MAGNASCO, Alessandro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 67 (2006)

MAGNASCO, Alessandro

Fausta Franchini Guelfi

Nacque a Genova il 4 febbr. 1667 da Livia Caterina Musso e dal pittore Stefano, allievo di Valerio Castello, e fu battezzato nella chiesa parrocchiale di S. Agnese.

Dopo la morte precoce del padre, avvenuta molto probabilmente nel 1672, il M. si trasferì a Milano.

Successivamente fu allievo nella bottega di Filippo Abbiati, uno dei pittori milanesi più attivi nella realizzazione di grandi pale d'altare nelle quali la drammaticità della pittura sacra del primo Seicento lombardo si risolve in declamazione e spettacolo, con soluzioni nuove e aggiornate sui problemi della luce.

In questo primo periodo dell'attività del M. le forti suggestioni della pittura lombarda e dell'opera del maestro sono attestate dall'Estasi di s. Francesco (Genova, Galleria di Palazzo Bianco), dalla Maddalena penitente e dal Cristo Portacroce (collezioni private: Franchini Guelfi, 1977, figg. 6, 8), quest'ultimo, rielaborazione del Portacroce di Abbiati (Pavia, Musei civici). Tutte le tele sono caratterizzate da un discorso severamente penitenziale nel colore livido e nei drammatici contrasti di ombre e luci. In questo momento si colloca anche la produzione ritrattistica del M. improntata a una presentazione antiretorica e anticelebrativa dei personaggi, in accordo con la tradizione del ritratto lombardo e in contrasto con la sontuosa ritrattistica francesizzante dei pittori genovesi: il Bartolomeo Miconi (Milano, Pinacoteca di Brera), il Gentiluomo (Genova, Galleria di Palazzo Bianco) le due Dame a pendant (Como, Civico museo e collezione privata), lo Scrittore (collezione privata: ibid., tav. 1), la Dama della collezione Koelliker esprimono l'interesse dell'artista per una rigorosa analisi della realtà insieme con il suo rifiuto di ogni discorso celebrativo.

La scelta del M. per la pittura di "genere" si verificò nell'ultimo decennio del Seicento. La sua prima opera datata, una Riunione di quaccheri (collezione privata: Franchini Guelfi, 1977, fig. 32), è del 1695; mentre è datata 1697 la Processione di cappuccini (collezione privata) nella quale il pittore inserì le sue "picciole figure" in un grande, scenografico paesaggio eseguito dal paesista anconetano Antonio Francesco Peruzzini, che collaborò con lui, in una straordinaria simbiosi compositiva e cromatica, fino alla sua morte nel 1724. Nel 1698 e nel 1699 eseguì quattro grandi Rovine architettoniche con figure, non ancora rintracciate, per il generale milanese Giovan Francesco Arese, in collaborazione con il ruinista prospettico Clemente Spera, anch'egli suo partner abituale nell'esecuzione di numerosissime tele. Restano finora oscuri i tempi e i modi della svolta decisiva dell'artista e del suo inserimento nell'ambiente culturale della "minor pittura" con quel ruolo di "figurista" che ricoprì per tutto il corso della sua lunga attività, in collaborazione anche con vari paesaggisti, tra cui Crescenzio Onofri, Marco Ricci, Nicola van Houbraken, Jean-Baptiste Feret. Nel 1703 è documentato a Firenze dove, insieme con Peruzzini, lavorò tra l'altro per la corte medicea; nel 1704 collaborò con Feret in due dipinti per un committente di Livorno.

Le tele tuttora conservate agli Uffizi e descritte nell'inventario della collezione del gran principe Ferdinando de' Medici attestano il favore goduto dal M. presso questo coltissimo mecenate. La Scena di caccia (Hartford, Wadsworth Atheneum) nella quale il pittore ritrasse se stesso insieme con il gran principe, con la principessa Violante di Baviera sua moglie e con l'amico pittore Sebastiano Ricci, è la cronaca divertita di una burla che, nella demistificazione della tradizionale ritrattistica aulica, esprime l'anticonformismo di Ferdinando e la sintonia fra artista e committente.

In questi anni fiorentini, che si conclusero con il suo ritorno a Milano nel 1709, il M. mantenne costanti rapporti con Genova, dove vivevano ancora sua madre e i suoi fratelli, come attesta una lettera scritta nel 1703 al collezionista bergamasco Francesco Brontino dal pittore genovese Carlo Antonio Tavella, che parla di un imminente passaggio da Genova del M., dal quale Brontino voleva una Processione di cappuccini. Questi rapporti sono confermati dalle forti suggestioni della pittura genovese, in particolare da Valerio Castello e dal Grechetto (G.B. Castiglione), in dipinti del M. come La strage degli innocenti (Amsterdam, Museo nazionale), S. Ambrogio scaccia Teodosio dalla chiesa (Chicago, The Art Institute) e la piccola copia (collezione privata: Franchini Guelfi, 1977, fig. 151) dell'Adorazione dei pastori del Grechetto nella chiesa genovese di S. Luca. Le acquisizioni dal severo linguaggio della pittura lombarda e dalle stilizzate cifre grafiche delle incisioni di Jacques Callot, studiate e tradotte in pittura nelle tre tele con Les misères et les malheurs de la guerre del Kunsthistorisches Museum di Vienna (L'interrogatorio in carcere), del Museo artistico nazionale di Bucarest (L'ospedale) e del Museo Brukenthal di Sibiu (Il saccheggio), probabilmente negli anni del soggiorno toscano, maturarono, a contatto con la cultura figurativa genovese, in un linguaggio personalissimo. Nel manoscritto preparatorio della biografia dell'artista composta da Carlo Giuseppe Ratti (1762) è citato anche un soggiorno a Venezia, a stretto contatto con l'amico Sebastiano Ricci. Molto probabilmente nel 1708 il M. sposò a Genova la giovane vedova Maria Rosa Caterina Borea, dalla quale nacque nel 1709 la primogenita Livia Caterina, l'unica figlia sopravvissuta dopo la morte dei piccoli Francesca (1710-12) e Stefano (1712-13). Ristabilitosi a Milano, il M. lavorò per prestigiosi committenti, come gli Archinto, i Casnedi, i Visconti, i Durini, spesso in collaborazione con Peruzzini e con Spera, come documentano gli inventari delle quadrerie.

Per il conte Gerolamo di Colloredo, governatore austriaco di Milano, eseguì le quattro grandi tele oggi presso l'abbazia di Seitenstetten, alla quale il conte le lasciò in eredità: la Biblioteca e il Refettorio dei cappuccini, La sinagoga e Il catechismo nel duomo di Milano.

In questi dipinti, sicuramente databili agli anni 1719-25, il linguaggio del M. appare ormai maturo nella scioltezza straordinaria della pennellata, nell'intavolazione cromatica tutta basata sulle varie tonalità del marrone e del grigio, ravvivata da pochi tocchi di giallo, di rosso, di blu e di bianco nelle vesti delle figure, nel rifiuto di ogni definizione disegnativa e nella drammatica frammentazione delle forme, erose dall'ombra, infine nella struttura compositiva di scenografica teatralità. Nei suoi numerosi disegni, conservati in collezioni private e pubbliche (Genova, Gabinetto disegni e stampe di Palazzo Rosso; Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi; Milano, Biblioteca Ambrosiana), il tratto a matita rossa, lumeggiato da pennellate di biacca, delinea con straordinaria immediatezza quelle figure di frati, viandanti, boscaioli, lavandaie, soldati, eremiti, che l'artista era solito inserire nei paesaggi e fra le architetture dei suoi collaboratori: un vero e proprio dizionario di "macchiette" sempre pronte per la sua specializzazione di "figurista".

L'ultima opera databile con certezza è Il furto sacrilego (Milano, Museo diocesano) eseguito come ex voto poco dopo il tentativo di furto compiuto nella chiesa di S. Maria di Siziano (Pavia) nel gennaio 1731.

In questa tela la tenebrosa vicenda viene raffigurata fino al macabro epilogo dell'impiccagione dei malfattori, in un linguaggio di tragica drammaticità nel tumultuoso protagonismo dei morti che, sotto forma di scheletri, emergono dalle tombe della chiesa per difenderla e scacciare i ladri sospingendoli verso il patibolo.

Probabilmente nel 1733, poco dopo la morte della moglie (1732), la figlia Livia Caterina si sposò a Genova con Giacomo Miconi e il M. si trasferì nella città natale. Nel 1743, ammalato, nominò la figlia sua procuratrice ed erede trasmettendole piena potestà sul suo denaro investito nel Banco di S. Giorgio. I suoi problemi di salute vennero però superati; il M. morì infatti a Genova a ottantadue anni il 12 marzo 1749 e venne sepolto nella chiesa di S. Donato, presso la quale abitava.

Sono certamente dei suoi ultimi anni genovesi il Concerto di monache, Il parlatorio, La cioccolata, Monache in giardino (collezioni private: Franchini Guelfi, 1977, fig. 239, tav. XXXI), dipinti che in accenti linguistici di straordinaria raffinatezza rappresentano la vita dissipata dei monasteri femminili, il grande Refettorio di frati (Bassano, Museo civico), i due tragici pendants L'arrivo e l'interrogatorio dei prigionieri e L'imbarco dei galeotti nel porto di Genova (Bordeaux, Musée des beaux-arts), la serie delle tre cupe telette Traduzione di galeotti (Olana, NY, Frederic Church's House), L'interrogatorio e La tortura (già a Francoforte, Städelsches Kunstinstitut, distrutte nella seconda guerra mondiale). Infine la Cena in Emmaus, tuttora nella sua collocazione originaria, il refettorio del convento genovese di S. Francesco d'Albaro, e il Trattenimento in un giardino d'Albaro (Genova, Galleria di Palazzo Bianco), che ritrae gli aristocratici Saluzzo mentre ricevono visite e intrattengono gli ospiti sulla terrazza che, davanti alla loro villa, si affaccia sul vasto e luminoso panorama della Val Bisagno. La vastissima produzione del M. conta anche numerose tele di soggetto sacro e mitologico, ambientate fra le rovine architettoniche di Spera e nei paesaggi di Peruzzini e di altri paesisti; ma le sue opere più originali sono quelle caratterizzate da iconografie che esprimono un interesse, condiviso da una committenza aggiornata sui dibattiti della cultura "illuminata" lombarda fra la fine del Seicento e il primo Settecento, per la vita monastica, i riti ebraici, l'educazione religiosa popolare, la recente istituzione del quaccherismo. Le sue "fraterie" rappresentano i due ordini religiosi più rigorosi, i cappuccini e i trappisti di recente fondazione, accentuandone, in pieno dibattito giurisdizionale, la vita umile e poverissima; le Sinagoghe, assolutamente realistiche nell'arredo e nel rituale (da quella giovanile degli Uffizi a quella molto più tarda del Museum of art di Cleveland), e le Riunioni di quaccheri, riprese, forse attraverso riproduzioni a stampa, dai dipinti dell'olandese Egbert van Heemskerck che le aveva ritratte dal vero in Inghilterra, propongono una riflessione aggiornata sulle religioni che nelle tre repliche del Catechismo nel duomo di Milano di Seitenstetten, del Museo di Filadelfia e di collezione privata e nelle numerose raffigurazioni di pellegrinaggi e devozioni popolari si congiunge ai testi sulla "regolata divozione" di Ludovico Antonio Muratori, che soggiornò a Milano sotto la protezione del conte di Colloredo. Negli anni in cui il cappuccino lombardo Gaetano Maria da Bergamo riproponeva nei suoi scritti la più rigorosa povertà per una riforma dell'Ordine, e uno dei committenti del M., Giovan Francesco Arese, traduceva dal francese uno dei trattati dell'abate Armand de Rancé, fondatore dei trappisti, l'artista raffigurava polemicamente i frati di questi due ordini, in contrasto con la vita rilassata di altre comunità conventuali, nei momenti quotidiani di una vita poverissima, dedita alla preghiera, alla meditazione, alla penitenza e ai più umili lavori manuali, come I frati barbieri del Museo di arte occidentale e orientale di Odessa, Il seppellimento di un trappista del Museo civico di Bassano, Cappuccini attorno al camino e Monache filatrici del Hessisches Landesmuseum di Darmstadt, il Viaggio di cappuccini della Pinacoteca di Brera, La penitenza dei cappuccini dell'Academia de S. Fernando a Madrid. Tutte le tematiche di questo discorso dell'artista sono presenti nei testi di Rancé e di Gaetano Maria da Bergamo, dalla povertà dell'abito alla rivalutazione del lavoro manuale, dallo studio alla sottomissione totale e incondizionata ai superiori. Negli ultimi anni del M. i problemi dell'amministrazione della giustizia e delle pene, oggetto di dibattito negli ambienti più "illuminati" della cultura lombarda, venivano per la prima volta proposti con accenti di cupa tragicità nelle tele di Bordeaux (Musée des beaux-arts), di Olana e di Francoforte, anticipando il trattato di Cesare Beccaria. I dipinti del M. rappresentano la sola espressione figurativa del fitto intreccio di idee e orientamenti di pensiero intorno a queste problematiche nella Milano del tempo. Bisogna dunque supporre nell'artista una profonda consapevolezza e un acuto interesse per tematiche finora mai rappresentate nella pittura italiana e un vitale rapporto con una cultura che, in quel momento storico, metteva in crisi molte certezze per avventurarsi su un nuovo terreno di indagine e di discussione. Il consapevole dissenso del M. nei confronti delle finalità celebrative e del linguaggio splendidamente decorativo della pittura contemporanea si espresse anche nella scelta delle fonti iconografiche e letterarie di una vasta parte della sua produzione: i "bamboccianti" fiamminghi e olandesi, i romanzi picareschi spagnoli, i testi secenteschi italiani sull'"arte della forfanteria", veri e propri dizionari della "birba" vagabonda come Il vagabondo di Raffaele Frianoro (1621), più volte ristampati, sono, oltre alle stampe di Callot che già ne avevano fornito una acutissima immagine, la fonte culturale dei soldatacci, degli zingari, dei cantastorie e dei vagabondi straccioni accampati fra rovine che il pittore rappresentò per tutto il corso della sua attività, da La gazza ammaestrata e La scuola dei birbi agli Uffizi, eseguiti per il gran principe Ferdinando, al Ritrovo di pícaros e soldati del Museo civico di Bassano, alle due grandi Rovine architettoniche con pitocchi e soldati della collezione Lechi databili alla maturità dell'artista, infine al Banchetto nuziale del Louvre e al dipinto del Museo Luxoro di Genova Nervi, eseguiti nei suoi ultimi anni. L'insistita frantumazione del segno, la scomposizione delle figure in filamenti luminosi e in grumi densi di materia caratterizzano le muraglie corrose, gli stracci, le mani artigliate, i visi scavati nei tagli d'ombra della bocca e delle occhiaie. La raffigurazione del Pittor pitocco, più volte replicata dall'artista, con un misero pittore che, in un interno poverissimo, ritrae un cencioso violinista girovago, si propone come un autoritratto simbolico, quasi un manifesto programmatico nella scelta della tematica antiaccademica dei "pitocchi", in contrasto con i soggetti nobili e lo stile elevato della grande pittura. I rapporti del M. con la cultura teatrale e musicale giocosa sono attestati dai Pulcinella di collezione privata e dei musei di Raleigh (North Carolina Museum of art) e di Columbia (South Carolina Museum of art) e dai numerosi Concertini di pícaros e straccioni, certamente collegati alla produzione musicale carnevalesca che comprendeva anche imitazioni di voci animali: in un Concertino di collezione privata agli strumenti e alle voci si uniscono anche il miagolio di un gatto e il canto di una gazza, come nella celebre Capricciata e contrapunto bestiale per cane, gatto, cuculo e civetta composta per il giovedì grasso da Adriano Banchieri. L'anticonformismo delle scelte linguistiche e culturali del pittore risalta anche nelle numerosissime scene sacre, mitologiche e pastorali spesso ambientate in paesaggi o rovine di collaboratori: in opere come La guarigione del paralitico e La resurrezione di Lazzaro del Museo civico di Crema, Il martirio di s. Erasmo di collezione privata, Il trionfo del Male e Il trionfo della Fede Cristiana del Museo Brukenthal di Sibiu le sue figurette, disarticolate in positure di spasmodica tensione espressiva, tratteggiate da una pennellata frantumata e guizzante e connotate da un colore spento e terroso, sono ben diverse dalle rassicuranti, arcadiche rappresentazioni dei pittori contemporanei. Nei Baccanali, come nei due pendants del Museo Puškin a Mosca e dell'Ermitage a San Pietroburgo, le livide ninfe e i fauni demoniaci, agitati da un movimento convulso fra le architetture formicolanti di inquietanti presenze, propongono una lettura della tematica mitologica del tutto opposta a quella tradizionalmente erotica e galante. Nei suoi ultimi anni il M. si avventurò nelle zone più cupe e sotterranee della coscienza, esprimendo con straordinaria forza il fascino delle tenebre nel Furto sacrilego e nelle quattro Streghe (collezione privata: Franchini Guelfi, 1977, tavv. XLI-XLIV), sconvolgenti immagini scaturite da "fantasie guaste e pervertite", per dirla con le parole di Gerolamo Tartarotti, che proprio in quegli anni, nel contesto del dibattito preilluministico sulla stregoneria, portava avanti un discorso di lucida razionalità in contrasto con la Chiesa impegnata a ribadire l'esistenza di magia e stregoneria. Ma quella del M. è una pittura senza alcun facile ottimismo né alcuna fiducia che il pensiero e l'umano operare possano rischiarare la paurosa oscurità nella quale le cose sembrano disgregarsi. Trasferitosi infine a Genova, in un contesto quasi totalmente privo di quegli stimoli intellettuali, di quelle aperture culturali e di quelle possibilità di discorso critico che caratterizzavano l'ambiente lombardo, il M. accentuò il suo dissenso e gli accenti corrosivi della sua pittura. Se le radici culturali delle due straordinarie telette La Dissipazione e l'Ignoranza distruggono le arti e le scienze (collezioni private: Franchini Guelfi, 1977, fig. 206) sono certamente lombarde, la raffigurazione allegorica di un'oziosa nobiltà in sfacelo, affiancata dall'asino dell'ignoranza e dalla scrofa della lussuria e circondata da specchi simbolo di vanità, esprime un severo giudizio morale sicuramente riferito all'aristocrazia genovese, che nel Trattenimento in un giardino d'Albaro egli raffigurò nello svolgersi di uno dei suoi consueti riti sociali, nella miniaturizzazione delle figure atteggiate in un modo di vivere indolente e trasognato davanti agli occhi del pittore seduto a terra all'estremità sinistra della scena, rappresentato nel gesto professionale del ritrattista in una posizione di chiaro distacco.

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