Afghānistān

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Afghānistān

Anna Bordoni e Luisa Azzolini
ENCICLOPEDIA ITALIANA VI APPENDICE Tab afghanistan 01.jpg

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(I, p. 711; App. I, p. 56; II, i, p. 67; III, i, p. 35; IV, i, p. 48; V, i, p. 61)

Geografia umana ed economica di Anna Bordoni

Popolazione

Il quadro demografico risulta fortemente condizionato dalle vicende politico-militari in conseguenza delle quali, nel corso degli anni Ottanta, si sono verificati grandi spostamenti di abitanti, sia all'interno del paese sia verso gli stati limitrofi (circa 3 milioni di persone si sono rifugiate nel Pakistan e un milione nell'Iran), senza contare alcune centinaia di migliaia di caduti nelle operazioni belliche. Ciò nonostante, la popolazione complessiva ha continuato ad accrescersi velocemente in conseguenza di un tasso di natalità molto elevato, in assoluto uno dei maggiori del mondo (50,2‰ annuo nel periodo 1990-95 secondo una stima delle Nazioni Unite) e solo in parte bilanciato dalla notevole mortalità (21,8‰), nonché dei consistenti rientri degli emigrati (circa 200.000 dall'Iran e 1.800.000 dal Pakistan nel 1993). Secondo stime ufficiali degli organismi internazionali l'A., nel 1998, contava una popolazione di oltre 21,3 milioni di ab.: in questa valutazione erano compresi i profughi ed esclusi i nomadi, il cui numero oscilla tra i 2,7 e i 3 milioni di individui.

Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, la densità media di 33 ab./km² risulta da vaste regioni completamente o quasi disabitate, dove si scende a valori di 3 ab./km², e da altre, assai più piccole, fittamente popolate (conche e valli dotate di risorse idriche e con clima favorevole), dove la densità oscilla tra i 100 e i 300 ab./km².

La guerra e le devastazioni subite dalla campagna hanno determinato una tendenza degli abitanti a trasferirsi nelle città e il tasso di popolazione urbana è salito al 20%, valore raddoppiato rispetto agli anni Settanta: la capitale, Kābul, nel 1988 raggiungeva quasi 1,5 milioni di abitanti. Tuttavia tra il 1995 e il 1996 la situazione politica incerta e l'offensiva dei fondamentalisti islamici contro le maggiori città del paese hanno spinto numerosi abitanti ad abbandonare i centri urbani e a trasferirsi nei villaggi ritenuti più sicuri, per cui è attualmente molto difficile valutare la reale consistenza demografica della capitale (che nel 1993, secondo una stima, sarebbe risultata dimezzata rispetto al 1988) e degli altri maggiori centri del paese (Qandahār, Herāt, Mazār-i Sherīf, Gialālābād e Qundūz).

Condizioni economiche

L'economia dell'A., già fra le più arretrate del mondo, ha subito ulteriori danni per le recenti drammatiche vicende politico-militari; malgrado i dati pubblicati dalle fonti ufficiali afghane siano ottimistici e rassicuranti, permane in condizioni molto critiche e, in attesa che venga portata a termine l'opera di ristrutturazione, resta basata su forme di sussistenza e quindi ancorata al settore primario.

L'aridità del clima, la povertà dei suoli e la tormentata morfologia condizionano pesantemente le attività agricole, limitate a circa il 12% della superficie territoriale. Un miglioramento notevole sarebbe derivato dalle grandi opere di sbarramento e canalizzazione effettuate sui principali fiumi del paese, se il loro funzionamento non fosse stato compromesso dalle distruzioni avvenute durante il periodo dell'occupazione sovietica. A tale situazione si aggiunge l'arcaicità delle strutture fondiarie e delle tecniche colturali, per cui a partire dagli anni Ottanta la produzione delle principali colture di cereali è progressivamente diminuita, come anche il loro rendimento per ettaro: il grano è sceso da 2,8÷3 milioni di t annue a circa 2 milioni di t, mentre quantitativi assai minori si hanno per il mais, il riso, l'orzo, il miglio. È abbondante la produzione di ortaggi e frutta, destinati sia al commercio interno sia all'esportazione, ed è assai diffusa la coltivazione di cotone e lino, che alimenta un comparto tessile, le cui strutture sono state in parte ricostruite. Risorsa fondamentale resta il patrimonio zootecnico, peraltro anch'esso decimato: prevalgono gli ovini, che nel 1996 raggiungevano i 14,3 milioni di capi, comprese le pecore karakul, le cui pelli sono largamente esportate.

Il paese possiede buone risorse minerarie (ferro, piombo, rame, cromo, uranio, oro, argento, sale, lapislazzuli), non ancora sfruttate, e dispone di ricche riserve di petrolio, di gas naturale e di carbone. La produzione di gas naturale (3 miliardi di m³ nel 1987), esportato totalmente in Unione Sovietica fino al 1988, è oggi molto diminuita (294 milioni di m³ nel 1995) e destinata solo al consumo interno.

Un discreto, anche se non quantificabile, contributo all'economia afghana proviene dal traffico di droga, che, ostacolato durante l'invasione sovietica, ha riallacciato oggi i propri canali di commercializzazione; tuttavia, secondo stime delle Nazioni Unite, la coltivazione dell'oppio è diminuita negli ultimi anni di circa 1/3, in seguito all'eradicazione forzata, alla convenienza di alcune colture alternative e, infine, al timore di rappresaglie da parte dei fondamentalisti. I profondi mutamenti avvenuti nei paesi socialisti europei e in quelli che costituivano l'Unione Sovietica, già principali partner commerciali, hanno portato a un radicale cambiamento del quadro degli scambi internazionali dell'A., nel quale vanno inserendosi, con un ruolo di crescente importanza, alcuni paesi dell'Unione Europea.

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Storia di Luisa Azzolini

Il ritiro delle truppe sovietiche dall'A., completato nel febbraio 1989, e la progressiva riduzione del sostegno statunitense alla guerriglia islamica non agevolarono in alcun modo il ritorno a una situazione di normalità in un paese devastato dalla guerra civile. Il regime filosovietico di M. Najibullah fallì il tentativo di realizzare una politica di riconciliazione nazionale e crollò nel 1992 sotto la spinta dei Mujāhidīn. Il fronte islamico, tuttavia, scisso in correnti religiose ed etnicamente composito, congelò l'A. in uno stato di guerra endemico, da cui i gruppi fondamentalisti più intransigenti tentavano di uscire imponendo con le armi un modello di società islamica assai lontano da ogni compromesso con la modernità.

La crisi afghana sembrò giungere a una svolta fra il settembre 1991 e il febbraio 1992 quando Washington e Mosca annunciarono l'interruzione dei rifornimenti militari alle parti in lotta e il Pakistan, che negli anni Ottanta aveva sostenuto la causa dei Mujāhidīn e assorbito nei propri confini un flusso costante di emigrati dissidenti soprattutto pashtun, tentò di convincere le formazioni islamiche a rinunciare all'immediata instaurazione di un governo integralista a Kābul e ad accogliere la dichiarazione dell'ONU del maggio 1991, basata sul principio di autodeterminazione del popolo afghano. Pochi mesi più tardi tuttavia, nell'aprile 1992, la conquista di alcune città settentrionali da parte dei guerriglieri di Jamiat-i Islāmī (Associazione islamica) sotto il comando del tagiko A.S. Mas‚ud provocò la caduta del governo di Najibullah e, nel giro di alcuni giorni, l'occupazione della capitale Kābul che si arrese alla fazione pashtun Hezb-i Islāmī (Partito dell'Islam) guidata da G. Hekmatyar.

Il definitivo naufragio del regime filosovietico e la proclamazione, il 28 aprile, di uno stato islamico dell'A. fecero esplodere i conflitti già esistenti fra i diversi raggruppamenti dei Mujāhidīn. La nomina a presidente del tagiko B. Rabbani, leader del movimento Jamiat-i Islāmī, e l'ingresso a Kābul delle forze uzbeke del generale R. Dostam provocarono la reazione di Hekmatyar, che sottopose la capitale a pesanti bombardamenti. Mentre le fazioni contrapposte di Mujāhidīn si spartivano il controllo del paese dimostrando di fatto l'assenza di uno stato unitario in A., Kābul continuava a trovarsi al centro dei combattimenti fra i sostenitori di Rabbani e il gruppo di Hekmatyar.

Neanche l'accordo di Islāmabād del marzo 1993, con il quale Hekmatyar divenne primo ministro, riuscì a stabilizzare la situazione: il compromesso, infatti, ufficialmente approvato e firmato dai governi del Pakistan, dell'Iran e dell'Arabia Saudita, lungi dal rappresentare una svolta risolutiva, provocò nel governo una situazione di impasse con tragiche ripercussioni in tutto il paese, soprattutto dopo il rovesciamento delle alleanze che portò l'uzbeko Dostam a combattere al fianco di Hekmatyar contro le forze congiunte di Rabbani e Mas‚ud. Inutili si rivelarono anche i reiterati tentativi dell'ONU e dell'OCI (Organizzazione della Conferenza Islamica) di ottenere un accordo tra le parti in lotta, tentativi che naufragarono definitivamente nel giugno 1994 a causa della mancata conferma di Hekmatyar come primo ministro e del rifiuto di Rabbani di rassegnare le dimissioni al termine previsto del suo mandato.

In un contesto politico caratterizzato dall'assenza di un potere centrale e dal frazionamento del territorio afghano in potentati solo nominalmente dipendenti dal governo, emerse verso la fine del 1994 un nuovo gruppo armato, presto conosciuto con il nome generico di Ṭālibān (da ṭālib, "studente dei collegi coranici") in quanto formato in maggioranza da giovani afghani di etnia pashtun provenienti dalle scuole coraniche del Pakistan. Inizialmente considerati alla stregua degli altri gruppi combattenti, e quindi sostanzialmente non in grado di alterare i pur instabili equilibri politico-militari, i Ṭālibān dimostrarono viceversa una forza espansiva considerevole arrivando a controllare in breve tempo le province meridionali dell'Afghānistān. L'avanzata fu agevolata dall'atteggiamento non ostile delle popolazioni locali (e dei Pashtun in particolare), che consentì loro di procedere senza eccessivi spargimenti di sangue fino ai primi mesi del 1995, quando, diretti verso N, si scontrarono con le truppe del presidente Rabbani. Il conflitto riprese con immutata asprezza: dopo iniziali rovesci i Ṭālibān riuscirono a espugnare la città di Herāt e quindi, nell'ottobre 1995, lanciarono un massiccio attacco contro Kābul. La capitale venne difesa dalle forze governative di Rabbani cui si aggiunsero, nel maggio 1996, anche le milizie di Hekmatyar, ma cadde infine il 25 settembre dopo mesi di bombardamenti che ne avevano decimato la popolazione civile. Fra i primi provvedimenti, il nuovo governo deliberò l'esecuzione sommaria dell'ex presidente filosovietico Najibullah. Tentativi di riprendere Kābul furono compiuti dalle forze congiunte di Dostam, Mas‚ud e del generale A.K. Khalili del partito sciita in ottobre e novembre, ma i Ṭālibān respinsero con successo gli attacchi e nel maggio 1997 sferrarono una vittoriosa offensiva nel Nord del paese, estendendo il loro controllo su quasi il 90% del territorio nazionale. Dopo appena pochi giorni la reazione dell'UIFSA (United Islamic Front for the Salvation of Afghanistan), la nuova coalizione che riuniva le opposizioni, respingeva i Ṭālibān duecento chilometri a sud di Mazar-i Sherīf, importante nodo strategico nella parte settentrionale del paese.

La comparsa e l'affermazione di questa nuova forza politico-militare fu, per varie ragioni, inizialmente accolta con favore. I Ṭālibān, disarmando le milizie locali, si posero di fronte alla popolazione afghana come movimento restauratore della pace e dell'ordine, e in grado di restituire all'A., attraverso il ritorno ai fondamenti dell'Islam, una forma di identità forte. Tuttavia, l'incrudelire dei combattimenti e l'assedio di Kābul dimostrarono in modo eloquente che i Ṭālibān, dotati di vaste risorse economiche e di armamenti sofisticati, non solo non avrebbero posto fine allo stato di guerra, ma nemmeno avrebbero contribuito in modo significativo alla ricostruzione di un'identità nazionale, in ragione della loro scarsa propensione a unirsi a Tagiki e Uzbeki.

Nelle zone sotto il loro controllo (circa 2/3 del territorio nazionale) i Ṭālibān adottarono misure radicali basate su una dogmatica applicazione dei principi della šarī‚a: alle donne fu interdetto l'accesso ai pubblici impieghi e all'istruzione; le opposizioni politiche subirono pesanti restrizioni; televisione e musica profana furono proibite; agli uomini venne imposta la frequentazione delle moschee; venne incrementata la prassi delle pubbliche esecuzioni tramite lapidazione. Tali provvedimenti provocarono forti preoccupazioni tanto nelle popolazioni urbane (in particolare non pashtun) quanto nella comunità internazionale e in organismi come l'UNICEF, che decise di interrompere l'invio di aiuti nelle province controllate dal nuovo regime.

Fra i paesi limitrofi il Pakistan di B. Bhutto fu il primo a riconoscere il nuovo regime imposto dai Ṭālibān, ai quali, secondo accuse mosse dall'Iran e smentite dal governo pakistano, avrebbe offerto il proprio sostegno economico e militare di cui in precedenza aveva goduto il movimento di Hekmatyar. Nell'Asia centro-occidentale, il Pakistan restava il paese più interessato a una stabilizzazione del territorio afghano sotto l'elemento pashtun e al ripristino delle rotte commerciali verso i mercati delle ex repubbliche sovietiche.

Tra la fine del 1997 e i primi mesi del 1998 l'ex presidente afghano Rabbani, ancora riconosciuto a livello internazionale come legittimo capo di Stato, incoraggiava le diplomazie iraniana e pakistana a promuovere accordi di pace tra le fazioni in lotta in A., ma i combattimenti non cessarono e nell'agosto 1998 i Ṭālibān riconquistarono Mazar-i Sherīf, roccaforte dell'opposizione, facendo strage della popolazione civile e provocando migliaia di morti. Ai primi di settembre il ritrovamento dei corpi di alcuni diplomatici iraniani scomparsi dopo la conquista della città fece salire enormemente la tensione tra Iran e A. provocando il rilascio di dichiarazioni apertamente ostili da parte dell'āyatollāh H̠āmene'ī e il posizionamento di truppe iraniane ai confini con l'Afghānistān. Contemporaneamente gli Stati Uniti, in risposta alle stragi compiute il 7 agosto alle ambasciate americane di Nairobi (Kenya) e Dār al-Salām (Tanzania), bombardarono il 20 agosto un campo militare situato nei pressi della città di Khost, a circa centocinquanta chilometri da Kābul, al confine con il Pakistan, con l'intento di colpire il miliardario saudita Osama bin Laden, da anni residente in A. 'ospite' della milizia islamica, presunto finanziatore e organizzatore di molti attentati dei fondamentalisti islamici nel mondo. Nei mesi successivi all'attentato i Ṭālibān negarono agli Stati Uniti la sua estradizione.

bibliografia

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