CARAVIA, Alessandro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 19 (1976)

CARAVIA, Alessandro

Ludovico Zorzi

Nato nel 1503, quasi sicuramente a Venezia, trascorse in patria l'intera esistenza, esercitandovi la professione del gioielliere, con bottega a Rialto, nella ruga detta tuttora degli Orefici. Il suo commercio dové procurargli una certa agiatezza; anche se, accanto a tre figliuoli propri, si trovò ad allevare in casa due nipoti, figli di un fratello mancato in ancor giovane età. I pesi della famiglia accrebbero probabilmente l'austerità del suo carattere, sottolineata dall'aspetto esteriore. Alto nella persona, con ampia fronte e barba nera fluente, avvolto nell'imponente veste nera alla dogalina, in capo un tondo berretto alla foggia della borghesia originaria, il suo ritratto (trasmessoci da documenti d'archivio e dalle vignette che illustrano un suo poemetto, intitolato Il sogno) è quello tipico del mercante veneziano del tempo, dal tratto semplice e severo, volto a ispirare nei circostanti effetti di rispettabilità e di fiducia. Povera di avvenimenti esteriori, la vita del C. fu turbata da un unico grave caso, il processo intentatogli dal tribunale del S. Uffizio negli anni 1557-59, a causa di un altro poemetto, La verra [guerra] antiga de Castellani,Canaruoli e Gnatti... in lengua brava, alcuni luoghi del quale erano parsi sospetti di eterodossia. Dagli atti del procedimento, che si conservano presso l'Archivio di Stato di Venezia, non risulta quale sia stata la sentenza; può darsi che, paghi della professione di ignoranza dottrinaria e di obbedienza all'autorità ecclesiastica abilmente interposta dall'imputato, gli inquisitori rinunciassero a pronunciarla.

È tuttavia fuor di dubbio che le opinioni del C. in materia di fede risentissero dell'influenza che le idee di riforma e l'eco delle dispute che turbavano la Germania non mancavano di esercitare in una città come Venezia, aperta alle correnti di traffico con i paesi dell'Europa centrale e sede permanente di una colonia di mercanti, che avevano il loro centro di affari nel fondaco dei Tedeschi. Tramite questa attivissima agenzia di scambio e di rappresentanza, la città era diventata la principale piazza di diffusione della stampa riformata in Italia, in ciò favorita dall'ambiente propizio alla libertà religiosa. La tolleranza del governo si protrasse fin verso la metà del secolo, quando le mutate condizioni politiche della penisola indussero le gelose magistrature della Repubblica a qualche concessione verso le pretese del potere ecclesiastico, la cui interferenza nelle amministrazioni civili veniva aumentando sotto l'impulso del concilio di Trento. In seguito anche episodi marginali, come quello di cui fu protagonista un personaggio minore come il C., assunsero una rilevanza del tutto sproporzionata all'entità dell'infrazione commessa; a meno di non ritenere che l'occhiuta sospettosità del S. Uffizio non si volgesse con particolare sollecitudine e rigore alle stampe di carattere popolare e semipopolare, che proprio per l'area di circolazione a cui erano destinate potevano trasformarsi in perniciosi veicoli di propaganda delle nuove idee tra le classi relativamente più numerose e meno istruite, e quindi più difficilmente controllabili.

Sotto questo aspetto la modesta figura del C., sebbene non priva di qualche addentellato con le classi dirigenti (oltre che con l'Aretino, sappiamo che egli fu in relazione con il patriarca d'Aquileia Giovanni Grimani, contro il quale venne pure istruito nel 1561 un processo per eresia), diviene rappresentativa di quel ceto mediano, sottilmente stratificato tra la borghesia mercantile e il popolo, che dedicandosi al piccolo commercio, all'artigianato, alla burocrazia minore avvertiva con sensibilità anticipata il profilarsi di malesseri, di inquietudini, di mutazioni sottili e profonde. Si direbbe che tale sensibilità provenisse dalle sue funzioni di tessuto connettivo tra le due classi, la popolare e l'aristocratica, di entrambe le quali questo ceto conosceva per esperienza la natura, i meriti e i vizi. Di qui, da questa posizione specchiante e adesiva, e dal conseguente bisogno di individualizzarsi (come ceto se non come classe), nasce negli appartenenti a un tale stato l'aspirazione a un costume diverso, a una norma di vita più rigorosa, a modelli di riferimento propri e identificabili. Si spiega così come la propagazione e il dibattito delle tematiche di contenuto religioso, con le loro implicazioni di carattere etico e sociale (spesso con risvolti immediatamente politici) trovassero in questo ambiente un ascolto più attento e partecipe che altrove; così come la fragilità civile e culturale dei suoi esponenti, privi di autentici vincoli con le élites signorili e le masse (a differenza di quanto avveniva in Germania), dà ragione, sia pure in termini parziali, della intrinseca debolezza dei movimenti ereticali nel Veneto (come del resto in altre regioni d'Italia).

La figura del C. e quanto rimane della sua attività letteraria (che dobbiamo ritenere sporadica e occasionale, o quanto meno priva di un'autentica vocazione) si collocano su questo sfondo, tipico dell'evolversi della società veneziana intorno alla metà del secolo. L'ambiente dei tre poemetti ai quali è legato il suo nome (e nulla, allo stato attuale delle nostre conoscenze, lascia supporre che essa sia stata più ampia, o connessa a esperienze e generi diversi) è tuttavia di natura genuinamente popolare. Popolani, appartenenti alle opposte fazioni di Castello e di Cannaregio, sono i protagonisti della Verra e i loro eroi emblematici Giurco e Gnagni; popolano è l'eroe eponimo del Naspo bizaro; popolani, o ridotti al formato di personaggi da stampa popolare, sono gli interlocutori del Sogno, il buffone Zuan Polo e l'autore stesso, non parlanti tuttavia (come i protagonisti dei due componimenti precedentemente nominati) il nativo dialetto dell'autore.

Riassumiamo, nell'ordine di edizione (corrispondente con ogni probabilità all'ordine, se non alla data, di composizione), l'argomento dei tre poemetti. Il primo sembra essere stato quello intitolato Il sogno dil Caravia, stampato a Venezia nel 1541 dal Nicolini da Sabbio, avente per soggetto una presunta visione dell'autore, nel corso della quale egli narra come il suo compare Zuan Polo, il celebre buffone veneziano da poco scomparso (era morto infatti nel 1540), gli apparisse in sogno scortato da un demonio per querelarsi contro lo sfarzo usato dalla scuola di S. Rocco (una delle numerose "scuole" di devozione allora prosperanti in Venezia) nell'abbellimento della nuova sede (la stessa in cui oggi ammiriamo il ciclo di dipinti del Tintoretto), sfarzo che costringeva le altre scuole, meno importanti e perciò meno ricche, a sobbarcarsi a spese e sacrifici inadeguati ai loro mezzi per gareggiare con quella di S. Rocco. Cogliamo nel rimprovero (espresso dal C. per bocca dell'amico defunto) un'eco dell'antico spirito veneziano di emulazione e di soperchieria, che opponeva i membri di questi sodalizi (aventi scopi, oltre che religiosi, di mutuo soccorso e di rappresentanza corporativa) in interminabili e futili beghe; le quali, durante le solenni processioni del Corpus Domini e del giovedì santo, degeneravano in risse tra i devoti, che "guerra facendo de' pugni e doppieri / davansi in faccia gli accesi ceri". La prima edizione del Sogno, una copia della quale si conserva nella Bibl. naz. Marciana di Venezia (miscell. 1890.7), è adorna di una serie di vignette, che porgono curiosi indizi sull'abbigliamento e l'aspetto fisico dell'attore Zuan Polo e dell'autore stesso, nonché interessanti riscontri sull'arredo e il costume del tempo. L'argomento si presta a una prima (benché sotto taluni aspetti ancora esitante) definizione dell'atteggiamento dell'autore dinanzi ai problemi religiosi; atteggiamento che verrà precisandosi nel poemetto successivo.

Un'altra e più impressionante "guerra dei pugni" fa da sfondo a quest'ultimo, apparso per le stampe nove anni dopo. Si tratta de La verra antiga de Castellani,Canaruoli e Gnatti,con la morte de Giurco e Gnagni,in lengua brava, la cui edizione originale (una copia è nella miscell. marciana 1945.31) vide la luce nel 1550, senza nome di editore, ma in tutto simile (per formato e caratteri) alla prima stampa del Sogno, e dunque uscita anch'essa, con ogni probabilità, dalla tipografia veneziana del Nicolini da Sabbio, che stamperà, quindici anni più tardi, anche il terzo poemetto del Caravia. Questa operetta, di intento giocoso come le altre due, si ispira alla famigerata "guerra dei pugni", che rappresentò per secoli un episodio ricorrente (a mezzo tra lo spettacolo, il divertimento e l'autentica zuffa) della vita cittadina veneziana. Due fazioni, in cui tradizionalmente si divideva la plebe veneziana (dei castellani e dei canaruoli, ossia degli abitanti dei sestieri di Castello e di Cannaregio, ai quali si aggiungevano i nicolotti, abitanti nell'estrema parrocchia di S. Nicolò dei Mendicoli: forse i gnatti, di cui pure si fa menzione nel titolo), erano use affrontarsi, in giorni prestabiliti e in varie località dell'area urbana, in uno scontro che, sotto il pretesto del confronto simbolico, si trasformava ben presto in un furibondo pugilato collettivo, spesso con morti e feriti da entrambe le parti. Vinceva la fazione che riusciva a sospingere gli avversari al di là di un canale; onde la fase più animata della lotta si svolgeva di regola sul ripiano di un ponte (noto, anche attraverso stampe e illustrazioni di epoca più tarda, il ponte dei Pugni a S. Barnaba). Troppo poco per essere una guerra vera, troppo crudele per essere un giuoco: così giudicò Enrico III di Francia lo spettacolo, ripetuto in suo onore a Venezia durante la visita del 1574. È certo che il governo veneziano tollerava e forse alimentava la rivalità tra i due partiti, giovandosene per mantenere i sudditi divisi, in modo che se una parte del popolo si fosse ribellata, l'altra fosse pronta a reprimere la sovversione.

Sullo sfondo di una di questa guerre descritta nei suoi momenti culminanti e nelle prove dei campioni più in vista (con accenti di conscia parodia dell'epica), il C. colloca, a mo' di episodio conclusivo, la morte dei due eroi Giurco e Gnagni. La fine di entrambi illumina un diverso atteggiamento verso la fede. Fede cattolica, ligia alle pratiche della più rigorosa ortodossia, quella di Gnagni, che morendo riafferma la propria fedeltà ai sacramenti e confessa i suoi peccati "a un a un, ponto per ponto", dispone per le messe in suffragio della sua anima, sollecita una certa pompa per il proprio funerale, vuole una lampada perpetua nella sua chiesa. Fede di protestante in pectore, se non pienamente definita e professata, quella di Giurco, non uso a confessarsi ma a chiamarsi in colpa dinanzi a Cristo, certo di non potere attribuire a sé il merito di nessuna opera buona e di aspirare alla salvezza eterna solo attraverso la grazia; morendo, egli non enumera i suoi peccati, non pensa ai funerali o a suffragi, ma confida soltanto nel Salvatore. Il frate che lo assiste conforta il suo trapasso enunciando la dottrina della giustificazione per fede, ch'era il canone fondamentale dei novatori.

Che le opinioni del C., tra quelle dell'osservante Gnagni e quelle del trasgrediente Giurco, propendessero intimamente per queste ultime (sebbene dal testo del poemetto ciò non traspaia inmodo scoperto) è confermato dalla lettura del testamento, che ci è pervenuto in copia olografa, sottoscritta e datata il primogiorno di maggio del 1563. Anche a non voler fare del gioielliere veneziano un compiuto protestante, l'esame di questo documento tradisce indizi rivelatori. È certo che nell'ultima fase della sua vita, nonostante il procedimento inquisitorio a cui fu sottoposto (o forse fortificato da questo), il sentimento del C. propendeva per il credo spirituale dei riformati piuttosto che per la norma formale restaurata dalla Chiesa cattolica. Nel testamento egli afferma di nutrire "viva fede e speranza" che la Maestà di Dio, "per sua divina grazia, bontà et pietade et infinita misericordia sia contenta di perdonarmi ogni mio grave peccato" e di accoglierlo, alla fine di questa miserabile vita, "alli piedi del suo santissimo conspetto a godere la eterna beatitudine". Ancora più significativa è la chiusa, in cui vengono impartite delle severe disposizioni per un funerale senza traccia di pompa, con frasi di esplicito rifiuto per ogni cerimonia di culto, mentre vengono tributate delle lodi ai frati minori, presso i quali lo spirito inquieto del C. aveva trovato il conforto di una certa libertà dottrinaria e forse qualche consenso di idee. Il testamento reca comunque l'impronta di una eticità austeras più prossima al rigorismo della nuova moralità protestante (che non a caso vediamo spesso associata - secondo la nota tesi weberiana - alla mentalità mercantile e imprenditoriale e allo spirito del nascente capitalismo), piuttosto che all'edonismo decadente e incline al compromesso del "carattere" rinascimentale ormai al tramonto.

Nel 1565, quasi al termine della sua vita, il C. dava alle stampe (sempre per i tipi del Nicolini) il terzo e ultimo poemetto a noi noto, quel Naspo bizaro a cui, per il maggior numero di copie superstiti e per le successive non infrequenti ristampe (mentre è presumibile che i pochi esemplari della prima edizione della Verra rimasti in circolazione fossero quelli sfuggiti al sequestro e alla distruzione ordinati dal tribunale ecclesiastico), rimase principalmente affidata la persistenza della sua esile fama. L'autore sfoga la propria innocente mania di far versi nelle "calate" (strofe, ovvero ottave, declamate, secondo l'uso del tempo, con largo respiro, fino a farle diventare una vera e propria cantilena; un genere specialmente diffuso tra i gondolieri, di cui si ricorda il "canto" delle ottave del Tasso tradotte in veneziano), che il protagonista del componimento, il bravo Naspo, indirizza in prima persona alla sua innamorata, la bionda Cate biriota (nata cioè o residente in Biri, una contrada della città frequentata da bravi, prostitute e vagabondi, variante veneziana di una corte dei miracoli preludente alla bambocciata barocca). Lo svolgimento del soggetto, fino al prevedibile lieto fine ("el fin de l'innamoramento de Naspo bizaro, el qual, per viver da cristian batizao, sposa con algreza Cate Bionda biriota"), è quanto mai piatto e convenzionale; eppure, specie in virtù del linguaggio, non mancano nella descrizione elementi vivi, sorretti da una certa primitiva ingenuità, che rende qualche eco della vita popolare del tempo.

L'interesse oggi prevalente dell'opera del C., modesta sotto il rapporto dell'arte, risiede infatti nel linguaggio e nel suo valore di testimonianza folciorica. L'impasto linguistico dei due poemetti dialettali è il prodotto di una curiosa ibridazione del dialetto veneziano cittadinesco con parole e frasi attinte al gergo furbesco: quella "lingua venitiana in bulesco" (secondo la definizione coniata dall'Aretino in una delle sue lettere al C.), parlata da bulli e malviventi ma anche da ceti plebei particolari (come ad esempio i barcaiuoli e gli artigiani protagonisti della Verra), non necessariamente connessi agli ambienti della malavita. Tuttavia la frequenza delle voci gergali, nella Verra antiga e nel Naspo bizaro, è relativamente scarsa, e il loro uso denota per lo più una ricerca di effetti espressionistici o di ispessimento del tessuto lessicale.

Tale "lengua brava" o "sbisaesca" (da sbisai: "bulli") aveva già improntato di sé alcuni significativi documenti letterari (come la commedia anonima intitolata La Bulesca, risalente al decennio 1520-30), e diverrà, intorno alla metà del secolo, un non secondario elemento costitutivo di una speciale letteratura "gergante", rappresentata per lo più da componimenti in versi. Manifesta è pure l'attinenza di alcuni personaggi e in generale del piglio declamatorio-buffonesco di questi poemetti con i tipi e i modi del teatro comico cinquecentesco, specialmente del Calmo, che l'autore conobbe e imitò, e della nascente commedia dell'arte.Il C. morì a Venezia nel 1568.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Sezione notarile, busta 1261, test. n. 947 (in atti Cesare Ziliol); Santo Uffizio, busta 13; B. Gamba, Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano, Venezia 1832, pp. 62 s., 83 s. (cfr. anche 2 ediz. riveduta e annotata da N. Vianello, Venezia-Roma 1959, pp. 65 s., 81 ss.); A. Segarizzi, Bibliogr. d. stampe popolari ital. d. R. Biblioteca naz. diS. Marco di Venezia, I, Bergamo 1913, pp. 105, 108-11, 142, 146 s. (con ill.); V. Rossi, Un aneddoto della storia della Riforma a Venezia, in Scrittivarii di erudiz. e di critica in onore di R. Renier, Torino 1912, pp. 839-64 (poi ristampato negli Scritti di critica letter., III, Firenze 1930, pp. 191-222); G. Vidossi, Note al "Naspo bizaro", in Il Folklore ital., VI (1931), pp. 106-33 (poi in Saggi e scritti minori di folklore, Torino 1960, pp. 46-70: essenziale, come l'articolo dei Rossi, anche per i complementi bibl.); G. A. Quarti, Quattro secoli di vita venez. nella storia,nell'arte enella poesia, I, Milano 1941, pp. 22-26; Il fioredella lirica venez., a cura di M. Dazzi, I, Venezia 1956, pp. 323-44 (scelta antologica postillata); C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Torino 1976, pp. 28-32.

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