AFRICA

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Africa

Pasquale Coppola

(I, p. 730; App. I, p. 57; II, i, p. 67; III, i, p. 39; IV, i, p. 50; V, i, p. 64)

Evoluzione del quadro politico

carta politica

Nell'ultimo decennio del Novecento la carta politica dell'A. non ha più presentato quella nutrita serie di variazioni - con il cambiamento dei nomi di stato e di città e con il trasferimento di molte capitali - che aveva accompagnato tutta la fase della decolonizzazione. Ma questo non ha affatto significato che il continente abbia raggiunto un periodo di stabilizzazione politica: anche il volgere del sec. 20° è stato costellato di una cospicua serie di cambiamenti, spesso cruenti, dei governi, nonché di scontri di fazioni, di lotte tribali. Alcuni di questi conflitti, come quello che ha opposto le etnie hutu e tutsi nel Ruanda e nel Burundi, hanno varcato la soglia del genocidio. Né meno gravi sono parse le tensioni interne nella Somalia, di fronte alle quali si è mostrata impotente anche una spedizione internazionale di pace. Un altro violento confronto interno ha avuto luogo in Algeria, nella quale un potere fortemente appoggiato dall'esercito si è opposto ai militanti dell'integralismo islamico.

All'elenco degli stati si è aggiunta l'Eritrea, che ha proclamato la propria indipendenza nel 1993, dopo una trentennale guerra con l'Etiopia, e si è data per capitale Asmara. In Zaire alla caduta del regime del maresciallo Mobutu, nel 1997, è seguita la proclamazione di una repubblica democratica che ha ripreso il nome di Congo. Per quanto riguarda le capitali la Libia, dopo aver deciso il trasferimento del governo prima a El Jofra e poi ad as-Sider, entrambe nella regione della Sirte, ha poi di fatto mantenuto le funzioni di Tripoli.

Significativi progressi nelle relazioni internazionali si sono verificati con la risoluzione pacifica di due annose vertenze. La prima, che opponeva la Libia al Ciad per il possesso della fascia di Aozou (114.000 km²), è stata sciolta nel 1994 grazie a una sentenza della Corte internazionale di giustizia favorevole al Ciad: l'accordo ha comportato il ritiro delle truppe di Tripoli che occupavano il territorio da oltre vent'anni. Il secondo contenzioso, che riguardava il controllo dell'enclave portuale di Walvis Bay e delle dodici isolette antistanti, in Namibia, si è chiuso nel 1993 con il ritiro della Repubblica Sudafricana che le occupava da prima dell'indipendenza namibiana. Quest'ultima positiva evoluzione - così come la fine della fittizia indipendenza dei bantustan dell'A. australe riconosciuti solo dal governo di Pretoria - è derivata dal cambiamento di assetto politico della Repubblica Sudafricana. La cessazione del regime di apartheid in questo paese, sancita nell'aprile del 1994 dalle prime elezioni libere e non razziali e dall'elezione a capo dello Stato del leader nero N. Mandela, rappresenta il grande elemento di novità con il quale la politica africana si affaccia al Duemila: fine della discriminazione razziale, di conflitti che hanno a lungo investito anche gli stati limitrofi e, soprattutto, speranza di diffusione di un modello democratico e spazi per un protagonismo internazionale che si possono costruire intorno a una potenza regionale non più isolata all'esterno e sconvolta dalle tensioni interne.

Il rilancio del ruolo del Sudafrica è attestato dal suo reinserimento nell'Organizzazione per l'unità africana e dall'adesione alla SADC (South African Development Community), che costituisce un dinamico esempio di collaborazione economica regionale intrapresa tra undici paesi dell'A. australe. In questa parte del continente l'avvio di forme di mercato comune ha assunto un certo slancio con la creazione, nel 1993, del COMESA (Common Market for Eastern and Southern Africa) che include anche vari stati dell'A. orientale. Anche nell'area centro-occidentale si sperimentano forme di cooperazione regionale affidate a varie organizzazioni, la più recente delle quali è l'UEMOA (Union Économique et Monétaire Ouest-Africaine), costituita nel 1994 e dotatasi di una propria banca centrale dopo la svalutazione del franco centroafricano. Quest'ultimo episodio è, in realtà, parte di una più estesa crisi dell'influenza francese in molti paesi dell'A. equatoriale e occidentale che ha aperto un significativo vuoto di potere, nel quale gli Stati Uniti stentano a inserirsi e che impone ai paesi dell'area la ricerca di autonomi equilibri e integrazioni. Nel Nord del continente la collaborazione regionale, affidata all'UMA (Union du Maghreb Arabe), incontra una fase di stallo, anche per la crisi politica interna dell'Algeria.

Assetti demografici e sociali

Nonostante una costante diminuzione del tasso di natalità, l'A. è il continente che conserva il più alto tasso di crescita demografica. Questo rende spesso assai difficile far fronte ai bisogni primari della popolazione. Nel 1998 le Nazioni Unite hanno stimato in oltre 750 milioni il numero complessivo degli abitanti, con un aumento medio annuo di poco inferiore al 2% nella fase più recente. Benché il ritmo d'incremento sia quasi dimezzato rispetto a quello degli anni Settanta, la popolazione africana ha aumentato la propria incidenza sul totale mondiale, raggiungendo il 12,2% alla metà degli anni Novanta. La densità di popolazione ha ormai raggiunto i 25 ab./km²: valore tuttora esiguo, ma con preoccupanti riflessi ambientali in rapporto alla vastità delle aree repulsive e all'intensificazione nell'utilizzo di suolo, acqua ed energia.

Se la media della natalità è scesa dal 46 al 37‰ nell'arco di appena un decennio, restano le preoccupazioni per il suo permanere intorno al 50‰ nel complesso di paesi che si stende dal Sahel fin quasi alla cuspide meridionale. Solo il Sudafrica, da un canto, e la fronte mediterranea, dall'altro, si sono approssimati alla soglia del 30‰, mentre alcuni piccoli stati, come Maurizio, sono scesi anche sotto il 20‰. Le campagne intraprese in alcuni paesi per contenere la fecondità hanno dato esiti modesti, sicché essa è rimasta intorno al numero di 6 gravidanze per donna in gran parte dell'A. a sud del Sahara, e solo in Marocco, Algeria, Tunisia ed Egitto (oltre che nel Sudafrica) è scesa sotto quota 4. Un contrasto minore esiste nel campo della mortalità, scesa nel complesso dal 17 al 12‰; essa resta ancora alta (superiore al 20‰) in alcuni spazi dell'A. occidentale, mentre valori inferiori al 10‰ sono già presenti nella Repubblica Sudafricana, nel Maghreb e in Egitto. Se si considera, peraltro, la mortalità infantile, gli scompensi tornano a farsi acuti, con molti paesi della fascia centrale dal Golfo di Guinea alla Somalia e all'Etiopia ben al di sopra dei 100 decessi per 1000 nati e con l'area mediterranea e l'A. australe più prossime al 50‰. La combinazione di queste tendenze fa sì che le speranze di vita alla nascita differiscano notevolmente lungo l'arco del continente: in paesi come il Mali, il Niger, il Ciad o l'Etiopia oscillano intorno ai 45÷50 anni (con punte minime di 43 nella Sierra Leone e di 45 in Guinea), mentre in Egitto, in Sudafrica o in Lesotho salgono all'incirca a 60÷65 anni e si toccano 67÷72 anni in Tunisia, a Maurizio e nell'arcipelago di Capo Verde.

Le vicende demografiche, in definitiva, consentirebbero di distinguere diversi insiemi. In primo luogo, la vasta fascia che si stende dalla Mauritania e dal Sudan fino al bacino del Congo e a gran parte di quello dello Zambesi denuncia un'alta natalità cui si accompagnano alti livelli di morbilità e di mortalità: è in questo spazio che si è anche maggiormente diffuso il flagello dell'AIDS e che si sono manifestate ancora a più riprese terribili epidemie come quella provocata dal virus ebola, che ha mietuto molte vittime alla metà degli anni Novanta ai confini del Congo, e varie infezioni coleriche diffusesi nei campi di profughi. Nella fascia a nord del Sahara - con qualche ritardo per la Libia - e in gran parte di quella australe, invece, i tassi di natalità si sono già notevolmente abbassati e la persistente impennata demografica deriva soprattutto da una mortalità giunta ormai ai minimi livelli. I microstati insulari, come Capo Verde, Maurizio e Seicelle, sembrano, infine, condividere modelli europei di comportamento.

Benché nel complesso dell'A. l'enorme predominanza della popolazione giovane renda gravoso per i governi l'onere dell'istruzione, negli ultimi anni non sono mancati progressi, legati più all'impegno e alla capacità organizzativa dei poteri locali che alla stessa struttura della popolazione e ai livelli del reddito. Così, un paese povero come il Madagascar conta appena un 20% di adulti analfabeti e più o meno sullo stesso livello si collocano il Sudafrica, il Lesotho o lo Zambia, mentre valori prossimi al 30% accomunano la Tunisia e il Kenya; il tasso d'analfabetismo si attesta, comunque, in prevalenza sul 45÷50%, con punte vicine addirittura all'80% in Sierra Leone, Burkina Faso e Gibuti. Ovunque poi l'accesso all'istruzione per la componente femminile resta carente, a conferma dello stato d'inferiorità in cui è tuttora relegata la donna africana.

Le condizioni di vita assai precarie generano crescenti movimenti di popolazione, ma i fulcri di attrazione interni non hanno grande rilevanza né stabilità: il florido Sudafrica, che pure ha richiamato consistenti flussi di manodopera, ha solo di recente posto fine al suo marcato isolamento politico, mentre due paesi petroliferi dotati di potenziale attrattivo, la Nigeria e la Libia, attraversano difficoltà economiche e tensioni politiche che inducono spesso all'espulsione di lavoratori stranieri. In queste condizioni, i movimenti più repentini e consistenti sono legati alla fuga dai conflitti che hanno travagliato alcune aree dell'A. australe e dell'Etiopia e che continuano a insanguinare interi stati, come la Somalia, la Liberia o, soprattutto, il Ruanda e il Burundi, dove le stragi etniche hanno causato il riversarsi di centinaia di migliaia di persone nei campi-profughi: l'A. entra così nel sec. 21° con un triste primato in materia di rifugiati.

Le migrazioni fuori del continente si sono fatte più problematiche dopo che i paesi dell'Europa occidentale hanno manifestato sintomi di crisi economica e si è ridotta anche la richiesta di manodopera nei paesi petroliferi del Golfo. Consistenti flussi migratori, peraltro, si sono incanalati, soprattutto dal Maghreb, verso l'Europa meridionale: sicché negli anni Novanta i maghrebini sono divenuti la comunità straniera più numerosa in Italia e in Spagna.

Impressionanti sono i flussi di popolazione che dalle aree rurali si riversano negli spazi urbani, sempre più connotati da enormi distese di abitazioni precarie e da attività economiche informali che si collocano ai margini della sopravvivenza. Giunto ultimo sulla frontiera dell'urbanizzazione, il continente africano conosce ora ritmi di espansione urbana che si mantengono in media sul 5% annuo, con punte prossime al 10% in paesi quali il Mozambico, il Burkina Faso, il Kenya o la Mauritania: in quest'ultimo stato la quota di popolazione urbana è passata nel giro di appena vent'anni dal 14 al 54%. Restano, comunque, acuti i contrasti di fondo tra l'A. australe e quella mediterranea, che vantano livelli di urbanizzazione superiori al 50%, l'A. saheliana, occidentale ed equatoriale, dove le masse urbanizzate sono in media tra il 25 e il 35% (con punte del 52 per il Gabon e del 60 per il Congo-Brazzaville), e, infine, l'A. orientale, dove prevale di gran lunga l'insediamento rurale e alcuni paesi, come il Ruanda e il Burundi, l'Uganda o l'Etiopia, che si mantengono ancora intorno al 10% di popolazione urbana. Investiti in modo particolarmente intenso dalle migrazioni interne sono i centri maggiori: in molta parte dell'A. è molto alto il tasso di primazialità (cioè l'incidenza della popolazione della città più popolosa). Nell'arco di appena un decennio sono raddoppiate le città milionarie, che sono ora oltre una ventina, ma si calcola diverranno 60 nell'arco del prossimo decennio: emergono, oltre al Cairo (17,5 milioni di ab. nell'agglomerazione urbana) e ad Alessandria (3,4 milioni), gli agglomerati di Abidjan, Addìs Abebà, Città del Capo, Khartum-Omdurman, Dār al-Buydā' e Casablanca, tutti oltre i 2 milioni; un caso a parte va considerata Kinshasa, la cui popolazione è raddoppiata in una decina di anni, superando 4,6 milioni di ab. nel 1994.

Attività economiche

Negli anni Novanta l'economia africana ha conosciuto ancora una fase di relativa stagnazione: benché sia previsto per il periodo 1995-2005 un incremento del prodotto lordo pari al 3,3÷4,1% l'anno, questo supererà di poco il ritmo della crescita demografica, e non in tutti i paesi. È necessario considerare che i tre quarti degli stati annoverati dalla Banca mondiale tra i più poveri della Terra appartengono all'A. a sud del Sahara: nel 1997, anche se alle Seicelle è attribuito un reddito pro capite superiore ai 6800 dollari, la maggior parte dei valori si concentra intorno alla media dei 500 dollari, con non poche situazioni di clamorosa miseria, come quella del Mozambico, dove un abitante dispone di circa 90 dollari l'anno. Vi sono vari stati che hanno fatto registrare un calo del 10÷15% dei loro redditi pro capite tra gli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta e in alcuni casi, come il Ciad o il Niger, le decurtazioni hanno toccato anche il 30%. In queste condizioni non può certo destare meraviglia che oltre il 40% della popolazione africana viva al di sotto della soglia di povertà e oltre 180 milioni di individui siano afflitti da croniche insufficienze alimentari.

Del resto, è proprio in campo agricolo che i progressi continuano ad apparire lenti e spesso insufficienti a far fronte alla pressione demografica. Il contributo dell'agricoltura alla formazione del prodotto lordo è sceso intorno al 30% e, nonostante una certa propensione a favorire le colture per i fabbisogni interni, la dipendenza dalle derrate provenienti dall'esterno è di norma aumentata. Nel corso degli anni Novanta si è triplicata, per es., l'importazione complessiva di cereali, che ha superato i 20 milioni di t, un quarto circa dei quali rappresentato da aiuti stranieri. In campo alimentare, del resto, lo spettro delle carestie è ben lontano dall'abbandonare l'A.: dopo gli interventi umanitari d'urgenza in Somalia negli anni 1992-93, a metà del decennio si è dovuto far fronte ad analoghe emergenze in Liberia, Mozambico, Ruanda e Sudan.

Benché il contributo del comparto industriale alla formazione del reddito sia salito oggi al 34%, quest'ultimo resta in gran parte ancorato alla produzione di materie prime: il ramo manifatturiero, infatti, conta solo un terzo di tale contributo. La posizione strategica che l'A. continua a detenere nell'accesso ad alcune importanti risorse minerarie (oro, cromo, manganese e platino in Sudafrica, uranio in Niger, bauxite in Guinea, cobalto e diamanti nel Congo-Kinshasa, ancora diamanti in Botswana, rame in Zambia) e nel campo degli idrocarburi (Nigeria, Libia, Egitto, Algeria, Angola, Gabon) non sottrae affatto il continente alle difficoltà legate alla perdita di potere d'acquisto di molte materie prime. Dai prodotti agricoli e minerari dipende ancora, come negli anni Sessanta, l'80% dell'export africano, che in moltissimi paesi resta imperniato su uno o due prodotti-chiave: ed è agevole immaginare le ripercussioni di crisi come quella occorsa in Uganda, dove l'introito derivato dalle vendite del caffè si è dimezzato in un decennio pur in presenza di un aumento dei quantitativi esportati. Uno degli elementi di maggiore debolezza è legato alla modesta dimensione degli scambi interni: solo il 6% del commercio internazionale dei paesi africani si svolge all'interno dell'A.; ciò è conseguenza della similarità di molte produzioni e delle scarse capacità di acquisto delle popolazioni locali, ma anche di un sistema di trasporti, impostato in epoca coloniale, che resta ancora più imperniato sulle comunicazioni con l'esterno del continente. Il 50% delle esportazioni e l'80% delle importazioni hanno come interlocutore l'Occidente, nei cui confronti l'economia africana continua a manifestare un'acuta dipendenza, anche per via dell'altissimo livello raggiunto dall'indebitamento internazionale: in apertura degli anni Novanta il servizio del debito assorbiva da solo, in media, circa un quinto degli introiti derivanti dalle esportazioni.

Per consolidare una parte del debito e avviare la concessione di nuovi prestiti il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale hanno imposto a molti governi locali, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, politiche di aggiustamento strutturale fondate sulla riduzione della spesa pubblica e dei sussidi, sulla liberalizzazione del commercio, sulla privatizzazione delle compagnie statali. Questa scelta per la liberalizzazione economica è stata ribadita in genere dal nono vertice della Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, tenutosi nel 1996 a Johannesburg, ed è stata sottolineata per la fascia mediterranea dagli accordi di Barcellona del 1995 che prevedono in A. per il 2010 una grande area di libero scambio integrata con l'Unione Europea. Ma, nonostante il sostegno allo sforzo di ammodernamento economico assicurato anche dal quarto rinnovo (per il periodo 1996-2000) della Convenzione di Lomé con l'Europa comunitaria e dall'istituzione, nel 1993, di una Banca per lo sviluppo africano (con sede ad Abidjan), le politiche di aggiustamento non hanno prodotto vistosi effetti positivi. In molti casi esse sono state ostacolate da forti tensioni interne, in quanto comportavano svalutazioni monetarie e pesanti sacrifici nei bilanci statali; in molti altri casi sono state neutralizzate dalla mancanza di stabilità politica, che si traduce anche in spese di armamento assolutamente incompatibili con la scarsità delle risorse locali. Del resto, anche le misure a favore degli investimenti stranieri e le iniziative di privatizzazione, in condizioni di precarietà di infrastrutture e d'insicurezza politica così pronunciate, hanno dato risultati modesti: solo la Tunisia, l'Egitto, il Marocco e pochi altri paesi hanno richiamato discreti flussi di denaro dall'estero; e qualche altro risultato è stato conseguito da paesi con buon potenziale turistico che hanno varato piani di tutela e valorizzazione del loro ambiente, come Maurizio, il Kenya, la Tanzania, il Madagascar. Ma le speranze di sviluppo dell'A. del Duemila restano per la maggior parte ancorate, come per il passato, all'incerta maturazione dei suoi quadri politici.

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