FAVORITI, Agostino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995)

FAVORITI, Agostino

Rosario Contarino

Nacque a Sarzana (La Spezia) il 3 genn. 1624 da Giacomo, giureconsulto, e da Elisabetta Casoni, entrambi esponenti di famiglie localmente eminenti.

Recatosi a Roma, il F. intraprese la carriera ecclesiastica, aiutato dagli influenti parenti materni (come il vescovo Filippo Casoni), che lo introdussero nell'ambiente della Curia pontificia, dove egli poi opererà per tutta la vita (vedi la seconda parte di questa voce).

Entrato al servizio del cardinale Fabio Chigi, il F. fu membro di alcune importanti accademie cittadine (degli Umoristi, dei Fantastici, degli Intrecciati), ma l'esercizio letterario non dovette essere che un episodio secondario nella sua vita, principalmente assorbita nei negotia della politica vaticana. A partire dal 1659 (come si desume dalla sua iscrizione funebre) ricoprì una serie di cariche (custode dell'Archivio del S. Collegio, cameriere d'onore, segretario del Concistoro), che gli conferirono un grande potere durante il pontificato di Alessandro VII (appunto il cardinale Chigi, eletto papa nel 1655), di cui "poteva essere considerato il braccio destro", grazie "alla sua grande capacità di lavoro e all'abilità stilistica, che gli permetteva di compilare una quantità enorme di memoriali e di Brevi in elegante latino" (Pastor, XIV, 2, p. 314). Segretario personale di Flavio Chigi, nipote del pontefice, il F. non mancò di far pesare la sua influenza anche nelle polemiche letterarie contemporanee, in cui l'eccesso di acredine e malevolenza gli diede in quel tempo una sgradevole notorietà.

Agli anni 1652-53 risale la rovente polemica tra il F. da un lato e un artista "scomodo" come Salvator Rosa dall'altro, insorto a difesa della tragedia Costantino dell'amico G. B. Ghirardelli, oggetto di aspre critiche e macchinazioni. In precedenza estimatore del pittore napoletano, di cui aveva lodato l'abilità, recitando nell'Accademia degli Intrecciati "un sonetto per un quadro di battaglie" (Carpano, p. 39), il F. fu in seguito acerrimo nemico del Rosa, fino ad arrivare a negargli la paternità delle Satire. In una Oppositione composta a caldo subito dopo la prima rappresentazione del Costantino, di cui il Rosa aveva disegnato il frontespizio, il F. criticava la scelta della prosa al posto del verso; e proprio per essere diventato il "campion maggiore" dei detrattori della nuova tragedia, il Rosa lo ritrasse nella satira quinta, L'invidia, nella foggia dei critico astioso e implacabile, che affila le armi della maldicenza ("Ma non dimora a i libri ogn'hor vicino / perch'ei l'intenda. In Parion va solo / per imparare a pratticar Pasquino": vv. 415-417), esercitandosi nelle trame più intriganti e calunniose: "Fur sempre di costui l'usate prove / tender lacci, et insidie a l'altrui fama / con invenzioni inusitate, e nove" (vv. 427-429).

Il Rosa indicava il F. sotto lo pseudonimo di Schiribandolo, lo stesso nom de plume che questi aveva adoperato nella sua Oppositione, lasciando anche trasparire la vera identità del suo bersaglio con un trasversale svelamento onomastico ("anzi da tutti / quest'infami plebei son favoriti", vv. 440-441). Sinceramente commosso per la morte del Ghirardelli ("che m'avveggio ben io che invan ti nomo", v. 456), che non era riuscito a restaurare la sua fama, nonostante una faticosa e complicata Difesa, al Rosa non resta che sfogarsi contro questo "gran sonaglio", persecutore dell'altrui fama, che conferma con il suo livore "l'antipatia tra il serpe e il rosignuolo" (v. 420). Oggetto di ludibrio e caricatura per tutta una serie di difetti fisici' ("spalle larghe, e alquanto gobbe", l'impudicizia dipinta sulla faccia butterata, "i denti radi", "gli occhi viperini") e morali (soprattutto l'ignoranza), il F. viene forse beffeggiato anche nella satira sesta (Babilonia), se alle sue poesie latine il Rosa pensava quando lamentava (vv. 476-477) che si udissero "in aurei Carmi / cantar somari".

Al di fuori della polemica con il Rosa, il F. fu personaggio assai stimato, e nella corte romana godette di un credito e di un prestigio così grandi, che gli valsero nel 1666 un canonicato nella basilica di S. Maria Maggiore; il breve periodo di disgrazia, a cui accennano i suoi versi ("Longe a sodalium atque solis aspectu / vitam in tenebris ac timore ducebam": Septem illustrium…, 1672 p. 69), fu la conseguenza della ritorsione dell'ambasciatore francese, che volle punirlo per avere scritto un sonetto ingiurioso verso Luigi XIV, in conflitto con Roma su vari fronti (dalla faccenda delle guardie corse alla successione del ducato di Castro, ecc.). Assecondando l'inclinazione di Alessandro VII verso gli studi, il F. poté farsi apprezzare oltre che come uomo dell'apparato burocratico e diplomatico, anche come interlocutore privilegiato in questioni attinenti le arti e le lettere. Amico di uomini come Leone Allacci e Stefano Gradi, come il cardinale Sforza Pallavicino e il vescovo Ferdinando di Fürstenberg, nonché di Cristina di Svezia, di cui fu consulente numismatico e cerimonioso cantore, viene annoverato tra gli esponenti della piccola cerchia di letterati della Pleias Alexandrina, che si riuniva attorno ad Alessandro VII, amante dei piaceri della conversazione umanistica nelle villeggiature estive di Castel Gandolfo. In effetti il F. concepì il suo impegno artistico come otium e intervallo, come dilettosa pausa nel mezzo di uffici e cure ("Nam mihi, dum dilecta tenent nos otia ruris / ludere quae vellem magnus permisit Apollo, / et cantare levi levia argumenta cicuta": ibid., p. 113), a cui si ritorna corroborati dopo ameni soggiorni in Parnaso: "Haec loca carmen amant et mens post ocia ruris / acrior ad curas officiunique redit" (ibid., p. 132).

Legati a questa poetica della letteratura come piacevole intrattenimento sono i carmi latini della silloge Septem illustrium virorum poemata (Antverpiae 1662, poi Amstelodami 1672), che raccoglie i versi di queste horae subsecivae del F. e di altri poeti-dilettanti dell'ambiente alessandrino (F. di Fürstenberg, S. Gradi, ecc.). Anche se il Crescimbeni (p. 208) riporta un sonetto in volgare dedicato al priore di Capua G. Bichi, che si accingeva (nel 1657) a partire per l'impresa di Creta ("Guerrier di Dio che con possente mano"), ed accenna ad altre liriche italiane, il F. è conosciuto quasi esclusivamente per la sua produzione poetica in latino, dove poteva travasare la sua perizia linguistica affinata dalle lunghe cure di cancelleria. Grande è certo la sua dimestichezza con i classici, dei quali padroneggia, oltre che luoghi e temi, anche i metri (e non solo i più usuali e ricorrenti) e i generi (dall'egloga all'elegia all'epistola in versi); ma la sua lirica è troppo scolastica e asservita a situazioni e modelli scontati, per cui le citazioni mancano di vigore inventivo e si perdono nel calco, nel manierismo, nel furto troppo smaccato. In un clima di incipiente Arcadia, Virgilio "bucolico" è il poeta più saccheggiato, e a lui rimandano le molte egloghe dialogate, in cui dignitari e prelati si abbigliano a pastori, ed ancora le lodi "auguátee" rivolte ad Alessandro VII, il vero protagonista della raccolta, ora celebrato per le sue più fauste ricorrenze (di nascita e di cursus honorum), ora magnificato per l'avvedutezza politica sia interna sia estera; ma non mancano certo gli altri modelli (da Orazio a Tibullo a Ovidio) del classicismo aureo, il più adatto alle celebrazioni e all'elogio.

Questa impronta cortigiana, che chiude l'encomio nello spazio piccolo della "camera" o della "villa", si avverte nella scelta degli argomenti, che riguardano "occasioni" e "personaggi" della vita curiale. Il F. ci tramanda il gusto di una Roma tardobarocca, fervida di iniziative artistiche, ma incline (attraverso lapidi e iscrizioni innumerevoli) alla sua autocelebrazione: è la Roma berniniana delle fontane e dei grandi palazzi e giardini prelatizi quella che egli fa intravedere, avvolgendo di reminiscenze mitico-erudite i luoghi (soprattutto le grandi ville attorno al lago Albano) della dimora estiva di papi e cardinali. Ma l'invenzione attinge sempre le sue occasioni dall'operosa cronaca in cui il F. si muoveva; ed ora attiene a privati eventi, ora nasce da un fatto pubblico (la difficile missione diplomatica di Flavio Chigi in Francia), trasfigurato però dalla promessa di piaceri odeporici; ora riguarda invece i fatti della storia contemporanea (con particolare sensibilità verso il tema della minaccia turca). Da politico impegnato sul fronte della grande diplomazia, il F. dedicò versi preoccupati al dilagare delle forze ottomane nelle terre della Cristianità. E infatti egli assunse dapprima i toni dell'Orazio civile, per descrivere i venti di guerra che si addensavano nelle pianure d'Ungheria ("Qui nunc Pannoniam ferro populatur et igni, / ultimaque Europae fata minatur Arabs ... / terga dabit turpia vulneribus": Septem illustrium…, 1672, p. 134), e più tardi, quando il tentativo di Clemente IX di arginare con una coalizione cristiana l'invasione di Creta si concluse infelicemente con la caduta dell'isola il 6 sett. 1669, ripiegò nell'epicedio e nella pubblica commemorazione.

Incaricato di pronunciare l'orazione funebre di Alessandro VII nella basilica vaticana (1667)., grazie certo alla sua reputazione di latinista, il F. poté esercitare le sue collaudate capacità diplomatiche anche durante i pontificati di Clemente IX (che egualmente fu incaricato di commemorare nel 1669), Clemente X e Innocenzo XI, il quale ultimo gli attribuì importanti mansioni nella disputa sulle regalie tra la Chiesa e Luigi XIV. Nel 1677 fu infatti nominato segretario della congregazione speciale per la questione delle Regalie, un ufficio che lo vide di nuovo fiero oppositore delle pretese del sovrano francese, allora sostenuto dal clero gallicano. Autore della Lettera di un curiale di Roma ad un suo amico in Parigi (Roma 1680), in cui si precisava la linea della Chiesa in ordine all'elezione della badessa delle monache di S.Agostino di Charonne, che era stato il casus immediato della vertenza tra Parigi e il Vaticano, egli non esitò ad appoggiare contro Luigi XIV i giansenisti; e ciò gli procurò il dileggio di mordaci pasquinate, ma soprattutto il rischio del sospetto confessionale, che i Francesi tuttavia non poterono trasformare in capo d'imputazione.

Amico di M. de Molinos, di cui in un primo momento era riuscito ad evitare l'arresto, il F. non poté fregiarsi della porpora cardinalizia, a cui pare fosse già destinato, per la morte repentina, avvenuta il 13 nov. 1682. Fu sepolto nella basilica di S. Maria Maggiore e onorato con un sontuoso monumento, per il quale l'amico F. di Fürstenberg dettò l'epigrafe.

La maggior parte delle opere del F. è contenuta nella raccolta Septem illustrium virorum poemata (Amstelodami 1672, pp. 43-172), che, oltre alla produzione lirica, contiene anche le due orazioni funebri (Oratio in funere Alexandri VII, pp. 157-165; Oratio in funere Clementis IX, pp. 166-172), in precedenza pubblicate a parte (a Roma nel 1667 e nel 1669, rispettivamente) e la Virginii Cesarini vita (pp. 421-438). Le lettere a B. Beverini sono state raccolte da G. Sforza (Lettere inedite di A. Favoriti, Lucca 1877). Inedite invece le lettere del periodo marzo-dicembre 1668 custodite nella Biblioteca Angelica di Roma.

Sacerdote dal 1658, il F. non tardò a manifestare quei sentimenti rigoristi e antigallicani che gli attirarono per tutta la vita l'astio della fazione filogesuita, guidata dal cardinale titolare del S. Ufficio F. Albizzi: causa insieme con l'azione dell'ambasciata francese, del suo mancato avanzamento nella carriera ecclesiastica, compresa la non concessione della porpora.

La disputa iniziò con la contestata revoca dei privilegi all'università di Lovanio, accusata di filogiansenismo, e la missione a Roma dei suoi delegati, con il capo dei quali, l'agostiniano belga C. Lupus, reggente dell'ateneo, il F. intrattenne una lunga ed amichevole corrispondenza. Egli, pur sostenendo la tesi papale che esortava i lovanisti ad una maggiore moderazione, tramite il Lupus entrò in relazione con i più noti autori rigoristi, compresi taluni sospetti di giansenismo. Di conseguenza, dopo la morte di Alessandro VII, nel 1669 fu costretto a rinunciare alla segreteria del S. Collegio a causa della "tempesta" sollevata contro di lui dai cardinali filogesuiti. Tuttavia conservò fino alla morte quella della congregazione concistoriale, insieme con la benevolenza dei pontefici seguenti fino a Innocenzo XI, il cui ascetismo aveva molti punti di contatto con l'antilassismo del F. e del partito avverso ai gesuiti.

Il nuovo papa non aveva fiducia nel proprio segretario di Stato A. Cibo e per bilanciare le tendenze filofrancesi di costui nominò il F., nel 1676, segretario delle Cifre. Questo grado gli permise di organizzare il lavoro della segreteria di Stato in modo da lasciare al Cibo solo la firma finale dei documenti, preparati da lui, e gestire in prima persona la corrispondenza con le nunziature, secondo le idee degli "zelanti", che lo consideravano il loro capo. Nel 1677, con il conferimento della segreteria della congregazione delle Regalie, il F. potè disporre dell'arma principale del papa nella contesa con Luigi XIV sull'estensione dei diritti di regalia in Francia.

L'aggravarsi di tale scontro intensificò i legami del F. con i rigoristi francesi più vicini a Port-Royal. Egli giudicò positivamente la loro ostilità alle pretese reali mentre essi, d'altro canto, speravano di indurre Roma ad assumere un atteggiamento più favorevole nei confronti delle dottrine gianseniste, presentandole da una prospettiva antiregalistica. Così, ancora nel 1677, il F. ricevette a Roma S.-J. du Cambout de Pontchâteau, inviato del vescovo di Alet N. Pavillon e insieme con lui presentò al papa il problema delle regalie secondo le istanze gianseniste. Per mantenere i contatti con loro e con altri giansenisti olandesi, tra i quali J. Neercassel, utilizzò suo cugino Lorenzo Casoni, che introdusse nella carriera ecclesiastica col proposito di farne il proprio erede e continuatore.

Risultati di questa convergenza di interessi furono la condanna, nel 1679, delle 65 proposizioni morali lassiste denunciate dall'università di Lovanio, la protezione che, finché egli visse, fece accordare agli Specimina moralia di Gilles Gabrielis, l'impossibilità da parte francese di far passare la tesi che tutti i nemici del diritto di regalia fossero giansenisti e la traduzione italiana - a spese del F. - del Traité général de la Régale (Amsterdam 1681) di L.-P. du Vaucel. Ma non bastarono a scalfire la più volte ribadita condanna del giansenismo.

Il F. del resto, come ha provato L. Ceyssens, non si espresse mai in modo chiaro a favore di tale dottrina: piuttosto distingueva tra chi dichiaratamente professava le tesi di Giansenio e chi veniva reputato giansenista solo dalle accuse dei filogesuiti, condannando, quindi, i primi e cercando di proteggere i secondi: "Giansenisti sono quelli veramente, i quali non consentono alla condannatione delle cinque propositioni del libro di Cornelio Giansenio. Gli altri, che le conoscono per eretiche, non possono meritar questa taccia, quantunque in altre materie tengono opinioni controverse" (cit. in Sources... 1680-82, II, p. IX). Solo l'Albizzi accusò apertamente il F. di giansenismo, senza riuscire a dimostrarlo, e nemmeno i Francesi (quando scoprirono, nel 1680, che le lettere del Cibo loro ostili erano opera sua) ebbero prove credibili per screditarlo. Il F. fu invece un difensore della Curia, che, come Innocenzo XI, sperava di poter riformare in senso rigorista, e un antigallicano. Quanto ai gesuiti, stimava il loro fondatore ma diceva che l'Ordine, per le troppe frequentazioni con i principi, aveva perduto la saldezza morale dei suoi inizi. Tutto ciò si nota anche dal lento distacco del F. dalle posizioni estremiste, a partire dal 1680, dapprima, per ragioni politiche, nella questione delle regalie al fine di non arrivare al completo blocco delle trattative, poi nei rapporti con i lovanisti, raffreddati allorché costoro non risposero con l'unanimità da lui voluta all'invito di protestare contro le decisioni dell'assemblea del clero francese, e infine nell'evoluzione della propria spiritualità che, per l'influenza del Molinos, con gli anni assunse una crescente connotazione quietista.

Contemporaneamente ai problemi di fede ed ai rapporti con la Francia, il F. si occupò a lungo del progetto di alleanza contro i Turchi portato avanti da Innocenzo XI. Un tema per lui tanto importante da indurlo a sacrificare parte del suo rigorismo nel tentativo di allargare il fronte antiottomano. Cercò di appoggiare i Veneziani durante e dopo la guerra di Candia e promise alla Repubblica la concessione di alcune decime sugli ecclesiastici per la fortificazione di Corfù, ma non volle prendere in considerazione la richiesta di soppressione di alcuni Ordini religiosi avanzata dall'ambasciatore A. Barbaro. Successivamente alla pace di Nimega, nel 1679, le circostanze gli parvero propizie e le sue lettere con il nunzio a Vienna F. Buonvisi (di cui sosterrà la nomina cardinalizia nel 1681) ne mostrano l'attenzione alla politica imperiale e all'entrata dei Polacchi nell'alleanza, anche se la morte gli impedirà di assistere all'assedio di Vienna.

Nell'autunno del 1682 il F. attendeva la visita dei Vaucel, inviato a Roma da A. Arnauld. per concertare ancora una volta un'azione antiregalistica. Non poté riceverlo perché, colto da febbri all'inizio di novembre, morì tre giorni dopo l'arrivo in città del francese, assistito dal Molinos.

Aveva espresso nel testamento il desiderio che il papa nominasse al suo posto il cugino Casoni ed Innocenzo XI, a riprova della fiducia accordatagli, lo adempì immediatamente.

La memoria del F. ebbe delle traversie. Quasi santificata dagli amici rigoristi, venne invece dileggiata dagli avversari al punto che, ancora nel 1684, il cardinale C. d'Estrées, fratello dell'ambasciatore francese, ideava un piano, poi non attuato, per distruggerne la tomba. Tormentate anche le vicende del suo epistolario: ceduto al Casoni, disperso dopo la sua morte e recuperato solo in parte dal Garampi, tuttora risulta solo parzialmente riordinato nel fondo Carte Favoriti-Casoni dell'Archivio segreto Vaticano. Altre lettere del F., oltre a quelle conservate nella Biblioteca Angelica di Roma dirette a L. Holsten, F. Barberini, L. Allacci sono custodite nella Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat. 6463, ff. 124-143; 6499, ff. 8-11; 6487, ff. 71-72; 6499, ff. 12-28; Vat. lat. 13137, 14273-75 e nella Casanatense. di Roma (mss. 367 e 623). L'Archivio di Stato di Lucca (Arch. Buonvisi, II) conserva invece le lettere scambiate col Buonvisi (per le quali si ved. Inventario del R. Archivio di Stato di Lucca, V, a cura di E. Lazzareschi, Pescia 1946, ad Indicem). Una buona parte della corrispondenza del F. è stata infine pubblicata dal Ceyssens nei suoi studi sul giansenismo.

D. Busolini

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D. Busolini

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