda:

W. Spaggiari, Da Lisbona alle Calabrie: la catastrofe e i lumi, in Città e rovine letterarie nel XVIII secolo italiano, a cura di S. Fabrizio-Costa, Bern 2007, pp. 225-60;

Voltaire, J.-J. Rousseau, I. Kant, Sulla catastrofe. L’illuminismo e la filosofia del disastro, a cura di A. Tagliapietra, Milano 2004.

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