Africanismo

Enciclopedia del Novecento (1975)

Africanismo

Amadou Hampâté Bâ

di Amadou Hampâté Bâ

Africanismo

sommario: 1. Introduzione. 2. Eredità del passato: spirituale, sociale e culturale. a) Valorizzazione del passato. b) Senso del sacro; simbolismo di tutte le cose. c) L'Essere supremo. d) Agenti intermediari. e) Struttura analogica dell'universo. f) Gli antenati. g) Posto e ruolo dell'uomo nell'universo. h) La persona umana. i) Simbolismo delle età della vita. I) Senso della comunità. m) La famiglia. n) lI matrimonio. o) Il villaggio. p) Mestieri tradizionali e caste. q) Concetto di alleanza. r) Eredità culturale. 3. L'Africa oggi. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Per secoli l'Occidente ha considerato l'Africa Nera come un continente ‛vergine', privo di ogni civiltà, di ogni cultura, perfino di ogni morale, un continente da ‛civilizzare' ed educare, pur sfruttandone le ricchezze naturali. Grazie ai lavori di alcuni grandi etnologi, archeologi, geografi, storici, botanici, ecc., si è incominciato a sollevare un lembo del velo; l'occidentale stupito impara non solo che l'Africa ha dato i natali, nel corso dei secoli, a grandi imperi con una struttura amministrativa e sociale assai elaborata (regno Ashanti, regni del Benin, del Ghana, del Mali, dei Tacruri, dei Mossi, dei Gurma, dei Songhai, ecc.) - imperi in cui erano conosciute l'estrazione e la lavorazione dei minerali e che intrattenevano cospicue relazioni commerciali con i paesi vicini del Nordafrica e dell'Arabia - ma anche che le tradizioni religiose, spirituali e sociali delle popolazioni erano così ricche e significative da destare l'interesse di etnologi e psicologi di grande valore, che vi persero, a volte, il ‛loro latino'.

D'altra parte, la giovane Africa d'oggi, formatasi alla scuola occidentale e, per ciò stesso, ignara del proprio passato, si sforza di promuovere dei valori esclusivamente moderni proprio mentre torna a scoprire, un po' per volta, i valori di una tradizione ancestrale, finora ignorati e talvolta disprezzati.

Parlare dell'Africa d'oggi equivale, perciò, a parlare di una realtà complessa, instabile, in piena evoluzione. Complessa, perché presenta una stratificazione di ‛tempi' e, quindi, di mentalità differenti: il Medioevo vi coabita con il sec. XX; instabile, perché attraversata da forze molteplici e, talvolta, contraddittorie che operano al suo interno e, pian piano, la modificano. Nessuno può dire con certezza quale sarà il suo volto di domani.

Prima di tentare di delineare il contenuto attuale di questa ‛africanità' (o ‛negritudine') e di scoprire il suo possibile avvenire, ci sembra indispensabile rivolgere, anzitutto, la nostra attenzione alla sua eredità spirituale e culturale pazientemente trasmessa di generazione in generazione, e tentare di comprendere le forze profonde che le vengono dal suo passato e che, nel corso di millenni, hanno modellato l'anima africana e dato vita a un tipo umano del tutto particolare.

2. Eredità del passato: spirituale, sociale e culturale

Conviene precisare immediatamente che se la tradizione africana poggia su un fondo comune, che più avanti tenteremo di delineare, essa presenta una diversità di forme che risulta sconcertante all'osservatore straniero. Gli dei, i simboli sacri, le proibizioni religiose, i costumi sociali che ne derivano, variano da una regione all'altra, da un gruppo etnico all'altro, talvolta da villaggio a villaggio.

I tipi umani variano secondo i luoghi e corrispondono a differenti tipi di comportamento. L'uomo della foresta è, in generale, poccolo e raccolto su se stesso, quasi schiacciato sotto il peso di alberi giganteschi; è un uomo silenzioso, prudente, avaro di gesti e di parole, che negli altri apprezza soprattutto la riservatezza. L'uomo della savana, al contrario, alto e slanciato, abituato ai grandi spazi e alla rapidità delle comunicazioni, è dotato di una natura più esuberante e prolissa. Non si deve, dunque, far l'errore di generalizzare partendo da un dato costume, ma tentare soltanto di individuare le caratteristiche comuni.

Preciso fin d'ora che posso parlare con cognizione di causa solo delle regioni che conosco meglio, cioè di quelle che hanno costituito l'antica Africa Occidentale Francese e che formavano ciò che una volta veniva chiamato il Bafour. Gli esempi più significativi saranno tratti dai gruppi etnici dei quali ho assimilato, fin dall'infanzia, la tradizione e l'insegnamento iniziatico: i Fulbe e i Bambara, attualmente disseminati in quasi tutta la metà superiore dell'Africa (per le regioni situate all'Equatore e a sud di questo, si veda, in particolare AA. VV., 1972).

Dietro questo rigoglio apparentemente inestricabile di forme tradizionali, quali sono dunque i principi comuni che hanno, per usare un'immagine, scolpito la natura e l'anima africana? È quello che cercheremo di delineare, con l'aiuto di alcuni esempi.

a) Valorizzazione del passato

Il passato è ciò a cui l'Africa tradizionale tiene di più, vale a dire tutto ciò che essa ha ereditato dagli antenati. ‟L'ho ereditato da mio padre", ‟l'ho succhiato dalla mammella di mia madre", sono due espressioni che mostrano quanto l'Africano autentico tenga in considerazione la salvaguardia del suo patrimonio culturale, morale e sociale come grande titolo di onore. Il venirvi meno equivale a una diserzione sul campo di battaglia. Chi spezza il filo che lo lega agli antenati è considerato come una piroga che vada alla deriva e si avvii pian piano verso l'abisso. ‛Oggi', per la tradizione, non è mai separato da ‛ieri', e gli stessi defunti non sono assenti, ma presenti nella vita degli uomini.

b) Senso del sacro; simbolismo di tutte le cose

La caratteristica di fondo dell'Africa è di non essere affatto profana. Tutte le sue tradizioni postulano una visione religiosa del mondo. Il rapporto con l'universo, a tutti i suoi livelli, è vissuto come un rapporto di sacralità in cui tutto è solidale, in cui tutto è legato in seno a una vasta Unità cosmica la cui struttura è gerarchica e interdipendente.

L'universo visibile è concepito e sentito come il segno, la concretizzazione o la ‛scorza' di un universo invisibile e vivente costituito da forze in perpetuo movimento e in perpetua azione, originate esse stesse da una Forza primordiale che promana da un'unica Sorgente. Tutto dunque ha un significato, tutto è simbolo, tutto parla per chi sa ascoltare, guardare e decifrare.

Gli iniziati dell'Africa tradizionale insegnano che ogni essere esistente nel nostro universo è, contemporaneamente, un'entità particolare e un simbolo collettivo. Ogni creatura è come una porta che si apre su una duplice dimensione - al contempo eterna e contingente - di cui permette di scrutare i misteri.

Tutto, nella natura, è simbolo e fonte d'insegnamento. Ma in ragione del carattere duplice di ogni caso esistente, ogni simbolo ha due facce, una positiva e una negativa, oppure, in linguaggio africano, una faccia ‛diurna' e una faccia ‛notturna'. L'insegnamento dato potrà dunque collocarsi a differenti livelli d'interpretazione.

Nella natura ogni essere rappresenta un'idea, una morale, un principio in atto, e l'intero cosmo diventa Libro sacro da decifrare. Fra tutti questi simboli viventi, l'uomo occupa un posto privilegiato, come vedremo più avanti.

Per l'Africa tradizionale la Forza primordiale, Potenza- Sorgente delle esistenze e motrice delle azioni e dei movimenti degli esseri, non è affatto situata al di fuori delle creature. Essa risiede in ogni essere vivente, animato o inanimato, secondo differenti modalità o differente intensità di presenza. Questa modalità di presenza non sarà la stessa, per esempio, nel minerale, nel vegetale, nell'animale o nell'uomo. Si comprende allora come, immerso in un universo popolato di forze che abitano e animano tutte le cose (donde il nome di ‛animismo' dato dagli Occidentali alle religioni africane), l'Africano tradizionale sia portato, in tutte le azioni della vita, a osservare un comportamento rituale. Egli sorveglia i propri gesti e le proprie parole, poiché generano delle forze. Rispetta scrupolosamente le norme religiose tramandate dagli antenati (proibizioni o doveri) che regolano i suoi rapporti con il mondo circostante, con cui è solidale. Ogni violazione delle leggi sacre potrebbe infatti provocare una perturbazione occulta nell'equilibrio del cosmo, che si tradurrebbe poi inevitabilmente sulla terra in gravi sconvolgimenti.

L'agricoltore, per esempio, si scusa con la terra prima di fenderla con la zappa, perché essa accetti questa ferita senza collera e vegli sulla segreta gestazione del seme che egli le affida in nome del perpetuarsi della vita.

Il taglialegna non abbatterà mai un albero senza aver prima domandato alle forze che lo abitano di abbandonare quei luoghi. Egli non soddisferà i suoi bisogni corporali senza essersi prima scusato con le presenze invisibili del luogo, domandando loro di allontanarsi dal luogo che sta per sporcare - perché sporcare gli altri equivale, inconsciamente, a sporcare se stesso.

Il cacciatore tradizionale non ucciderà mai per suo piacere o senza una ragione ben precisa. La caccia ha carattere rituale e non gratuito. Anche il cacciatore chiederà venia all'anima dell'animale abbattuto e una particolare cerimonia precederà la caccia allo scopo di conciliarsi gli spiriti della savana. Si ritiene del resto che gli animali abbattuti paghino una colpa commessa contro la natura. Alleanze particolari esistono d'altra parte tra l'uomo e il mondo animale, come vedremo più avanti (v. sotto, § q).

Anche nel matrimonio il comportamento sarà più rituale che sessuale. Lo sposo, perciò, non solleciterà la sua donna soltanto al fine d'obbedire al proprio istinto, ma in vista di un preciso obiettivo imposto dalla tradizione: la procreazione o l'unione compiuta per esser graditi alle divinità tutelari del dan. Questo spiega come la maggior parte dei matrimoni tradizionali non sia realizzata solo in nome dell'amore e che la bellezza fisica non sia in questo campo il criterio dominante. Inoltre, la donna è l'oggetto di certe proibizioni temporanee: durante i periodi mestruali, per un certo tempo dopo il lutto per uno sposo, e durante tutto il tempo in cui allatta un bambino.

Le leggi che regolano il cibo e le bevande sono, del pari, assai rigorose. Chi consuma il pasto nella savana comincerà col gettare qualche boccone verso i quattro punti cardinali prima di inghiottire qualunque cosa, gesto, questo, che esprime la comunione con tutti gli altri esseri del cosmo. In un pasto comune i convitati avranno rispetto di quanto è posto nel centro del piatto, ove si pensa che discenda la potenza divina che conferisce all'alimento le sue virtù nutritive. Il centro di ogni cosa è come se fosse il suo cuore, che appartiene agli dei. È dunque tutto un ‛galateo rituale' quello che bisogna praticare.

Una tale visione del mondo non lascia alcuno spazio al ‛profano', nel senso moderno della parola, dato che ogni azione viene a inserirsi in un mondo di forze di cui essa deve rispettare e salvaguardare l'equilibrio vivente e sacro. Tutto è legato, tutto ha ripercussione su tutto, ogni azione scuote le forze della vita che sono i molteplici aspetti della (letteralmente: potere-forza), Forza sacra primordiale, essa stessa aspetto di Dio, creatore unico di tutte le cose.

In questa visione globale dell'universo non vi è dunque spazio per il profano ‛in sé'. Al contrario, possono esistere zone profanate o comportamenti profani che necessitano di un rituale di purificazione o di riparazione, destinato a ristabilire il turbato equilibrio delle forze.

c) L'Essere supremo

Spesso si è rimproverata alle religioni africane la molteplicità delle loro divinità, l'assenza di una fede in un Dio unico; ma ciò significa che si conoscevano male queste religioni. Tutti gli insegnamenti tradizionali che conosco, e che riguardano la maggior parte dei territori africani situati a nord dell'Equatore, collocano alla sommità e all'origine della creazione un Essere supremo, che non si può definire e che ha la sua dimora ‛nel cielo': Maa Ngala (‛Signore di tutto') o Masa Dembali (‛Signore increato e infinito') per i Bambara; Guéno (‛l'Eterno') o Dundari (‛Colui che non teme le conseguenze delle proprie azioni') per i Fulbe; Amma per i Dogon, Wunnam per i Mossi, Olorun per i Yoruba, ecc.

Unico creatore di tutto ciò che esiste, l'Essere supremo sfugge a ogni contingenza, a ogni definizione, a ogni comprensione puramente intellettuale. Egli è per eccellenza ‟la perplessità delle intelligenze", secondo la parola del mio maestro Tierno Bokar, il Saggio di Bandiagara.

Trascendente nell'essenza, è tuttavia immanente nelle sue manifestazioni. Al di là di tutto, e del tutto inattingibile, egli è tuttavia misteriosamente presente in ogni luogo e in ogni essere sotto l'aspetto della sua ‛Forza' o ‛Potenza'. Nel racconto iniziatico dell'etnia fulbe, Kaïdara (una delle manifestazioni della Forza primordiale) dichiara: ‟Io sono Kaïdara il lontano e il vicinissimo". ‟Dappertutto, dove c'è il cielo, c'è Maa Ngala", dice il proverbio bambara. La tradizione insegna che per l'uomo che sa invocare Dio la distanza che lo separa da lui non è più grande di quella che separa l'unghia dalla carne del dito che essa ricopre, mentre l'uomo che non prega Dio e non gli offre sacrifici si trova separato da lui da una distanza più grande della profondità dei cieli...

Questa doppia natura della divinità può turbare solo uno spirito che sia esclusivamente logico, abituato a dividere tutto in distinte categorie e chiuso ai misteri dell'Unità, in cui ogni dicotomia si risolve. Ma questo mistero non mette a disagio lo spirito africano, soprattutto quando la divinità assume l'aspetto di Sebaa Mansa Kolibali, il ‛Possente-Re-che-tutto-può', altro nome di Dio in bambara.

Nell'iniziazione del Komo, presso i Bambara, 266 segni rituali servono per designare i ‛nomi di Dio', i suoi attributi e i suoi poteri. Per esempio: ‛CoIni che stupisce', ‛il Signore di tutto', ‛la Grande cosa senza proprietario', ‛la Grande profondità insondabile', ‛l'Unica cosa inconoscibile', ecc. Questi 266 segni, che si moltiplicano all'infinito a immagine dei mondi e degli esseri creati da Dio, si ritrovano sinteticamente nell'uomo, il cui carattere, il cui temperamento, il tere, nasce dalla loro combinazione (v. Dieterlen e Cissé, 1972).

d) Agenti intermediari

L'Essere supremo o Dio è considerato, in generale, troppo lontano nella sua trascendenza perché gli uomini gli possano dedicare un culto diretto. La voce di Maanin (il ‛piccolo uomo' figlio d'Adamo) non potrebbe raggiungerlo direttamente e deve passare allora attraverso intermediari appropriati per potergli indirizzare lodi o lamentele. Questi intermediari attenuano i rigori e favoriscono la clemenza e i favori. Il rapporto con il ‛Sacro supremo' si effettua dunque attraverso la mediazione di un ‛Sacro mediano' che scaturisce e si sostiene nel Sacro supremo e i cui agenti riversano sull'universo forze faste e nefaste attraverso 28 strade o solchi, corrispondenti ai 28 giorni della luna. Ed è a queste forze, da cui dipendono la felicità o l'infelicità degli uomini, che viene indirizzata la maggior parte delle cerimonie, degli incantesimi e delle offerte, e non all'Essere supremo, troppo al di fuori della dimensione umana e troppo impenetrabile perché possa venir localizzato.

Nella scuola iniziatica del Koré, che può essere considerata come la Tradizione-Madre presso alcuni Bambara, e in particolare presso quelli del Mali centrale, viene insegnato che il piano divino si suddivide in tre cerchi concentrici.

Il cerchio interno, o mondo di Maa Ngala, assolutamente inviolabile, è conosciuto unicamente dallo stesso Maa Ngala. Si sa soltanto che tutto promana da lui e che tutto ritorna a lui.

Il secondo cerchio, mondo di Bembaw, rappresenta il mondo degli spiriti trasmettitori, o anime veicolari, la cui evanescenza permette loro di captare i raggi emanati dal fuoco centrale senz'essere accecati. Filtrate e adattate da loro, le emanazioni del cerchio interno vengono trasmesse al terzo cerchio e rese così assimilabili per gli esseri del cosmo.

Ed è infatti nel terzo cerchio, mondo di Dan-Fenw, che risiede il germe del cosmo, il germe di tutti gli esseri contingenti, o per dirla in altre parole, il mondo delle esistenze potenziali non ancora manifestate.

Questi tre cerchi concentrici, che costituiscono il piano divino propriamente detto, sfociano in una quarta manifestazione, quella del mondo dei quattro elementi fondamentali (o elementi-madre): aria, fuoco, acqua, terra, la cui combinazione dà vita e corpo a tutti gli esseri contingenti. Ed è a questo livello che i germi potenziali, animati dalla Forza primordiale, s'incarnano negli elementi per diventare creature manifeste.

Questa struttura bambara si ritrova nella tradizione fulbe, malgrado essa si esprima con simboli diversi. Il Sirgal, o ‛frullino del latte' a quattro braccia, sarà uno dei fondamenti di questo simbolismo presso i Fulbe. Le quattro braccia orizzontali poste alla base del manico verticale, rappresentano i quattro elementi-madre.

La nozione di intermediario è così importante nella tradizione africana che vi ricopre un ruolo paragonabile a quello dello scheletro nel corpo. La si ritrova a tutti i livelli di relazione nella vita sociale, dove le situazioni sono come un'eco, o un riflesso, della relazione con l'Essere supremo. Infatti, nelle regioni che conosco, gli Africani ricorrono quasi sempre a un intermediario per esprimere i loro desideri a qualcuno, sia nelle loro famiglie sia nei riguardi di un notabile, di un capo, eccetera. Gli antichi coloni dell'Africa Occidentale Francese ricorderanno senza dubbio che il cuoco si serviva sempre del boy per domandare qualche cosa al padrone, e viceversa... E d'altra parte, è questa circostanza che ha dato all'interprete coloniale, intermediario ufficiale tra gli amministrati e il loro capo, un posto così importante nell'amministrazione coloniale.

Sopprimere l'intermediario nella vita africana tradizionale, equivale a toglierle il supporto essenziale. ‟Non andare dove non sei sicuro di trovare un valido intermediario - dice il proverbio - perché ti troveresti nella condizione dell'orfano", cioè di un essere senza forza e senza difesa. L'intermediario è anche ‛colui che risponde'. In bambara, infatti, l'intermediario viene chiamato ‛Bocca-che-risponde'. Ogni re ne ha uno; ogni dio ne ha uno.

Le differenti divinità alle quali si riferiscono le tradizioni animiste della savana (Ntomo, Nama, Komo, Nya, Nyawrole, Jarawara, ecc.) e dalle quali hanno origine le diverse confraternite religiose tradizionali, sono esse stesse altrettanti agenti sacri o consacrati, che gestiscono una piccola parte della Potenza divina che viene loro delegata, in qualche modo, dall'Essere supremo. La loro incarnazione nell'essere o nell'oggetto che serve loro da supporto si realizza secondo modalità che costituiscono la base del segreto della confraternita.

Così pure il sole, la luna, le stelle e tutti i grandi fenomeni atmosferici, talvolta oggetti di culto, sono considerati come altrettanti agenti della forza celeste. Ma al riguardo bisogna evitare un errore. Né il sole, né la luna vengono adorati per se stessi. Essi sono un emblema che incarna una potenza trascendente, il ‛segno' dell'operare di questa potenza, ma non si identificano con essa; ognuno personifica una delle molteplici forze, o aspetti, dell'Essere supremo. Così il sole, la cui forma è immutabile, è l'emblema di questa forza suprema, regale, situata troppo in alto perché gli uomini della terra possano raggiungerla, ma dispensatrice di ogni vita. La potenza del Re celeste Sé-ba-massa (‛il Re dotato di forza') è miticamente e simbolicamente rappresentata dal sole, chiamato ‛l'occhio di Maa Ngala'.

Per estensione e analogia viene attribuito talvolta a un antenato (reale o mitico), quando il suo alto grado è comprovato dalla realizzazione dei desideri che a lui sono stati indirizzati, il titolo di ‛Re dell'unico occhio' o ‛Re cieco da un occhio', a immagine del sole che ha un unico occhio, ma che vede tutto.

Quanto alla luna, rappresenta il segreto della maternità e delle fasi della vita, dunque del tempo. Dapprima sottile e cava, poi piena e infine decrescente, essa è l'immagine stessa dei cicli della vita (concezione, crescita, declino e morte) e dell'eterno rinnovamento delle cose, dato che risuscita dopo i tre giorni nefasti del suo occultamento.

e) Struttura analogica dell'universo

Quanto appena detto ci porta immediatamente a parlare di un altro principio che sottende tutta la concezione religiosa dell'universo in Africa e che domina, di conseguenza, il comportamento quotidiano: si tratta della legge delle corrispondenze analogiche tra il Sacro supremo e le sue manifestazioni.

Secondo la parabola iniziatica: ‟Quando il Maestro dischiude la finestra sul panorama del Sapere, quel che dapprima gli occhi ancora mezzo chiusi del neofita scorgono, sono le manifestazioni di bo-nyonyaa, la potente legge fondamentale della rassomiglianza, o flaninyaa (gemellaggio nel senso di analogia), poi la legge del prestito e dello scambio tra gli esseri contigenti. Quando i suoi occhi saranno completamente aperti, egli scoprirà il meccanismo dell'ininterrotta catena che lega gli esseri e gli elementi e vedrà come il solido, il liquido e il gassoso si congiungano per plasmare, distruggere e ricreare ciò che non può cessar d'essere, essendo Eterno il suo promotore, anche se invisibile agli occhi del corpo".

La scuola del Koré, di cui abbiamo precedentemente parlato, insegna che il piano di Maa Ngala, o cerchio interno, Fuoco centrale della Forza primordiale, si riflette sul secondo cerchio (il mondo di Benbaw) e poi sul terzo (mondo di Dan-Fenw) ingrandendosi all'infinito. La Forza-Potenza di Maa Ngala si estende come un tappeto di luce sviluppandosi e moltiplicandosi. Il cosmo tutto intero ne viene sommerso e gli esseri sono come degli specchi che riflettono tale luce. Navigando in essa, ognuno riflette a suo modo e secondo la propria modalità qualcosa del Fuoco centrale.

Così, le parole Sé, nyama o do, in bambara indicano sia il Sacro in se stesso, sia le sue manifestazioni. Tutto ciò che somiglia a una qualità o qualificazione del divino diventa il ricettacolo o il luogo di manifestazione privilegiata di questa qualità divina. La somiglianza è qui il ‛segno' di una omologia concepita a diversi livelli.

L'età avanzata, per esempio, conferisce a un uomo o a una donna un certo nyama, o forza sacra. Infatti, l'Essere supremo, creatore del cosmo, essendo all'origine del tempo, possiede per eccellenza la qualità dell'anteriorità e dell'anzianità. Si pensa dunque che la Forza sacra corrispondente risieda nel corpo di ogni essere anziano, cosa che gli conferisce un privilegio sacro. Questo spiega il carattere generale della venerazione e del rispetto accordati, in Africa, all'età. Presso i Bambara, è il decano della tribù a essere il depositario dei poteri sacri, ed è lui solo che deve officiare. Un po' dappertutto, nell'Africa tradizionale, il capo del villaggio è spesso il più anziano, cioè colui nel quale risiedono la saggezza e il nyama.

Il Koro-ta, o il fatto d'essere ‛grande', ‛alto' o di occupare una posizione ‛elevata' (montagna, albero, posizione regale o di comando) è parimenti un segno di presenza della Sé, Forza sacra, in quanto simbolo di uno degli aspetti della divinità.

Si ritiene che certi metalli e minerali, immutabili nel tempo, partecipino dell'immutabilità della Potenza-Sorgente eterna e che, di conseguenza, ne siano il ricettacolo. Per questo motivo alcune pietre o metalli sono oggetto di una venerazione particolare. L'oro, per esempio, è stato a lungo considerato un metallo sacro, da utilizzare unicamente a scopo rituale, fino a quando gli influssi orientali e occidentali non gli hanno conferito un significato più utilitaristico. In virtù della legge delle ‛corrispondenze analogiche', l'oro è un simbolo del Re sole e l'argento, metallo femminile, un simbolo della luna.

Ma non dimentichiamo che la venerazione in realtà non si indirizza all'oggetto in se stesso, ma, attraverso quello, alla Forza di cui è l'emblema, il segno esteriore, il simbolo vivente. Il nyama, contrariamente a quanto alcuni hanno creduto di capire, non è una forza in sé malefica, ma una Forza attiva, emanata dall'Altissimo, celata nell'essere o nell'oggetto in cui abita e che esige alcune precauzioni quando ci si accosta ad essa. Così come, su un altro piano, l'elettricità è una forza che in sé non è né buona né cattiva, ma che può rivelarsi utile o mortale a seconda di come la si avvicina e di come la si usa.

Gli effetti del nyama possono agire in modo dannoso su chiunque si metta imprudentemente in contatto con il suo supporto, senza rispettare le condizioni rituali stabilite. La trasgressione compiuta esige una riparazione commisurata alla gravità della colpa. In genere la buona moralità, il rispetto, la carità, il soccorso arrecato ai propri simili e anche agli animali sono stati considerati come i mezzi adatti a neutralizzare il nyama e a impedirgli di manifestarsi come punizione. Bisogna sempre ritornare a questa nozione di equilibrio delle forze per comprendere il comportamento religioso africano, essendo l'uomo responsabile del mantenimento di questo equilibrio.

In occasione di certe cerimonie o di riti di consacrazione, l'uomo può, parimenti, ‛chiamare' questa Forza, o nyama, perché essa venga a risiedere in questo o quel luogo od oggetto: per esempio in certi luoghi sacri, statuette ‛cariche', maschere rituali, utensili occorrenti al ‛Maestro del coltello' (‛colui che sacrifica agli dei'), ecc. Il feticcio perciò non è altro che un ricettacolo, un supporto di forza, una localizzazione della Forza sacra sotto uno dei suoi aspetti particolari.

Per essere efficace, esso dovrà essere costruito in condizioni ben determinate, con dei materiali corrispondenti alla sua funzione e scelti in virtù della legge dell'analogia. Se esso è in legno, si sceglierà il legno di un determinato albero, tagliato in un preciso momento e scolpito in una forma simbolica in rapporto alle qualità che vengono ricercate. Quando si trovano riunite tutte queste condizioni, la consacrazione viene effettuata da un maestro in possesso della ‛parola' perché la Parola, veicolo della Potenza creatrice, costituisce la base e l'agente attivo del rito, o ‛magia'.

Può accadere che si sia commessa una mancanza al momento della consacrazione, se, per esempio, l'officiante non era nelle condizioni di purezza rituale che vengono richieste. Allora, come in un impianto elettrico mal fatto, si produrrà un corto circuito o un incendio, e l'oggetto rituale, invece di adempiere normalmente la sua funzione, diventerà dannoso o, come si dice, ‛malefico'.

Certe maschere rituali sono così ‛cariche' che vengono esposte agli sguardi solo nelle grandi cerimonie. Presso i Dogon del Mali, per esempio, la più sacra tra le grandi maschere esce fuori dalla sua caverna solo per la cerimonia del Sigui che ha luogo una volta ogni 60 anni.

La nozione di ‛arte per l'arte', così come si intende in Europa, non esisteva affatto nell'Africa tradizionale. Ogni oggetto lavorato aveva una destinazione rituale e ogni decorazione un significato simbolico. Così i motivi delle coperte tessute dai Dogon, dai Fulbe, dai Baulè della Costa d'Avorio, ecc., rappresentano l'intreccio o il richiamo dei numeri fondamentali della genesi cosmica, mentre le cesellature dei sandali confezionati dai ciabattini tradizionali, o le sculture sul legno degli sgabelli e delle porte, esprimono dei simboli chiave e costituiscono un vero ‛codice' per lo spirito avveduto.

Ci si è spesso meravigliati che il volto delle statuette africane non sia mai atteggiato al sorriso. Il fatto è che in genere esse rappresentano antenati ormai nell'al di là, oppure sono il simbolo delle forze cosmiche, e dunque la gravità è l'unica espressione che gli si addica.

È superfluo sottolineare che l'avvento del turismo e la corsa degli amatori dell'esotismo alle statuette e alle maschere ha fatto sorgere una produzione puramente commerciale che non ha più niente di tradizionale, salvo l'apparenza.

f) Gli antenati

Tra gli agenti intermediari che permettono la relazione tra il mondo divino e l'uomo, l'antenato occupa un posto privilegiato. Di solito si tratta di colui che, per ispirazione divina, dopo aver stretto alleanza con le forze tutelari del luogo, ha fondato il villaggio o la tribù; ed è a lui che ci si rivolgerà più volentieri. Un segreto legame di sangue o di latte lo unisce alla sua discendenza maschile o femminile, della quale non può disinteressarsi. C'è sempre una continuità tra il mondo dei viventi e quello dei morti. I defunti restano uniti ai viventi attraverso occulti legami indissolubili. Ogni uomo è il depositario di questi sacri legami. Egli li riceve dal suo ascendente, li consolida e li trasmette fedelmente, a sua volta, alla sua discendenza.

La venerazione degli antenati aumenta con la loro antichità. I più antichi sono simboleggiati con dei soli e i più vicini con delle lune. E, come gli astri si influenzano reciprocamente, così pure gli antenati ricevono forza gli uni dagli altri. Il loro intervento è costante nella vita degli uomini.

La relazione è più facile con l'antenato che non con l'Essere supremo. Si può parlare con lui nella lingua che egli ha usato e trasmesso alla posterità. Si sa quali libagioni bisogna compiere per onorario. Inoltre, essendo disincarnato, egli si trova nelle migliori condizioni per poter parlare direttamente all'Essere supremo, più di quanto non possa fare l'uomo, ristretto nella sua prigione di carne.

Conviene precisare che non tutti diventano ‛antenato', nel senso rituale e cultuale della parola. Solo gli uomini che hanno raggiunto, durante la loro vita, il grado di perfezione del Maa, il primo uomo creato da Maa Ngala - sorta di Adamo primordiale e perfetto (v. sotto, § g) - hanno diritto a questo titolo e si ritiene che risiedano nel secondo cerchio del mondo divino, cerchio in cui incontrano le forze che emanano direttamente da Maa Ngala.

La loro corporeità, purificata dalle sozzure terrestri e come detersa da ogni putrefazione, è entrata in uno stato di essenzialità che le permette di ricevere le forze del cerchio interno. È dunque negli antenati che si realizza l'incontro tra le forze divine e la materia, dato che questa esiste in essi nella forma più sottile.

g) Posto e ruolo dell'uomo nell'universo

L'uomo occupa, secondo la tradizione africana, un posto centrale nell'universo; in esso, abbiamo visto, l'uomo è responsabile dell'equilibrio delle forze e della conservazione dell'armonia universale. Per illustrare meglio questa nozione, ascoltiamo il mito della creazione dell'universo e dell'uomo, così come il Maestro iniziatore del Komo lo insegna al giovane circonciso bambara.

‟Non esisteva niente, al di fuori di un Essere. Questo Essere era un Vuoto vivente, che potenzialmente covava le esistenze contingenti. Il Tempo-infinito era la dimora di questo Essere-Uno. L'Essere-Uno si diede il nome di Maa Ngala. Egli viveva in un perpetuo presente. Per lui non esisteva né ieri, né domani. Maa Ngala volle essere conosciuto. E allora creò Fan, un uovo meraviglioso che comportava nove divisioni.

Maa Ngala, ignorando il sonno e la fatica, non aveva affatto bisogno di riposo, nè di contare la durata. Ma non era la stessa cosa per Fan, l'Uovo primordiale, essere contingente che aveva avuto un inizio, mentre Maa Ngala, l'Increato, non aveva mai avuto inizio e non sarebbe finito mai. Perciò, molto più per Fan che per se stesso, Maa Ngala chiuse le palpebre della sua Potenza. Questo gesto creò la notte. Le riaprì. Questo secondo movimento creò il giorno. Così esistette un tempo-orario per collocare Fan nel Tempo-eterno, dimora dello stesso Maa Ngala.

Maa Ngala covò Fan per un numero d'anni pari alla quantità di granelli di sabbia necessari per riempire un granaio quadrato della misura di ventiquattro cubiti dilato per quarantaquattro di altezza. Durante la cova di Fan, Maa Ngala creò i ritmi, i numeri, le temperature, la durata, i colori, i suoni, i pesi, le forme e gli odori, e introdusse in Fan queste nove categorie fondamentali.

Fan infine uscì dal guscio e generò venti esseri che costituirono la totalità dell'universo, delle forze esistenti e della conoscenza possibile. Ma, purtroppo, nessuna di queste venti prime creature si rivelò atta a divenire il Kuma-nyon, ovvero l'‛Interlocutore', che Maa Ngala aveva desiderato per se stesso.

Fu allora che Maa Ngala decise di creare un Essere che fosse inferiore a lui, ma superiore a tutti gli altri. Questo Essere sarebbe stato incaricato di condurre, guidare, perfino educare le altre creature, e avrebbe avuto per vocazione essenziale quella di diventare il suo Interlocutore. Occorreva che un tale essere fosse eccezionale. Allora Maa Ngala prelevò un frammento da ognuna delle venti creature che già esistevano, li mescolò, poi soffiò in questo miscuglio una scintilla del suo Soffio-igneo. Con questa materia composta dagli elementi prelevati dalle prime venti creature, più la scintilla emanata dal suo Essere primordiale, Maa Ngala diede origine a colui che fu il ventiduesimo Essere. Egli diede a quest'Essere composito il nome di Maa: ‛Uomo' (prima parte del suo Nome divino), di modo che questo nuovo Essere conteneva, per il suo nome e per la scintilla divina introdotta in lui, qualcosa dello stesso Maa Ngala.

Maa Ngala insegnò a Maa l'arte del fabbro. Diede il nome di Fan al laboratorio in cui Maa avrebbe esercitato il suo mestiere. In tal modo, Fan, l'Uovo primordiale, e Fan, il laboratorio del fabbro, ebbero un nome comune, mentre, da parte sua, Maa, il primo fabbro, aveva quasi lo stesso nome del suo creatore Maa Ngala. E allo stesso modo in cui Maa Ngala creò gli esseri contingenti per mezzo di Fan, l'Uovo primordiale, il fabbro Maa imita l'opera del suo creatore per mezzo di Fan, la fucina, che gli permette di trasformare la materia e di operare su di essa".

Si potrebbe dire che ritroviamo qui la legge della corrispondenza analogica al suo primo livello, che potremmo definire di ‛rifrazione'. Ma bisogna specificare bene che per la tradizione africana se Maa, l'uomo, può dar nuova forma e modificare le cose del cosmo, egli però non le ‛inventa'. E in questo consiste la sua grande differenza rispetto a Maa Ngala, l'Inventore-Creatore di tutte le cose.

Il primo Uomo Maa ebbe una discendenza. Il suo primo figlio Maa Folo diede vita a Bebiyere, che a sua volta diede vita a Sira Fara. Fino a quel tempo, tutti vivevano in un universo sacro, in accordo con le leggi dell'armonia universale. Ma a partire da Sira Fara apparve il dualismo e il conflitto tra il bene e il male, la pace e la guerra, la vita e la morte. Infatti Sira Fara ebbe due gemelli: un ragazzo, Maa Koro, e una ragazza, Musokoronin Kunje. Maa Koro si impegnò sulla via tracciata dai suoi padri, dai quali aveva ricevuto la conoscenza iniziatica trasmessa dal grande antenato Maa, che, a sua volta, l'aveva ricevuta da Maa Ngala. Al contrario, sua sorella Musokoronin Kunje, la ‛Megera canuta', si ribellò contro le leggi sacre, instaurò la disobbedienza e, con questa occulta rottura, introdusse nel mondo il disordine, la guerra e la morte.

Maa, in quanto dio e persona, è dunque la sintesi di tutto quello che esiste. Ricettivo in sommo grado verso la Forza suprema, ha ricevuto in eredità un frammento della potenza creatrice divina, il dono dello Spirito e della Parola. La sua partecipazione al mondo divino è simboleggiata dal suo nome, che è parte del nome divino. I diversi elementi che sono in lui ne fanno l'essere in cui confluiscono tutte le forze cosmiche, l'incrocio di tutti gli influssi, dai più elevati ai più bassi. Il mondo minerale, il mondo vegetale e il mondo animale sono presenti in lui contemporaneamente ad altri mondi più eterei.

Maa è chiamato ad amministrare e a ordinare in se stesso queste forze. Se vi riesce, diventa per ciò stesso il ‛garante' dell'armonia universale, in virtù dell'intima interdipendenza di tutte le cose in seno alla vasta unità cosmica e del posto eminente che l'uomo vi occupa.

Come abbiamo detto in precedenza, per l'Africano tradizionale tutto è collegato nell'universo. L'uomo è dunque portato a intrattenere, col mondo che lo circonda, relazioni di scambio, di dipendenza e d'equilibrio, codificate peraltro da regole di comportamento molto precise. Nella scuola tradizionale Benbaw-sira, per esempio, ci sono leggi che determinano il comportamento dell'uomo di fronte a tutti gli esseri che popolano la parte vitale della terra: minerali, vegetali e animali. Una violazione di queste leggi comporterebbe il rischio, in seno all'equilibrio della natura e delle forze che la sottendono, di uno sconvolgimento che si ritorcerebbe contro di lui.

Ed è questo profondo sentimento dell'unità della vita e della responsabilità dell'uomo che spiega come, nell'antica società tradizionale, i re o i capi religiosi fossero considerati responsabili della fertilità del suolo, del regime delle piogge, dell'equilibrio delle forze della natura, eccetera. Dal loro rispetto delle leggi sacre e dalla loro buona condotta, in una parola dalla condizione ordinata del loro universo interiore ed esteriore, dipendeva il buon ordine delle cose nella regione posta sotto la loro protezione.

In caso di calamità, il primo atteggiamento dei sacrificatori era di fare un esame di coscienza personale per vedere se essi non avessero commesso qualche colpa, poi, in caso negativo, di ricercare se la colpa non fosse stata commessa da un re o da un grande notabile (la colpa collettiva di un popolo veniva considerata meno grave della colpa di un capo o di un responsabile). Una volta scoperta l'origine della colpa, si cercava il mezzo di ripararla o di espiarla per ristabilire l'equilibrio compromesso. Ben inteso, questo mezzo era ‛magico', e cioè rivolto alle forze viventi che sono dietro i fenomeni, e non ai fenomeni stessi.

Secondo l'insegnamento tradizionale, ogni uomo, alla nascita, è un Maa in potenza. L'uomo primordiale è contenuto in lui alla stessa maniera in cui il baobab è contenuto in germe dentro il seme. Ogni uomo è dunque considerato in partenza come ‛incompiuto' e chiamato a realizzarsi in funzione delle forze che sono depositate dentro di lui. Ma se egli è in potenza un Maa, racchiude pure in se stesso il dualismo rappresentato dai gemelli Maa Koro e Musokoronin Kunje. Per reintegrare lo stato primordiale di Maa, egli dovrà perciò attraversare, sulla via della sua ‛ascesa', questa tappa della dicotomia e orientarsi con fermezza sul cammino tracciato da Maa Koro.

Maa Koro stesso aveva avuto quattro figlioletti che simboleggiano le quattro strade occulte che permettono l'acquisizione dei quattro grandi poteri: il ‛grande udire', il ‛grande vedere', il ‛ parlare' e il ‛grande agire'.

Sul cammino della sua ‛ascesa' al di là di Maa Koro, i tre grandi antenati figli di Maa, Sira Fara, Bebiyere e Maa Folo, simboleggiano i tre stadi che corrispondono ai gradi iniziatici: grado minore, medio e superiore. Si vedono così tutti i livelli nei quali i miti possono essere meditati e vissuti.

h) La persona umana

Le molteplici e svariate forze che si muovono nell'universo nascosto di Maa, l'uomo, costituiscono degli ‛stati' o persone psichiche, che emanano dallo spirito di Maa, allo stesso modo in cui le forze cosmiche emanano da quel fuoco centrale che è Maa Ngala.

Per i Fulbe, i Bambara e tutta la tradizione dell'antico Bafour, la persona umana è dunque complessa e racchiude una molteplicità interiore, talvolta contraddittoria, di cui l'uomo deve acquistare padronanza nel corso della sua vita.

I Fulbe, come i Bambara, hanno una duplice espressione per indicare l'essere umano: neddo e neddaaku in fulbe, maa e maaya in bambara. Il primo termine significa ‛la persona' (o l'‛uomo') e il secondo significa ‛le persone della persona'. La tradizione infatti insegna che maa (o neddo), la Persona-ricettacolo, racchiude in sé maaya (o neddaaku), cioè ‛le persone' o gli aspetti molteplici di maa. Secondo l'espressione bambara ‛Maa ka maaya ka ca a yere kono': ‛Le persone della persona sono molteplici nella persona'.

A proposito della complessità della natura umana, conviene parlare anche del ‛doppio' (dya in bambara, mbeelu in fulbe). L'essere umano è dotato di parecchi dya, ciascuno dei quali è sempre più profondo ed essenziale del precedente. Si ritiene che le malattie risultino da questi dya che sono, in qualche modo, la nostra materia ‛eterea', la nostra materia ‛sottile'. Quando la perturbazione non arriva a esteriorizzarsi in una malattia esterna, diventa malattia mentale.

Il dya serve da supporto alle parti immortali dell'individuo, soprattutto quando costui si è realizzato pienamente prima della morte. In generale, costituisce lo spettro dei defunti e serve ad assicurare la comunicazione tra i viventi e i morti. Si può manifestare spontaneamente o essere ‛evocato' attraverso particolari cerimonie. In virtù del suo carattere etereo, può entrare in rapporto con tutte ‛le persone della persona', e talvolta all'insaputa della persona visitata.

Certi grandi sacerdoti, o iniziati, erano capaci di entrare in rapporto, volendo, con tutti i dya. Essi lo facevano benevolmente per patrocinare la causa dei viventi presso gli antenati, per cercare il mezzo di ristabilire l'equilibrio delle forze, rotto per un istante da qualche errore umano. Ai giorni nostri, ovviamente, vediamo che queste funzioni sempre più vengono esercitate in modo sistematico e per denaro. Si tratta di una degenerazione dovuta all'effetto dissacratorio e disintegrante del denaro sulle strutture tradizionali e sull'uomo stesso.

Il corpo dell'uomo, chiamato fari in bambara e tergai in fulbe, è considerato dall'insegnamento tradizionale come un santuario in cui tutti gli esseri che lo abitano si trovano in condominio. Secondo l'espressione bambara ‛Maa ye dinye merenin de ye', ‛L'uomo è l'universo in miniatura'. L'intero suo corpo corrisponde a un simbolismo ben preciso e in particolare la testa, parte superiore dell'essere, è solcata da 7 grandi aperture di cui ciascuna, custodita da una divinità (uno degli aspetti della forza primordiale), è la porta d'entrata di una certa facoltà. Ogni porta si apre su una nuova porta interna, e questo all'infinito. Il viso viene considerato la facciata di questo mondo interiore e vi sono segni che permettono di decifrare le caratteristiche delle persone che sono nascoste nell'uomo. ‟Mostrami il tuo viso, e ti dirò la qualità delle tue persone interne", dice l'adagio. E un altro tuttavia aggiunge: ‟Non si finisce mai di conoscere maa..." perché il mondo psichico dell'uomo è come un vasto oceano. La sua parte conosciuta non è niente rispetto a quella che resta da conoscere.

Non essendo l'uomo un essere statico e fin dall'inizio compiuto, la sua vita è dunque concepita come evolutiva e dinamica. Come il seme vegetale, la persona umana si evolve partendo da un capitale primitivo, che costituisce il suo potenziale. Sarà questo potenziale a svilupparsi nel corso di tutta la sua vita, in funzione del terreno e delle circostanze che si incontreranno. Funzione dell'educazione tradizionale e dell'iniziazione sarà quella di guidare l'uomo sul cammino della propria compiuta realizzazione, il cammino della reintegrazione del maa primordiale latente nell'uomo.

L'uomo non ancora realizzato, che racchiude in sé mondi, forze e persone non ancora ordinati, è chiamato maa-nin, ‛piccolo uomo', specie di omuncolo. La tradizione insegna che ‟non si può uscire dallo stato di maa-nin per reintegrare lo stato di maa se non si è padroni di se stessi". E aggiunge: ‟Il dominio di sé è frutto della conoscenza di sé".

Ma dell'uomo che ha dominato e messo in ordine i suoi mondi interiori, che è padrone delle sue passioni, delle sue sofferenze, delle sue emozioni e della sua parola, si dice che ‛è diventato maa' (o neddo, in fulbe). Come un metallo estratto dalla sua ganga, fuso, purificato, lavorato e poi finemente foggiato, egli è diventato nel senso pieno della parola ‛l'uomo civile' (per impiegare un'espressione moderna), il solo che possa, realmente, meritare questo titolo. Alla fine del suo perfezionamento, l'uomo reintegra quel maa primordiale, interlocutore di Maa Ngala, che potenzialmente giaceva in lui.

Il possente baobab affida alla terra in modo analogo un minuscolo seme che contiene in nuce tutte le sue possibilità. Quando finalmente, dopo aver trionfato dell'ambiente con l'aiuto delle potenze della terra, dell'acqua, dell'aria e del fuoco solare, il nuovo albero si sviluppa e dispiega nello spazio la sua enorme ampiezza, allora riproduce a sua volta la realtà e la forma del baobab originale. Il termine del cammino è dunque un incontro con l'origine, o piuttosto un compimento dell'origine. Il ciclo si chiude, l'alfa e l'omega si sono riuniti per ricostituire l'unità originale, collocata fuori del tempo terrestre.

È in questa prospettiva che si deve comprendere la costante valorizzazione del passato - e spesso di un passato mitico - nella religione africana. Questo atteggiamento non esclude affatto la nozione di evoluzione e di progresso, dato che la vita viene concepita come essenzialmente dinamica. Ma la cerimonia rituale, per esempio, che riproduce i fatti e le gesta dell'eroe iniziatore o dell'antenato mitico, tende a far discendere, o a far dischiudere, nel tempo attuale, i valori eterni simboleggiati dal grande antenato e situati fuori del tempo. Ed è questo incontro tra il tempo eterno e il nostro tempo quotidiano che traspone quest'ultimo in un'altra dimensione, i cui valori lo fecondano per una realizzazione migliore.

i) Simbolismo delle età della vita

Lo sviluppo della persona si realizza seguendo il ritmo dei grandi periodi della crescita del corpo, ognuno dei quali corrisponde a un grado d'iniziazione.

L'esistenza, che ha inizio con il concepimento, è preceduta da una preesistenza cosmica, in cui si pensa che l'uomo risieda nel regno dell'amore e dell'armonia, chiamato, dai Bambara, Benké-so. Il venire al mondo di un bambino testimonia che un frammento dell'esistenza cosmica anonima si è distaccato e incarnato al fine di poter compiere una missione sulla nostra terra.

Nel simbolismo fulbe, l'unione dell'uomo e della donna è considerata come la manifestazione della bellezza di un fiore. Il profumo, assimilato a una forza passiva, si unisce alla bellezza, forza attiva, per creare il fiore. Così l'uomo e la donna (che possono incarnare indistintamente l'una o l'altra forza) si attirano per unirsi. Dalla loro unione nasce un fiore che impiega tre mesi per costituirsi nel seno della madre. A partire dal terzo mese, il fiore si schiude fino a diventare gemma al sesto mese. Quando si è formata la gemma, è nato il frutto. Gli restano ancora tre mesi per svilupparsi e diventare, in virtù della nascita, un'unità umana. Prima, infatti, egli non vive di vita autonoma, ma tramite la madre. Durante i nove mesi della gestazione, tutti gli influssi hanno avuto il tempo di incarnarsi prima nel fiore, poi nella gemma, per formare infine un frutto completo il giorno della nascita.

Il piccolo uomo viene al mondo con il germe di tutte le potenze che hanno contribuito a creare il primo maa. E come ogni vegetale trasmette i principî della propria specie, così l'uomo, ‛specie' per eccellenza del cosmo, dato che egli ne è la sintesi, trasmette a suo figlio le potenze e le virtualità di cui è portatore.

Tutto questo spiega perché i rapporti sessuali siano sconsigliati, in Africa, a partire dal terzo mese dal concepimento: perché il fiore, sbocciato dal reciproco amore dell'uomo e della donna, possa avere modo di trasformarsi, nel silenzio e nell'oscurità, in gemma e poi in frutto. Si teme, infatti, che il rapporto sessuale, come un vento violento, faccia cadere il fiore appena dischiuso.

Secondo la tradizione la vita di un uomo normale si divide in due grandi fasi: l'una ascendente fino ai 63 anni, l'altra discendente fino ai 126 anni. Ognuna di queste fasi è divisa a sua volta in tre sezioni di 21 anni, composte di tre periodi di 7 anni ciascuno. L'uomo normale dovrebbe poter vivere fino ai 126 anni.

Ogni periodo settennale della grande fase ascendente corrisponde a uno dei nove mesi passati nel ventre materno. Simbolicamente, l'uomo deve passare nel ‛Ventre del cosmo esterno' lo stesso tempo che egli ha passato nel ventre materno. A 63 anni, egli viene considerato perfetto dal punto di vista occulto. Egli comincia allora una nuova vita in un altro mondo, in un nuovo cosmo, nel quale si ritrova come un bambino. La potenza del suo spirito aumenta, allora, a detrimento delle forze del suo corpo. Il suo spirito ‛si volta indietro' e si nutre del suo corpo fino a esaurirlo quando raggiunge il 126° anno. Ed è allora che egli diventa raggrinzito e perde anche, talvolta, il senso della relazione con il mondo, trovandosi il suo spirito in una dimensione più sottile della dimensione fisica.

Ci sono dunque, per l'uomo, tre dimensioni fondamentali: a) la dimensione primordiale, che è quella del cosmo da cui è uscito prima di incarnarsi nel ventre della madre; b) la dimensione della sua incarnazione e del suo sviluppo, o dimensione fisica; c) la dimensione della sua spiritualità, cioè la dimensione del ritorno, ma di un ritorno che non è all'indietro, perché qui non c'è né ‛avanti' né ‛indietro' e le nostre categorie del tempo o dello spazio non hanno più valore.

Ma, ben inteso, non ogni uomo arriverà necessariamente fino al termine dello sviluppo fisico e spirituale, allo stesso modo che, su un altro piano, non ogni seme diventerà un baobab...

Primo periodo settennale. - L'ingresso del bambino nel mondo è preparato secondo la tradizione. È opportuno infatti che, uscendo dal ventre della madre, al momento del suo ingresso nel ‛ventre del cosmo' (la vita terrestre), il bambino non sia nè disorientato, nè turbato dalla corrente delle forze che attraversano lo spazio.

Durante i sette giorni che seguono la sua nascita, cioè per un piccolo settennato, il bambino resta senza nome. Egli viene presentato in un certo senso alle sette principali divinità che presiedono ai sette giorni della settimana. Al levar del sole del settimo giorno, gli viene imposto il suo nome esclamando, in segno d'augurio: ‟Che Dio possa render dolce il suo sole!".

A partire da quel giorno, il bambino entra nel mondo con un'identità. Eredita automaticamente il nome della famiglia o del clan, ma i suoi genitori devono scegliergli il nome proprio. Talvolta il nome proprio prescelto corrisponde a un desiderio anteriore formulato dai genitori; talaltra, se questi rispettano la tradizione, il bambino riceverà il nome di suo padre o di un altro membro della famiglia; o magari sarà un indovino a indicare il nome adatto al bambino in ragione delle particolari circostanze che hanno accompagnato la sua nascita o il periodo della sua gestazione.

Il primo periodo settennale corrisponde alla prima infanzia, quando la natura del bambino è malleabile e pienamente ricettiva, plasmabile come creta senza difficoltà. Durante questo periodo, la piccola persona in formazione richiede le maggiori cure possibili, sia dal punto di vista fisico che psichico. La madre è quella che maggiormente agisce in questo periodo fondamentale.

A questa età il bambino dipende totalmente dalla madre e da essa riceve tutte le forze della vita. La tradizione prevede che il bambino debba restare unito alla madre per 33 mesi. Infatti, oltre i 9 mesi della gestazione, egli viene tenuto da lei per 24 mesi sia sulla schiena, alla maniera delle mamme africane, sia nel grembo. Viene svezzato completamente solo alla fine dei 24 mesi d'allattamento, anche se già da prima ha cominciato a prendere un cibo diverso. Si pensa, infatti, che al termine dei 33 mesi si sia consolidata la struttura del suo corpo - la colonna vertebrale, composta di 33 vertebre (vengono incluse in questo conto le vertebre sacrali saldate al coccige; trentatré è il numero dell' ‛uomo perfetto' nella scienza iniziatica dei numeri).

Fino al settimo anno la madre è il criterio assoluto del bambino, che a lei fa riferimento in tutto e per tutto. Essa è il suo rifugio, il suo istruttore, il suo universo. La via tracciata dalla madre a questa età è fondamentale e lascerà a lungo il segno sul bambino. Secondo il proverbio: ‟Tutto quello che siamo e che abbiamo, lo dobbiamo una volta a nostro padre, ma due volte a nostra madre".

Dall'età di tre anni - in sostanza, da quando il bambino inizia a parlare - si incomincia a correggerlo per educarlo. Il bambino ben educato, in Africa - e questo è ancora valido ai nostri giorni - è quello il cui atteggiamento è improntato al ritegno, alla discrezione e al rispetto verso i più grandi; deve invece mostrare benevolenza e indulgenza verso i più piccoli.

Tutto ciò è conforme al modello ideale dell'uomo realizzato, cioè maa: colui che sa dominare le forze che lo abitano. In questo stesso senso bisogna parimenti parlare della necessità di raggiungere la padronanza della sofferenza e della paura. Assai presto il bambino deve imparare a rimanere sereno e silenzioso davanti alle inevitabili piccole sofferenze della vita e a dominare le proprie emozioni.

Secondo periodo settennale. - Nella seconda fase dell'infanzia, dai 7 ai 14 anni, il bambino si allontana pian piano dalla madre e si trova a confronto con l'ambiente esterno di cui riceve gli influssi. Tuttavia prova sempre il bisogno di avere la madre come punto di riferimento, poiché essa resta il suo modello e il suo miglior consigliere. Durante questo periodo comincia a frequentare la scuola della vita. Se suo padre è agricoltore, lo accompagna nei campi; se è cacciatore, assiste alla battute di caccia; se è artigiano, lo aiuta nel laboratorio e apprende il mestiere a poco a poco.

Il piccolo Fulbe apprende ben presto ad accompagnare il gregge e ad occuparsi degli animali; la sua fierezza non ha confronti quando, essendosi assunto da solo la responsabilità di un gregge nella steppa, riceve per la prima volta il bastone da pastore Fulbe, bastone tagliato dall'albero sacro nelbi e che per il Fulbe è, contemporaneamente, arma, strumento di lavoro e insegna di nobiltà. Questo bastone, d'altra parte, gli viene solo prestato e diventerà suo solo molto più tardi, dopo che avrà superato certe prove e dimostrato il suo coraggio (nel Macina, in particolare, questa attribuzione rituale del bastone ha luogo quando il giovane, per la prima volta, strappa a una belva una delle bestie del gregge, con l'aiuto del solo bastone; in tale occasione ha luogo una gran festa).

La ragazza, da parte sua, apprenderà assai presto i lavori domestici a fianco della madre; sicché una bambina a 12 anni sa già occuparsi perfettamente dei piccini e aiutare in cucina, e in breve tempo diventa una cuoca perfetta.

Tutti gli uomini del villaggio sono considerati ‛padri' del bambino e, perciò, suoi educatori. Ciascuno di loro ha non solo il diritto, ma anche il dovere di riprendere o di correggere un bambino che sta per commettere un'infrazione.

Durante questo periodo il bambino comincia a far parte di un'associazione che raggruppa i compagni della sua età. Questa piccola associazione, al di fuori delle attività di giuoco, può offrire i propri servizi a delle persone adulte per coltivare un campo, per andare a cercare legna secca o effettuare diversi piccoli lavori.

Terzo periodo settennale, dai 14 ai 21 anni. - Il terzo periodo settennale è la conferma, o il consolidamento, dei primi due, come in ogni elemento di una triade (il terzo grande periodo di 21 anni, sarà, analogamente, la conferma e il compimento dei valori sviluppati nei due precedenti). Durante questo periodo, il giovane passa alla scuola diretta della vita e si allontana progressivamente dalla madre. Egli non acconsente più a occhi chiusi a tutto ciò che viene da lei, e talvolta perfino la corregge. Quel che era assoluta e incondizionata fiducia si muta a poco a poco in amore, perché nulla può interiormente distaccarlo dalla madre.

L'associazioiìe dei coetanei cui il giovane appartiene è diventata più importante e gli offrirà un vero campo d'esperienza per formarsi alla scuola della vita sociale e delle responsabilità. L'associazione deve essere presieduta da un ‛capo onorario' o decano (uomo o donna) scelto tra gli adulti. Questo capo onorario non avrà un ruolo attivo, ma potrà dare consigli e le riunioni importanti si terranno a casa sua.

Le ragazze sono raggruppate in associazioni omologhe, collegate alle associazioni corrispondenti dei ragazzi. Ragazzi e ragazze intrattengono tra di loro delle relazioni che gli etnologi francesi hanno battezzato da ‛Valentino' e da ‛Valentina'. Ogni ragazzo si vede infatti affidata una ragazza dell'associazione femminile corrispondente. In fulbe si dice che essa rappresenta la sua ‛parte' (feččore). Questa ragazza sarà la sua Valentina ed egli la dovrà proteggere in tutte le circostanze, come il cavaliere del Medioevo doveva soccorrere la sua dama. Potrà cantare la sua bellezza, vantare i suoi meriti, vegliare sul suo onore e dedicarle le proprie poesie e i propri pensieri, ma la più stretta castità sarà di regola tra di loro. La verginità è infatti sacra in tutte le religioni, e particolarmente nelle zone della savana a sud del Sahara, in cui la tradizione non ammette la libertà sessuale della donna.

Queste associazioni costituiscono perciò per i giovani non soltanto, come abbiamo detto in precedenza, un apprendistato per la vita sociale, ma anche un allenamento al controllo degli istinti e al dominio di sé, così altamente apprezzati nell'etica africana.

Secondo grande periodo ascendente: dai 21 ai 42 anni. - L'età di 21 anni costituisce una soglia assai importante. Essendo la persona fisica pienamente sviluppata e la persona morale preparata dall'educazione tradizionale, la persona spirituale sta per ricevere ora l'insegnamento che le svelerà i segreti della genesi del cosmo, rivelandole i misteri della sua vera natura.

Presso i Bambara, la tradizione vuole che la circoncisione rituale e l'iniziazione alle cerimonie religiose abbia luogo all'età di 21 anni. È sempre un fabbro, sacramentalmente investito dalla Tradizione per questa funzione, che procede all'ablazione del prepuzio. La pelle del prepuzio, una volta tagliata, ha la forma del berretto Bamma-Da o ‛gola di caimano', che è il copricapo tradizionale degli uomini adulti. Il giovane riceve, quel giorno, il suo berretto che è stato tinto con una pianta particolare (il ngolobé) e che è stato oggetto di una speciale preparazione magica.

Così tagliato, il prepuzio del ragazzo è collocato nel berretto per trasmettergli la sua potenza, dopo di che viene sotterrato. In questo vi è tutto un simbolismo sul trasferimento della forza della vita, energia fondamentale, da un livello inferiore a un livello superiore, poiché è la testa che diventa la sede principale dell'energia creatrice. Nessuno può essere iniziato ai segreti del dio Komo, nella tradizione bambara, finché il membro virile resta coperto dal suo berretto, il prepuzio.

L'età della circoncisione può variare a seconda delle regioni dell'Africa. Anche presso i Bambara può accadere che un bambino sia circonciso a partire dall'età di 7 anni se lo richiede con insistenza a suo padre. Questi lo sottoporrà tuttavia preliminarmente a diverse prove, per sapere se sarà capace di sopportare il dolore dell'operazione senza piangere e senza manifestarlo in pubblico, cosa che sarebbe un grave disonore, grave come disertare il combattimento. Il bambino verrà inviato a effettuare delle corse assai lontano, da solo, attraverso la steppa, oppure dovrà camminare su erbe pungenti senza batter ciglio, o anche subire umiliazioni senza protestare.

Ma la prova più difficile è quella detta ‛della cola'. Essa consiste nel collocare tra i denti del ragazzo una noce di cola, poi nel picchiarlo o nel fargli subire all'improvviso una bruciatura o una puntura. Successivamente si controlla l'impronta che i suoi denti hanno lasciato nella polpa della noce di cola. Se l'impronta impressa dai suoi denti è troppo profonda, il padre rifiuta l'autorizzazione e fa sapere al ragazzo che non è ancora pronto. Se, al contrario, la traccia è leggera o inesistente, cioè il ragazzo ha sopportato il dolore senza reagire, egli può affrontare onorevolmente la prova della circoncisione. Si dice che egli ha superato la ‛prova della cola'.

Qui si può constatare di nuovo tutta l'importanza attribuita al dominio di sé davanti alla sofferenza, legata alla nozione dell'onore e della preparazione alle prove della vita, che un uomo dovrà sopportare senza lamentarsi. Durante le due ultime guerre, molti medici europei che hanno operato senza anestesia degli Africani sul campo di battaglia hanno concluso che questi ‛non avevano nervi', poiché non avevano battuto ciglio nonostante la sofferenza. Questo significava non conoscere quale forza esercitasse su di loro l'educazione ricevuta. Un uomo che gettasse un grido sotto l'effetto del dolore sarebbe, infatti, disonorato.

Una gran festa ha luogo nella notte che precede la cerimonia della circoncisione. Nessuno dei parenti dei futuri circoncisi deve dormire fino al levar del sole. Questa veglia ha luogo perché ‛il ragazzo del prepuzio' sta per morire e sta per nascere un uomo.

La circoncisione è seguita da un periodo di ritiro, variabile a seconda dei luoghi, ma mai inferiore a 63 giorni, né superiore a 126 giorni-periodi che riecheggiano gli stadi della vita umana (presso i musulmani, il ritiro è di 21 giorni). Durante questo periodo i giovani sono affidati al fabbro che ha praticato loro l'operazione e che ora si trova a essere il loro sorvegliante e istruttore. Viene chiamato Sema. Per 60 giorni, il Sema li inizia a tutti i segreti della vita, insegnando loro tutto quello che un uomo deve sapere, cominciando col rivelar loro la genesi del cosmo e dell'uomo. Il 60° giorno del ritiro, essendo stati i giovani convenientemente preparati, il Sema domanda per essi l'iniziazione al cantore del dio Komo. Nella notte tra il 62° e 63° giorno, egli li conduce al limitare del bosco sacro, che è dimora di Komo. Il primo circonciso, che porta il titolo di Masa, scandisce le seguenti parole: ‟Maa Ngala! Maa Ngala! Chi è Maa Ngala? Dove è Maa Ngala?". A questa domanda appare il cantore di Komo, uscendo da un cespuglio, e dice: ‟Chi va là?". Il Sema risponde: ‟Io, il tale, del tale clan, Sema dei giovani circoncisi dell'anno. I miei giovani vengono ad accovacciarsi perché tu apra loro gli occhi (cioè, perché tu proceda alla loro iniziazione). Fino a 63 giorni fa, essi erano Bilakoro (letteralmente: ‛prepuzi non tagliati', cioè giovani non circoncisi). Ormai essi sono Kamelen Koro (letteralmente: ‛prepuzi tagliati', cioè uomini fatti, in piena forza)".

Il cantore fa avanzare i circoncisi seguendo l'ordine della loro operazione. Poi egli grida: ‟Maa Ngala è la Forza infinita! Nessuno può collocarlo nel tempo, né nello spazio. Egli è Dombali (inconoscibile), Dambali (illimitato)". I giovani, allora, oltrepassano una soglia simbolica, poi vanno ad accovacciarsi l'uno accanto all'altro. Ricevono allora l'iniziazione secondo un rito che non posso divulgare.

Il cantore allora esclama, come per chiamare a testimone la steppa: ‟Sono stati aperti i loro occhi e sono state pulite le loro orecchie!". I giovani allora possono, senza inconvenienti (cioè senza paura degli effetti del suo nyama), vedere Komo (rappresentato dalla sua grande maschera, portata dal suo cantore) e toccare i suoi attributi. Poi essi ascoltano, dalla stessa bocca di Komo, l'insegnamento dettagliato della genesi del mondo, base della religione tradizionale. Il cantore enuncia i 78 sigi-ba, o segni principali che costituiscono la nomenclatura degli articoli della genesi. Quest'insegnamento dura fino al levar del sole.

Durante tutto il periodo dei 21 anni che seguiranno, il giovane maturerà gli insegnamenti che avrà ricevuto o continuerà a ricevere nel corso degli anni. Questo periodo che va dai 21 ai 42 anni viene considerato come quello dell'adolescenza. perché l'uomo si trova in ascolto dei saggi'. E questo è il tempo dell'assimilazione, il tempo del silenzio. Infatti l'uomo non ha ancora ‛diritto di parola' nelle assemblee. Se capita che gli venga data, questo avverrà o per favore o per prova, ma non per diritto.

Ogni gestazione, infatti, si opera nel silenzio. ‟È nel silenzio che la gallina cova le sue uova", dice il proverbio. E un altro, aggiunge: ‟La parola ha disperso il mondo, il silenzio lo raccoglie".

Terza grande fase ascendente: dai 42 ai 63 anni. - Arrivato ai 42 anni, inizio dell'età adulta, l'uomo riceve, finalmente, il diritto di parola. Egli allora deve restituire alla società ciò che da essa ha ricevuto ed è tenuto a insegnare agli altri quello che egli ha appreso nel corso della prima fase della sua vita e ha maturato nel corso della seconda, a prezzo, talvolta, di numerose prove. Questo non esclude, d'altra parte, che egli possa continuare ad approfondire il suo sapere e la sua comprensione, perché non si finisce mai d'imparare.

Fase discendente. - A 63 anni, termine della grande fase ascendente, la tradizione considera che l'uomo ha compiuto la sua vita attiva e che nessun dovere lo lega più verso la società. Al contrario, è questa che gli deve tutto. L'artigiano può lasciare il suo laboratorio, il fabbro la sua fucina, l'agricoltore il suo campo. Egli è libero. Ma niente impedisce a chi ne ha la vocazione o la capacità di continuare a insegnare ed essere un centro di conoscenza e di saggezza per i più giovani.

Conviene sottolineare qui in modo del tutto particolare che un'altra costante della vita africana è il rispetto dovuto agli anziani e ai vecchi, e che essi occupano un posto eminente nella società. Abbiamo visto, a proposito della struttura analogica dell'universo, che è l'età avanzata che conferisce il nyama, o forza sacra, poiché il vegliardo possiede la qualità della vecchiaia, o dell'anteriorità, che è per eccellenza quella del Dio creatore che ha preceduto tutte le cose. Il vecchio è, in Africa, l'agente predestinato a trattare con gli dei e con gli spiriti. Inoltre, egli è nello stesso tempo Padre e Madre, in virtù dell'androginismo occulto iniziale del primo Grande Antenato, Maa, che racchiudeva in se stesso tutte le cose.

l) Senso della comunità

Abbiamo affermato più sopra, come principio basilare, che l'Africa tradizionale non era affatto profana e possedeva nel più alto grado il senso del sacro in tutte le cose. Possiamo affermare qui, allo stesso modo, che l'Africa non è affatto individualista e possiede per eccellenza il senso della comunità.

Questi due atteggiamenti derivano dallo stesso sentimento, quello dell' ‛Unità della vita'. La comunità umana è sentita e vissuta come un riflesso dell'Unità cosmica, dove tutto è solidale, dove nessun elemento può vivere isolato, poiché altrimenti diventerebbe come un filo di paglia secca in mezzo a un campo, senza alcun sostegno e alla mercé del più piccolo soffio di vento.

L'Africano, ancora ai nostri giorni, in tutti i luoghi in cui l'educazione occidentale non è arrivata a fare tabula rasa delle antiche strutture morali, non vive la sua vita come essere individuale, ma a livello della collettività. Non gli verrà neppure in mente che i suoi sentimenti o interessi personali potrebbero venir prima di quelli della sua famiglia, per esempio, o del suo clan. È il benessere della sua famiglia che è il suo benessere, la gloria del suo clan che è la sua gloria, e così via (tenendo presente che in Africa la parola ‛famiglia' ha un senso più ampio, si potrebbe dire quasi ‛lignaggio').

Correlativamente, il senso del possesso non esisteva affatto in Africa prima che vi facesse irruzione il denaro, importato assai presto dall'Oriente e più tardi - ma con maggiore ampiezza - dall'Occidente.

La terra, per esempio, era troppo sacra per poter appartenere a chicchessia e non poteva essere oggetto d'alcun titolo di possesso. Madre degli esseri, che racchiude nel suo profondo i segreti della vita e della trasmutazione, luogo d'azione della misericordià divina, essa non apparteneva altro che a Dio e l'uomo poteva disporre solo del suo usufrutto. Soltanto il ‛sacrificatore rituale della Terra', chiamato ‛Padrone della Terra' o ‛Amministratore della Terra', poteva accordare, a coloro che lo domandavano, una superficie coltivabile. Il diritto di coltivare si poteva trasmettere ai figli, ma non si trattava in nessun caso di un diritto di possesso sulla terra stessa. Perfino il re, quando ve ne era uno, non poteva essere il ‛Padrone della Terra'.

I vestiti, ancor oggi, vengono scambiati, passano di mano in mano all'interno della famiglia, e talvolta anche al di fuori. In occasione di una festa, di un matrimonio o di una qualsiasi necessità, si presta a un'amica il proprio boubou ricamato (indumento molto ampio che viene portato sia dagli uomini che dalle donne, ma in tessuti differenti), o i propri gioielli. Mia madre non ha mai potuto conservare presso di sé i suoi gioielli, nè i suoi vestiti più belli, dato che li prestava continuamente alle sue amiche (o alle compagne della sua associazione di cui essa era a capo). Le restava la possibilità, in caso di bisogno, di farsi prestare queste cose da qualcun altro, cosa che sarebbe sembrata naturale a tutti.

Così la nozione di ricchezza o di povertà era relativa, dato che si poteva ottenere sempre quello di cui si aveva bisogno in un dato momento. Esisteva una circolazione dei beni. Inoltre, la rete di solidarietà del sistema parentale è tale, che anche ai nostri giorni esiste sempre qualcuno a cui la tradizione dà il diritto di domandare alloggio, vestiti e sostentamento, come vedremo più avanti, nel paragrafo dedicato alla famiglia (v. sotto, § m).

Il cibo, in genere, è sempre preparato con abbondanza per poterlo dividere con più persone. Gli ‛inviti', secondo l'uso europeo, non esistono, se non in occasione di grandi feste; si va da un amico o da un parente all'ora del pasto, ci si siede e si mangia, ed è tutto. Gli avanzi non vengono mai conservati per l'indomani; si consumano o si distribuiscono. ‟Dio ci ha dato il cibo per oggi - si dice dappertutto in Africa - domani provvederà".

Il senso del possesso e dell'esclusività è così poco apprezzato che la sua espressione grammaticale (la prima persona del possessivo singolare) è stata quasi messa al bando nel linguaggio. Non si dice ‛mio o mia , ma nostro', e questo anche in quei campi in cui l'esclusivismo è di regola, quello delle donne, per esempio. Così, non si dirà a un amico ‟presento mia moglie", ma ‟presento nostra moglie". L'espressione ‟mia moglie" sarebbe, d'altra parte, fastidiosa per l'orecchio, sia in fulbe che in bambara. Come pure, si dirà: ‟Ecco nostro figlio, o nostra figlia".

Anche l'Africa ha, beninteso, i suoi avari, coloro di cui si dice: ‟la loro mano è attaccata al loro collo", perché è difficile che essa si distenda per dare. Ma il nostro intento nel quadro di questo breve studio, era quello di cogliere soprattutto i grandi principi fondamentali (etici e spirituali) che costituiscono l'originalità della civiltà africana e del tipo umano che ne è nato.

m) La famiglia

Come abbiamo detto all'inizio di questo articolo, i costumi possono differire enormemente da una regione all'altra, da un gruppo etnico all'altro. In certi luoghi, i rapporti sessuali sono oggetto d'una stretta regolamentazione rituale e la castità maschile e femminile è altamente valorizzata. In altri, la femmina può godere di una grande libertà sessuale - senza dubbio eredità di un lontano matriarcato. Ma ciò che resta, in tutta l'Africa che conosco direttamente o indirettamente (non posso pronunciarmi sulle regioni che non conosco, specialmente a sud dell'Equatore), è il ruolo e la funzione sacra della Madre.

Nelle tradizioni dell'antico Bafour, la Donna-Madre viene considerata più vicina dell'uomo alla divinità, e più completa sul piano occulto. Infatti, le forze cosmiche, che si pensa siano in numero di 11, entrano nel corpo dell'uomo attraverso 9 aperture o 9 porte (si tratta delle sette aperture che sono nella testa - occhi, narici, bocca, orecchie - e dei due escretori naturali; facciamo notare qui che l'uomo viene considerato come essere che, nello stesso tempo, emette e riceve: emette le potenze cosmiche che ha lavorato e trasformato dentro di sé, e riceve le potenze dell'esterno). Orbene, quando la donna arriva a esercitare la funzione di Madre, mettendo al mondo un figlio, vede aprirsi sul suo petto due porte supplementari, che sono la strada stessa della Vita e della Misericordia divina. Essa si trova allora in armonia con l'insieme delle forze cosmiche.

Infatti, non è soltanto latte quello che il poppante riceve dal seno materno, ma la stessa Misericordia divina e l'amore. Questa Misericordia continua a nutrirlo passando attraverso il latte materno, come già aveva fatto quando egli era feto nel ventre della madre.

Come abbiamo già detto in precedenza, il bambino non deve essere totalmente svezzato prima dei 24 mesi, il che porta a 33 il numero dei mesi in cui deve restare attaccato alla madre, per poter perfezionare la sua ‛ossatura interna'. Un bambino svezzato troppo presto viene considerato come se fosse stato privato del nutrimento di Misericordia che dovrebbe impregnarlo all'inizio della vita per assicurargli uno sviluppo armonioso.

Per analogia, la matrice materna viene considerata come la terza Fucina sacra, quella in cui Dio stesso lavora direttamente, senza alcun intermediario, per creare gli esseri animati.

La prima fucina sacra è Fan; l'Uovo primordiale, luogo di gestazione del cosmo creato da Maa Ngala. Maa, il primo Fabbro, lavora in Fan, la seconda fucina, per trasformare la materia partendo dai principi racchiusi nell'Uovo primordiale. Il ventre della mamma (sia essa animale o umana) è la fucina nella quale l'Essere supremo, operando la rifusione delle diverse potenze cosmiche che vi sono depositate, fa germinare e poi sbocciare la vita.

La Madre è dunque il luogo privilegiato della trascendenza, il luogo stesso del lavoro divino. Ed è per questo che la tradizione le assegna un rango da semidio, mentre la donna-sposa non è altro che la compagna di godimento fisico.

Non solo la madre è un serbatoio di vita, ma è anche il laboratorio visitato da Dio stesso. Essa è dunque doppiamente sacra e questo fatto conferirà tutta la sua forza a ciò che la tradizione chiama il ‛legame di latte'.

Nelle tradizioni qui considerate, la vita sociale si organizza partendo dalla famiglia come prima cellula. Il padre di famiglia è il capo, il sole (e anche, per la famiglia, il primo ‛sacrificatore' agli dei tutelari, cosa che rinforza la sua potenza, riallacciata, così, all'occulto); la madre è la luna. I figli sono i satelliti e rispettano tra di loro una gerarchia, basata sull'età.

Nell'Africa Nera la famiglia, in genere, è poligama (sulla poligamia, v. sotto, § n). La prima donna simboleggia tutte quelle che vengono dopo di lei. Accade lo stesso per i figli che sono tutti simboleggiati dal primo nato. Questa gerarchia stabilisce un ordine dapprima nella famiglia, poi nel quartiere, e infine nel villaggio, che viene considerato come un riflesso dell'universo: un ‛microcosmo'.

Come abbiamo detto in precedenza, i più piccoli devono obbedire ai più grandi, render loro piccoli servizi, far loro delle commissioni, se è necessario, e non tener loro testa. Il più grande rispetto viene testimoniato nei riguardi del padre. Al contrario, l'atteggiamento verso la mamma e le sue co-spose (che sono egualmente ‛madri' allo stesso titolo della mamma) è fatto, soprattutto, di dedizione affettuosa e d'amore reciproco.

Il ragazzo avrà la madre per confidente, molto più del padre, ma questo ruolo può essere assunto egualmente dalle co-spose. Le co-spose della madre sono, d'altronde, le migliori intermediarie tra il bambino e suo padre, dato che una madre interverrà assai raramente a favore dei suoi figli, mentre invece è tenuta, per tradizione, a intervenire presso il padre a favore dei figli delle altre.

Capita così di frequente che i figli di una moglie siano allevati da un'altra, e questo anche quando le due co-spose non vanno d'accordo, il che può accadere... L'amore dei figli (che sono i ‛nostri' figli e non ‛mio' figlio) supera, in genere, le divergenze personali, anche se, ovviamente, vi sono delle eccezioni. Le famiglie poligame conoscono anche loro delle difficoltà, che non sono dovute unicamente alla poligamia, ma che sono inerenti alla natura umana.

Le relazioni gerarchiche all'interno della famiglia si intrecciano con relazioni di un altro tipo che introducono una specie di ‛valvola di sicurezza' e di compensazione. Intendo parlare del legame di Sanankounya, chiamato dagli etnologi ‛parentela scherzosa'. All'interno di una famiglia, il legame di Sanankounya unisce i bambini ai nonni, i cugini del ramo maschile ai cugini del ramo femminile (i figli di un fratello e di una sorella), i fratelli o le sorelle minori di una donna con il marito di questa.

Facciamo notare, prima di proseguire, che impieghiamo il termine ‛cugino' per rendere più chiaro il testo al lettore occidentale. In realtà, in Africa, i cugini vengono chiamati ‛fratelli' e considerati tali, allo stesso titolo dei figli di uno stesso padre e di una stessa madre. Così pure, lo zio paterno (il fratello del padre) viene considerato come un padre, qualunque sia la sua età, e ne assume i doveri, mentre la sorella del padre sarà la ‛zia' o il ‛padre femminile'. Analogamente, la sorella della madre sarà considerata come una madre e il fratello della madre sarà lo ‛zio', o ‛madre maschile', e questo in virtù della legge occulta che vuole che il femminile sia nel maschile e il maschile nel femminile. La nozione di famiglia deve perciò essere intesa in senso assai ampio (si potrebbe anche dire che essa include i vivi e i morti, dato che questi ultimi vengono considerati come i difensori della famiglia nell'al di là).

Ma torniamo alla Sanankounya. Il significato etimologico di questo termine si riallaccia alla parte croccante del riso che resta attaccata al fondo della marmitta dopo la cottura e che forma una crosta saporita in cui si trovano concentrati tutto il burro e i condimenti. Ed è questo il sanan: ciò che aderisce e che è migliore (kounya significa ‛stato della cosa').

La Sanankounya viene considerata come una relazione altrettanto dolce e deliziosa quanto quella parte saporita del cibo che ne costituisce una specie di quintessenza, dato che la parte migliore si è depositata sul fondo. Perciò al proprio Sanankoun si può offrire solo il meglio che c'è. Ora, in Africa, ciò che vi è di meglio è il ridere. ‟Il riso apre le porte della felicità", dice il proverbio.

La relazione di Sanankounya è una relazione tradizionale di scherzi e di riso. Si può maltrattare, a parole, il proprio Sanankoun, affibbiargli epiteti di ogni genere (escluse le ingiurie alla madre!), senza che questo possa provocare altra cosa se non l'ilarità di chi assiste e una pronta replica umoristica dell'interessato, che dà al giuoco nuovo slancio. Gli si possono dire tante cose vere, senza che ciò abbia delle conseguenze o provochi uno scandalo (sulla Sanankounya tra caste e gruppi etnici v. sotto, § q).

La Sanankounya dei bambini piccoli con i nonni consiste in una specie di scherzo tradizionale, dal quale viene escluso ogni rispetto artificioso. Simbolicamente, il piccolo viene considerato come il ‛rivale' del nonno, dato che la sua venuta al mondo suona come segnale di partenza per il nonno, come momento della sua uscita dalla fase attiva della vita. La piccola, invece, viene considerata come la ‛sposina' del nonno. Allo stesso modo la piccola è la ‛rivale' della nonna, mentre il piccolo è il suo ‛maritino'. Gli scherzi che si susseguono sull'argomento creano in famiglia un'atmosfera di allegria.

Come abbiamo detto, un legame di Sanankounya sussiste ugualmente tra i fratelli o le sorelle più piccole di una donna e suo marito, col quale possono scherzare liberamente. Al contrario, il marito deve rispetto e obbedienza agli zii di sua moglie, che sono considerati suoi suoceri allo stesso titolo dei genitori di sua moglie, e che hanno, verso di lui, gli stessi doveri d'assistenza.

I cugini nati da un fratello o da una sorella, indipendentemente dai legami gerarchici che esistono tra di loro (il figlio della sorella è tradizionalmente sottoposto all'autorità del figlio del fratello), hanno delle relazioni basate sulla Sanankounya, dunque sullo scherzo affettuoso e sulla libertà di linguaggio.

Questa rete di relazioni incrociate è tale che, se sorgono problemi o ci sono richieste da presentare al capo della famiglia, si può sempre trovare un modo o una via favorevole per affrontarli. In seno alla famiglia le vie cui far ricorso sono tutte tracciate: è la prima moglie che interverrà a favore delle sue co-spose, mentre queste interverranno a favore dei figli dell'una e delle altre. Il fratello maggiore interverrà sempre a favore dei fratelli minori presso il padre o la madre, e se accade che il fratello maggiore si trovi in difficoltà con il padre, saranno i fratelli minori, riuniti tutti assieme, che andranno a intercedere in suo favore.

Una delle migliori strade cui ricorrere resta quella dell'intervento del Sanankoun di qualcuno, dato che non si può rifiutare nulla al proprio Sanankoun; in ogni caso, non si può rifiutare di ascoltarlo. Se un capo di famiglia, per esempio, commette un abuso o un'ingiustizia, si cercherà di inviargli uno dei suoi Sanankoun tradizionali (potrà trattarsi di un Sanankoun etnico, o del clan, come vedremo al § q). Questi si potrà permettere non solo di esporre il problema, ma anche, se fosse necessario, di dire al padre come stanno le cose e mettere in evidenza i suoi torti, se ne ha, senza che questi possa offendersi. La richiesta presentata da un Sanankoun ha probabilità altissime di essere esaudita.

La Tradizione ha dunque previsto tutte le strade possibili affinché una richiesta non possa esser respinta. Senza dubbio non è affatto inutile ricordare qui che ciò che l'Africa chiama ‛Tradizione' non è un insieme di convenzioni umane, liberamente fissate nell'interesse di una società data, come, per esempio, le leggi occidentali votate nei parlamenti. Si tratta sempre di atteggiamenti e di comportamenti che derivano dalle sacre leggi cosmiche, insegnate dai grandi Antenati. Ed è la stessa visione sacrale del cosmo che è in giuoco e che determina i comportamenti umani, dato che le strutture primordiali si riflettono a tutti i livelli dell'essere in virtù della legge della corrispondenza analogica.

Nel caso che abbiamo appena analizzato funziona la legge degli ‛agenti intermediari', grazie ai quali non viene mai a rompersi l'unità dell'insieme. Ogni entità in cui la vita si organizza - uomo, famiglia, villaggio, comunità umana - è un microcosmo e riflette le leggi sacre che operano nel cosmo: unità, interdipendenza, equilibrio non statico ma in perpetuo movimento, garantito da tutto un sistema di scambi e di compensazioni.

Poiché la famiglia viene vissuta come un tutto, un'altra regola vuole che le decisioni vengano prese molto di rado in modo autonomo. In caso di conflitto, o se si deve prendere una decisione che riguarda la sorte di uno dei genitori, tutti i membri della famiglia si riuniscono sotto la presidenza del più vecchio, sia questi donna o uomo, per esaminare il problema. Ognuno espone completamente il proprio punto di vista; se non si raggiunge un generale accordo è il più anziano che decide in ultima istanza e la sua decisione sarà accettata da tutti. È la grande legge del ‛colloquio', che è un'altra costante africana. Se una questione è troppo grave e i membri della famiglia sono incapaci di risolverla, essa verrà portata nel ‛posto dei colloqui', o ‛capannone degli anziani" e il problema sarà esaminato e poi risolto dal consiglio degli anziani del villaggio.

Esistono anche determinate categorie di decisioni che sono di competenza dei soli uomini e altre, invece, che, per tradizione, appartengono alle donne, le quali mettono allora il proprio marito davanti al fatto compiuto, che questi è costretto ad accettare.

Tutto quest'insieme di relazioni familiari si suddivide, infine, in due categorie essenziali di legami: il legame di sangue e il legame di latte.

Il legame di sangue è quello che unisce i fratelli consanguinei (compresi i cugini di primo e secondo grado). Il legame di latte è quello che unisce i fratelli (compresi i cugini di primo e secondo grado) da parte di madre. Il legame della gloria appartiene al lato paterno. Il legame della pietà appartiene al lato materno. Il legame di sangue è un legame di comunità e di eredità. I fratelli consanguinei ereditano, infatti, gli uni dagli altri e sono i depositari della gloria della famiglia. L'onta di uno solo ricade su tutta la stirpe. Ed è per questo che il proverbio dice: ‟Il tuo fratello di sangue può, al limite, desiderare la tua morte, dato che eredita da te; ma giammai desidererà la tua onta, poiché sarebbe la sua".

Il dovere della solidarietà in seno alla stirpe paterna, per quanto forte possa essere, può essere scevro di vera pietà, dato che si fonda sul legame del sangue, che è l'elemento che trasmette le qualità del vigore, del coraggio e della virilità. Al contrario, un vostro parente di latte non desidererà mai nè la vostra morte, nè la vostra onta, e il suo amore sarà disinteressato, dato che non esiste eredità per linea di discendenza materna. I parenti di latte saranno sempre pronti all'aiuto reciproco e, in genere (possono esservi sempre delle eccezioni), non si faranno mai del male. Infatti le loro relazioni si fondano sul potente legame occulto del latte, elemento sacro che trasmette la Misericordia divina e genera la compassione e l'amore (ed è per questo che un ragazzo e una ragazza che abbiano bevuto lo stesso latte, fosse anche un solo sorso dato occasionalmente, sono sottoposti alla ‛proibizione di matrimonio', dato che dovranno evitare di farsi del male o causarsi reciproche sofferenze; si dovranno considerare come fratello e sorella). Così il cuore di un uomo sarà sempre pieno di indulgenza per i figli della propria sorella nata dalla stessa madre perché in essi vede la traccia del latte e dell'amore materno.

I cugini in linea di discendenza paterna, l'abbiamo già detto prima, godono di una tradizionale autorità sui cugini della linea femminile. Infatti, possono domandare loro delle prestazioni che questi ultimi non possono rifiutare, e hanno un peso maggiore in occasione dei consigli di famiglia. Ma in compenso i cugini e i nipoti in linea femminile hanno, per tradizione, tutti i diritti dal punto di vista materiale. Essi possono prendere in casa quello che vogliono, installarsi presso i loro cugini con la propria famiglia e farsi mantenere per tutta la vita, se lo desiderano, senza che alcuno possa rimproverarli. Anzi, verranno mantenuti con molto piacere, rendendo onore, attraverso di loro, alla madre o alla nonna comune, dalla quale il latte, nutrimento divino, è sgorgato per tutti, senza economia.

Il nipote, figlio di una delle sorelle di madre comune, ha il diritto tradizionale di sperperare la fortuna di suo zio. A questi non resta che stringere i cordoni della borsa se suo nipote è molto spendaccione, dato che sarebbe per lui vergognoso mettersi a sparger lacrime perché il nipote attinge alle sue riserve (occorre avvertire, però, che come non esiste il termine ‛cugino', dato che tutti i cugini vengono considerati come fratelli, così non esiste neppure il termine ‛nipote'. Esistono soltanto ‛figli' e ‛figlie' e non verrebbe in mente a nessuno, in una famiglia tradizionale, di stabilire una differenza tra gli uni e gli altri, a parte quell'aspetto di tenera indulgenza per i figli della sorella che renderà, talvolta, più indulgenti verso di loro che non verso i propri figli). La tradizione dice che non è auspicabile che lo zio faccia scorrere le lacrime del figlio di sua sorella e d'altro canto, in generale, il suo cuore non lo potrebbe sopportare a causa della potenza di questo legame di latte.

Comprendo molto bene che, per il lettore occidentale, tutta questa rete di relazioni possa sembrare, a prima vista, convenzionale e arbitraria. Per gli Africani, però, tali legami non sono affatto superficiali. Queste relazioni apparentemente convenzionali poggiano, infatti, su sentimenti autentici, e perfino, potremmo dire, organici.

n) Il matrimonio

Nel Bafour è estremamente diffuso il ‛matrimonio tradizionale' col quale un giovane riceve in sposa una delle figlie dello zio materno, che gli è stata destinata fin dalla più giovane età. Capita anche, soprattutto nel Mali, che si proceda al fidanzamento il giorno stesso della nascita della bambina. La zia del ragazzo (la sorella di suo padre), appenderà una perla oppure un monile al collo della piccola. Si dice allora che questa è ‛impegnata', il che equivale al più stretto dei contratti di matrimonio.

Ma non tutte le ragazze sono ‛impegnate' fin dall'infanzia e capita anche che dei fidanzamenti siano decisi più tardi. Non appena sono stati conclusi e dopo che è stato compiuto il sacrificio rituale (polli, montone, ecc.) la giovane deve nascondersi e non farsi più vedere dal fidanzato fino al giorno del matrimonio - e questo in modo particolare presso i Fulbe. Nel caso che essa non volesse quel giovane, farà in modo di trovarsi sulla sua strada e di farsi vedere da lui, violando così l'usanza. Se necessario lo insulterà e perfino lo schiaffeggerà... il che, sotto tutte le latitudini, non ha bisogno di commenti!

Il giorno del matrimonio, le coetanee della giovane si impadroniscono di lei al tramonto del sole e vanno a nasconderla in un luogo del tutto segreto, che esse soltanto conoscono. La fidanzata, si dice, è stata ‛rapita'. I compagni del giovane si lanciano allora alla sua ricerca, che può protrarsi, talvolta, fino a notte inoltrata. Se incontrano una coetanea della promessa sposa, tentano di farle confessare dove si trovi, quella però si lascerà picchiare, piuttosto che rivelare il nascondiglio.

Se le ricerche sono restate vane, le coetanee della fidanzata reclamano allora un ‛riscatto' dai giovani, perché si considera che essi siano venuti a portar via un'unità alla loro associazione. Esse possono richiedere delle noci di cola, un montone o anche, se il fidanzato è agiato, un torello. Una volta che sono state pagate vanno a cercare la ragazza e la conducono esse stesse a casa del marito.

La fidanzata deve essere portata sulla schiena, come un lattante, e deve piangere e gemere mentre gli altri cantano e danzano al suono dei tam-tam e della musica. Essa piange la sua morte nella famiglia dei suoi genitori, prima di resuscitare nella famiglia dei suoi suoceri.

È usanza che il fidanzato porti una dote o un regalo alla famiglia cui in tal modo strappa la figlia, dato che la giovane andrà ormai a vivere nella famiglia dello sposo. Si tratta di una specie di gesto di compenso per la perdita fisica e affettiva inflitta, e in nessun modo di un ‛acquisto', come alcuni hanno voluto considerarlo. Questa usanza va collocata nella prospettiva dell'equilibrio delle forze, di cui abbiamo parlato in precedenza, e che in Africa è ovunque presente come sostrato. Si depone un'offerta ai piedi dell'albero che si sta per abbattere..., si dà qualche cosa prima di ‛prendere'. Il gesto, come la dote, può essere, del resto, puramente simbolico. Nei paesi di tradizione islamica la dote deve essere data di norma, come vuole la legge dell'Islam, alla donna stessa che ne ha il libero godimento.

La natura umana è certamente fatta in modo che, sotto tutti i cieli, assai spesso volge a proprio vantaggio le leggi ancestrali destinate a mantenere l'equilibrio e la pace. Non possiamo dunque negare che, fin troppo spesso, certe famiglie prendono in considerazione la ricchezza del fidanzato - o l'importanza del suo ‛regalo' prima di dargli la propria figlia. Ma questo fenomeno è legato soprattutto alla comparsa del valore del denaro, e quale paese al mondo può vantarsi di non aver mai conosciuto abusi del genere?

Come abbiamo visto in precedenza, la famiglia africana è tradizionalmente poligama. Ma sarebbe un errore credere che la poligamia tradizionale derivi da una rilassatezza dei costumi. Infatti di rado è il prodotto di una scelta personale; in genere è il risultato degli imperativi della solidarietà familiare e sociale. Quando, per esempio, una parente resta vedova, oppure, a seguito di un matrimonio non riuscito, è stata costretta al divorzio, il consiglio di famiglia si riunisce e, d'ufficio, l'assegna a un parente agiato, quasi sempre già sposato, e capace di mantenerla assieme ai suoi figli, se ne ha. Se è stato il cattivo carattere della donna a provocare il divorzio, si cercherà un parente capace di adattarsi a lei e di conservarsela... L'Africa, infatti, non permetterà mai che una donna viva sola, abbandonata a se stessa come una foglia che fluttua in balia del vento. Cercherà sempre d'inserirla in un focolare assieme ai suoi figli, perché questi possano avere un padre e possano crescere in una famiglia normale.

Il celibato è rimasto, d'altra parte, quasi sconosciuto in Africa fino ai nostri giorni e, per la verità, è stato sempre giudicato molto male. Si pensava, infatti, che un celibe non fosse un uomo serio e cosciente delle proprie responsabilità. Altrimenti avrebbe fondato una famiglia e adempiuto ai suoi doveri di uomo, sia verso la società, sia verso la Vita cosmica, che tende a incarnarsi in nuove anime (di qui l'apprezzamento di una prole numerosa che viene sempre considerata come una benedizione).

Quanto alla donna nubile, per un verso essa era considerata fonte di possibile disordine nella società e, per un altro, data la struttura economica tradizionale, essa non avrebbe potuto, da sola, far fronte alle proprie necessità. Solo le società moderne, dove ciascuno lavora e si guadagna la vita, possono permettersi questo lusso.

Al di fuori dei matrimoni familiari, esistevano anche dei matrimoni politici, conclusi dai capi per consolidare le loro alleanze. Accadeva di frequente che un re, un capo o un notabile offrisse in matrimonio una delle proprie figlie a un altro eminente personaggio che egli desiderava onorare, e tale offerta non veniva certo rifiutata. Questa pratica dei ‛matrimoni d'alleanza' non era, per altro, limitata ai soli capi. Si procedeva spesso a matrimoni tra abitanti di villaggi diversi, per tessere una rete di alleanze e di relazioni familiari quanto più estesa possibile. Infatti se voi sposate una giovane di un villaggio vicino, tutti gli abitanti di questo villaggio diventano vostri ‛suoceri' tradizionali e voi sarete sempre sicuri di trovare da loro l'alloggio, il sostentamento e l'assistenza che essi devono a un figlio.

Quando i giovani di un villaggio si sposano in gran numero in un altro villaggio, i due villaggi diventano ‛suoceri' l'uno dell'altro e son tenuti, ormai, alla reciproca assistenza in caso di calamità o di aggressione. Inoltre essi non possono più farsi guerra, perché non si attaccano i propri suoceri o i propri generi! È dunque tutta una rete di solidarietà e di alleanze che i matrimoni fra persone di villaggi diversi creano attraverso il paese. Non si deve perder di vista, infatti, l'importanza primordiale che riveste, in Africa, l'equilibrio armonioso della vita della collettività, vissuta e sentita come un tutto. Tutte queste usanze hanno come profonda motivazione la preoccupazione di far regnare la pace.

Non si dovrebbe nemmeno giudicare una situazione africana con la mentalità moderna europea, nata in un contesto differente. La mentalità dell'Africano tradizionale, il suo modo d'affrontare i problemi della vita e di sentire le differenti priorità erano del tutto diversi da quelli dei suoi fratelli e delle sue sorelle d'Europa, abituati fin dall'infanzia ad altri concetti. Ho detto che ‟erano differenti", poiché l'epoca attuale è in grado di realizzare un processo accelerato di acculturazione e occidentalizzazione che modifica i dati di giorno in giorno, per lo meno in certi ambienti delle città.

Ma ritorniamo alla famiglia poligama. La prima moglie porta il nome di Bara, che in bambara, significa, etimologicamente: a) ombelico; b) lunga zucca nella quale si ripongono i beni o la fortuna; c) insieme di persone riunite per una festa. La casa della prima moglie è, infatti, il centro della famiglia, ed è qui che avranno luogo le riunioni e i festeggiamenti che periodicamente raduneranno tutta la famiglia. In fulbe, Jeewo, nome della prima moglie, comporta pressappoco gli stessi significati.

I figli chiameranno tutte le mogli di loro padre Maa (in bambara), che in questo caso non significa più ‛uomo', ma ‛mamma', simbolo di fecondità e di ricchezza. La prima moglie porterà il titolo onorifico e rispettoso di Maa-Koro o Maa-Koro-Ba, cioè ‛la mamma più grande' o ‛la grande sorella Maa', mentre le altre mogli verranno chiamate Maa-nin, termine che in questo caso non significa ‛piccolo uomo' (come abbiamo già visto sopra), ma rappresenta piuttosto un vezzeggiativo ricavato dal nome di Maa: ‛piccola Maa'.

La tradizione considera, simbolicamente, la prima moglie come il ‛marito' delle sue co-spose, di cui essa è responsabile. Ed è essa che deve vegliare affinché non siano infelici e non abbiano a mancare di nulla. Ed è essa che è incaricata di conservare le provviste che servono per il nutrimento di ogni giorno e che ripartisce equamente il disbrigo delle faccende domestiche, ciascuna moglie alternandosi un giorno in cucina, un giorno a lavare, ecc... (ricordiamo che le bambine e le giovani danno un apprezzabile aiuto nelle faccende domestiche). Ed è ancora essa che stabilisce l'ordine della ‛rotazione' che lo sposo dovrà effettuare con ciascuna delle sue donne. In genere egli passerà uno o due giorni di seguito, nella casa di ognuna di loro.

Come abbiamo in precedenza notato, i rapporti sessuali cessano, in genere, dopo qualche mese dall'inizio della gravidanza per non ostacolare lo sviluppo armonioso del bambino sul piano occulto. Questa castità tradizionale si prolunga fino alla fine del periodo dell'allattamento ossia per 24 mesi, che vanno ad aggiungersi a quelli della gravidanza. Essa non è un obbligo stretto, ma viene correntemente praticata e le giovani madri, in genere, sono le prime a esigerla per potersi dedicare completamente al loro bambino. Forse non è eccessivo dire che la donna africana è in primo luogo madre e che questa sacra funzione primeggia, per lei, su tutte le altre.

Questo lungo periodo di castità rituale - al quale si deve aggiungere il desiderio di una prole numerosa - non è stato estraneo, senza dubbio, all'istituzione della poligamia tradizionale. Infatti l'uomo viene considerato più debole della donna sul piano delle esigenze sessuali e, d'altra parte, la pressione morale e religiosa della società non gli permette di abbandonarsi a rapporti sessuali fuori di un matrimonio consacrato (ricordo che sto parlando soprattutto dei costumi delle regioni dell'antico Bafour, e in particolare dei ‛paesi della savana', e non dei territori nei quali prevale la libertà sessuale della donna, riecheggiante un lontano matriarcato).

Il jadoya, o adulterio, in bambara, è una colpa morale così grave che può comportare la pena dell'esilio e l'obbrobrio ricade su tutta la famiglia del colpevole. Dare a qualcuno del jado, oppure del fugaaru, in fulbe, significa ingiuriarlo nel più degradante dei modi. Il jado, o adultero, veniva un tempo trattato come un reietto. Egli perdeva tutti i suoi diritti per mezzo dell'esclusione dalla società. La sua testimonianza era nulla o veniva ricusata come tale dalle parti.

Un'altra leggenda; sapientemente orchestrata dalla propaganda antislamica, vuole che l'Islam sia il grande responsabile di tutti i mali che affliggono l'Africa, e in particolare della poligamia. Ciò non è affatto vero, poiché la poligamia è inerente alla tradizione africana stessa e molto anteriore alla penetrazione islamica, la quale, al contrario, ha contribuito a ridurla, dato che limita a quattro il numero delle mogli possibili e conferisce alla donna una condizione più favorevole; tra l'altro, le concede la gestione autonoma dei suoi beni, se essa ne possiede. L'Africa musulmana pratica un tipo di poligamia che è frutto della sua tradizione ancestrale basata su molteplici fattori religiosi, sociali ed economici che qui sarebbe troppo lungo esaminare dettagliatamente. Ad ogni modo la monogamia non garantisce certo la purezza morale o spirituale degli individui più di quanto la poligamia non testimoni una depravazione di costumi.

o) Il villaggio

Il villaggio è concepito come un riflesso dell'unità cosmica. Allo stesso modo in cui il Maa primordiale rappresenta una sintesi dell'universo, così, in egual modo, il villaggio tradizionale racchiude nella sua unità tutta una molteplicità vivente. Esso è stato quasi sempre fondato a seguito di una rivelazione ricevuta da un antenato sia che questi sia stato ispirato da un sogno o da una visione, sia che abbia inteso una voce che dava delle indicazioni precise, sia che lo abbia avvicinato uno spirito o un dio che, servendosi di un animale, lo ha guidato al luogo predestinato.

Ed è in virtù di questa rivelazione iniziale che ogni villaggio, ogni luogo abitato, ha il suo dassiri o animale tutelare, col quale è stata stretta alleanza dall'antenato, alleanza al cui rispetto è legata la prosperità e la pace del villaggio e che comporta proibizioni e doveri. Non si dovrà mai, per esempio, uccidere l'animale considerato tutelare, e si è spesso constatato che esso non faceva alcun male agli abitanti del villaggio.

Qualora la rivelazione iniziale sia stata fatta direttamente dallo spirito del luogo, a questo verranno periodicamente dedicati sacrifici secondo le prescrizioni che egli stesso avrà dato all'antenato: o dell'acqua, o del latte, o una focaccia di miglio, o un animale. Ovvero, si rispetteranno le indicazioni che egli avrà dato: non uccidere questo o quell'animale, consumare questo o quel cibo, oppure compiere determinate azioni. Per esempio, certi Dogon del Mali non dovevano mai lasciar entrare uno straniero nel recinto sacro del loro villaggio, sull'alto della scogliera. Un giovane amministratore francese, avendo violato questa usanza a proprio rischio, malgrado gli avvertimenti degli stessi Dogon, che lo avevano supplicato di non farlo, venne ucciso. Ciò provocò la sanguinosa guerra del 1909 con l'esercito francese e migliaia di Dogon furono deportati in tutto l'ex Sudan francese.

Il luogo rivelato all'antenato perché vi si insediasse, diventa un centro occulto ‛carico' di nyama e in genere è là che verrà costruito l'altare o il santuario del villaggio. In certi paesi, e in particolare in tutto l'antico Bafour, il santuario avrà sempre la forma di una capanna circolare, essendo il cerchio il simbolo dell'universo. Al suo interno verrà conficcata una trave centrale terminante in una forcella che simboleggia le due facce della vita: la faccia visibile e la faccia invisibile, il giorno e la notte, l'oscurità e la luce, l'uomo e la donna, il bene ed il male, l'alto e il basso, la forza attiva e la forza passiva, ecc... In breve, quel che in termini moderni verrebbe chiamato il ‛dualismo' inerente a ogni cosa.

Il villaggio comincia a svilupparsi partendo da questo santuario e, a poco a poco, riunisce in sé tutti gli elementi del mondo esterno: uomini, animali, vegetali, minerali, acqua, aria, fuoco, terra; e, tra gli uomini, ogni categoria di individui: coltivatori, artigiani, eccetera. Come Maa era l'universo in miniatura, così il villaggio diventa l'universo terrestre in miniatura. Ed è per questo che viene chiamato dougou: Terra, poiché rappresenta la sintesi della Terra circostante.

Questa capanna iniziale può diventare sia il santuario del villaggio (la ‛capanna feticcio'), sia la tomba dell'antenato fondatore, sia anche il vestibolo del capo tradizionale del villaggio. Diventerà allora la ‛capanna dei colloqui', dove si delibererà e saranno pronunciate le sentenze alla presenza del consiglio degli anziani. Questa capanna sarà sempre anche la ‛capanna dell'iniziazione' e in ragione di ciò avrà due porte, una rivolta a nord e l'altra a sud. Il lato sud viene considerato come il lato ‛esoterico' del villaggio, quello in cui vengono custoditi i segreti e la conoscenza. Quando la capanna funge da sala dove il capo riceve, essa comunica, a sud, con la sua concessione (nome che viene dato, in Africa, a tutta l'estensione di una dimora, capanna o casa, cortile compreso). La porta rivolta a sud è chiamata porta dell'‛interno del villaggio', mentre la porta rivolta a nord, che si apre sul lato esterno, sulla facciata ‛essoterica', dove tutto è visibile alla luce del sole, verrà chiamata porta dell'‛esterno del villaggio'.

L'intero villaggio viene considerato come un cerchio che simboleggia l'universo. La linea che passa lungo la ‛porta sud' è come un diametro che divide i due lati del villaggio, il lato aperto e il lato segreto. Nella concessione del capo, situata a sud della linea, potranno entrare solo gli iniziati - sia gli iniziati ai misteri della divinità sia gli iniziati ai segreti dello Stato.

Questa disposizione può, per altro, cambiare per motivi legati all'armonia cosmica particolare del capo del villaggio, connessa alle necessità del suo comando. Essa allora dev'essere prescritta da un indovino. Si può perciò trovare, talvolta, una disposizione est-ovest, ma la capanna iniziale sarà sempre orientata nel senso nord-sud.

Il capo del villaggio appartiene, in linea di principio, alla discendenza dell'antenato fondatore; egli sarà sempre assistito da un consiglio degli anziani e dovrà tener conto dei suggerimenti dei membri più anziani del consiglio.

Nel villaggio esistono tre grandi categorie sociali: i nobili, gli artigiani e i prigionieri (v. sotto, § p). Il capo fa sempre parte della classe dei nobili, ma i vecchi che compongono il consiglio degli anziani si reclutano dappertutto. Il vecchio ‛prigioniero' o il vecchio ciabattino siederanno in consiglio allo stesso titolo del nobile e se il decano appartiene alla casta dei ‛prigionieri', egli sarà rispettato e ascoltato allo stesso titolo di un altro. Infatti la saggezza e l'esperienza non hanno niente a che vedere con la nascita e il proverbio dice: ‟La saggezza non conosce schiavitù". Tutt'al più i consigli di un ‛prigioniero' avranno forse meno autorevolezza di quelli di un nativo del posto poiché un membro della classe dei ‛prigionieri' e, per definizione, uno la cui stirpe, un tempo, è venuta ‛da fuori', a seguito di una guerra perduta.

Ed è il consiglio degli anziani che amministra la vita del villaggio e decide il calendario delle attività: in un periodo bisogna dissodare i campi, in un altro riparare le case, ecc., compiti che generalmente vengono svolti in comune. Ci sono poi da risolvere le dispute e da esaminare i problemi relativi. Tutto questo viene regolato dal capo del villaggio assistito dal consiglio degli anziani. Le udienze hanno luogo nel ‛vestibolo del capo' (o ‛capanna dei colloqui').

Tutto quello che non si è potuto risolvere attraverso i consigli di famiglia, anche una controversia tra coniugi, viene portata davanti al consiglio degli anziani. È infatti consuetudine non lasciar mai ‛marcire' una controversia tra due o più persone, ma risolverla attraverso la comunità, poiché la pace di ciascuno è importante per tutti. La pace del villaggio dipende dalla pace di ciascun focolare. ‟Desidera il benessere del tuo vicino - dice il proverbio - altrimenti i suoi lamenti ti impediranno di dormire".

Il ‛colloquio', ovvero la necessità del dialogo e della discussione aperta, per trovare una soluzione ai problemi, costituisce un'altra grande costante della vita africana. La funzione del capo tradizionale, nei tempi antichi, era sacerdotale prima di diventare temporale o semplicemente politica. Essa comportava l'osservanza rigorosa di certe proibizioni morali o religiose, che potevano variare da una regione all'altra. Allora la prosperità del territorio era magicamente legata alla rettitudine del capo, al suo rispetto per le proibizioni sacre, alla sua sincerità e alla sua castità (a lui più che a ogni altro, infatti, era proibito ogni rapporto sessuale con donne che non fossero le sue mogli).

In ogni villaggio o in ogni comunità di più villaggi legati per origine allo stesso antenato esiste un ‛Maestro di coltello', o grande sacrificatore agli dei e agli spiriti, le cui funzioni variano nelle diverse tradizioni. È lui l'iniziato, il sacerdote, il padrone spirituale del villaggio. Oltre a dover rispettare gli obblighi e le proibizioni rituali egli è sottoposto a proibizioni morali estremamente rigide. Solo il rispetto di queste condizioni gli permette di compiere la sua funzione e di manipolare senza danno il nyama di cui sono carichi gli strumenti e gli oggetti rituali.

È così, per esempio, che un Maestro di coltello non deve mai mentire, quale ne possa essere il pretesto. E neppure deve dare giudizi preconcetti o fare il processo alle intenzioni. Non ha nemmeno il diritto di esprimere giudizi di valore, se non è direttamente interrogato, e deve considerare le persone come oneste fino a che col loro comportamento non dimostrino esse stesse il contrario. Avaro di parole e di giudizi affrettati, non lo si vedrà mai informarsi su questo o su quello, nè intromettersi in inutili pettegolezzi. Inoltre egli non ha il diritto di rifiutare il cibo a chi glielo domanda. Le derrate che gli sono portate vengono considerate come beni di Dio, dei quali egli è solo l'amministratore. L'usanza vuole, infatti, che egli prenda i suoi pasti all'aria aperta perché tutti possano servirsi nel suo piatto... Ciò, d'altra parte, non si distacca molto dal costume diffuso in Africa.

Non si può parlare della vita africana tradizionale senza parlare di un'altra delle sue costanti più importanti: l'ospitalità. Qualsiasi viaggiatore, arrivando in un villaggio sconosciuto, non deve far altro che entrare nella prima casa che trova e dire: ‟Sono vostro ospite", perché venga ricevuto con gioia. La sola risposta sarà: ‟Siate il benvenuto. È Dio che vi invia" - dato che nel rispetto e nell'assistenza data all'ospite è la divinità stessa che viene onorata. Non ci sono limiti di tempo a questo dovere di ospitalità. La legge islamica limita a tre giorni la durata dell'ospitalità obbligatoria, ma in questo campo, anche nei paesi dove più forte è l'influenza coranica, prevale la tradizione africana e non è affatto raro vedere degli ‛stranieri' (‛straniero' è ogni ospite di passaggio, anche se viene dal villaggio vicino) soggiornare per settimane, perfino per mesi, in una famiglia, anche quando sono in parecchi. Nessuno troverà niente da ridire. Al contrario, ogni famiglia sarà fiera di avere i ‛suoi stranieri e riserverà loro sempre la stanza migliore, il letto migliore, i bocconi migliori. Spesso sarà il capo famiglia o il suo primogenito ad abbandonare la propria stanza per andare a dormire su una stuoia, nel vestibolo o nel cortile. Non esistendo nell'Africa tradizionale domestici pagati (sarebbe un disonore lavorare per una paga presso un'altra famiglia), la presenza quasi costante di ‛stranieri' di passaggio comporta un notevole aumento di lavoro domestico (cucina, bucato, ecc.) per le donne della casa. Si potrebbe vedere anche in questo un elemento a favore della poligamia tradizionale.

Nell'Africa di un tempo - quella che ho conosciuto nella mia giovinezza - questa usanza delle ‛case aperte' permetteva di viaggiare attraverso tutto il paese anche senza mezzi. Si era sempre sicuri di trovare un rifugio fraterno ovunque si fosse. La nozione di albergo o di trattoria era sconosciuta e ancor oggi verrebbe giudicato male chi si recasse in albergo in una città in cui ci siano dei parenti o degli amici. Ben inteso, le caratteristiche della vita moderna, dove tutto è condizionato dal denaro, soprattutto nelle grandi città dove l'uomo vive in ristrettezze, fanno sì che le ‛case aperte' diventino sempre più rare. Ciò nondimeno ce ne sono ancora, anche nelle grandi capitali, dove le porte non sono mai chiuse e dove qualsiasi passante, poco importa se Africano o straniero, può venire ‛nel nome di Dio che lo manda'.

p) Mestieri tradizionali e caste

Per le antiche società tradizionali, in cui la nozione di ‛profano', per così dire, non esisteva, ogni attività umana aveva un carattere sacro. Le funzioni artigianali non erano esercitate per denaro o per guadagnarsi la vita. Si trattava di funzioni sacre, iniziatiche, ciascuna delle quali serviva ad acquisire un insieme di conoscenze segrete accuratamente trasmesse di generazione in generazione. Queste conoscenze si riallacciavano sempre ai misteri dell'Unità cosmica, di cui ciascun mestiere era come un riflesso, una espressione particolare.

Ogni attività artigianale, nel suo operare, era considerata una ‛replica' del mistero della creazione. Essa incarnava dunque una forza cosmica, che evocava ed a cui era possibile avvicinarsi solamente rispettando particolari condizioni rituali. In bambara l'artigiano viene chiamato nyama-kala, alla lettera ‛antidoto del nyama'. L'artigiano è dunque il padrone del nyama, di cui possiede l'antidoto.

L'origine del fabbro, come abbiamo visto, è mitica. Esso si riallaccia a Maa, l'Uomo primordiale, e a Fan, l'Uovo cosmico, di cui Fan, la fucina, è il riflesso terrestre. Il fabbro, chiamato ‛Figlio maggiore del mondo', occupa nella tradizione bambara un posto preminente rispetto alle altre categorie di nyama-kala, dato che lui solo può essere il cantore del dio Komo e praticare la circoncisione rituale. Abbiamo già visto quale fosse il suo ruolo al momento della circoncisione.

Il fabbro tradizionale (ben inteso i fabbri moderni sono per lo più dei fabbri profani e la loro attività può essere assimilata a un semplice mestiere, esercitato per guadagnare denaro) dovrà rispettare per tutta la sua vita un certo numero di proibizioni. Non entrerà nella fucina senza aver fatto un bagno rituale di purificazione, preparato con certe piante, scelte a seconda del giorno della settimana. Ogni utensile di cui si serve rappresenta uno degli aspetti della forza della vita, attraverso un simbolismo sessuale. Ma non bisogna concludere che tutto si riduca al sesso; al contrario, lo stesso atto sessuale viene considerato come l'espressione, o il riflesso, di un processo di creazione. Per questo, d'altronde, non viene considerato come fine a se stesso ma riveste un carattere sacro.

I due mantici rotondi azionati dall'assistente del fabbro sono assimilati ai due testicoli maschili. L'aria di cui essi si riempiono viene inviata, attraverso un canale e poi attraverso una specie di becco, nel fuoco della fucina, che rappresenta la matrice in cui opera il fuoco della vita. Ogni volta che si serve di un utensile, il fabbro pronuncia particolari parole sacramentali, accarezza l'incudine (simbolo femminile) con la mano, pronunciando le parole appropriate, prima di colpirla con la sua mazza, che simboleggia il fallo. Egli invoca i quattro elementi-madre, che devono essere tutti presenti nell'officina e partecipare all'operazione: l'aria è presente grazie ai mantici, il fuoco è presente nella fucina, il becco del mantice e il vaso di terracotta che contiene il metallo da fondere sono di terra e il fabbro immerge il metallo incandescente in un recipiente colmo d'acqua. L'aiutante del fabbro, che in genere è il suo allievo nella iniziazione, aziona i mantici secondo ritmi che sono tanto più complicati quanto più avanzato è il suo grado di iniziazione, perché i ritmi sono collegati al mistero della vita.

Un tempo, quando l'oggetto che veniva confezionato era destinato a un uso sacro, il fabbro non accettava nulla in cambio; quando l'oggetto era destinato all'uso corrente (per esempio riparazione della daba di un coltivatore) poteva ricevere un paniere di miglio o una certa quantità di cauris (conchiglie che servivano da moneta prima dell'introduzione delle monete occidentali) che però non conservava per se stesso. Le utilizzava per le cerimonie sacre oppure le distribuiva a chi ne avesse bisogno. Il fabbro tradizionale viveva unicamente dei regali che i nobili erano tenuti a fargli, indipendentemente da qualsiasi lavoro.

Se la fucina è legata al mistero del Fuoco, il telaio del tessitore è legato al mistero della Parola creatrice che si diffonde nel tempo e nello spazio. Man mano che i fili si intrecciano e si uniscono tra di loro, una striscia di tessuto si forma e si accumula alla base del telaio, e questo è il passato. Il gesto del tessitore, che lancia la spola, è il verbo creatore, è il presente. La parte superiore del telaio, ancora vergine, è l'avvenire. L'andirivieni della spola rappresenta l'evoluzione ciclica della vita, legata al mistero dei ritmi. I 33 pezzi che compongono, in totale, il telaio, i cui 8 legni principali rappresentano le 8 direzioni dello spazio (i 4 punti cardinali e i 4 punti collaterali), hanno tutti un significato e il tessitore non li tocca o non li manipola se non cantando o recitando delle litanie che corrispondono alle forze della vita che essi incarnano. Il telaio che è in movimento è il canto della vita.

Diciamo una parola sui vasai, che, per tradizione, sono donne, in genere le mogli dei fabbri e dei tessitori. Tutto ciò che è cavo, tutto ciò che è recipiente e sferico, è connesso al mistero della matrice e della fecondità, ed è per questo che la confezione delle canaris (specie di marmitte di terracotta) viene riservata alle donne legate a questo stesso mistero. L'arte del vasaio è legata a una iniziazione femminile.

Non possiamo parlare, qui, di tutte le attività tradizionali. Ma diciamo che ognuna di esse corrispondeva, in generale, a una grande scuola iniziatica o magico-religiosa particolare. Non soltanto il mestiere era considerato come un'espressione delle forze cosmiche incarnate sotto un aspetto particolare, ma anche come un mezzo per entrare in relazione con esse. Era perciò opportuno non mescolare imprudentemente delle forze che avrebbero potuto rivelarsi di carattere opposto. Ed è proprio per questo che ogni gruppo doveva osservare, nella maggior parte dei casi, delle proibizioni sessuali nei confronti di chi non apparteneva al gruppo, e praticare l'endogamia, per poter conservare nell'ambito della stirpe le conoscenze segrete e i poteri magici che ne derivavano.

Si vede come questi filoni iniziatici, queste ramificazioni della conoscenza attraverso differenti forme d'incarnazione, abbiano potuto far nascere, a poco a poco, ciò che abbiamo chiamato ‛caste'. La distribuzione delle ‛caste' può variare secondo le regioni. Quello che in un luogo è casta, può essere semplice mestiere altrove. Certe attività non corrispondono a caste, ma a ‛gruppi etnici', come i pescatori Bozo nel Mali, per esempio. Talvolta è difficile stabilire la linea di demarcazione tra casta e gruppo etnico, a causa dell'endogamia. Ma sarebbe un errore credere che l'idea di casta sia basata su una nozione di superiorità o di inferiorità, e se essa talvolta si è presentata con questa deformazione alla coscienza popolare, ciò è stato perché il suo significato originale era andato perduto. Contrariamente a ciò che taluni hanno creduto e, talvolta, scritto, il fabbro, in Africa, è temuto piuttosto che disprezzato, a causa delle forze misteriose cui può accedere e di cui conserva il segreto. Non dobbiamo dimenticare che il nyama-kala, in generale, è colui che manipola il nyama e che può farlo nel buono, come nel cattivo senso.

L'Africa non ha conosciuto il fenomeno degli ‛intoccabili', quale esiste in India, e se è successo che dei nobili si siano ritenuti superiori ai nyama-kala, per niente al mondo questi ultimi avrebbero voluto cambiar condizione e abbandonare un lignaggio di cui andavano fieri.

D'altra parte, come abbiamo visto precedentemente, la preminenza dovuta all'età cancellava la condizione sociale. Il vecchio nyama-kala o ‛il vecchio ‛prigioniero' siedono a fianco del nobile nel consiglio degli anziani. A fianco della nobiltà di nascita esisteva una nobiltà legata alla conoscenza. Chi possedeva una conoscenza approfondita in qualsiasi campo (geomanzia, farmacopea, scienza delle piante, ecc.), o era capace di appianare una difficoltà nelle relazioni umane, rientrava nella nobile categoria dei ‛sapienti' e, a tal titolo, sedeva tra i nobili, senza peraltro rompere con la sua casta d'origine.

Nella società tradizionale erano le classi nobili che dovevano assicurare il mantenimento delle altre caste, che vivevano dei loro doni. I nobili non potevano in nessun caso opporre un rifiuto a una richiesta e in genere la esaudivano in anticipo. I nobili, per lo più, erano coltivatori o pastori (il lavoro della terra e l'allevamento erano i lavori ‛nobili' per eccellenza) e dovevano assicurare la difesa del paese in caso di guerra. Gli artigiani davano alla comunità il frutto del loro lavoro, i nobili davano la loro vita. Osserviamo anche qui l'antica società, in armonia con le leggi cosmiche, tendere verso l'equilibrio nell'interdipendenza e nel reciproco scambio.

Ben inteso, le cose non sono rimaste in questa purezza e hanno subito una degradazione progressiva, legata alla desacralizzazione dei costumi. Ma il mio tentativo, in questo articolo, mira unicamente a delineare i principi di base che hanno animato la società africana e le hanno conferito la sua originalità, e non a fare uno studio esauriente dei fenomeni economici e sociali che si sono sviluppati partendo da quella situazione.

All'origine, in un'epoca remota, non esisteva certamente la nozione di nobiltà e il potere era, prima di tutto, spirituale. La Tradizione dice: ‟I nobili sono stati creati dagli uomini, gli artigiani sono stati creati da Dio". La classe dei nobili ha dato origine alla classe detta dei ‛prigionieri' (sorta dalle catture fatte in guerra o dalle razzie). Questa classe, col passare del tempo, è diventata una vera casta, ma in genere, salvo eccezioni, non è sottoposta a quella condizione che gli occidentali chiamano ‛schiavitù'. Coloro che vengono chiamati i ‛prigionieri della capanna' o wolo-so (letteralmente ‛nati nella casa') sono piuttosto famiglie di servitori, legati a una casa da parecchie generazioni. Essi sono considerati come facenti parte della famiglia e, spesso, ne portano il nome. Nel caso di acquisto di un prigioniero di guerra, la trasformazione in wolo-so avveniva a partire dalla prima generazione nata in casa. Lo statuto tradizionale conferiva a costoro grandi diritti e proibiva di venderli.

Mentre i nobili dovevano incarnare il coraggio, la generosità, il rispetto sacro della parola data e una grande riservatezza di comportamento e di linguaggio, i ‛prigionieri' potevano abbandonarsi, senza danno, a licenze di linguaggio e di atteggiamento. Essi non erano tenuti al pudore e le più lascive delle danze conosciute sono, in genere, ‛le danze dei prigionieri'. Godevano di notevoli diritti materiali nella casa dei loro padroni e potevano servirsi liberamente del loro guardaroba. Erano spesso incaricati della gestione dei loro beni e dell'educazione dei loro figli. Costava assai caro picchiare uno di loro, perché allora tutti i wolo-so del villaggio si recavano in processione alle porte delle case nobili per domandare doni a risarcimento delle percosse ricevute da uno di loro... In genere, si può dire che essi avevano sui nobili più diritti di quanti questi non ne avessero su di loro. In tempi non lontani si potevano ancora vedere degli agiati commercianti, d'origine wolo-so, fare il giro delle case della città in occasione delle feste per reclamare regali tradizionali presso i nobili spesso più poveri di loro.

In linea di principio la condizione di ‛prigioniero' è stata totalmente abolita nell'Africa moderna e d'altro canto il mutare delle condizioni di vita spazza via a poco a poco tutte queste nozioni. Ma nelle campagne o in provincia, le vecchie famiglie dei Wolo-so sono spesso restate fortemente legate ai loro vecchi padroni e continuano a vivere presso di questi, partecipando ai lavori dei campi o alla custodia del bestiame, ricevendone in cambio un salario o il mantenimento della propria famiglia.

q) Concetto di alleanza.

Il concetto di alleanza è un'altra costante della vita africana. Esso risponde a quella visione globale dell'universo sentito come un'unità in cui tutto è solidale e in costante interrelazione. Risponde anche alla preoccupazione di garantire l'armonia attraverso l'equilibrio delle forze che si intrecciano in seno all'universo stesso.

Ci sono anzitutto le alleanze col mondo invisibile, con lo spirito tutelare di un luogo, per esempio, prima di fondare un villaggio. I mestieri tradizionali corrispondono anch'essi a delle alleanze con gli elementi-madre. I fabbri sono in alleanza con il fuoco e i loro iniziati non ne temono i danni. Nel corso di certe cerimonie rituali li si vede camminare senza danno sulla brace o tenerla in mano o anche mettersela in bocca. I coltivatori (Dogon e Bambara, per es.) sono legati alla terra, i pastori Fulbe all'aria e i popoli pescatori (Bozo nel Mali e Sorko nel Niger) sono i ‛Padroni dell'acqua', di cui conoscono i segreti.

Il Maa primordiale, sintesi dell'universo, ne occupava simbolicamente il centro e si trovava in egual rapporto con tutti gli elementi della creazione, poiché li conteneva in se stesso. Nella società umana queste relazioni si sono in qualche modo ‛specializzate' e si sono distribuite come i raggi di una ruota.

La Sanankounya, questa ‛parentela scherzosa' di cui abbiamo parlato a proposito della famiglia, al cui interno lega tra di loro determinate persone, si estende a livello della società, ove tesse una vera rete d'alleanze tradizionali (preciso ancora che parlo con piena sicurezza soltanto delle tradizioni dell'antico Bafour, sviluppatesi nell'Africa della savana a sud del Sahara, prima delle grandi foreste del sud). Essa può esistere tra due villaggi, tra due gruppi etnici o caste, o anche tra due paesi. I Sanankoun (o membri di una Sanankounya) si devono mutua assistenza e aiuto in tutte le circostanze e la loro relazione è caratterizzata da quella libertà di linguaggio, di scherzo, o anche d'ingiuria (eccettuata l'ingiuria alla madre) che tra loro non dà luogo a spiacevoli conseguenze. I Fulbe e i fabbri, per esempio, sono legati da Sanankounya, come pure i Tacruri e i Jawambè (gruppo etnico di lingua fulbe), i Bozo e i Dogon, i Fulbe e i Serèr del Senegal, ecc. La Sanankounya è rimasta assai viva sotto il suo aspetto di ‛relazione scherzosa', ma capita anche che essa si sia conservata nella sua forma integrale, come per esempio tra i Dogon e i Bozo, che ancor oggi si danno reciproco aiuto e non si fanno mai del male. Un anno in cui la carestia infieriva tra i Dogon di Bandiagara, nel Mali, questi potettero sopravvivere grazie ai Bozo che li nutrirono col prodotto della loro pesca, gratuitamente. C'è proibizione di matrimonio tra i Dogon e i Bozo, ma questa regola ammette eccezioni.

Come la Nimeroya al livello della famiglia, la Sanankounya introduce nella società non solo una rete d'assistenza, ma una specie di valvola di sicurezza nelle relazioni. Un vecchio fulbe, per esempio, circondato dal rispetto di tutti, accetterà sorridendo d'essere ‛canzonato' da suo nipote o da un giovane fabbro, e viceversa. Ci sarà così sempre qualcuno attraverso il quale dire le proprie ragioni senza paura a un capo o a un re che si sono comportati ingiustamente, e di preferenza sarà attraverso il Sanankoun del re che passeranno le lamentele. Nella stessa prospettiva, il fabbro è tradizionalmente incaricato di risolvere gli eterni conflitti che sopravvengono tra i Fulbe nomadi e i coltivatori sedentari.

Ma la nozione di alleanza sacra si spinge più oltre. Essa si estende a tutta la natura. Particolari legami uniscono i clan umani a certi animali (o anche a certi vegetali). Non si tratta di ‛totemismo', nel senso che l'animale considerato non è l'‛antenato' della tribù o del clan, ma semplicemente un sacro alleato privilegiato, a ricordo di un lontano avvenimento mitico, soprannaturale o reale, in cui esso ha svolto un ruolo.

Così i N'Diaye (nel Senegal) e i Diarra (nel Mali) sono legati al leone. Il loro nome, d'altra parte, significa ‛leone'. I Diallo sono legati alla pernice, i Singarè all'iguana, i Tounkara al pitone, i Taraoré (o Traoré) alla pantera, i Samaké all'elefante, i Tangara (specialmente nella regione di Barbé, nel Mali) alla iena, ecc. Questa alleanza implicava, una volta, un dovere di assistenza. Un membro del clan Diarra, per esempio, non doveva mai uccidere un leone e doveva anche cercare di salvarlo se era stato preso da cacciatori. I Diallo non uccidevano mai le pernici e in cambio accadeva che il repentino intervento di una pernice li mettesse in guardia contro un pericolo imminente (ho avuto esperienza di un caso nella mia famiglia che conta dei Diallo). Talvolta queste alleanze con il mondo animale vengono ancora rispettate.

Come si vede, esiste tutta un' ‛ecologia sacra' basata su dei rapporti viventi, il cui studio potrebbe risultare di grande interesse in un'epoca in cui l'ecologia e le scienze della natura ritornano all'ordine del giorno, in conseguenza di un atteggiamento imprudente e sconsiderato dell'umanità moderna, che si è staccata dal proprio universo e ha vissuto solo per se stessa.

r) Eredità culturale

La caratteristica della cultura africana è che essa assume l'uomo nella sua totalità e abbraccia tutti gli aspetti della vita. Non è una materia che si possa isolare artificialmente dal contesto della vita. Essa prende corpo nei fatti e nei gesti della vita quotidiana, religiosa, professionale e domestica dell'uomo, poiché partecipa di quella visione globale dell'universo di cui abbiamo già parlato.

Questa tradizione culturale è essenzialmente orale. Essa ha per principale strumento la parola e per biblioteca e archivio la memoria. Ma la memoria dei Negri africani, come quella di tutti i popoli che non scrivono, è prodigiosa e sicura quanto la scrittura; anche quest'ultima, del resto, può essere sempre falsificata o falsificare i fatti.

La cultura orale riposa sul valore sacro della parola. Essa è costantemente controllata dall'ambiente tradizionale e il grande ruolo dei vecchi tradizionalisti, qualunque sia la categoria alla quale appartengono, è di vegliare gelosamente sull'autenticità del patrimonio culturale e di trasmetterlo fedelmente.

Questa cultura comprende anzitutto la ‛scienza dei miti', insegnata nelle grandi scuole iniziatiche (o ‛società segrete') quali, nel Mali, il Koré, il Komo, il Nama, il N'Tomo, il Doo, ecc. Come abbiamo visto nel paragrafo relativo all'uomo (v. sopra, § g), i miti insegnano i misteri della creazione del mondo, della creazione dell'uomo e della costituzione esterna ed interna di quest'ultimo. Ed è ugualmente attraverso i miti che vengono insegnate le scienze delle forze, delle energie, dei movimenti, del ritmo, del dualismo (o complementarità) inerente a tutte le cose, della trasformazione e di tutti gli stati possibili della vita. Tutto è ‛Storia'. Si insegna la Storia delle terre e delle acque (la geografia), la Storia dei vegetali (la botanica e la farmacopea, poiché ogni pianta può essere utile o dannosa), la Storia dei ‛figli del seno della terra' (la mineralogia, i metalli), la Storia degli astri (astronomia, astrologia), la Storia delle acque, ecc. Ma la Storia più grande, la più significativa e in un certo senso il compimento di tutte le altre, è quella dell'uomo, che si trova al vertice della creazione terrestre; quest'ultima si divide in 9 classi: alla base della scala gli esseri inanimati, detti ‛muti', divisi in solidi, liquidi e gassosi; poi gli ‛esseri animati immobili', che si dividono in vegetali striscianti, rampicanti e a posizione eretta; e infine gli ‛esseri animati mobili', che comprendono gli animali terrestri, acquatici e volatili. Ogni elemento esistente può essere classificato entro una di queste categorie.

Il grande merito dei miti è di poter superare i secoli per mezzo della memoria dell'uomo, senza subire modifiche. Ma essi rappresentano dei codici che i Maestri sanno decifrare e che servono loro come punto di partenza per sviluppare il loro insegnamento partendo da un dettaglio.

Gli insegnamenti delle scuole iniziatiche si prolungano nella vita quotidiana non solo attraverso i mestieri e il comportamento di ogni giorno, ma anche attraverso i racconti, le leggende, le massime, gli indovinelli popolari, e anche attraverso spettacoli diversi, quali il Koté, il teatro o le danze pubbliche. Certi giuochi dei ragazzi trasmettono ugualmente delle conoscenze sacre, di generazione in generazione senza che gli uomini se ne avvedano (come il Banan-Kolo, nel Mali, basato sul giuoco dei numeri che rappresentano i ‛segni' o attributi di Dio).

Oltre quest'insieme di tradizioni che si riallacciano alle ‛scienze della vita', la tradizione orale ha in sé anche un aspetto epico-storico e ‛letterario' che delinea le vicende dei grandi imperi o dei grandi uomini che hanno illustrato la nostra storia lontana o recente. Ed è basandomi su queste diverse tradizioni orali, che concordano le une con le altre, che ho potuto ricostruire la storia dell'Impero Fulbe del Macina nel XVIII secolo (v. Bà e Daget, 1955).

A fianco dei vecchi tradizionalisti che sono come la ‛memoria' del popolo, bisogna porre in rilievo l'importanza avuta in questo campo dagli stregoni (dieli, in bambara), che ne sono non solo la memoria ma anche la ‛lingua'. Essi appartengono alla casta dei nyama-kala. Sono i ‛Maestri della parola'. Se le scienze occulte ed esoteriche sono prerogativa dei ‛Maestri del coltello' e dei cantori degli dei, la storia, la musica, la poesia lirica, i racconti che animano gli svaghi popolari appartengono agli stregoni, specie di trovatori o di menestrelli che percorrono il paese. Legato spesso a una famiglia o a un personaggio, lo stregone canta i fatti e le gesta del suo padrone e di tutti i suoi ascendenti e diventa così il depositario della storia e della genealogia delle famiglie e dei clan, storia che egli approfondisce attraverso continue ricerche. Egli è l'‛archivista' della società.

Gli stregoni svolsero un ruolo considerevole nella società africana attraverso l'influenza che esercitavano sui capi, influenza buona o cattiva, a seconda che spingessero questi ultimi ad audacie sempre nuove, facendo leva sul loro orgoglio di famiglia, o che li richiamassero - come spesso avvenne - al rispetto delle tradizioni morali quando essi avevano la tendenza a sottrarvisi. In mezzo alle battaglie, essi erano al fianco del loro padrone di cui eccitavano il coraggio con i loro canti e ricordandogli le imprese degli antenati.

Svolgevano anche il ruolo di intermediari o ambasciatori, poiché rappresentavano la ‛lingua' del loro padrone e facevano da tramite tra le grandi famiglie quando sorgevano delle dispute. In bambara, il loro nome, dieli, significa ‛sangue'. Come il sangue, infatti, i dieli circolano nel corpo della società che possono guarire o far ammalare, a seconda che ne attenuino o ne ravvivino i conflitti.

È impossibile parlare delle tradizioni culturali dell'antico Bafour senza spendere una parola sulla profonda influenza che vi ha esercitato l'Islam dopo il sec. XI e, in certi luoghi, anche prima. Entrato nell'Africa Nera da est e da nord, tramite i conquistatori o, più pacificamente, tramite i viaggiatori e i commercianti, l'Islam vi trovò un terreno propizio al suo sviluppo. L'animista vi trovava, purificata e semplificata, la credenza in un Dio supremo, la non separazione tra lo spirituale e il temporale, la concezione non profana della vita in tutti i suoi aspetti e il senso della famiglia. Nel quadro di questa concezione che comporta una partecipazione totale alla vita, la nozione musulmana del santo ('l'amico' di Dio, in arabo) come sposo e padre di famiglia e in più detentore di una conoscenza esoterica trasmessa dal Santo Profeta, non si opponeva affatto alla concezione africana del vecchio saggio iniziato, che viveva in seno alla comunità. D'altra parte il Maa primordiale trovava la sua eco nella nozione musulmana dell'‛Uomo Universale', o ‛Uomo Totale' (Insàn el-Kanùl). Infine le confraternite sufiche, a somiglianza delle scuole iniziatiche, offrivano dei procedimenti d'iniziazione che permettevano di giungere a una comprensione più profonda dei dati della Fede.

L'Africano vi si ritrovò e la sua natura profondamente credente scivolò entro questa nuova veste senza rompere per questo brutalmente con la propria tradizione, tollerata dall'Islam dal momento che essa non contraddiceva i dati essenziali della Fede. Ed è così che i mestieri tradizionali e le caste, per esempio, conservarono le loro strutture, i loro costumi e i loro insegnamenti, pur essendo stati profondamente islamizzati. Si creò una specie di osmosi che diede la sua impronta particolare all'Islam africano. La lingua coranica portò all'Africa una scrittura e uno strumento di cultura. La lingua fulbe, per esempio, fu trascritta in caratteri arabi e arrivò in questo modo all'espressione scritta.

In Africa fiorirono grandi centri di irradiazione della cultura islamica, rinomati persino in Oriente per la qualità del loro insegnamento. Senza parlare della celebre Timbuctù, ricordiamo Kana, Ibadan, Onanki, Qualata, Nèma, Gianna, Tindirna, Gao, Kong, Labé, Timbo, Tizigza, Boutilimit, ecc. Apparve una nuova classe sociale, quella dei marabutti, cultori della lingua araba e dotti nelle scienze islamiche di ogni tipo. Favorita dal fervore popolare, questa classe divenne estremamente fiorente e potente, ma diede anche origine a degli eccessi.

In linea generale, l'Islam, venuto dal nord e dall'est, si installò al centro, nei paesi della savana e del deserto, mentre il cristianesimo, venendo dal mare, si sviluppò soprattutto nei paesi costieri. Sfortunatamente non posso parlare dell'influenza culturale del cristianesimo nei paesi presi in considerazione, né dei suoi rapporti con la tradizione, non essendo affatto competente in materia.

3. L'Africa oggi

Come abbiamo detto all'inizio di questo articolo, l'Africa d'oggi è molto complessa e in continuo movimento e non può essere racchiusa nel quadro di una definizione semplicistica. È il prodotto di una sovrapposizione di mondi, di tempi, di mentalità differenti, che interferiscono gli uni con gli altri. Si potrebbe dire che ci sono più Afriche.

1. Esiste l'Africa di base, o Africa tradizionale. È soprattutto l'Africa della savana. L'uomo vi è restato semplice e umano. Egli è tanto più umile in quanto crede alle tradizioni che governano gli uomini e legano i vivi ai morti. Il suo è un universo continuo, sacro, dove uomini, bestie e cose sono solidali e interdipendenti. La parola vi ha più peso dello scritto. I valori sono ancora quelli dell'Essere e non dell'Avere. È l'Africano di sempre, attaccato ai suoi costumi, ma raggiunto ogni giorno di più dalla marea delle nuove condizioni di vita e dei nuovi bisogni.

Naturalmente anche quest'Africa di base comporta una pluralità di livelli. Gli insegnamenti sacri tradizionali possono esservi impartiti o vissuti nel modo più elevato, come possono degenerare in superstizioni o pratiche grossolane. Ma ciò avviene in ogni comunità umana e nessun popolo vi sfugge, per quanto ‛civile' esso sia. Ogni religione, moderna o arcaica, è vissuta a diversi livelli di comprensione. La storia del Medioevo occidentale ne fornisce parecchi esempi e, ancor oggi, non bisognerebbe grattar molto, sotto la vernice della fede, per scoprire la superstizione. Qui è l'amuleto contro il malocchio, là il talismano o la medaglia protettrice...

La superstizione, la stupidità o la crudeltà non sono appannaggio di alcuna razza, né di alcuna epoca. L'uomo è ovunque lo stesso. Cambiano solo gli strumenti che spesso, quando diventano più ‛puliti' (un bombardamento non sporca le mani), sono anche più micidiali.

2. Esiste poi l'Africa di cultura orientale, o Africa musulmana, che ha anch'essa una pluralità di livelli e che viene spesso confusa con l'Africa tradizionale, di cui essa ha assorbito alcune strutture e con la quale vive in simbiosi.

3. Infine c'è l'Africa moderna, occidentalizzata, intellettualizzata, i cui centri di irradiamento e concentrazione sono le nuove grandi città che, a loro volta, esercitano una potente attrazione sulle campagne e sui giovani che vi affluiscono in massa nella speranza, spesso delusa, di trovarvi lavoro e guadagnarvi denaro. Anche quest'Africa moderna si divide in parecchie correnti ideologiche. Non posso tuttavia trattare di quest'ultimo aspetto, dato che la politica è estranea allo scopo che mi sono prefisso e alla mia competenza.

La guerra del 1914 fu la causa della prima grande interruzione della tradizione iniziatica in seno all'Africa, dato che una parte notevole della gioventù fu arruolata e mandata a combattere in Francia senza che la maggior parte abbia fatto ritorno. Quelli che ritornarono per lo più restarono nel corpo dei ‛cacciatori' e formarono una casta a parte, contribuendo, per altro, a logorare a poco a poco il mito del ‛superuomo bianco'.

Dopo la guerra, l'indebolimento della tradizione iniziatica si accentuò; i figli dei notabili infatti venivano inviati d'autorità, fin dalla più giovane età, in scuole lontane dai loro villaggi, cosicché la loro condizione, in pratica di cattività, garantisse la sottomissione delle famiglie. Tali scuole, per la loro funzione reale, erano chiamate ‛scuola degli ostaggi'. Essi vi ricevevano una formazione per poter diventare istitutori, funzionari amministrativi subordinati o infermieri.

Il processo iniziato continuò durante la seconda guerra mondiale, mentre la potenza colonizzatrice faceva tutto il possibile per combattere e distruggere la scuola africana tradizionale, perseguitando i suoi rappresentanti e gettando in prigione i guaritori (spesso saggi erboristi) per ‛esercizio illegale della medicina'. Le officine dei fabbri si videro proibire la fabbricazione delle armi, dei coltelli e degli oggetti d'uso corrente, per impedire che facessero concorrenza ai manufatti importati dalla Francia, ecc. Nelle scuole veniva proibito ai bambini di parlare la lingua materna, al fine di sottrarli alle influenze tradizionali. Il bambino sorpreso in flagrante si vedeva affibbiata una ‛testa d'asino' e veniva privato del pranzo...

L'educazione occidentale moderna ricevuta dai nostri giovani dopo la fine dell'ultima guerra portò a termine il processo e creò un vero e proprio fenomeno di acculturazione. L'iniziazione, fuggita dalle città, si è rifugiata nella steppa. Ma, a causa dell'allontanamento progressivo dei giovani dalla famiglia, i vecchi trovano sempre meno giovani disposti a ricevere il loro insegnamento che, secondo l'espressione consacrata, si deve trasmettere ‟da bocca odorosa a ben curato, docile orecchio". Le ‛orecchie docili' diventano rare. I depositari di queste tradizioni ancestrali sono, ora, dei vecchi più vicini ai cimiteri che alle città e tutto il patrimonio culturale della vecchia Africa rischia, con loro, d'essere inghiottito per sempre nell'oblio.

In genere, il grande elemento dissolvente dell'Africa tradizionale è stato il denaro. Esso ha contribuito a trasformare il volto dell'Africa di una volta, in cui la fortuna era considerata come una ‛emorragia del naso', un volgare incidente della vita, ma non era mai un criterio di valore. Sfortunatamente questo nuovo criterio è sul punto di soppiantare la moralità, la parola, la nascita e anche l'educazione che, una volta, era ciò che maggiormente definiva un uomo. L'adagio di un tempo: ‟Egli possiede la parola", cede sempre più il posto a quest'altro: ‟Egli ha un grosso conto in banca".

Cosa resta, in sostanza, dei valori propri dell'anima africana, e su che cosa l'Africano di domani potrà fondare il proprio universo in modo da avere un ruolo in seno all'umanità senza rinunziare alla propria autenticità?

Nell'Africa tradizionale e nell'Africa moderna delle grandi città, i valori religiosi o sociali sono vissuti in modo differente, ma, in generale, si può dire che l'Africa ha conservato il senso dell'uomo e della solidarietà umana. Il senso della famiglia e della comunità vi è restato estremamente potente ed è assai raro trovare un funzionario, un impiegato di commercio o un artigiano che rifiuti di farsi carico dei membri della sua famiglia più poveri di lui e in particolare dei vecchi genitori e dei parenti prossimi o lontani. Se quest'usanza può sembrare a certi occidentali una specie di premio al parassitismo - e talvolta è stato così - essa in genere rappresenta per l'Africano un dovere familiare e sociale, una forma di devozione, un sacrificio che ci si impone per piacere a Dio e alle anime degli antenati.

Questo senso comunitario ha, per altro, dato origine nelle grandi città a un fenomeno particolare. Abbiamo detto che un gran numero di giovani vi affluiva costantemente da tutte le parti del paese, e a volte anche dai paesi vicini, nella speranza di trovarvi un lavoro. Molti di loro fallivano; questa forte concentrazione di uomini, unita alla mancanza di denaro, ha provocato, inevitabilmente, un'ondata di delinquenza, sconosciuta all'Africa antica, ma assai nota in tutte le grandi città moderne. Non c'è bisogno di aggiungere che l'influenza di film di pessima qualità, riversati generosamente sugli schermi africani, non è stata estranea al fenomeno.

Ma la maggior parte di questi giovani sradicati si è rapgruppata istintivamente, spontaneamente, spesso secondo l'origine o secondo altri criteri, per dar vita ad associazioni di mutuo soccorso. Così ad Abidjan un'importante associazione di giovani organizza delle feste o fa della musica per raccogliere il denaro necessario per aiutare chi, tra di essi, ha bisogno di acquistare, per esempio, una macchina da cucire per lavorare come sarto-ricamatore (in Africa, mestiere maschile). Si sono formate molte associazioni di questo genere, nelle quali il frutto delle sottoscrizioni serve per aiutare i membri che sono malati o colpiti da gravi difficoltà. Altrove, sono le donne musulmane di una città che si riuniscono in un'associazione e il denaro delle loro quote permette di pagare il viaggio alla Mecca a quelle che non ne hanno i mezzi, ecc. Qui si ritrova, tradotto nelle nuove forme di vita, il principio delle ‛associazioni di coetanei' della società tradizionale.

L'Africa ha conservato anche, nel più alto grado, il senso dell'ospitalità ed è sempre motivo di fierezza per una famiglia ospitare uno straniero di passaggio. Se tutte le case non sono più, soprattutto nelle grandi città, con le ‛porte aperte', per lo meno esse hanno sempre la ‛tavola aperta' e resta l'usanza di andare a mangiare gli uni dagli altri, senza che ci sia bisogno di invito. Il cibo, sempre abbondante, anche se semplice, è a disposizione di tutti, perché ‟c'è Dio che provvede".

La legge del ‛colloquio' è egualmente rimasta ben viva e per essa intendo quel profondo sentimento in base al quale ogni controversia, ogni difficoltà, può trovare la sua soluzione al livello della discussione e del dialogo (spesso tramite un intermediario o tramite la partecipazione alla discussione di persone anziane o stimate per la loro saggezza) prima di arrivare a una soluzione di forza.

Non credo di sbagliarmi molto dicendo che la maggior parte delle controversie che insorgono tra i gruppi etnici o anche tra paesi - per lo meno quelli che conosco - potrebbero avere una soluzione pacifica se influenze o interessi estranei non vi si mescolassero in un modo o in un altro e se si lasciasse agli Africani la facoltà di cercare, da soli, una soluzione attraverso i loro mezzi tradizionali e in particolare attraverso il colloquio.

La nozione di ‛paese' o di ‛nazione' non esisteva affatto, d'altra parte, nell'Africa antica. Si apparteneva a un certo gruppo etnico, si era originari di una determinata regione, ma non si era racchiusi nei limiti di alcuna frontiera. Il concetto di nazione, che risponde senza dubbio alle necessità economiche del mondo contemporaneo, deriva infatti da una mentalità moderna e straniera. La divisione geografica in nazioni ben definite e irriducibilmente separate - per lo più modellate secondo l'antica divisione dell'amministrazione coloniale - non sempre corrisponde alle divisioni etniche o geografiche naturali ed è generatrice di conflitti.

Sorgente di conflitti e di confusione è, del pari, la distruzione - o la negazione - delle antiche strutture sociali e morali che mantenevano un certo equilibrio in seno alle società e servivano da ‛parapetto'; esse sono state sostituite da sistemi di valore, maniere di pensare e modi di vivere presi a prestito dal di fuori e che non sempre corrispondono alle realtà locali. Non ci si deve dunque meravigliare del fatto che l'Africa, messa di fronte a condizioni di vita del tutto nuove e spesso contraddittorie, conosca dei sussulti e delle difficoltà di adattamento e neppure ci si può attendere che essa realizzi in qualche decennio quel che l'Europa ha costruito attraverso i secoli.

I vecchi iniziati ci hanno insegnato che per la legge del dualismo inerente alla vita, ogni cosa, ogni avvenimento comporta due aspetti: uno negativo e uno positivo. L'aspetto positivo, per la giovane Africa scampata all'ultima tormenta internazionale, consiste nel fatto che, accedendo alla cultura occidentale, essa ha acquisito un diritto che, fino ad allora, le era stato rifiutato: l'inestimabile diritto alla parola.

Molti giovani africani, muniti di titoli universitari che si credeva fossero congenitamente incapaci di raggiungere, si volsero a considerare il loro passato e tesero l'orecchio ai valori dell'anima negra, che si era tentato di far loro dimenticare o, addirittura, rinnegare. Essi compresero che, secondo il proverbio, ‟un pezzo di legno può rimanere nell'acqua quanto vuole, ma non diventerà mai un caimano". Essi cominciarono ad affermare la propria personalità e a restaurare l'immagine di un'Africa autentica, non più soltanto esotica o folcloristica. Invece d'ascoltare docilmente quello che gli studiosi occidentali pretendevano di insegnar loro su loro stessi, essi pensarono di esser in prima persona i più qualificati per parlare di se stessi, dato che, come dice un altro proverbio, ‟quando c'è una capra è inutile belare in sua vece".

E si è assistito alla crociata della negritudine, i cui primi soldati sono stati grandi intellettuali, come Leopold Sedar Senghor, Aimé Césaire, Damas, Cheik Anta Diop e, più recentemente, Ki Zerbo, per non citarne che alcuni. Essi erano stati preceduti, nella stessa Africa, da un altro gruppo, meno provvisto di diplomi, ma più vicino alle fonti, e che aveva iniziato fin dal 1914, in condizioni a volte difficili, la raccolta delle tradizioni. Questi pionieri furono per lo più anonimi. Con rispetto voglio ricordarne alcuni - appartenenti al mio paese, il Mali - che non sono più in mezzo a noi: Fily Dabo Sissoko, Bouyagui Fadiga, Namoussa Doumbia, Dominique Traoré, Dim Delopsome, Mamadou Sissoko, ecc.

Ogni mia speranza per l'avvenire riposa sul fatto che la gioventù africana che studia si sta svegliando. Essa si interessa sempre di più al proprio passato, alla propria storia, alla propria ragion d'essere e alla propria missione sulla terra, in seno alla vasta comunità umana. L'idea di salvare la Tradizione prosegue lentamente la sua strada; non ha grandi mezzi, ma comunque va avanti. L'UNESCO si è interessata alla questione e appoggia gli sforzi finora isolati. Nel 1964, nella sua Conferenza generale, decise di includere nel suo programma, con ordine prioritario, aiuti ai centri nazionali di ricerca sulle tradizioni orali. Da parte sua la Repubblica del Niger ha creato, oltre al proprio centro nazionale, un ‛Centro regionale di documentazione per la tradizione orale', destinato a diventare un'istituzione internazionale africana e in cui lavora un gruppo di giovani entusiasti e altamente qualificati.

Le cose da studiare non mancano certo, come abbiamo visto in tutto quest'articolo, che ha semplicemente tracciato alcune linee di ricerca, senza pretendere in nessun modo di essere esaustivo. Tutto resta ancora da fare per quel che riguarda la scienza delle piante e la farmacopea africana, la raccolta delle tradizioni riguardanti la storia, le leggende, i miti e i racconti simbolici, fino alle scienze tradizionali che riguardano l'uomo stesso. Queste dottrine spesso presentano aspetti non riconosciuti dalla scienza ufficiale, ma che riescono, nondimeno, a sollevare delle questioni essenziali in rapporto al mistero dell'uomo e delle sue relazioni con il mondo vivente, visibile e invisibile.

Avvertiamo di passaggio i ricercatori africani ed europei, desiderosi di avvicinarsi ai fatti religiosi africani, che, finché saranno costretti a servirsi di un interprete, per quanta buona volontà impieghino nelle ricerche, resteranno inevitabilmente ‛al di fuori' dell'argomento. Inoltre, ci sono cose che ‛non si spiegano', ma che si sperimentano e si vivono. Infatti è proibito comunicare certe conoscenze a chi non accetta di vivere la corrispondente iniziazione.

Con l'aiuto dell'UNESCO è stata anche lanciata una campagna per la trascrizione, in caratteri latini, delle principali lingue vernacole. Non si può, infatti, parlare della civiltà di una razza trascurando la sua lingua, cioè l'espressione decisiva della sua cultura e l'immagine stessa della sua anima. Il livello intellettuale e la finezza di un popolo si possono misurare dalla struttura della sua lingua. Parecchi paesi hanno ufficialmente ammesso questo principio e sono passati all'azione. Il Senegal, il Niger e il Mali sono all'avanguardia di questo rinnovamento capitale.

Per i vecchi africani tradizionalisti, gli attuali sconvolgimenti e le perturbazioni che ne seguono sono legati ai fenomeni che accompagnano la fine di un ciclo e precedono la nascita di un ciclo nuovo. Nessuno può sapere come questo nuovo ciclo sarà, ma di certo esso sarà caratterizzato dalle scelte di fondo che gli uomini faranno. Questa fase di caos e di cambiamento si iscrive nell'ordine dei destini generali dell'umanità; gli Africani l'accettano senza turbamenti, non per ‛fatalismo passivo', ma per quella profonda saggezza che permette di mantenere lucida la mente e sereno il cuore davanti a ogni nuova situazione, per potervisi adattare senza nervosismo e per ricercare un punto di equilibrio interiore, nel mezzo delle forze e delle correnti esistenti. L'Africa è appunto chiamata alla ricerca di un nuovo punto di equilibrio e se non potrà trovarlo respingendo tutti gli apporti del mondo moderno e ripiegandosi sul proprio passato, tanto meno potrà riuscirvi tagliandosi i ponti alle spalle, per precipitarsi, ciecamente, in forme di pensiero e di cultura che le sono fondamentalmente estranee. L'esempio del Giappone dimostra che un paese può perfettamente svilupparsi sul piano tecnico senza rompere, per questo, con i suoi valori tradizionali e senza perdere la propria identità.

Con questo non vogliamo dire che non vi siano tradizioni sorpassate e usanze inutili, persino nefaste. Citiamo, tra le altre, le spese sontuose fatte per festeggiare battesimi e matrimoni; in tali occasioni le famiglie spendono tutti i loro averi o addirittura giungono al punto di indebitarsi per tutta la vita! Molte forme esteriori della tradizione scompariranno o si modificheranno da sole, come rami secchi di un vecchio albero che è giusto sfrondare. Ma abbattere il tronco equivarrebbe a suicidarsi, perdendo in una sola volta la propria anima e la propria autenticità. L'uomo, o il popolo, che strappa le proprie radici non può che aspirare a diventare quello che i Fulbe chiamano Soto, piccolo ciuffo vegetale che spunta nel cavo dei rami di certi alberi dove il vento ha trasportato un seme. Il Soto resterà sempre nano e improduttivo. È un trapianto, cioè un essere che ha perduto il proprio terreno, la propria terra nutrice, la base naturale in cui avrebbe potuto svilupparsi armoniosamente.

Una volta i contributi esterni venivano imposti. Oggi vengono proposti. Gli Africani sono liberi di rifiutare, di scegliere, di prendere o di lasciare quel che è meglio per i loro interessi più profondi. Essi sono liberi di cercare soluzioni che siano loro appropriate, di fronte ai grandi problemi contemporanei.

Quel che mi auguro, nell'interesse dell'autenticità africana, è che l'élite (non impiego mai, di proposito, il termine ‛evoluto' che, a rigore, non vuole dire niente e che, troppo spesso, è stato associato al solo fatto di saper maneggiare una forchetta o indossare una giacca...) si riafricanizzi senza complessi e che sappia, con un intenso lavoro di raccolta, salvare dall'oblio e dal disprezzo i valori ancestrali. Soltanto allora questa nuova élite potrà organizzare la società preservandone la tradizionale nozione fondamentale di equilibrio in seno a una vita dinamica, in perpetuo movimento, una vita in cui tutto è collegato, in cui lo spirituale e il materiale non sono affatto dissociati, ma complementari e solidali.

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