AGGRESSIVITA

XXI Secolo (2010)

Aggressività

Carlo Caltagirone

Il termine aggressività riveste una pluralità di significati e include fenomeni molto diversi l’uno dall’altro, quali comportamenti, risposte emotive e processi cognitivi. Esso deriva dal latino adgredior che letteralmente significa «avvicinarsi», ma che può anche essere inteso come «assalire», «accusare», «intraprendere», «cominciare». Conformemente alla sua radice etimologica, questo sostantivo ha conservato una notevole ricchezza di significati, tanto da essere definito una parola valigia che spazia da una connotazione decisamente negativa a una decisamente positiva, in termini di affermazione, successo, vitalità, riuscita. Si possono così distinguere un’aggressività ostile, ossia un atto di aggressione che deriva da sentimenti di rabbia con l’intenzione di infliggere dolore, e un’aggressività strumentale, intesa come strumento o mezzo per raggiungere obiettivi e superare ostacoli. È necessario operare una fondamentale distinzione tra aggressività, intesa come spinta o predisposizione intrapsichica del soggetto, e comportamento aggressivo, oggettivo e visibile. Questa distinzione è sottolineata più esplicitamente nella lingua inglese, dove i due fenomeni sono indicati da due termini distinti, rispettivamente aggressiveness e aggression.

Aggressività e comportamento aggressivo

L’aggressività come atteggiamento costituisce un concetto né facilmente misurabile né facilmente analizzabile in maniera chiara e valida. Sull’aggressività di una persona, infatti, si possono solo formulare supposizioni e ipotesi, mentre sul comportamento aggressivo, ben visibile e osservabile, è assai più facile effettuare osservazioni attendibili. Nonostante ciò, anche la percezione dell’atto aggressivo è condizionata dai parametri del contesto in cui l’azione viene valutata, piuttosto che essere basata su criteri di valutazione condivisi e oggettivi.

Pure nel campo della psicologia sociale, le teorie distinguono tra acquisizione di risposte aggressive, o capacità, e la loro performance. Un esteso repertorio di capacità aggressive può essere acquisito, infatti, all’interno di condizioni emotivamente neutrali e non frustranti. Nel corso del processo di socializzazione, per es., i bambini sono esposti a una serie notevole di informazioni rilevanti per l’acquisizione di capacità aggressive. Attraverso l’osservazione della violenza cinematografica, televisiva, a scuola, a casa, il bambino nella nostra cultura apprende comportamenti potenzialmente aggressivi. Il comportamento aggressivo è spesso quello che ottiene le ricompense maggiori, poiché nella nostra società l’assertività, la forza, l’atteggiamento autoritario hanno molta presa e trovano spesso ricompense (su questo argomento v. A. Bandura, Aggression. A social learning analysis, 1973).

Le diverse impostazioni teoriche hanno prodotto definizioni del concetto di comportamento aggressivo piuttosto discordanti tra loro. Alcuni autori sostengono che, per definire una condotta come aggressiva, è necessario che essa sia stata attuata intenzionalmente, mentre altri considerano come aggressivi anche comportamenti messi in atto in modo accidentale. Molti studiosi ritengono aggressiva qualsiasi azione che provochi una stimolazione dolorosa a terzi, volutamente o meno, mettendo dunque in primo piano le conseguenze subite dalle vittime. In questa prospettiva, un comportamento può dirsi aggressivo qualora minacci o effettivamente determini un danno all’integrità fisica, psicologica o sociale di un’altra persona. L’etologo austriaco Irenäus Eibl-Eibesfeldt (Die Biologie des menschlichen Verhaltens, 1986, trad. it. Etologia umana, 1993) ritiene, invece, che si possano definire aggressive le azioni con cui una persona fa valere i propri interessi nonostante la resistenza opposta da altri individui. Analogamente, lo psicologo statunitense Saul Rosenzweig (1907-2004) pensava che l’aggressività fosse sostanzialmente autoaffermazione, ponendo così in evidenza una componente importante del comportamento aggressivo, ovvero la volontà di sottomettere, di predominare, di sconfiggere l’altro (cfr. il suo saggio Definizione e classificazione dell’aggressione con particolare riferimento al Picture-Frustration study come scala idiodinamica di personalità, in L’aggressività umana. Studi e ricerche, a cura di G.V. Caprara, P. Renzi, 1985). A sua volta questo punto di vista conduce a un’altra considerazione fondamentale: il fenomeno aggressivo implica una relazione tra un soggetto che agisce e aggredisce e uno che subisce e viene aggredito. Dunque, nella nozione di comportamento aggressivo è implicita una struttura relazionale. Nel caso in cui l’aggressività non sia eterodiretta, bensì autodiretta, il soggetto che aggredisce e il bersaglio di tale aggressione coincidono.

Ulteriori classificazioni riguardano la fenomenologia del comportamento aggressivo nell’uomo. Si può distinguere, per es., tra: a) reazione aggressiva, ossia la risposta dell’organismo a semplici stimoli esterni o interni che causano un’attivazione specifica che, a sua volta, sfocia in un comportamento impulsivo diretto contro le sorgenti degli stimoli nocivi; b) azione aggressiva, cioè un comportamento di maggiore complessità che si svolge in un più lungo arco di tempo; c) attività aggressiva, ovvero una forma di attività persistente e di lunga durata, determinata e valutata in relazione a modelli socioculturali di comportamento. La psicologa Grazia Attili e l’etologo Robert A. Hinde (Continuità e discontinuità del comportamento aggressivo nello sviluppo ontogenetico. Una riformulazione teorica, in L’aggressività umana. Studi e ricerche, a cura di G.V. Caprara, P. Renzi, 1985, pp. 9-32), invece, individuano tre componenti implicate nel comportamento aggressivo: a) l’aggressività in sé stessa, cioè una motivazione generale a essere violenti; b) l’assertività, ovvero una motivazione a innalzare il proprio stato e ad affermare sé stessi, in relazione a oggetti o scopi particolari; c) la specific acquisitiveness, ossia la motivazione ad acquisire oggetti particolari o a raggiungere scopi particolari.

Le modalità con cui si può esprimere il comportamento aggressivo nell’uomo possono essere: a) fisica/verbale (nella prima gli stimoli nocivi consistono in dolore o danno, mentre in quella verbale gli stimoli nocivi sono il rifiuto e la minaccia; l’aggressione verbale/fisica rappresenterebbe la componente strumentale o motoria del comportamento, mentre la rabbia, che implica l’arousal fisiologico e la preparazione all’aggressione, rappresenterebbe la componente affettiva del comportamento); b) diretta/indiretta (nella prima l’aggressore è facilmente identificato dalla vittima, mentre nella seconda no; questa eventualità può verificarsi se la vittima non è presente oppure se non è lei in prima persona a essere attaccata, bensì gli oggetti di sua proprietà, che possono essere rubati o danneggiati). Infine, l’aggressività umana può avere vari esiti e può essere caratterizzata da livelli variabili di intensità che vanno dalle relativamente innocue condotte aggressive della vita quotidiana alla violenza, fino alla crudeltà e alla volontà estrema di distruzione. Dunque, aggressione, violenza e distruttività umane possono essere pensate lungo un continuum immaginario e il comportamento violento e distruttivo deve essere inteso come radicalizzazione estrema del comportamento aggressivo. In altre parole, come sostiene lo psicologo statunitense Craig A. Anderson (2000), la violenza è sempre aggressività, ma molte forme di aggressività non sono violente.

Le teorie disposizionali

Nel tentativo di spiegare le cause del comportamento aggressivo umano, due approcci teorici hanno fornito impostazioni tanto interessanti quanto discordanti tra loro: l’approccio disposizionale e l’approccio situazionista. Ciascuno di essi propone una prospettiva all’interno della quale tentare di determinare se l’aggressività nell’uomo sia dovuta a fattori innati, biologici, oppure a fattori ambientali e relazionali.

L’approccio disposizionale individua le cause del comportamento aggressivo umano nei fattori biologici e genetici, per cui l’uomo sarebbe ‘per natura’ portato a comportarsi in modo aggressivo sotto l’azione, per lo più, di pulsioni e istinti; l’essere umano perciò sarebbe inevitabilmente destinato a comportarsi aggressivamente. Ricordiamo che già il filosofo inglese Thomas Hobbes affermava, nella sua opera principale Leviathan (1651), che gli esseri umani allo stato naturale sono esseri bruti e che solo attraverso il mantenimento dell’ordine sociale e della legge l’inclinazione all’aggressività può essere dominata e controllata. Un’ottica disposizionale radicale può quindi implicitamente arrivare a deresponsabilizzare gli autori di atti aggressivi, in quanto spinti da fattori ineluttabili e inevitabili. Teorizzazioni più relativiste, invece, affermano che tale propensione è presente solamente in alcuni individui. In altre parole, alcune persone, a causa di particolari tratti di personalità, di specifiche patologie mentali o di geni predisponenti, avrebbero la tendenza a essere più violente di altre. Tuttavia, a sua volta, questa concezione rischia di dividere in maniera manichea gli esseri umani in aggressivi e non, in buoni e cattivi.

L’approccio situazionista, al contrario, rifiuta l’idea di una ‘condanna biologica’ dell’uomo all’aggressività, postulando che siano le situazioni nelle quali le persone vengono a trovarsi a determinare stati e intenzioni, che a loro volta si tradurrebbero in comportamento aggressivo (su questo aspetto v. R. Nisbett, L. Ross, Human inference. Strategies and shortcomings of social judgment, 1980; trad. it. 1989). Inoltre, se da una parte le teorie disposizionali non sono riuscite a dimostrare un’attendibile regolarità comportamentale trans-situazionale, dall’altra i comportamentisti hanno in parte dimostrato che, attraverso la manipolazione dei fattori situazionali, è possibile controllare il comportamento e ridurre notevolmente l’incidenza delle differenze individuali.

A lungo la concezione innatista e deterministica ha prevalso su quella situazionista. Infatti, la nozione di istinto sembrava la più idonea per rendere conto dell’aggressività. Nella prima metà del Novecento lo sviluppo delle teorie comportamentiste distolse l’attenzione degli studiosi dalle determinanti genetiche e dagli assiomi dell’evoluzionismo, mettendo in risalto il ruolo degli stimoli esterni e delle influenze ambientali sul comportamento umano. In seguito, il rifiuto della visione innatista del comportamento aggressivo è stato sancito anche dalla Dichiarazione di Siviglia sulla violenza del 1986 (documento scientifico stilato per l’ONU da un gruppo internazionale di esperti sotto il patrocinio dell’UNESCO), in cui si asserisce esplicitamente che la biologia non condanna l’essere umano a comportarsi in maniera violenta. Più specificatamente, essa stabilisce che le affermazioni secondo cui l’uomo avrebbe ereditato la propensione alla guerra dai suoi progenitori o secondo cui il comportamento violento sarebbe geneticamente programmato sono prive di fondamenti scientifici. Analogamente, sono giudicate infondate le affermazioni per cui il comportamento aggressivo sarebbe stato selezionato nel corso dell’evoluzione della specie umana e quindi, in conclusione, che la guerra sia causata da un istinto o da una motivazione innati.

Teorie sull’origine biologica ed ereditaria dell’aggressività

I sostenitori dell’approccio disposizionale hanno tentato in diversi modi di dimostrare l’origine biologica ed ereditaria dell’aggressività. L’antropologo e psichiatra Cesare Lombroso (1835-1909) cercò di individuare e isolare i caratteri morfologici tipici dei soggetti criminali. Egli giunse a distinguere il ‘delinquente nato’, nella cui natura la criminalità sarebbe insita, dal ‘delinquente occasionale’, portato al delitto da fattori situazionali ed esperienziali. Se il primo era irrecuperabile, per il secondo era possibile intraprendere un percorso rieducativo in carcere. Lombroso studiò e misurò a lungo crani, facce, piedi, ma anche abitudini di vita di criminali famosi e di comuni carcerati, tentando di dimostrare scientificamente che il delinquente è caratterizzato da tratti subumani e da tendenze malvagie innate, in sostanza da un’organizzazione fisica e psichica diversa da quella degli altri esseri umani. Di conseguenza, l’analisi della costituzione fisica di una persona avrebbe potuto rivelare la sua eventuale predisposizione al comportamento criminale. Il naturalista inglese Francis Galton (1822-1911) rivolse una parte consistente dei suoi studi all’approfondimento del rapporto tra corredo genetico e comportamento aggressivo; egli, infatti, riteneva possibile individuare un gene responsabile di condotte violente o criminali. Anche lo psicologo tedesco naturalizzato britannico Hans Eysenck (1916-1997) è stato un convinto sostenitore dell’ereditarietà dei tratti di personalità. Egli identificò l’origine dell’aggressività in soggetti caratterizzati da alti livelli di ‘psicoticismo’, uno dei tre fattori base della personalità umana la cui origine sarebbe appunto genetica. Altri studiosi affermano che alcune dimensioni temperamentali, come il sensation seeking, e il relativo corredo di tratti, come l’impulsività, la mancanza di socializzazione e di responsabilità e l’aggressività, possono essere assimilati allo psicoticismo eysenckiano. Nessuna di queste ipotesi ha ricevuto finora una sufficiente o univoca validazione su base scientifica. Ben più moderna e di ampio respiro è la prospettiva inaugurata dalla sociobiologia, il cui principale rappresentante è il biologo statunitense Edward O. Wilson (n. 1929). Essa è incentrata, da una parte, sulle origini biologiche e genetiche del comportamento umano, pur con aperture alle influenze ambientali, e, dall’altra, sullo sforzo di un’integrazione interdisciplinare tra biologia, sociologia e scienze umane. Wilson sostiene che il patrimonio genetico, attraverso il controllo dell’ipotalamo e del sistema limbico, determina il temperamento, le preferenze in fatto di ruoli, le risposte emotive, i livelli di aggressività, così come alcune scelte morali. Uno dei postulati che discendono da tali affermazioni è che la guerra sarebbe un comportamento adattivo derivante da una primordiale tendenza alla diffusione del proprio patrimonio genetico. In aperta critica verso gli approcci freudiano ed etologico, Wilson ritiene che al modello idraulico ne andrebbe preferito uno che consideri il ruolo sia del potenziale genetico sia dell’apprendimento. In particolare, egli afferma che i moduli comportamentali aggressivi, specie i più complessi, vengono sì appresi, ma che l’essere umano è geneticamente predisposto a tale tipo di apprendimento. In altre parole, è la predisposizione a costruire un apparato culturale dell’aggressione a essere innata, non le specifiche forme di violenza organizzata. La cultura invece, secondo Wilson, modella e sancisce l’esercizio dell’aggressività all’interno del gruppo sociale.

Funzione adattiva dell’aggressività

Un ruolo fondamentale nel sottolineare l’origine biologica del comportamento aggressivo l’ha svolto l’etologia, scienza nata negli anni Trenta del 20° sec. e i cui esponenti più noti sono gli austriaci Konrad Lorenz (1903-1989) e Karl von Frisch (1886-1982) e l’olandese Nikolaas Tinbergen (1907-1988). L’etologia è sostanzialmente basata sui concetti evoluzionistici darwiniani secondo cui la competizione tra individui è funzionale alla sopravvivenza del più adatto. I più forti, o comunque i più adatti, prevalgono necessariamente sui più deboli secondo necessità biologica, e da questo postulato derivano i concetti di struggle for life e di survival of the fittest. In sostanza, in una prospettiva etologica, l’aggressività è considerata un istinto primario, trasmesso ereditariamente per favorire l’adattamento della specie e quindi finalizzato alla soddisfazione degli obiettivi della sopravvivenza, tra cui la difesa del territorio, la protezione della prole, l’organizzazione della scala gerarchica all’interno del gruppo sociale, il procacciamento del cibo, l’accoppiamento. Per questo Lorenz equiparava l’aggressività alla nutrizione, alla fuga e alla procreazione. Contrariamente alla guerra, l’aggressività è innata, in quanto indispensabile alla sopravvivenza (aggressività difensiva), all’evoluzione (aggressività adattiva) e alla maturazione dell’individuo (aggressività esplorativa). Quest’ultima consiste nella necessità, da parte del cucciolo o del bambino, di sperimentare l’ambiente e di mettersi alla prova, scoprendo in tal modo i limiti fino ai quali gli è possibile spingersi (su questo v. K. Lorenz, Das sogenannte Böse. Zur Naturgeschichte der Aggression, 1963; trad. it. 1969).

In etologia una distinzione fondamentale è quella tra l’aggressività rivolta verso individui di specie diversa (interspecifica) e quella nei confronti di individui della stessa specie (intraspecifica). Tale distinzione si basa anche sulle diverse componenti comportamentali presenti nei due casi. Lorenz individuava tre tipi di aggressività interspecifica: il comportamento aggressivo del predatore verso la preda, la reazione aggressiva della preda verso il predatore e la cosiddetta reazione critica dell’individuo che, attaccato da un nemico più forte, non vedendo altra via d’uscita, reagisce con la forza della disperazione attaccando l’aggressore. Invece, per quanto riguarda l’aggressività intraspecifica, essa svolge alcune funzioni regolatrici fondamentali, prima tra tutte la conservazione del territorio e la distribuzione degli individui della stessa specie nello spazio vitale evitando i rischi della sovrappopolazione. Inoltre, se nella lotta tra due rivali per il territorio prevale, come è probabile, il più forte e sano, ciò rappresenta una garanzia per la protezione del gruppo e della prole.

Queste considerazioni sono state sviluppate in riferimento al comportamento animale, ma si può riconoscerne la validità anche per l’uomo. Nella specie umana si osserva una delimitazione territoriale sia intergruppale (la creazione di villaggi), sia intragruppale (l’abitazione, la proprietà degli oggetti, la cerchia familiare ecc.). Anche la scelta del leader riflette la ricerca di una garanzia nella protezione del territorio. Il leader, infatti, viene scelto in funzione della sua forza, delle sue doti sociali e della sua esperienza. Tutti questi elementi concorrono a determinare la sua posizione nella gerarchia intragruppale. I ranghi all’interno della gerarchia diventano così un mezzo di ordinamento sociale e quindi di controllo dell’aggressività. Lorenz, riferendosi prevalentemente al regno animale, a tale proposito parlava di ‘principio gerarchico’, indicando così la consapevolezza di ciascun individuo della forza e delle capacità proprie e altrui. In tal modo, ognuno può tirarsi indietro senza lottare davanti a un individuo più forte, così come può pretendere che un altro più debole si ritiri davanti a lui. Il principio gerarchico fa sì che le occasioni di lotta intraspecifiche, per es. per la distribuzione delle risorse, siano notevolmente limitate. La selezione del capo, ossia del più forte, avviene frequentemente attraverso combattimenti tra rivali. Essi si verificano anche per aggiudicarsi le femmine con cui accoppiarsi: la selezione sessuale degli individui più forti ha lo scopo di migliorare la qualità della specie e la difesa della discendenza. Tuttavia, questi combattimenti nel regno animale solitamente non prevedono la morte del più debole, ma solo una sua sottomissione. Si tratta, infatti, di forme di aggressività rituale che si distinguono per il fatto di avere come scopo la resa dell’avversario, senza ucciderlo o senza causargli gravi danni fisici. Anche gli atteggiamenti di sottomissione sono importanti per frenare l’aggressività e consistono in veri e propri moduli comportamentali attraverso cui l’individuo più debole riconosce la superiorità del rivale e pone termine al combattimento con un gesto esplicito di resa, come il lupo che offre all’avversario che gli è superiore il punto del collo corrispondente alla vena giugulare. Anche nell’uomo si osservano comportamenti pacificatori tesi a inibire o a neutralizzare l’aggressività dell’altro, tra cui, per es., anche il sorriso e le scuse, tutti comportamenti con cui si tende a placare una persona che manifesti aggressività. Pure l’offerta di cibo o il saluto rappresenterebbero richieste di acquietamento e di aconflittualità. Lorenz sottolineava come l’aggressività fosse non solo un istinto ineliminabile, ma anche necessario e che, in quanto tale, non potesse essere soppresso ma ridirezionato. La ritualizzazione assolverebbe questa funzione.

Nel corso dell’evoluzione alcuni comportamenti perdono progressivamente la loro funzione originaria per diventare pure cerimonie simboliche, semplici movimenti rituali. I comportamenti rituali sono sequenze di gesti stereotipati e convenzionali per dirottare le spinte aggressive verso canali innocui ed evitarne gli esiti dannosi. D’altra parte, alcuni rituali, come i combattimenti tra rivali, da una parte svolgono le funzioni di ordinamento gerarchico, dall’altra consentono una ‘scarica’ funzionale e controllata dell’aggressività. Infatti, Lorenz ha descritto l’aggressività ricorrendo a un modello idraulico, secondo cui nell’individuo si determinerebbero accumuli di energia o di tensione che premerebbero sempre più per essere ‘scaricati’. Affinché ciò possa verificarsi deve però presentarsi uno stimolo-segnale esterno. Qualora questo si presenti, si innesca un pattern sequenziale di azioni relative al comportamento aggressivo. Nel caso in cui l’energia specifica di un atto istintivo si accumuli progressivamente senza poter essere scaricata adeguatamente e periodicamente, si verificherebbe un’esplosione anche in assenza di uno stimolo specifico. In maniera direttamente proporzionale allo sviluppo filogenetico, gli espedienti inibitori dell’aggressività assumono una valenza comunicativa e addirittura permettono di stabilire vincoli personali, funzionali alla cooperazione e ai comportamenti proattivi rispetto al gruppo. Lorenz sottolineava come le modalità adottate per neutralizzare e gestire l’aggressività siano maggiormente sviluppate proprio nei predatori dotati di forte aggressività intraspecifica. Non a caso, l’amicizia e l’amore sono sentimenti e legami propri della specie umana, cioè dell’unica specie in cui l’aggressività può diventare fine a sé stessa, perdendo il suo carattere di conservazione della specie e traducendosi in violenza e crudeltà. E tuttavia, proprio nella specie umana, la ritualizzazione dell’aggressività è di gran lunga più difficoltosa che in altre specie. Questo perché lo sviluppo di adeguati meccanismi di inibizione naturale dell’aggressività richiederebbe secoli, e l’uomo non avrebbe avuto il tempo di evolvere mezzi di controllo efficaci. Viceversa, secondo Lorenz lo straordinario sviluppo delle capacità mentali avrebbe consentito all’essere umano di mettere in atto ‘una sofisticata tecnologia di distruzione’. La debole efficacia dei mezzi di ritualizzazione dell’aggressività umana sarebbe una sorta di effetto collaterale della più elevata dote di sopravvivenza dell’uomo: la flessibilità. L’essere umano, infatti, deve il proprio sviluppo alla sua capacità di adattamento di fronte a cambiamenti inaspettati e a situazioni mutevoli. Se, da una parte, ciò ha rappresentato un vantaggio evolutivo straordinario, dall’altra, ha alquanto limitato l’effetto delle ritualizzazioni. Infatti, a ben vedere, le circostanze in cui tali meccanismi vengono applicati non sono poi tanto numerosi. Un chiaro esempio sono le competizioni sportive in cui vigono regole, accettate dai partecipanti, che ne determinano lo svolgimento.

In conclusione, l’approccio etologico ha il merito di aver chiarito che l’aggressività non ha carattere distruttivo di per sé dal punto di vista biologico o negativo dal punto di vista morale, bensì svolge una funzione regolatrice ed evolutiva fondamentale, atta a garantire maggiori probabilità di successo nella sfida per la sopravvivenza. D’altra parte, essa è stata criticata in quanto avrebbe contribuito a far ritenere che l’uomo sia irrimediabilmente aggressivo e la conflittualità tra esseri umani ineliminabile. Le ideologie razziste si sono servite prontamente di queste estremizzazioni per sostenere l’idea di differenze biologiche ineliminabili tra le varie razze umane, in una sorta di arbitraria giustificazione scientifica dell’assoggettamento di alcuni gruppi razziali rispetto ad altri.

Teorie psicoanalitiche

La psicoanalisi ha come oggetto di studio gli stati soggettivi e le possibili motivazioni sottostanti ai comportamenti e alle reazioni emotive, costruendo ipotesi esplicative basate sui dinamismi inconsci. Tali dinamismi possono essere più o meno in equilibrio tra loro, e il loro insieme unitario costituisce la personalità. Nell’ambito delle teorie psicoanalitiche, l’aggressività è stata considerata una componente primordiale inconscia, in quanto tale presente fin dalla nascita dell’individuo e finalizzata al soddisfacimento immediato di un bisogno. L’aggressività, secondo questa prospettiva, farebbe parte della natura umana e si esprimerebbe anche sotto forma di meschinità, invidia e arroganza. Più precisamente, gli psicoanalisti distinguono due tipi di aggressività: a) l’istinto di conservazione, che spinge gli individui a imporre le proprie esigenze, ad agire per il proprio benessere, e che è necessario per affrontare e superare gli ostacoli; b) l’aggressività distruttiva, rappresentata dalla violenza e dall’ostilità. Gli psicoanalisti sostengono che l’aggressività inconscia è presente in tutti gli esseri umani, anche se i condizionamenti sociali e le esigenze della convivenza comunitaria tendono a reprimerla, a rifiutarla e a condannarla moralmente. In pratica, tutti gli autori di ambito psicoanalitico hanno affrontato il tema dell’aggressività nell’uomo, giungendo anche a posizioni alquanto divergenti, tanto che parlare di ‘concezione psicoanalitica dell’aggressività’ significa in realtà far riferimento a molteplici definizioni e teorie circa la sua origine e il suo ruolo nello sviluppo psicologico del soggetto. Di seguito, citeremo gli autori il cui contributo in materia è risultato sostanziale, a partire da colui che è considerato il padre della psicoanalisi stessa, Sigmund Freud (1856-1939), con cui tutti gli studiosi successivi hanno poi dovuto confrontarsi.

Per affrontare la concezione dell’aggressività in Freud è necessario comprendere il concetto di pulsione (Trieb). La pulsione è la rappresentazione psichica di una fonte di stimolazione endosomatica e come tale costituisce l’interfaccia tra lo psichico e il somatico. Si differenzia dall’istinto (Instinkt) in quanto questo è un comportamento innato necessario per azzerare la tensione determinata dal bisogno, mentre la pulsione è la rappresentazione psichica del bisogno stesso. La pulsione è caratterizzata da una spinta, cioè dalla sua forza, da una meta, ossia l’annullamento della tensione, e da una fonte, cioè la relativa eccitazione somatica di partenza. Ogni pulsione ha un oggetto privilegiato per la sua soddisfazione, ma nel tempo esso può variare, anche a causa dell’indisponibilità dell’oggetto originario. Freud ha affrontato la tematica dell’aggressività in tutto il corso del suo lavoro più che trentennale, elaborando dunque un’impostazione a volte incoerente se non contraddittoria, frutto di continue revisioni e successivi aggiustamenti. In una prima fase, antecedente al 1915, Freud considerava l’aggressività al servizio della libido, l’energia vitale e sessuale, e riteneva che essa avesse origine dalla frustrazione esperita nel corso della ricerca del piacere. In particolare, si sarebbe sviluppata nella fase edipica, quando il bambino arriva a provare il desiderio di eliminare il genitore dello stesso sesso per potersi unire al genitore di sesso opposto.

Per Freud, dunque, l’aggressività era costituzionale, e non poteva essere eliminata, ma solo deviata e gestita attraverso una corretta risoluzione delle vicende edipiche. Se, inizialmente, spiegò il sadismo e il masochismo come componenti aggressive della libido, nel giro di pochi anni arrivò ad ammettere la possibilità dell’esistenza di un’aggressività riconducibile a una generica ‘pulsione di appropriazione’, anche se era ben chiara ancora la resistenza ad accettare l’idea di una specifica pulsione aggressiva. Quasi dieci anni più tardi, Freud ipotizzò un’autonomia della pulsione aggressiva sviluppata però all’interno di un processo storico-culturale e in rapporto all’organizzazione sociale.

Nel 1915 avvenne un radicale cambio di posizione, quando egli ricondusse l’aggressività alle pulsioni dell’Io tese all’autoconservazione e al controllo della realtà. L’avvicinarsi e poi l’esplodere della Prima guerra mondiale influenzarono profondamente il pensiero freudiano e, in particolare, proprio la sua concezione dell’aggressività. Infatti, Freud riprese in maniera più sostanziale l’ipotesi di un’origine indipendente della pulsione aggressiva, ipotesi che fu poi sviluppata compiutamente nel 1920 con la pubblicazione di Jenseits des Lustprinzips. In quest’opera egli elaborò il concetto di un istinto di morte autonomo, innato, mirante al dissolvimento della sostanza vivente e alla quiete assoluta, appunto al di là del principio di vita. La libido tende a dirottare la pulsione di morte verso oggetti esterni per evitare che essa porti il soggetto all’autodistruzione. La contrapposizione vita-morte divenne in Freud centrale e rappresentativa di un principio universale di transitorietà e di costruttività in opposizione alla disgregazione. Oltre che dalle vicende storiche, Freud fu indotto a sviluppare questa visione da alcune osservazioni cliniche, come, per es., la coazione a ripetere, ossia l’insopprimibile tendenza a rivivere rappresentazioni dolorose che nulla hanno a che fare con il soddisfacimento libidico. Un’ulteriore svolta si ebbe nel 1922 quando, introducendo il concetto di Super-Io, Freud conferì maggior rilievo alle influenze ambientali, precisamente alle esperienze infantili e alle cure materne che, una volta interiorizzate, costituiscono la base del dinamismo tra tendenze costruttive e distruttive nell’individuo. Cominciò dunque l’ultima fase del pensiero freudiano, caratterizzata da una convinzione sempre più radicata dell’origine autonoma delle pulsioni aggressive. Alla fine degli anni Venti Freud rielaborò la concezione dell’aggressività in termini psicosociali, focalizzando l’attenzione sul conflitto ineliminabile tra individuo e società organizzata, che ha come unica soluzione la repressione delle pulsioni disadattive. Infatti, l’individuo è portatore di istanze innate di distruttività, irriducibili e quindi minacciose per la civiltà, che chiama mortido o Thanatos, opposte a Eros, la spinta vitale. Il Super-Io, formatosi in funzione dei divieti e delle sanzioni del mondo esterno, impone la rinuncia delle pulsioni disadattive rispetto al vivere comune.

In conclusione, il percorso di Freud può essere riassunto attraverso tre passaggi speculativi successivi: l’aggressività come pulsione originaria eterodistruttiva; l’aggressività come reazione alla frustrazione; l’aggressività come espressione di un’originaria pulsione autodistruttiva o di morte. Nonostante queste numerose revisioni, egli non mise mai in discussione l’idea che l’aggressività fosse sostanzialmente un elemento innato della natura umana. In tal senso, Freud e Darwin sono accomunati da una concezione deterministica e pessimista dell’aggressività nell’uomo.

La sua sesta e ultima figlia, Anna Freud (1895-1982), aderendo sostanzialmente alla concezione duale delle pulsioni teorizzata dal padre, concentrò la propria attività sullo sviluppo infantile e affermò che l’aggressività e la distruttività nei bambini sono riconducibili a svariate ragioni, tra cui, da una parte, la scarica di impulsi o fantasie aggressivi, dall’altra, la difesa dall’angoscia. La capacità di aggredire, secondo Anna Freud, precede la capacità di difendersi, in quanto l’attacco è un derivato diretto della pulsione aggressiva, mentre la difesa è una risposta appresa. L’analisi dei meccanismi di difesa gestiti dall’Io portò la studiosa a individuare alcune modalità che l’individuo può adottare per difendersi dall’aggressività stessa: l’identificazione con l’aggressore, lo spostamento dall’oggetto animato all’inanimato o dagli umani agli animali, l’annullamento, l’attribuzione a terzi del desiderio o dell’azione aggressiva. Di queste, quella forse più interessante è la prima, attraverso cui l’individuo può identificarsi con la persona da cui si aspetta di essere aggredito. In questo modo, il ruolo da passivo viene tramutato in attivo, e l’angoscia derivante dall’oggetto temuto viene trasformata in una sensazione piacevole di padronanza. Questo meccanismo può essere normale e funzionale allo sviluppo, così come può sconfinare nella paranoia patologica, in cui la colpa viene sistematicamente proiettata all’esterno e l’aggressività rivolta verso gli altri finisce per assumere una valenza rassicurante.

Anche Melanie Klein (1882-1960) si concentrò sullo studio dell’età evolutiva e in particolare dei precocissimi vissuti psichici del bambino. Nella teoria kleiniana occupano un posto predominante riferimenti a una distruttività che si esprimerebbe sotto forma di fantasie arcaiche di sadismo, di distruzione e annientamento. Anche Klein utilizzò il concetto di pulsione di morte, pur se non intesa tanto in termini energetici, come in Freud, quanto in termini di ‘fantasia’, come fantasia di fusione, di annientamento, di essere divorati e di divorare e così via. Tuttavia, la psicoanalista ipotizzava anche un’innata predisposizione a porre rimedio ai propri attacchi sadici nei confronti dell’oggetto, amato e odiato allo stesso tempo, sotto la spinta del senso di colpa. Se il bambino non ha la possibilità di operare tale riparazione, si instaurerà un circolo vizioso imperniato sull’aggressività, che sarebbe poi alla base delle tendenze asociali e criminali dell’adulto. Anche per Klein dunque, la pulsione aggressiva risulta essere una componente innata e primaria dell’individuo. A ogni modo per l’autrice sia gli impulsi distruttivi sia quelli d’amore, pur rappresentando dei tratti costituzionali, subiscono innegabilmente l’influenza delle condizioni esterne.

Alfred Adler (1870-1937), fondatore della psicologia individuale, fu dapprima attivo collaboratore di Freud, per poi distaccarsene in maniera eclatante nel 1911, in seguito a insanabili contrasti. Adler ha proposto una concezione psicologica in cui i rapporti sociali svolgono un ruolo fondamentale, tanto da essere considerati parte integrante della vita psichica dell’individuo. Egli ha individuato due istanze psichiche fondamentali, la volontà di potenza e il sentimento sociale: entrambe sono funzionali alla sopravvivenza dell’essere umano, ma mentre la prima costituisce una spinta energetica tesa verso mete di autoaffermazione, il secondo rappresenta il bisogno di cooperare con i propri simili e di partecipare alle loro emozioni. Queste istanze si pongono addirittura al di sopra delle pulsioni e degli istinti, con il preciso compito di regolare sia gli impulsi istintuali sia le attività coscienti. In particolare, la volontà di potenza permea tutti gli ambiti relazionali del soggetto e non ha necessariamente una connotazione aggressiva; essa, tuttavia, può servirsi, per fini di potere, di dominio o di conservazione, della pulsione aggressiva. Dunque, per Adler nel bambino piccolo l’aggressività rappresenta un’energia primordiale, originariamente non regolata né indirizzata, ma in grado di provvedere alla soddisfazione delle necessità elementari. Un ruolo cardine per Adler a questo punto è giocato dalle esperienze di vita del bambino, in quanto i primi ostacoli, i primi pericoli, le regole imposte dall’ambiente contribuiscono a definire le sue possibilità e i confini entro cui poter agire. L’insieme delle frustrazioni esperite determinerebbe nel soggetto una reazione, poiché la volontà di potenza mal tollera l’inferiorità, che può sfociare in un’aggressività comportamentale oppure in una compensazione adattiva, operante in settori e con modalità consentite. Adler, dunque, non ha rinunciato all’origine innata dell’aggressività, ma ha integrato ampiamente tale concezione con gli apporti esperienziali e ambientali.

Joseph D. Lichtenberg (n. 1925) ha ipotizzato l’esistenza di cinque sistemi motivazionali, ciascuno con probabili correlati neurofisiologici distinti e incentrato su un bisogno e su comportamenti chiaramente osservabili già nel periodo neonatale: il sistema di regolazione dei bisogni fisiologici, il sistema di attaccamento-affiliazione, il sistema esplorativo-assertivo, il sistema avversivo, il sistema sensuale-sessuale. Il sistema avversivo è quello che Lichtenberg ritiene alla base della spinta aggressiva, che però originariamente sarebbe funzionale a una gestione adattiva della rabbia, sia per rispondere avversivamente al pericolo, sia per impegnarsi nel superamento degli ostacoli. Questo sistema produce due categorie di risposte, quella dell’antagonismo e quella del ritiro. Le emozioni che stimolano l’una o l’altra sono rispettivamente la rabbia e la paura. Lo studioso precisa che, mentre gli altri sistemi hanno lo scopo di ricreare emozioni piacevoli sperimentate in precedenza, nel sistema avversivo il bambino cerca di alleviare la sofferenza o il disagio esperiti in ognuno degli altri sistemi. Dunque, la sua funzione sarebbe duplice: da una parte, la scarica di una tensione accumulata, dall’altra, l’agevolazione della soddisfazione dei bisogni degli altri sistemi motivazionali. A queste funzioni si aggiunge anche quella di richiamo dell’attenzione del caregiver in caso di pericolo. In quest’ottica Lichtenberg, a differenza delle altre teorie, non ipotizza una pulsione aggressiva autonoma con finalità proprie, pur sostenendo un’origine innata del sistema avversivo.

Le teorie situazionali

Alla concezione innatista dell’aggressività si contrappone quella centrata sul ruolo causale dei fattori ambientali, esterni all’individuo. Anche in questo ambito gli approcci sono diversificati: per es., la scuola dell’apprendimento sociale si basa sull’ipotesi che sia la presenza di modelli aggressivi in famiglia, a scuola o nel gruppo di pari a scatenare l’aggressività. Se si è parte di un gruppo i cui componenti si comportano in maniera aggressiva, il singolo tende ad adeguarsi. Anche per la sociologia l’aggressività è riconducibile a fattori ambientali, nella fattispecie a contesti sociali negativi. In generale, le moderne teorie situazioniste spiegano la diffusa tendenza a interpretare l’aggressività come dovuta a fattori interni con il concetto di ‘errore fondamentale di attribuzione’ (su questo v. R. Nisbett, L. Ross, Human inference, 1980; trad. it. 1989). L’essere umano, infatti, tentando di trarre inferenze sul mondo circostante, si comporterebbe come uno ‘scienziato ingenuo’, basandosi su strategie inferenziali intuitive, legate al senso comune, piuttosto che su principi logici e statistici oggettivi. Per es., mentre i protagonisti di un’azione tendono ad attribuirne la motivazione a fattori situazionali, l’osservatore esterno tende a sovrastimare il ruolo dei fattori interni all’individuo.

Anche alcuni psicoanalisti hanno spostato l’attenzione dall’interno all’esterno dell’individuo. Wilhelm Reich (1897-1957), per es., riteneva che le manifestazioni aggressive, tra cui l’odio e l’invidia, fossero secondarie a una frustrazione della libido a carico delle costrizioni imposte dalla società. Analogamente, Otto Fenichel (1897-1946) considerava l’aggressività reattiva e non primaria e negava l’esistenza di un istinto di morte; inoltre, i comportamenti aggressivi dei bambini, secondo Fenichel, non implicherebbero consapevolezza, essendo i bambini totalmente egocentrici, non avendo cioè la capacità di tenere conto dell’oggetto se non in relazione ai propri bisogni. Heinz Kohut (1913-1981) riteneva che la distruttività umana da un punto di vista psicologico fosse secondaria al fallimento da parte dell’ambiente di venire incontro ai bisogni empatici del bambino piccolo. In questi casi il Sé arcaico del bambino svilupperebbe rabbia e vergogna e per tutta la vita successiva l’individuo reagirebbe con aggressività alle ferite narcisistiche.

Aggressività e frustrazione

Si definisce frustrazione la condizione in cui viene a trovarsi l’organismo quando è ostacolato, in modo permanente o temporaneo, nella soddisfazione dei propri bisogni. L’ostacolo può presentarsi sotto forma di impedimento fisico o sociale oppure la frustrazione può essere determinata da una posposizione del soddisfacimento. Infine, può esservi frustrazione anche quando due termini di un problema appaiono inconciliabili, ponendo il soggetto in una situazione di impasse cognitiva. Già Freud in una prima fase del suo lavoro aveva considerato l’aggressività come reazione all’impedimento della soddisfazione dei bisogni pulsionali, abbandonando poi questa impostazione a favore di altre concettualizzazioni. In seguito, alla fine degli anni Trenta e in un contesto teorico ben diverso, l’opera Frustration and aggression (1939; trad. it. 1967) ha ridestato l’interesse per questa ipotesi. Gli autori (tra questi J. Dollard, N.E. Miller, L.W. Doob et al.) sono partiti dal presupposto fondamentale che l’aggressività è sempre conseguenza di una frustrazione, così come una frustrazione genera sempre una qualche forma di aggressività. Inoltre, tale aggressività può essere diretta non sul responsabile della frustrazione, bensì su un obiettivo più debole. Questa impostazione iniziale allo studio della relazione tra frustrazione e aggressività è chiaramente di stampo comportamentista ed è stata criticata in quanto focalizzata esclusivamente sulla fenomenologia più che sull’elaborazione cognitiva o emotiva e perché poco rigorosa sul piano concettuale. Comunque, osservazioni cliniche successive hanno raffinato e aggiunto maggiori specificazioni agli enunciati originari. In particolare, è stato evidenziato che si può provare aggressività anche senza un chiaro precedente frustrante, così come la frustrazione può generare anche altre reazioni, tra cui la depressione o l’autoaggressione. Dunque, la frustrazione genera aggressività solo in rapporto a determinate circostanze e, qualora ciò avvenga, l’intensità della reazione aggressiva è proporzionale all’intensità della frustrazione esperita; è proporzionale alla prossimità rispetto all’oggetto o evento desiderato (più si è vicini a ottenerlo, maggiore è la frustrazione derivante dall’impedimento); è proporzionale al numero di frustrazioni subite (maggiore è il numero di soddisfazioni impedite, più intensa è la reazione aggressiva); è tanto più elevata quanto più la frustrazione imposta è percepita come arbitraria e non giustificata. Vi sono anche altri fattori, come il rumore, il calore ecc., che generano stress e sembrano così predisporre alle reazioni aggressive in seguito a una frustrazione.

Moderni approcci situazionali

Philip G. Zimbardo (n. 1933) nei primi anni Settanta ha sviluppato il concetto di ‘deindividuazione’ in relazione all’aggressività umana. Egli sostiene che i comportamenti aggressivi più estremi verrebbero messi in atto quando viene a mancare il normale controllo dell’individuo sul suo comportamento. In particolare, il soggetto non orienterebbe più il proprio agire in funzione delle conseguenze negative dell’agire stesso, come se non fosse più in grado di tenere in conto le inibizioni e gli impedimenti morali, sentendosi libero da tutti i divieti che la mente normalmente gli impone. Zimbardo afferma che il controllo della mente sul comportamento nell’uomo può essere così potente da prevalere sulle leggi dell’istintualità, addirittura per quanto riguarda la fame o il dolore. Eppure, in determinate situazioni, tale potente capacità sembra venire completamente meno. Lo psicologo statunitense evidenzia come ciò sia da attribuire appunto a fattori situazionali e non disposizionali. Infatti, particolari condizioni determinerebbero uno stato di deindividuazione, ossia un’alterazione nella percezione di sé e degli altri che favorisce la disinibizione dalle norme morali. Zimbardo elenca dieci variabili specifiche che possono favorire tale fenomeno:

1) l’anonimato: il soggetto quando non si sente pienamente identificabile, tende a non sentirsi nemmeno responsabile o punibile per le azioni che potrebbe commettere; ciò può verificarsi quando, per es., l’individuo si trova a far parte di una folla di persone, quando è camuffato dall’abbigliamento, quando indossa un’uniforme uguale a quella di tanti altri, quando si trova nell’oscurità; infine, Zimbardo sostiene che anche ambienti sociali che tendono a far sentire l’individuo anonimo, in cui nessun interesse specifico è diretto nei suoi confronti, favoriscono implicitamente la deindividuazione;

2) la responsabilità condivisa o diffusa: l’essere umano è più disposto ad agire in maniera aggressiva se la responsabilità è condivisa con più persone, oppure se un soggetto dotato di autorità dichiara di assumersi lui tale responsabilità, sollevando il singolo;

3) le azioni di gruppo: quando è un gruppo di persone a commettere un’azione violenta, si verifica una sorta di ‘contagio’, per cui tutti i membri del gruppo orientano il proprio comportamento nella stessa direzione; ciò fa sì che si sviluppi una ‘identità di gruppo’ in cui il singolo si confonde sentendosi deresponsabilizzato, in quanto in quel momento vigono le norme di quel gruppo specifico e non di altri gruppi sociali;

4) un’alterazione della prospettiva temporale: la disinibizione è favorita dal prevalere della salienza della dimensione presente, mentre quelle passata e futura tendono a perdere ogni rilevanza; ciò libera il soggetto dalla valutazione sia delle motivazioni, sia delle conseguenze di un atto;

5) l’arousal: si tratta di uno stato fisiologico e psicologico che coinvolge il sistema nervoso e quello endocrino, caratterizzato da aumento del battito cardiaco e della pressione sanguigna e da uno stato di allerta che favorisce il passaggio all’atto; trovarsi in queste condizioni, secondo Zimbardo, fa diminuire significativamente la considerazione del soggetto per le norme morali e le restrizioni sociali;

6) un’eccessiva stimolazione sensoriale, visiva o uditiva: in questo caso le attività cognitive e intellettuali vengono impedite e di conseguenza viene meno la loro funzione di inibizione su comportamenti inadeguati;

7) il coinvolgimento fisico nell’azione: un’azione violenta genera un istantaneo senso di eccitazione, che spinge a sua volta ad agire in maniera violenta, con un meccanismo di autorinforzo costante, in cui le componenti cognitive non riescono a interferire;

8) la prevalenza di feedback affettivo-propriocettivi: in condizioni normali, il soggetto si basa su un’ampia gamma di feedback di varia natura, il che favorisce il controllo cognitivo dell’azione; nella deindividuazione prevale invece nettamente il feedback propriocettivo che, provocando sensazioni piacevoli, viene amplificato e rinforzato;

9) le situazioni nuove oppure non strutturate: esse possono generare infatti uno stato di deindividuazione in quanto all’individuo vengono a mancare dei chiari punti di riferimento;

10) tutte le situazioni che favoriscono l’alterazione dello stato di coscienza, come l’assunzione di alcolici o stupefacenti: lo stato di deindividuazione riduce sensibilmente la colpa o il timore della punizione da una parte e il controllo cognitivo sull’azione dall’altra; dunque, il comportamento aggressivo che ne risulta è impulsivo, irrazionale e incoerente con la situazione, per es. non vengono considerate le caratteristiche specifiche del bersaglio dell’atto violento.

Mentre Zimbardo mette in risalto la perdita della propria identità di singolo nell’azione di gruppo, altri studiosi evidenziano l’adesione all’identità sociale, che si riferisce alla consapevolezza di avere modi di pensare e di agire autonomi e basati su criteri personali. In altri termini, non verrebbero meno tanto i processi di self-regulation, quanto piuttosto prevarrebbe il processo di self-categorization, grazie al quale l’individuo si percepisce in primo luogo come parte integrante del gruppo. Dunque, se per Zimbardo è la deindividuazione a favorire il comportamento aggressivo, per i sostenitori della teoria dell’identità sociale esso deriverebbe dall’adeguamento dei soggetti alle norme relative al proprio gruppo di appartenenza. Se il comportamento ritenuto adeguato per un gruppo prevede l’aggressività, il singolo lo considererà normativo, anche se le norme sociali generali lo contraddicono. La deindividuazione gioca un ruolo importante, comunque, tanto che laddove essa non si verifichi, sarà l’identità personale ad assumere salienza.

Le basi neurofisiologiche dell’aggressività

Aree cerebrali

Numerose ricerche anatomiche e neurofisiologiche hanno riscontrato l’esistenza di un substrato organico che presiede alla gestione dei comportamenti aggressivi. Analogamente, studi in ambito neuropsichiatrico hanno verificato come la somministrazione di alcune classi di psicofarmaci possa condurre a modificazioni del comportamento aggressivo. Infine, sono state osservate modificazioni biochimiche legate ad atti aggressivi, dimostrando così una relazione anche tra ormoni sessuali e aggressività. A partire dagli anni Quaranta del Novecento è stata messa in luce la complessità dei circuiti e delle aree cerebrali deputate alla gestione dell’aggressività. La maggior parte degli studi finalizzati alla localizzazione di aree cerebrali coinvolte è stata realizzata tramite l’impiego di modelli animali e l’utilizzo di lesioni, stimolazioni elettriche o registrazione dell’attività elettrica cerebrale.

Gli animali più utilizzati per tali sperimentazioni sono stati il gatto e il ratto, in virtù di una soddisfacente somiglianza di alcune strutture neurofisiologiche con quelle dell’essere umano. Mentre nel gatto è stato possibile individuare due siti cerebrali deputati al controllo rispettivamente dei comportamenti di attacco e difesa, nel ratto pare vi sia un unico circuito polivalente che presiede sia agli uni sia agli altri, sollecitati alternativamente da diverse circostanze ambientali. Questi studi hanno evidenziato non solo che le aree cerebrali coinvolte nell’aggressività sono svariate, ma anche che vi sono ‘sotto-circuiti’ specifici per diversi tipi di comportamento aggressivo. Nel gatto l’ipotalamo laterale appare legato all’espressione del comportamento di attacco predatorio, mentre l’ipotalamo mediale a quello aggressivo-difensivo (Gregg, Siegel 2003). Nell’ipotalamo laterale le aree rostrocaudali sono legate all’atto del mordere, mentre quelle perifornicali sarebbero coinvolte nel vero e proprio comportamento di attacco predatorio. Le aree deputate ai comportamenti difensivi, invece, sono situate nelle regioni rostrocaudali dell’ipotalamo mediale, nell’area preottica mediale e nella porzione dorsale della sostanza grigia periacqueduttale mesencefalica (cfr. S.A.G. Fuchs, H.M. Edinger, A. Siegel, The organization of the hypothalamic pathways mediating affective defense behavior in the cat, «Brain research», 1985, 330, 1, pp. 77-92). I neuroni di queste aree cerebrali, se attivati, eccitano le cellule nervose del tronco encefalico e del midollo spinale che a loro volta avviano le reazioni fisiologiche tipiche della difesa aggressiva.

Altri neuroni che entrano in gioco nella modulazione di questa forma di comportamento si trovano nell’amigdala. L’amigdala organizza le risposte comportamentali di rabbia, paura e ansia ed è coinvolta anche nei comportamenti sessuali e di cure materne. Essa è connessa con le aree corticali temporali e frontali, con l’ippocampo, l’ipotalamo, la corteccia olfattiva e il tronco dell’encefalo (fig. 1). Se stimolata, l’amigdala induce risposte emozionali, se disattivata farmacologicamente, con benzodiazepine o oppiacei, le attenua, se lesionata chirurgicamente le abolisce del tutto. La metodologia della stimolazione cerebrale ha permesso di evidenziare differenti specializzazioni funzionali anche all’interno dell’amigdala. In particolare, è stato verificato che l’amigdala interviene nella valutazione del pericolo e nell’organizzazione del comportamento relativo, di cui si occupa la sua porzione mediale, e nei fenomeni complessi dell’apprendimento della paura, gestiti dai suoi nuclei centrale e basolaterale. Infatti, i comportamenti di difesa o attacco derivano anche dalla valutazione del pericolo effettivo e dal confronto costi-benefici, oppure dalla semplice paura e quindi dalla spinta a proteggersi. Inoltre, l’amigdala riceve informazioni dall’esterno attraverso due vie: una rapida ma grossolana rappresentazione le giunge dal talamo sensoriale, mentre una rappresentazione più lenta ma più dettagliata e precisa le giunge dalla corteccia prefrontale (figg. 2 e 3). Questi due canali sono in antagonismo funzionale reciproco, in quanto, seppur con tempi diversi proiettano sui medesimi neuroni amigdaloidei. Per es., un’elevata attivazione dell’amigdala da parte del talamo impedirà alla corteccia prefrontale di svolgere la sua funzione di scelta dell’opzione migliore in situazioni emotivamente complesse, specie in situazioni sociali, e la probabilità di compiere errori di valutazione sarà più alta. In generale, infatti, la corteccia prefrontale media una vasta gamma di funzioni concernenti la regolazione della condotta sociale, come, per es., il controllo dei comportamenti in base a ricompense e punizioni, il riconoscimento delle emozioni altrui dalle espressioni facciali e la violazione dei segnali sociali (Hornak, O’Doherty, Bramham et al. 2004). Dunque, essa ha per lo più un mandato inibitorio nella modulazione delle emozioni e, infatti, lesioni o disfunzioni di queste aree corticali determinano una ridotta capacità di contenere l’espressione delle emozioni, ivi inclusa la capacità di controllare le reazioni aggressive.

Sistema neuroendocrino

Per quanto riguarda l’influenza sul comportamento aggressivo da parte del sistema neuroendocrino, numerose ricerche hanno messo in luce in primo luogo l’azione del testosterone, un ormone sessuale maschile, riscontrato in concentrazioni elevate anche in donne con alti livelli di aggressività. Vari studi hanno anche dimostrato che l’esposizione postnatale al testosterone aumenta l’aggressività nei maschi, così come la somministrazione di testosterone a femmine adulte. Inoltre, anche le femmine dei primati mostrano maggiore aggressività nel periodo dell’ovulazione, durante il quale il picco del testosterone coincide peraltro con una maggiore attività sessuale. La stimolazione dell’ipotalamo nei ratti induce la produzione pressoché istantanea di un altro ormone, il corticosterone, fortemente legato alle reazioni di stress. Viceversa, iniettando corticosterone nell’animale, questo sviluppa un comportamento chiaramente aggressivo. Tutto ciò depone a favore di una relazione significativa tra stress e aggressività, che sembrano rafforzarsi reciprocamente (fig. 4). Altri risultati sperimentali hanno dimostrato che la stimolazione in modelli animali dei nuclei del rafe produce una diminuzione dell’aggressività. Ciò si spiegherebbe con l’elevatissima concentrazione nei suddetti nuclei di neuroni che sintetizzano serotonina, un neurotrasmettitore cerebrale che media comportamenti come ansia, aggressività, percezione, apprendimento, memoria e ritmi sonno-veglia. La serotonina in particolare ha un effetto inibitorio su una vasta gamma di comportamenti aggressivi e antisociali. Esperimenti condotti sulle scimmie hanno dimostrato che individui con bassi livelli di questo neurotrasmettitore sono più aggressivi, si espongono più frequentemente a situazioni rischiose, dimostrano meno competenza sociale e scivolano nei livelli inferiori della gerarchia sociale. Inoltre, la rimozione sperimentale nei topi di un particolare gene, PET-1, fa aumentare ansia e aggressività. In effetti, la rimozione di questo gene è associata a una riduzione significativa dei neuroni che producono serotonina e i pochi che si formano rimangono inefficienti. I topi su cui si effettua l’intervento attaccano un individuo estraneo introdotto nella stessa gabbia entro 10 secondi, un intervallo significativamente ridotto rispetto ai topi di controllo, e l’attacco, oltre a essere inevitabile, si caratterizza per l’intensità. Poiché gli esseri umani presentano un gene affine a PET-1, si possono ipotizzare effetti simili.

Altri studi a sostegno del ruolo della serotonina nell’aggressività riguardano l’attività delle monoamminossidasi (MAO), in particolare della MAO-A, che inattivano alcuni neurotrasmettitori cerebrali, tra cui la serotonina. È stata individuata una mutazione puntiforme nella sequenza del genoma che codifica per questi enzimi in pazienti affetti dalla sindrome di Lesch-Nyhan, causata appunto da un deficit enzimatico e caratterizzata da un elevato livello di atti aggressivi e autoaggressivi. Questi pazienti, trattati con farmaci a base di serotonina, mostrano una riduzione di tali comportamenti. Altri neurotrasmettitori della stessa classe (le monoammine) che occupano un ruolo centrale nella gestione dell’aggressività sono la noradrenalina e la dopamina, interessate nel sistema cerebrale di ricompensa e gratificazione. In generale, un aumento della loro concentrazione cerebrale corrisponde a maggiori livelli di aggressività e viceversa (cfr. J.T. Winslow, K.A. Miczek, Habituation of aggression in mice. Pharmacological evidence of catecholaminergic and serotonergic mediation, «Psychopharmacology», 1983, 81, 4, pp. 286-91). Anche un altro neurotrasmettitore, l’acetilcolina, appare coinvolto in vari processi fisiologici e patologici, tra cui il controllo dei comportamenti aggressivi. Questa affermazione è sostenuta da dati sperimentali: per es., la stimolazione del sistema colinergico produce un aumento dei livelli di aggressività sia nell’uomo sia in altre specie ed esiste anche una correlazione tra la dose somministrata e gli effetti modulatori ottenuti. Inoltre, alcuni antagonisti dell’acetilcolina hanno contemporaneamente l’effetto di abbassare i livelli cerebrali di acetilcolina e di diminuire l’aggressività. Infine, la sostanza grigia mesencefalica posteriore è un’area di produzione di oppioidi endogeni (endorfine ed encefalite) che se stimolata determina la soppressione della risposta aggressiva indotta da stimolazioni dolorose.

In conclusione, il comportamento aggressivo è un comportamento arcaico, volto alla sopravvivenza dell’individuo, controllato da strutture cerebrali filogeneticamente antiche, sul quale sia gli apprendimenti socioculturali sia i condizionamenti psicologici delle esperienze affettive hanno successivamente plasmato e determinato le manifestazioni comportamentali. Le direzioni di ricerca più promettenti riguardano un approccio di impronta biopsicosociale che integri lo studio dei fattori biologici legati all’aggressività con gli elementi situazionali presi in considerazione dalla psicologia sociale. Infatti, sebbene in ambito neurobiologico siano stati compiuti notevoli passi avanti, rimangono a tutt’oggi da definire chiaramente le strutture cerebrali e i neurotrasmettitori che intervengono nella genesi e nello sviluppo del comportamento aggressivo, nelle sue diverse componenti e fasi. Numerosi modelli sperimentali animali hanno già fornito indicazioni importanti e, tuttavia, nell’uomo ancora mancano dati certi. D’altra parte, ulteriori studi di psicologia transculturale possono contribuire ulteriormente a focalizzare le componenti psicologiche e sociali di base, comuni a tutta la specie umana.

È inoltre fondamentale comprendere e analizzare l’influenza che hanno fattori situazionali sul comportamento del singolo, come l’anonimato o la bassa percezione di responsabilità, ma anche fenomeni storico-sociali più ampi, come l’urbanizzazione, l’immigrazione, il terrorismo o la percezione di insicurezza personale. Grande attenzione deve essere dedicata all’aggressività nei minori, essendo bullismo e bande giovanili diventate a oggi serie problematiche del tessuto sociale. Analogamente, i messaggi e i modelli veicolati da film e videogiochi di stampo violento recentemente sono stati accusati di favorire apprendimenti negativi in bambini e ragazzi, impedendo una corretta distinzione tra realtà e finzione e slatentizzando istanze aggressive non più contenute e gestite in maniera funzionale. Infine, in un’ottica neuropsichiatrica, il ruolo dell’aggressività in vari processi patologici, dai disturbi di personalità alle disfunzioni cerebrali organiche, ai disturbi post-traumatici, fino a tutta la gamma dei disturbi nel controllo degli impulsi, andrebbe approfondito non solo da un punto di vista descrittivo, bensì anche psicologico e farmacologico. In definitiva, un approccio interdisciplinare al fenomeno dell’aggressività nell’uomo è non solo auspicabile ma necessario, in modo da superare la ormai obsoleta dicotomia innatismo-situazionismo giungendo a una comprensione multifattoriale integrata di esso.

Bibliografia

L.R. Troncone, S. Tufik, Effects of selective adrenoceptor agonists and antagonists on aggressive behavior elicited by apomorphine, DL-dopa and fusaric acid in REM-sleep-deprived rats, «Physiology & behavior», 1991, 50, 1, pp. 173-78.

C.A. Anderson, Violence and aggression, in Encyclopedia of psychology, ed. A.E. Kazdin, 8° vol., Washington D.C. 2000, pp. 162-69.

Th.R. Gregg, A. Siegel, Differential effects of NK1 receptors in the midbrain periaqueductal gray upon defensive rage and predatory attack in the cat, «Brain research», 2003, 994, 1, pp. 55-66.

J. Hornak, J O’Doherty, J Bramham et al., Reward-related reversal learning after surgical excisions in orbito-frontal or dorsolateral prefrontal cortex in humans, «Journal of cognitive neuroscience», 2004, 16, 3, pp. 463-78.

Ph.G. Zimbardo, The Lucifer effect. Understanding how good people turn evil, New York 2007 (trad. it. L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Milano 2008).