LATTUADA, Alberto

Enciclopedia del Cinema (2003)

Lattuada, Alberto

Stefano Della Casa

Regista e sceneggiatore cinematografico, nato a Milano il 13 novembre 1914. Dotato di un robusto e plastico senso della costruzione visiva e di una raffinata cultura figurativa e letteraria, li ha trasferiti dapprima nei film legati allo stile 'calligrafico' e poi in impegnative produzioni internazionali ispirate a illustri modelli letterari. Nei primi anni del dopoguerra, in pieno clima neorealista, e nei decenni successivi, quand'era imperante la commedia all'italiana, L. ha saputo elaborare una sua cifra stilistica, riconoscibile soprattutto nel disegno dei caratteri femminili e in una sensibilità visuale attratta dall'ambiguo e insinuante fascino della bellezza adolescenziale, indagata nella sua spontaneità fisica e nelle sue ombre psicologiche.

Figlio del noto musicista Felice (attivo anche nel cinema, e che scrisse fino al 1952 le colonne sonore di quasi tutti i film del figlio), dopo la laurea in architettura (1938) pubblicò alcune prove letterarie e si dedicò per circa un decennio (1938-1948) alla fotografia; importante fu anche la sua opera di organizzatore culturale, che si concretizzò tra l'altro nella partecipazione alla fondazione della rivista "Corrente" (1938), su cui scrisse come critico d'arte. Mostrò subito un grande interesse per il cinema, che lo spinse a scrivere articoli e saggi su diverse riviste e ad animare, assieme a Gianni e Luigi Comencini, a Mario Ferrari e Renato Castellani, quel gruppo di collezionisti di oggetti cinematografici e di pellicole che avrebbe costituito il nucleo iniziale della Cineteca italiana. Fu aiuto regista di Mario Baffico e poi di Mario Soldati e Ferdinando Maria Poggioli, con i quali collaborò anche come sceneggiatore, inserendosi in quell'atmosfera stilistica che fu definita calligrafismo. In questo senso si rivelò cineasta elegante e colto fin dal suo esordio come regista, con Giacomo l'idealista (1943), e soprattutto con La freccia nel fianco (1945), film impregnato di decadentismo sensuale. Fin da questi inizi mostrò quella propensione per l'adattamento lette-rario che lo portò nel corso della sua lunga carriera a trasferire in immagini opere letterarie e teatrali di N. Machiavelli, E. De Marchi, G. D'Annunzio, G. Verga, L. Zuccoli, R. Bacchelli, V. Brancati, G. Berto, G. Piovene, P. Chiara, e dei prediletti narratori russi N.S. Gogol′, A.P. Čechov, A.S. Puškin, M.A. Bulgakov. Nel dopoguerra trasferì in chiave neorealista il suo talento visivo e il suo piglio narrativo, con due cupi drammi quali Il bandito (1946, con Amedeo Nazzari e Anna Magnani) e Senza pietà (1948, interpretato da Carla Del Poggio, sua moglie dal 1945), dove mostrò una padronanza dei ritmi e della messinscena che lo avvicinava alla solidità d'impianto del cinema americano. Questa attitudine di L., tra approfondimento psicologico e grande spettacolo, sembrò con il tempo realizzare una sintesi tra la perizia colta e artigianale del modo di girare all'italiana e lo stile hollywoodiano, e si manifestò anche in trasposizioni letterarie come Il delitto di Giovanni Episcopo (1947, con un drammatico Aldo Fabrizi) e Il mulino del Po (1949), entrambe sceneggiate da Federico Fellini e Tullio Pinelli, e nella sapiente orchestrazione d'ambiente di film che restituivano il grande realismo letterario russo del 19° sec., in chiave intimista, come nel caso di Il cappotto (1952, con Renato Rascel nella tragicomica parte del protagonista), o attraverso una narrazione di ampio respiro, come nel caso di La tempesta (1958) e La steppa (1963), in cui risaltò l'abilità di L. nel dirigere scene di massa e nel maneggiare grandi mezzi produttivi imponendo un'epica plasticità. Negli anni Cinquanta L. tenne a battesimo l'esordio di Fellini, dirigendo con lui la sfortunata commedia Luci del varietà (1950), amaro, divertito e malinconico ritratto dell'avanspettacolo di provincia. Il suo eclettismo lo condusse a dare un contributo significativo al configurarsi della 'commedia di costume', soprattutto nel felice risultato di La spiaggia (1954), che rendeva con graffiante umorismo l'ipocrisia del nuovo rito delle vacanze come segnale della trasformazione di massa dell'Italia di quegli anni. Con Anna (1951) e poi con La lupa (1953) L. approfondì la sua propensione al racconto della passionalità femminile e della sua sensualità, inserite nelle strutture forti del melodramma popolare e morbidamente fotografate da un occhio innamorato delle forme e del magnetismo di corpi sinuosi o prorompenti come quelli di May Britt o di Silvana Mangano (celebre il suo mambo in Anna). Guendalina (1957) e I dolci inganni (1960) testimoniano invece la sensibilità di L. nel ritrarre il gioco ambiguo della seduzione adolescenziale, con il suo innocente erotismo. Uno sguardo che ritornò poi in film come Lettere di una novizia (1960), L'amica (1969), Le farò da padre (1974), Così come sei (1978), La cicala (1980), allineando sullo schermo bellezze femminili diversamente acerbe o mature (da Pascale Petit a Clio Goldsmith a Therese Anne Savoy, da Lisa Gastoni a Virna Lisi), che si aggiunsero alle attrici adolescenti scoperte negli anni Cinquanta (da Jacqueline Sassard a Catherine Spaak). Durante gli anni Sessanta e Settanta la firma di L. divenne garanzia di un cinema colto ed elegante ma al contempo attento ai gusti del pubblico e ai codici dello spettacolo di largo consumo. Nacquero così film di genere ma anomali, come il giallo esistenzialista L'imprevisto (1961), la trasposizione della celebre commedia di N. Machiavelli La mandragola (1965), con un'inedita caratterizzazione di Totò come fra' Timoteo, il giallo-rosa Matchless (1967), la satira del gallismo italiano Don Giovanni in Sicilia (1967), l'accuratissima ricostruzione storica del primo conflitto mondiale Gospodica Doktor ‒ Špijunka bez imena (1969), intitolato in Italia Fräulein Doktor. Con Mafioso (1962) e poi con Venga a prendere il caffè… da noi (1970) L. ottenne un grande successo di pubblico calcando la mano nella direzione dell'umorismo nero e della satira sociale. Con Sono stato io (1973), Oh, Serafina! (1976) e Cuore di cane (1976) approfondì i toni paradossali, portandoli al limite del surreale. Al 1984 risale l'esperienza della superproduzione televisiva Cristoforo Colombo. Con il suo ultimo film, Una spina nel cuore (1986), è ritornato al racconto dei sentimenti e ai palpiti dell'adolescenza, indulgendo a qualche sdolcinatura nell'esasperazione melodrammatica. Dopo aver raccolto la maggior parte dei suoi racconti in Diario di un grande amatore (1980) e delle sue poesie in La massa (1982), ha raccontato le sue esperienze di fotografo in Alberto Lattuada fotografo (1982) e di regista in Il mio set (1995).

Bibliografia

E. Bruno, Lattuada o la proposta ambigua, Roma 1968.

J.J. Broher, Alberto Lattuada, Bruxelles 1971.

G. Turroni, Alberto Lattuada, Milano 1977.

C. Cosulich, I film di Alberto Lattuada, Roma 1985.

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