ESTE, Aldobrandino d'

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 43 (1993)

ESTE, Aldobrandino d'

Paolo Bertolini

Terzo di questo nome, figlio primogenito del marchese Obizzo (III), signore di Ferrara e di Modena, e di Lippa Ariosti (sposata da Obizzo in seconde nozze solo nel 1347), nacque il 14 sett. 1335. Legittimato nel 1346, insieme con i fratelli Rinaldo, Niccolò, Azzone, Alda, Beatrice e Alisia, per intervento del papa Clemente VI presso il vescovo di Ferrara, nel 1350 ricevette la bolla, datata in Avignone il 30 marzo, con cui lo stesso Clemente VI prorogava a lui, al padre ed ai fratelli il vicariato apostolico in Ferrara, città di dominio pontificio. L'anno successivo sposò e condusse a Ferrara Beatrice da Camino, figlia di Rizzardo Novello, signore di Treviso, e nipote ex matre di Alberto e Mastino (I) Della Scala, signori di Verona. Il 10 marzo 1352, insieme con i fratelli, il cugino Rinaldo d'Este, figlio della zio Niccolò (I), e con altri nobili fu creato dal padre cavaliere.

Alla scomparsa di Obizzo (III), avvenuta il 20 marzo successivo, assunse il potere e l'eredità paterna: Ferrara lo proclamò signore, subito seguita da Modena, che tuttavia gli associò anche i fratelli nella suprema autorità. Il 19 ottobre legati pontifici confermavano a lui ed ai suoi fratelli il vicariato apostolico nella città.

Il trapasso dei poteri, ad ogni modo, non si compì senza contrasti. Appellandosi al fatto che l'E. era nato fuori dal matrimonio e che pertanto non poteva legittimamente aspirare all'eredità paterna, si levarono a contestarne la successione e ad accampare i loro diritti due altri membri della famiglia, Francesco (II) d'Este, figlio di un nipote del marchese Obizzo (II), Bertoldo di Francesco (I), e il già ricordato Rinaldo di Niccolò (I). Si trattava di motivazioni evidentemente pretestuose, perché non tenevano conto del fatto che il vizio della nascita dell'E. e dei suoi fratelli era stato sanato dalla legittimazione pontificia e che Obizzo (III) aveva regolarizzato la sua posizione nei confronti di Lippa Ariosti, sia pur tardivamente, sposandola. Costretto ad abbandonare Ferrara e poi colpito da decreto di bando, Francesco (II) cercò rifugio dapprima a Venezia, dove si trovava già il 2 aprile; passò quindi a Padova, trovando da ultimo accoglienza a Rimini, dove si stabilì e da dove continuò a tessere trame contro il nuovo signore di Ferrara. Anche Rinaldo (I) fu costretto, dopo qualche tempo, a seguime l'esempio: il 2 agosto si rifugiò a Bologna, città nella quale si trattenne però poco tempo, per trasferirsi infine a Modena.

Si venne così delineando una coalizione, che vedeva schierati contro l'E., a sostegno di Francesco (II) e di Rinaldo di Niccolò, Giacomino da Carrara, signore di Padova, e i Malatesta signori di Rimini, da un lato, e Luigi (I) Gonzaga, signore di Mantova, dall'altro. All'E. si affiancò, invece, Cangrande (II) Della Scala, signore di Verona e Vicenza. Le prime, incerte mosse della coalizione antiestense furono bloccate dall'intervento di Venezia che, preoccupata del pericolo costituito dall'espansionismo visconteo, indusse i contendenti ad un accordo, in forza del quale l'E. cedeva a Giacomino da Carrara Vighizzolo (Padova) in cambio dei diritti sul Polesine di Rovigo ed altri luoghi, ed accettava inoltre di unirsi a lui in alleanza (lega del 10 genn. 1354). Nella seconda metà di febbraio del medesimo anno 1354, informato che Cangrande (II) Della Scala era stato ucciso in un agguato tesogli dai Castelbarco e che Barnabò Visconti marciava su Verona con un esercito, l'E. si affrettò ad inviare nella città amica un corpo di 200 cavalieri in appoggio di Fregnano, Paolo Alboino e Cansignorio Della Scala, che l'assemblea del popolo veronese, subito convocata, aveva riconosciuto come nuovi signori.

Sia la notizia della morte di Cangrande (II) sia quella dell'imminente attacco visconteo contro Verona erano false e rientravano in un complotto ordito, d'intesa con i Gonzaga, da Fregnano Della Scala, figlio illegittimo di Mastino (II), per impadronirsi del potere approfittando dell'assenza di Cangrande (II), il quale si era dovuto recare a Bolzano per incontrarsi col marchese del Brandeburgo.

I reparti ferraresi giunsero a Verona il 17 febbraio, insieme col contingente, forte di 300 cavalieri, inviato dal signore di Mantova. Respinti vittoriosamente glì attacchi di Barnabò Visconti, presentatosi effettivamente sotto le mura il 24 febbraio, i Ferraresi, i Mantovani e i fedeli di Fregnano furono sbaragliati da Cangrande (II) che, comparso davanti a Verona con un suo corpo d'esercito, il 25 riusci a riconquistare la città e ad avere ragione del moto grazie anche all'appoggio dei suoi stessi abitanti. L'intervento dell'E. negli affari veronesi era stato senza dubbio deciso e compiuto in buona fede: ce ne accerta, tra l'altro, il fatto che Cangrande, una volta recuperato il potere, a differenza di quanto fece nei confronti di Francesco Gonzaga non minacciò rappresaglie contro l'E., né pretese da lui indennizzi, né lo portò a pretesto del ritiro della sua adesione alla lega antiviscontea promossa da Venezia, lega che fu firmata nella città lagunare il 13 marzo dai procuratori dell'E., della Serenissima, di Giacomino da Carrara e dei Manfredi di Faenza, ma non dai signori di Verona e di Mantova. La lega fu rinnovata, il 30 aprile, a Montagnana: questa volta vi accedettero, grazie all'impegno diplomatico di Venezia, che riuscì ad appianare i loro dissidi, anche Cangrande (II) e Luigi Gonzaga. Le potenze alleate rivolsero a Carlo IV del Lussemburgo, imperatore eletto e re di Germania, un pressante invito a venire a pacificare l'Italia. Nel maggio si aprirono le ostilità ed ebbero cori-le teatro, nella loro prima fase, proprio i territori di dominio estense.

Corpi d'esercito viscontei, convergendo da Parma, da Bologna, da Carpi, marciarono su Modena, sottoponendone la regione a selvagge devastazioni. Il 18 maggio la colonna condotta da Francesco Castracani avanzò fin sotto la città, attestandosi presso il fiume Secchia; lì fu raggiunto dalla colonna di Albizzo degli Ubaldini, che pose il campo ad Albaredo, e da quella di Bernardino e Galasso Pio. Tra il giugno e il luglio caddero nelle loro mani le piazzeforti di Sassuolo, di Spezzano, di Guiglia. Modena stessa sembrò sul punto di cadere. Tuttavia la sua strenua resistenza, organizzata e diretta da Aldobrandino Rangoni (l'E. lo avrebbe poi premiato con la concessione del castello di Spilimperto), spezzò lo slancio offensivo dei Viscontei e diede ai collegati il tempo di mettere in campo tutte le loro forze, divenute ragguardevoli quando fra' Moriale accettò di mettere al loro servizio, per quattro mesi e per la somma di 150-000 fiorini, la sua "grande compagnia". Già Galeazzo Pio era stato costretto, da un'incursione compiuta con 2.000 cavalli da Feltrino Gonzaga e dal nipote di questo Ugolino, a far ripiegare l'esercito visconteo su Bologna, ma, una volta allontanatisi gli avversari, era tornato a bloccare Modena, costruendo tra l'altro una bastia al ponte S. Ambrogio.

Dovette, poco dopo, ritirarsi di nuovo. Infatti Francesco da Carrara, che era entrato nel territorio di Bologna e l'aveva devastato, si era congiunto, il 20 agosto, a Butrio con la "grande compagnia" condotta dal conte Konrad von Landau (il conte Lando delle cronache italiane coeve). Insieme, i due condottieri sferrarono l'attacco decisivo: liberato il territorio di Modena, superarono il Po e, strappando ai Viscontei l'iniziativa, portarono la guerra nei territori di Cremona e di Brescia appartenenti agli avversari. L'attività militare, tuttavia, venne progressivamente scemando dopo la morte, avvenuta il 5 ottobre, di Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano.

Quando l'imperatore eletto Carlo IV del Lussemburgo, re di Germania e di Boemia, rispondendo alle sollecitazioni dei collegati venne in Italia - il 14 ottobre era a Udine, il 4 novembre entrava a Padova -, l'E. si affrettò a recarsi nella città euganea per rendergli omaggio. I buoni rapporti, che egli riuscì allora a stabilire con il sovrano e mantenne anche in seguito, sono provati non solo dai numerosi provvedimenti, che in quella occasione il dinasta lussemburghese prese in favore dell'E. e della sua famiglia, ma anche dal comportamento assunto a varie riprese negli anni successivi dal signore di Ferrara nei confronti dell'imperatore: ne è testimonianza, ad esempio, la magnificenza con cui l'E. volle accogliere e intrattenere l'imperatrice Anna quand'ella, venuta in Italia per l'incoronazione romana del consorte, attraversò nel gennaio del 1355 i territori di dominio estense.

Il 6 nov. 1354 l'E. ottenne che Carlo IV legittimasse la nascita sua e dei suoi fratelli. Il 7 novembre ottenne la conferma dei privilegi e dei diritti feudali che gli Este ripetevano dall'Impero. Il 16 novembre, da Mantova, Carlo IV gli rilasciò un diploma, con cui confermava un diploma del re Enrico IV del 1077 ed uno dell'imperatore Federico II del 1221. Con un altro documento solenne il sovrano lussemburghese confermò agli Este l'investitura dei territori, che essi ripetevano dall'Impero: Rovigo e il suo contado, Adria (Rovigo), Ariano, l'abbazia della Vangadizza (Verona), Lendinara (Rovigo), Argenta (Ferrara), Sant'Alberto (Ravenna), Comacchio (Ferrara), ed altre giurisdizioni. Con un ultimo diploma Carlo IV conferì all'E. il vicariato imperiale in Modena.

Sullo scorcio del 1354 anche l'E. sottoscrisse l'atto, con cui i collegati affidavano a Carlo IV il compito di concludere, a loro nome e a determinate condizioni, una tregua d'armi con i nuovi signori di Milano, i fratelli Matteo (II), Galeazzo (II) e Bernabò Visconti, nipoti ed eredi del defunto arcivescovo. Il documento fu consegnato il 30 dicembre al sovrano, che per parte sua aveva già avviato trattative con i Visconti ed era giunto ad un accordo di massima con loro. L'8 gennaio successivo - quattro giorni dopo il suo ingresso in Milano e due dopo la sua incoronazione a re d'Italia - il dinasta pubblico la tregua tra i contendenti: essa aveva come termine di scadenza il 30 aprile dello stesso anno ed avrebbe dovuto consentire la conclusione di un formale trattato di pace.

In realtà nessuna delle parti in causa aspirava sinceramente alla cessazione delle operazioni militari: non i nuovi signori di Milano, preoccupati per la minaccia ai loro domini orientali rappresentata dai legami sempre più stretti tra Carlo IV e Giovanni II Paleologo, marchese del Monferrato, e del resto tuttora invischiati nella guerra veneziano-genovese (1350-1355), in cui gli Stati viscontei si trovavano direttamente coinvolti da quando, il 5 ott. 1353, la città ligure si era data in signoria all'arcivescovo Giovanni; non le potenze aderenti alla lega promossa da Venezia appunto in funzione antiviscontea, le quali, perdurando ancora la tregua, non mancarono l'occasione di creare nuove difficoltà - sia pure sul piano interno e in altro scacchiere - ai loro avversari. Il moto insurrezionale di Giovanni dei Visconti di Oleggio - il governatore di Bologna per conto di Matteo (II) Visconti, ribellatosi il 17 aprile e fattosi riconoscere dagli organi istituzionali locali signore della città il 20 di quello stesso mese - fu infatti favorito e promosso, secondo quanto affermano i cronisti bolognesi coevi, proprio dall'E. e dal signore di Imola, Roberto Alidosi, longa manus dell'Albornoz in Romagna.

La circostanza, che i due appaiano associati quali promotori della rivolta, se presuppone più ampie intese trasversali raggiunte dal signore di Ferrara in funzione antiviscontea, rivela, d'altro canto, l'attiva, seppure sotterranea, presenza della Sede apostolica e quella dei cardinal legato nelle vicende politiche dell'Emilia. Tale conclusione è del resto confermata dal fatto che, insieme con Roberto Alidosi, l'E. fornì al ribelle l'appoggio necessario a rafforzarsi al potere in città e a rendersi padrone di tutti i castelli del territorio bolognese, escluso Bazzano, e che continuò a sostenerlo anche in seguito, quando, riapertesi allo scadere dell'armistizio le ostilità tra la lega e i signori di Milano (10 maggio) e cadute nel nulla le richieste di aiuto da lui rivolte ai Fiorentini e al papa, il nuovo padrone di Bologna si trovò, dopo la conclusione della pace tra Venezia, da un lato, Genova e i Visconti, dall'altro (31 maggio), a dover sostenere l'urto della forza viscontea. L'E. svolse infatti a suo vantaggio una parte non secondaria sia sul piano militare, sia su quello politico-diplomatico, nelle convulse vicende della seconda fase del conflitto (estate 1355 - estate 1358), che, dopo la nomina di Giovanni II Paleologo, marchese del Monferrato, a vicario imperiale per la città e il territorio di Pavia (3 giugno) e la partenza di Carlo IV dalla penisola, si estese anche all'Italia nordoccidentale, coinvolgendo direttamente, per effetto di un complesso meccanismo di azioni e di reazioni reciproche, oltre alle potenze maggiori e minori della pianura padano-veneta e della Liguria, pure altre forze presenti ed attive in Italia - quali la "grande compagnia", ora comandata dal conte Lando, e Firenze - e poi il Papato, l'Impero e il re d'Ungheria. Schierati Con gli avversari dei Visconti, l'E. e Ferrara furono, in quei tre anni, costantemente e attivamente presenti nel campo militare, partecipando validamente alle operazioni belliche che ebbero come teatro le regioni della Lombardia meridionale.

Già nel maggio del 1355 le forze estensi erano impegnate in un'offensiva nel Modenese, nel corso della quale giunsero a porre l'assedio al castello di Spezzano: affrontate finalmente da Bemabò Visconti il 4 giugno, furono costrette a levare il blocco e a ritirarsi. Impegnati nei mesi successivi nella difesa del territorio di Bologna, nel febbraio del 1356 - quando la guerra sì era ormaì estesa anche al Piemonte in seguito all'intervento, a fianco dei coalizzati, del marchese del Monferrato (15 dic. 1355) ed Asti era già caduta nella mani del Paleologo (23 genn. 1356) - gli armati estensi operavano, accanto a reparti gonzagheschi, in territorio di dominio visconteo in Emilia, dove giunsero a minacciare Reggio e Parma. Mentre nuovi fattori portavano ad un ulteriore ampliamento del conflitto in Piemonte - dove Filippo di Taranto, vicario della regina Giovanna in Provenza, era sceso con un corpo d'esercito con l'obiettivo di restaurare l'antico dominio angioino e dove Giovanni di Savoia Acaia si era affiancato a Giovanni Visconti nella lotta contro il Paleologo (giugno) - ed in Emilia -dove era intervenuto Marquardo di Randeck, vescovo di Augusta, recentemente creato dall'imperatore suo luogotenente e capitano generale in Italia, col compito di porsi alla testa della Lega (luglio) -, genti d'armi dell'E., del Gonzaga e di Giovanni di Oleggio attaccarono e sgominarono le truppe di Bernabò Visconti impegnate nell'assedio di Castelleone nel Cremonese. Contingenti estensi, sotto il comando di Dondazio Malvicini, parteciparono in autunno all'offensiva scatenata da Marquardo di Randeck, che portò gli eserciti dei coalizzati fin sotto Magenta, in territorio milanese. Coinvolti nella sconfitta di Casorate (13 novembre), nell'anno successivo gli Estensi si segnalarono nei vittoriosi scontri di Piumazzo (12 luglio) e di Sassuolo (21 luglio). Reparti comandati da un fratello dell'E., Niccolò, parteciparono alla campagna condotta dalla "grande compagnia" del conte Lando nei territori di dominio visconteo al di qua e al. di là del Ticino nell'inverno 1357-1358.

Del pari rilevante fu la parte svolta in quei tre anni dall'E. sul piano politicodiplomatico. Nell'estate e nell'autunno del 1355 il signore di Ferrara si fece promotore di un'azione diplomatica intesa a rinnovare e a rendere più forte l'antica coalizione antiviscontea.

Per raggiungere questo scopo l'E. giocò, da un lato, sul risentimento degli alleati minori nei confronti di Venezia, che senza consultarli aveva trattato e concluso con i Visconti la pace del 31 maggio; e, dall'altro, sul dissidio tra il marchese del Monferrato ed i signori di Milano, dissidio che si andava facendo sempre più grave. Fu così che, quando il governo della Serenissima invitò - come stabiliva uno degli articoli del trattato - i suoi alleati ad accedere alla pace con i Visconti, né l'E., né Francesco (I) da Carrara, né Cangrande (II) Della Scala, né Luigi (I) Gonzaga, né Giovanni Manfredi acconsentirono: rimasero in armi e si accordarono, anzi, per far entrare nella Lega, al posto di Venezia, due altri nemici dei Visconti, Giovanni di Oleggio e il marchese del Monferrato. 1 passi, subito tentati in queste direzioni, trovarono disponibile il solo Paleologo. Se ne tenne fuori - almeno per il momento - Giovanni di Oleggio, il quale, non riuscendo a trovare più validi sostenitori dell'E. e dell'Alidosi e preoccupato per l'offensiva condotta dai signori di Milano nel Modenese, dove avevano costretto i signori di Mirandola a capitolare, dopo la morte di Matteo (II) Visconti (20 settembre) si era acconciato ad avviare con Bernabò Visconti, succeduto al fratello scomparso nel governo dei domini emiliani della famiglia, trattative in vista di un formale accordo di pace. I negoziati - sull'uno e sull'altro versante - si protrassero per tutto il mese successivo. I termini dell'accordo tra Giovanni di Oleggio e Bernabò furono infatti approvati, a Bologna, dal Consiglio dei quattrocento il 29 ottobre. Essi prevedevano che Giovanni di Oleggio mantenesse il governo della città, pagasse un tributo di 16.000 fiorini all'anno ed accettasse, con la protezione militare di Bernabò, la presenza di un podestà nominato dai Visconti.

Il 30 ottobre, auspice l'E., proprio a Ferrara venne firmato il nuovo trattato di alleanza fra le potenze avverse ai Visconti: entrarono allora a far parte della coalizione anche Giovanni (II) Paleologo ed il Comune di Pavia. Non vi aderì, invece, Cangrande (II) Della Scala, troppo amico di Venezia e in quel momento in non buoni rapporti con l'E. e con Luigi (I) Gonzaga, a causa del tentativo da essi compiuto, poco prima, di impadronirsi di Ostiglia, città di dominio veronese. L'E. non interruppe, ad ogni modo, le sue amichevoli relazioni con Giovanni di Oleggio: neppure quando a Bologna entrò in carica Guglielmo Arimondi, il podestà nominato da Bernabò (1° dicembre), e fu pubblicata la pace tra Giovanni di Oleggio e i signori di Milano (2 dicembre). L'E. dovette anzi continuare a trattare con lui in vista di una sua adesione alla Lega. L'intesa, in linea di massima, doveva essere già stata raggiunta agli inizi dell'anno successivo, se il 10 febbr. 1356 Luigi (I) Gonzaga ed i suoi figli Guido, Filippino e Feltrino costituirono Franceschino del Playa loro procuratore per "far lega" con l'E. e con Giovanni di Oleggio. Il 25 di quello stesso mese i procuratori dell'E. e dei Gonzaga concordarono, a Bologna, le clausole dell'alleanza col signore di quella città: il nuovo accordo, che comportava precisi impegni sul piano economico e su quello militare, costituì un'integrazione del trattato di Ferrara del 29 ottobre precedente.

La decisione presa da Giovanni di Oleggio di aderire alla coalizione antiviscontea non fu, con ogni probabilità, influenzata in alcun modo dalla scoperta, avvenuta pochi giorni prima, della congiura ordita, tra gli altri, da Enrico di Castruccio Castracani e dallo stesso podestà Guglielmo Arimondi, congiura che avrebbe dovuto porre fine, l'11 febbraio, alla sua vita e al regime da lui instaurato a Bologna, e riportare quest'ultinia sotto il dominio dei signori di Milano. La scoperta della congiura, tutt'al più, offrì a Giovanni di Oleggio un utile pretesto per soffocare le opposizioni interne e per denunziare il recente trattato di pace con i Visconti.

Il 13 febbr. 1356 Carlo IV., in viaggio verso l'Ungheria, dove si recava per incontrarsi con il re Ludovico I, inviò all'E., da Brno, una lettera per informarlo che, al ritorno, avrebbe mandato un suo rappresentante ai Visconti con l'ordine di osservare la pace e di deferire alla Curia imperiale la soluzione delle vertenze in atto: se non fosse stato obbedito, avrebbe preso le misure del caso. Questa lettera è testimonianza non solo dell'ampiezza dei contatti diplomatici stabiliti dal signore di Ferrara, ma anche dei buoni rapporti che lo legavano ancora in quel periodo a Carlo IV. Del resto l'E. aveva tutto l'interesse a mantenere buone relazioni con l'imperatore e a rimanere fedele - almeno per il momento - alla sua persona e alla sua linea di condotta. Né a lui né ai suoi alleatì più stretti doveva infatti sfuggire che la politica italiana del sovrano lussemburghese, mirante da un lato a deprimere la potenza di Venezia e dall'altro a ridimensionare il ruolo dei Visconti, non poteva non tornare a loro vantaggio. Questo spiega perché nell'estate del 1356 l'E. si sia affrettato - e come lui fecero Ugolino Gonzaga e Giovanni di Oleggio - ad inviare suoi oratori al re Ludovico I d'Ungheria quando questi, sceso in guerra contro Venezia per la questione dalmata, era entrato in Italia e, conquistate Serravalle, Conegliano ed Asolo, aveva posto, il 13 luglio, l'assedio a Treviso. Il sovrano ungherese agiva in quel momento senza dubbio col consenso dell'imperatore, che lo aveva infatti creato suo vicario generale. Analoga volontà di rimanere fedele - per interesse - alla linea polìtica imperiale dovette essere alla base delle considerazioni che spinsero l'E. a schierarsi, insieme con i signori di Bologna e di Mantova, accanto a Marquardo di Randeck quando questi, nominato da Carlo IV suo luogotenente e capitano generale in Italia, si pose di fatto alla guida della lotta contro i Visconti.

D'altra parte l'E. non esitò a ricercare altrove - anche se a costo dell'assunzione di ulteriori, pesanti impegni d'ordine militare e finanziario - adesioni ed appoggi alla Lega, ogni volta che ciò fu consentito dal modificarsi dei rapporti tra le forze in campo: come avvenne quando, ribellatasi Genova ai Visconti (15 nov. 1356) e riportato al potere Simone Boccanegra come doge e come difensore del popolo, la città ligure fu convinta ad affiancarsi con un formale trattato ai coalizzati (6 genn. 1357); come avvenne quando, scaduto il contratto che li legava alla coalizione (15 apr. 1367), il conte Lando e i suoi mercenari, ingaggiati da Bernabò Visconti, furono inviati in Rqmagna a sostenere Francesco Ordelaffi, assediato in Forlì dall'Albornoz, e l'E., i Gonzaga, Giovanni di Oleggio, il marchese del Monferrato, il doge di Genova presero contatto col cardinal legato e ne sollecitarono l'appoggio, ottenendo che egli si costituisse con loro in una nuova lega con lo scopo di combattere appunto la "grande compagnia" ed il suo condottiero (Cesena, 28 giugno 1357); come avvenne, infine, sullo scorcio dell'estate di quello stesso 1357. quando i coalizzati ottennero nuovamente di avere al loro servizio il conte Lando.

Allorché da ultimo gli apparve chiaro che i coalizzati, ad onta del loro impegno e dei loro sacrifici, non erano riusciti almeno sullo scacchiere orientale - a piegare il loro avversario e che i danni, le devastazioni, i lutti di tre anni di guerra non erano proporzionali ai vantaggi ottenuti, l'E. non esitò a trarne, sul piano politico, le debite conseguenze. Nonostante il lusinghiero andamento della campagna dell'inverno 1357-1358, aprì infatti negoziati con in signori di Milano in vista di una sua uscita, anche separata, dal conflitto. Le trattative procedettero speditamente: l'8 marzo 1358 giunsero a Ferrara i plenipotenziari dei Visconti. La delegazione era composta da personalità di rilievo: il cancelliere Pietro Fasolino, Alpinolo da Casate, Ermanno Spinola. Essi conclusero con l'E. una tregua, che lasciò isolati i Gonzaga e Giovanni di Oleggio.

L'esempio venne seguito. Si moltiplicarono i contatti tra le parti in lotta e si intensificò l'attività diplomatica. Già nel marzo inoltrato i rappresentanti dei coalizzati, tra cui Ugolino Gonzaga in persona, e ambasciatori dei Visconti si incontravano a Bologna per predisporre i lavori della conferenza di pace, che fu convocata a Milano per il 6 aprile e alla quale intervennero anche il burgravio di Magdeburgo Burcardo, inviato dell'imperatore Carlo IV, capo nominale della Lega, e i rappresentanti del marchese del Monferrato, del doge di Genova e di quello di Venezia, del conte di Savoia.

Il trattato di pace fu firmato, sempre a Milano, l'8 giugno 1358. Esso prevedeva L in linea generale - la restaurazione dello status quo ante e il ritorno all'assetto politico-territoriale precedente all'apertura delle ostilità, da raggiungere mediante la restituzione, da parte degli antichi belligeranti, delle conquiste eventualmente fatte. Si fece eccezione per Asti, Ceva e il Pavese (la soluzione delle controversie relative al loro possesso, che opponevano il Visconti al Paleologo, fu demandata all'arbitrato dell'imperatore), per Genova (che fu riconosciuta libera) e per Bologna (nel trattato si taceva circa le cause del conflitto tra Giovanni di Oleggio ed i Visconti). I firmatari si impegnavano, tra l'altro, a prestarsi vicendevole sostegno contro le violenze delle compagnie di ventura.

In forza del trattato di Milano, dunque, l'E. dovette restituire al cugino Francesco (II) d'Este - il quale aveva militato nel campo avversario - i beni mobili ed immobili, che gli aveva confiscato per alto tradimento; ma i Pio, i Boiardo, i Vico, i Montecuccoli e altre famiglie nobili del Modenese - che si erano schierate con i Visconti - dovettero restituire all'E., pena l'esclusione dalla pace, tutti i castelli e i luoghi di dominio estense da essi occupati durante il conflitto.

La tregua separata dell'8 marzo e, dovuto corollario di essa, la piena adesione alla pace di Milano dell'8 giugno furono solo le prime conseguenze della svolta impressa dal signore di Ferrara alla propria politica estera forse anche in seguito ad una più attenta e matura considerazione dei contraccolpi, che l'interazione delle forze allora in gioco poteva avere sugli equilibri interni e sullo stesso destino del complesso, ancora abbastanza eterogeneo del resto, dei domini ereditari della sua famiglia. Alla linea di scontro frontale con i Visconti e di collaborazione a oltranza offerta ai nemici di questi ultimi, chiunque essi fossero, l'E. sostituì infatti nei tre anni che seguirono - gli ultimi del suo governo e della sua vita -una linea di amicizia e di cauto sostegno nei confronti dei signori di Milano, cercando tuttavia di evitare - finché ciò fu possibile - coinvolgimenti diretti nelle azioni militari da essi promosse e drastiche rotture nei confronti degli antichi alleati, della Chiesa e dello stesso imperatore.

Nell'estate del 1358 l'E. inviò a Milano suoi rappresentanti, i quali, insieme con i procuratori di Giovanni di Oleggio (il quale aveva la rappresentanza del marchese del Monferrato e di Pavia), dei Gonzaga e di Simone Boccanegra, discussero con Bernabò Visconti i termini di una nuova lega che, come stabilito dalla pace dell'8 giugno, aveva come scopo la lotta contro le compagnie di ventura. Il trattato relativo venne firmato il 22 agosto.

La lega era perpetua, la taglia, di 3.000 barbute e di 300 fanti, di cui una metà fornita dai soli Visconti. Alla coalizione non aderì il marchese del Monferrato, diviso dai signori di Milano dalla questione del possesso di Asti e di Ceva.

Nell'ottobre l'E. fu tra i principi e i signori italiani e non italiani convenuti a Milano per partecipare ai festeggiamenti per il battesimo di Niccolò Visconti, figlio di Bernabò: in quell'occasione egli fece dono di un regalo del valore di 10.000 fiorini. Il 1° novembre, sempre a Milano, strinse con i Visconti un formale trattato di amicizia, unione, fratellanza, in forza del quale il signore di Ferrara ed i signori di Milano si impegnavano a prestarsi vicendevole appoggio militare in caso di attacchi nemici. Aumentata la tensione tra i Visconti, ed il marchese del Monferrato l'E. - come del resto fecero anche i Gonzaga e, sia pure dopo qualche incertezza, lo stesso Giovanni di Oleggio - lasciò cadere gli inviti dell'imperatore a ricostituire una lega in funzione antiviscontea, convinto che da essa avrebbe potuto trarre vantaggio solo il Paleologo. Aveva dunque già deciso allora quale sarebbe stata la sua scelta di campo nel conflitto che si profilava inevitabile. Difatti, quando i signori di Milano nell'aprile del successivo 1359 ruppero in guerra contro l'antagonista, investendo con ingenti forze Pavia ed il marchese si assicurò il servizio della "grande compagnia" e del conte Lando, l'E. nell'estate inviò truppe a sostegno di Bernabò. E come lui fecero anche gli altri firmatari della lega del 22 ag. 1358, Ugolino Gonzaga e Giovanni Oleggio, e i da Carrara. Sostegno e aiuto militare fornì ancora l'E a Bernabò Visconti quando questi, dopo la resa (13 novembre) e l'occupazione di Pavia (15 novembre), si volse agli inizi di dicembre con le sue forze, attraversando il territorio modenese, contro Bologna, deciso a regolare una volta per tutte i conti con Giovanni di Oleggio.

Nel convulso intrecciarsi delle azioni militari e delle iniziative diplomatiche, che contrassegnò gli anni 1360 e 1361 e che vide prima il passaggio, in forma perpetua e totale, senza condizioni e senza limiti, di Bologna sotto la sovranità diretta della Chiesa (15 marzo 1360) e poi lo scontro frontale tra il papa e i Visconti col conseguente coinvolgimento delle potenze italiane e non italiane, l'E. assunse invece una posizione più sfumata, preferendo intervenire piuttosto nel campo delle manovre e dei compromessi politici. In questo senso vanno viste e interpretate sia la conferma, ottenuta nel 1360 per sé e per i fratelli Ugo, Alberto (V) e Niccolò (II), del vicariato apostolico in temporalibus su Ferrara per altri sette anni, sia la sua candidatura al vicariato apostolico sulla città e sul territorio di Bologna: avanzata, quest'ultima, una prima volta nel corso del medesimo 1360, quando, ben vista dal papa, era poi caduta per l'opposizione dell'Albornoz, che riteneva il signore di Ferrara troppo amico dei Visconti, e riproposta agli inizi del 1361, quando, sollecitato da Innocenzo VI, il cardinal legato riprese le trattative offrendo all'E. il vicariato della città emiliana per dieci anni, a condizioni per altro assai onerose (pagamento di un censo annuo di 24-000 fiorini; mantenimento di 10.000 barbut e per la lotta contro i Visconti e la riconquista di Lugo; consegna del figlio Obizzo [IV] come ostaggio a garanzia dell'osservanza dei patti).

L'E. morì a Ferrara, nella notte fra il 2 eil 3 nov. 1361. Aveva da poco compiuto il suo ventiseiesimo anno. Lasciava la giovanissima moglie Beatrice da Camino e due figli ancora bambini: Verde, nata nel 1354, ed Obizzo (IV), di appena 5 anni.

Da Beatrice l'E. aveva avuto un altro figlìo, Niccolò, il primogenito, che gli era premorto. Per testamento lasciò al figlio Obizzo i beni allodiali e 5.000 fiorini, da distribuire ai poveri di Ferrara, di Modena, di Argenta, di Comacchio, di Adria e del Polesine di Rovigo.

Insieme con il padre Obizzo ed i fratelli Niccolò e Alberto, l'E. viene ricordato da Ludovico Ariosto nell'Orlandofurioso (III, 40) làdove narra come la fata Melissa avesse fatto conoscere per mezzo di arti magiche a Bradamante le ombre degli eroi che, discesi dalla fanciulla guerriera e da Ruggiero, sarebbero stati la gloria della casa d'Este.

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