Alessandro Magno

Enciclopedia Dantesca (1970)

Alessandro Magno

Guido Martellotti

Il discorso più ampio che D. fa intorno ad A. (356-323 a.C.; re di Macedonia, figlio e successore [dal 336] di Filippo II) è nel secondo libro della Monarchia, dove la storia del successivo formarsi e dissolversi degl'imperi è rappresentata come un grande giudizio di Dio, in cui il popolo romano prevale su tutti i rivali (cunctis athletizantibus pro imperio mundi prevaluit, Mn II VIII 1). Primo a entrare in gara era stato Nino, re di Assiria, per il quale D. invoca la testimonianza di Orosio (I IV). A Nino avevano fatto seguito altri in una successione illustrata già, con altro spirito, da s. Agostino (Civ. IV 6-7; e cfr. Bartolomeo da Lucca in Regim. princ. III 12); ultimo A., che più di tutti s'era avvicinato alla palma imperiale, ma che la provvidenza divina aveva arrestato nel suo corso, perché tale palma toccasse al " coatleta " romano.

Mn II VIII 8 Praeter istos et post, Alexander rex Macedo maxime omnium ad palmam Monarchiae propinquans, dum per legatos ad deditionem Romanos praemoneret, apud Aegiptum ante Romanorum responsionem, ut Livius narrat, in medio quasi cursu collapsus est. De cuius etiam sepultura ibidem existente Lucanus in octavo, invehens in Ptolomaeum regem Aegipti, testimonium reddit dicens: " Ultima Lageae stirpis perituraque proles / degener, incestae sceptris cessurae sororis, / cum tibi sacrato Macedo servetur in antro ". " O altitudo divitiarum scientiae et sapientiae Dei " [Rom. XI 33], quis hic te non obstupescere poterit? Nam conantem Alexandrum praepedire in cursu coathletam romanum tu, ne sua temeritas prodiret ulterius, de certamine rapuisti. La prima parte del passo pone un grave problema, in quanto riferisce, attribuendola addirittura a Livio, una notizia che non trova preciso riscontro né tra gli autori classici né tra i medievali.

I possibili rapporti fra A. e Roma sono trattati in Livio (IX XVII-XIX) nella forma di un ‛ futuribile ': che cosa sarebbe accaduto se i Romani si fossero scontrati con A. ; ma lo scontro non ci fu e Livio afferma decisamente che i Romani neppure conobbero A. (" quem ne fama quidem illis notum arbitror fuisse ": IX XVIII 6). Vero è che poco prima (IX XVI 19) aveva detto di Papirio Cursore che " eum parem destinant animis magno Alexandro ducem, si arma Asia perdomita in Europam vertisset ", dove può non essere chiaro che " destinant " si riferisce a un giudizio dei posteri, e alcuni codici leggono addirittura " destinarunt ". Ma si tratta comunque anche qui di un'ipotesi non verificatasi. Si è proposto da alcuni come fonte un passo di Orosio (III XX 1-4), dove è detto che A., ritornato a Babilonia, dove di lì a poco doveva morire, ricevette ambascerie da tutti i popoli del mondo, anche da " molte parti d'Italia ". Che D. ponga Babilonia (v.) in Egitto non fa meraviglia (lo stesso errore fanno anche i commentatori medievali di Lucano al passo che D. cita subito dopo): ma per il resto non c'è nulla nel racconto di Orosio che quadri con quello di Dante. Qualche cosa di più nel Chronicon di Ottone di Frisinga (II 25), chiamato in causa dal Toynbee; dice infatti Ottone: " Alexander totius Orientis potitus victoria, dum Romam quoque cum universo Occidente sibi subiugare parat, ab India revertitur in Babylonem... ". Qui Roma è almeno nominata. Ma per il resto Ottone ricalca Orosio: le legazioni vengono non da Roma, ma da " quasi tutta l'Italia " e a fare omaggio spontaneo; mentre D. dice che A. aspettava da Roma la risposta a una sua esplicita sfida. È altra cosa. Nei racconti medievali, per influsso più o meno indiretto di fonti greche, si parla spesso di atti di ossequio che i Romani fanno spontaneamente ad A.: offerta di una corona d'oro recata da un console Emilio, tributi in denaro, ecc. Non manca qualche accenno a un'ambasceria di A. ai Romani, ma allora la risposta da parte dei Romani arriva, orgogliosa. Secondo Goffredo da Viterbo A. scrisse ai Romani " Si venero, venero " e i Romani risposero " Si veneris, inveneris " (Pantheon, part. XI); e un racconto simile compare nell'accessus alla Alessandreide di Gualtiero di Châtillon (cfr. R. De Cesare, Glosse latine e antico-francesi all'Alexandreis, Milano 1951, p. 14). In D. invece A. muore prima che la risposta dei Romani gli giunga. Spiegare tutto con un errore di memoria come propone G. Vinay (D.A., Monarchia, Firenze 1950, 163, n. 13), sembra difficile; inammissibile che D., avendo tratto la notizia chi sa di dove, l'attribuisca a Livio. Credo si debba supporre, alla base di tutto, un testo che già contenga l'errata citazione di Livio, forse una glossa di commento, segnata ai margini di qualche codice (di Lucano? di Orosio?). Conviene concludere per ora che la fonte di questo passo non ci è nota.

Nessuna difficoltà presenta invece il discorso intorno al sepolcro di A. in Egitto, la cui fonte è indicata da D. stesso in Lucano (VIII 692-694).

La citazione di D. spezza a metà il periodo di Lucano, che al sepolcro di A. e a quelli ancor più sontuosi dei re egiziani contrapponeva il corpo insepolto di Pompeo; al v. 693 le edizioni moderne di Lucano preferiscono la lezione " sorori ", un dativo retto direttamente da " cessurae "; ma la lezione " sororis ", genitivo dipendente da " sceptris ", è largamente documentata nella tradizione manoscritta. Va anche notato che l'espressione di D. invehens in Ptolomaeum ricalca un lemma che si legge frequentemente in margine ai codici di Lucano: " invectio in Ptolomaeum" (cfr. Adnotationes super Lucanum a c. di J. Endt, Lipsia 1909, 330, ad v. 692).

D. lesse certamente anche gli altri versi di Lucano (X 19 ss.) in cui si racconta che Cesare andò a visitare quel sepolcro, scendendo nell'antro, dove " Pellaei proles vesana Philippi, / felix praedo, iacet... ". È il passo in cui Lucano condanna esplicitamente A., e implicitamente Cesare, dicendo del primo (vv. 26-28): " non utile mundo / editus exemplum, terras tot posse sub uno / esse viro ". Ma D. si guarda bene dal citarlo, ché il suo punto di vista è molto diverso da quello di Lucano e di s. Agostino, per ciò che riguarda Cesare, e di conseguenza anche A., la cui azione non poteva essere, per lui, né malo " exemplum " né " latrocinium " (" quid sunt regna nisi magna latrocinia? " dice s. Agostino [Civ. IV 4] alle soglie del passo sopra citato, che D. tenne presente, ma con intenzione polemica). A. aveva tentato un'impresa di nobile e grande ardimento, che però non era stata sostenuta dalla provvidenza divina; egli " doveva configurarsi nella fantasia di D. un po' come Cesare, un po' come Ulisse " (U. Bosco, D. vicino, p. 376).

If XIV 30-33 Quali Alessandro in quelle parti calde / d'Indïa vide sopra 'l süo stuolo / fiamme cadere infino a terra salde, / per ch'ei provide a scalpitar lo suolo / con le sue schiere, acciò che lo vapore / mei si stingueva mentre ch'era solo. La similitudine serve a descrivere le dilatate falde di fuoco che nel terzo girone del cerchio settimo cadono sui violenti. La fonte è qui Alberto Magno Meteor. I IV 8 " Admirabilem autem impressionem scribit Alexander ad Aristotelem in epistola de mirabilibus Indiae, dicens quod ad modum nivis nubes ignitae de aere cadebant, quae ipse militibus calcare praecepit ". Sembra si possa escludere la conoscenza diretta dell'apocrifa epistola di Aristotele, perché in essa (ed. B. Kuebler, Lipsia 1888, 208) quello che A. fa calpestare non è fuoco ma neve. Mette conto di ricordare che pochi versi prima (13-15) il sabbione, su cui cadono le falde di fuoco, è assomigliato alla rena che fu da' piè di Caton già soppressa: un ricordo di Lucano, che descrive la traversata del deserto libico, compiuta da Catone Uticense, come un'impresa ardimentosa. Si istituisce così un qualche rapporto tra i due personaggi, Catone e A., che D. vede, con simpatia, muovere in terre lontane, vincendo la natura avversa.

VE II VI 2. Come esempio di constructio, definita quale una ‛ regulata compago dictionum ', insieme di parole collocate nell'ordine naturale secondo le regole grammaticali, D. dà la proposizione Aristotiles phylosophatus est tempore Alexandri. Va notato che nei trattati medievali di retorica e di dialettica ricorrono spesso, negli esempi, nomi illustri come Aristotele, Socrate, Platone e che qui l'esempio deve essere il più semplice possibile (soggetto, predicato, complemento), giacché da esso muove D. per proporre una classificazione di vari tipi di costruzione, dal grado insipidus all'excellentissimus. Così stando le cose, appaiono illegittime le illazioni del Renucci, secondo cui D. tacerebbe intenzionalmente il fatto che Aristotele era maestro di A., per non attribuire a quest'ultimo la somma eccellenza che gli deriverebbe dal congiungere la filosofica autoritade con la imperiale (Cv IV VI 18). È un argomento ex silentio che, oltre tutto, presuppone note a D. cose che poteva ignorare: dal passo di Alberto Magno, citato sopra a proposito di If XIV 30-33, si deduce soltanto che i due erano contemporanei.

Cv IV XI 14 E c[u]i non è ancora [ne]l cuore Alessandro per li suoi reali benefici ? (nei mss. E chi non è ancora col cuore...). A. apre così la serie di sette esempi di liberalità, che prosegue ricordando Alfonso VIII re di Castiglia, il Saladino, Bonifacio marchese di Monferrato, il conte di Tolosa, Bertram de Born, Galasso da Montefeltro. La liberalità è una dote per cui A. è lodatissimo nella tradizione medievale. A fondamento di essa lode stanno soprattutto due passi di Seneca (Benef. V VI 1 " Alexander Macedonum rex gloriari solebat a nullo se beneficiis victum "; e II XVI 1 " Urbem cuidam Alexander donabat, vesanus... ": la tradizione medievale non aveva accolto il " vesanus ", ma solo il vanto di magnificenza). Quanto a D., l'espressione che usa richiama da vicino il De Beneficiis di Seneca, ma la compagnia con cui A. è nominato ci porta piuttosto alla tradizione medievale cortese. Del resto, la liberalità di A. era cosa proverbiale a quei tempi (come per noi la ricchezza di Creso) e tale rimase a lungo, in età umanistica e rinascimentale. Rambaldo di Vaqueiras, lodando il suo signore, proprio quel Bonifacio di Monferrato che è quarto nell'elenco dantesco, gli attribuisce la liberalità di A. e l'ardimento di Rolando; Boccaccio ricorda " le inestimabili imprese di Serse, le ricchezze di Dario, la liberalità di A. "; " Oh liberal sobre todos los Alejandros ! " dice ancora Sancho Panza del suo signore, che crede morto (Don Quijote I 52).

Resta da citare il più discusso tra i passi in cui compare il nome di A., If XII 107, dove tra i tiranni sono citati Alessandro e Dionisio del mondo antico, e dell'età moderna Ezzelino da Romano e Obizzo d'Este. Per le discussioni circa l'identificazione di questo A., v. la voce precedente.

Alle ragioni addotte da U. Bosco a sostegno dell'identificazione con A. di Fere, si vorrebbe qui aggiungere che le parole con cui sono caratterizzati i tiranni (che dier nel sangue e ne l'aver di piglio) mal si accorderebbero con quelle con cui è lodato il Macedone in Cv IV XI 14 (E cui non è ancora nel cuore A. per i suoi reali benefici?). A indicare come fonte Cicerone Off. II VII 23-25, dove Dionisio di Siracusa e Alessandro di Fere sono nominati congiuntamente, sta anche il fatto che essi vi sono definiti esplicitamente come tiranni; e che D., nel condannare personaggi dell'antichità, ama attenersi a testi antichi, che siano al proposito chiaramente indicativi. Che cosa poi D. sapesse di A. Fereo, che cosa quel nome significasse per lui, è un altro discorso: forse non più che un " alius quidam ", come si esprime Benvenuto nel riferire e respingere tale identificazione (" dixerunt quod autor non loquitur hic de Alexandro Macedone sed de quodam alio ").

Bibl. - In generale: Toynbee, Dictionary, Oxford 1968, sub v.; e gli studi, anche del Toynbee, ivi citati (in particolare, Studies and Researches 142-149 per la liberalità di A., e 290-293 per la presunta derivazione da Ottone di Frisinga); P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954, 258-261; U. Bosco, Il tiranno Alessandro, in D. vicino, Caltanisetta-Roma 1966, 369-378 (con ampia rassegna delle fonti classiche). Per le leggende medievali su A.: A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, I, Torino 1882, 214-218; P. Meyer, Alexandre le Grand dans la littérature française du moyen-âge, Parigi 1886 (per la liberalità di A., in particolare, II 372-376); L. Meyer, Les légendes des matières de Rome, de France et de Bretagne dans le " Pantheon " de Godefroi de Viterbe, ibid. 1933, 108-112; G. Cary, Medieval Alexander, Cambridge 1956; tuttora interessante una nota di A. Mai, in Classici auctores, VII 82-83.

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