ADRIANO I

Enciclopedia dei Papi (2000)

Adriano I

Ottorino Bertolini

D'illustre famiglia dell'aristocrazia militare di Roma, orfano in tenera età del padre Teodoro e perduta poi anche la madre, fu accolto ed allevato dallo zio paterno Teodoto, il quale, dopo aver ricoperto la carica di console e duca, era entrato negli uffici dell'amministrazione pontificia raggiungendovi, durante il pontificato di Stefano II, l'alta carica di primicerio dei notai.

A., presa la tonsura chiericale al tempo di Paolo I, da questo papa fu nominato notaio regionario e ordinato suddiacono; da Stefano III ricevette l'ordinazione a diacono. La sua elezione a pontefice (A. fu consacrato il 9 febbraio 772) segnò la riscossa degli avversari della fazione filolongobarda capeggiata da Paolo Afiarta, inaspriti dalla tragica fine del capo del loro schieramento Cristoforo, dal mistero che circondava la scomparsa di suo figlio, Sergio, e dagli arresti e bandi che avevano colpito quanti dei maggiorenti della Chiesa e dell'aristocrazia militare Paolo Afiarta sospettava suoi nemici. A., che al momento stesso dell'elezione aveva fatto mettere in libertà gli arrestati e richiamare i banditi, procuratasi la necessaria libertà d'azione, allontanando da Roma Paolo Afiarta col pretesto di una missione presso Desiderio, condusse personalmente l'inchiesta. Da questa risultò che Sergio era stato trucidato per mano di due sicari; A. deferì allora gli autori materiali del delitto ed un "cubicularius" del Palazzo Lateranense, il quale aveva servito da tramite fra loro e Paolo Afiarta, al giudizio del "praefectus urbi", e ordinò all'arcivescovo di Ravenna, Leone, di far arrestare Paolo Afiarta quando, di ritorno da Pavia, fosse passato per Ravenna o per Rimini. La sentenza di esilio, da espiare a Costantinopoli, pronunciata contro i due sicari (il "cubicularius" era morto in seguito ai tormenti subiti durante il processo), dimostra che Roma, pur dopo la cessazione di fatto del dominio bizantino, riconosceva ancora di essere sotto la sovranità dell'Impero. Lo stesso pensava A. per Ravenna, poiché non appena seppe che Paolo Afiarta era stato effettivamente tratto in arresto a Rimini incaricò l'arcivescovo Leone di provvedere all'inoltro di una lettera, con cui il papa informava gli imperatori Costantino V e Leone IV delle circostanze del delitto e li pregava di ordinare la traduzione ed il confino in Grecia del prigioniero. Se non se ne fece nulla dipese dalla cattiva volontà di Leone. L'arcivescovo, invece di eseguire l'incarico e di obbedire agli ordini successivamente mandatigli da A., prima di occuparsi dell'imbarco del prigioniero per Bisanzio, poi di consegnarlo ad un suo inviato, il quale lo avrebbe condotto con sé a Roma, si era preso l'arbitrio di deferire Paolo Afiarta al giudizio del magistrato in Ravenna competente per la giurisdizione criminale, ed a questo aveva forzato la mano, inducendolo a mettere a morte l'imputato. La condotta dell'arciverscovo, se era indizio preoccupante dei vivi sentimenti locali d'autonomismo e d'avversione a Roma, liberò tuttavia di un pericoloso personaggio A., evitandogli di trovarsi direttamente coinvolto nella sua soppressione, come lo era stato Stefano III nei casi di Cristoforo e di Sergio.

La disfatta definitiva della fazione asservita a Desiderio nel seno stesso del patriarchio lateranense assicurava un esito felice all'opera da A. accortamente intrapresa per ristabilire in Roma l'autorità temporale dei papi, che i drammatici avvenimenti seguiti alla morte di Paolo I, con il colpo di mano di Totone e dei suoi fratelli, avevano gravemente scosso. Era tempo, perché proprio allora entravano in una fase critica le relazioni con Desiderio, per l'ambizioso piano concepito dal re longobardo di opporre all'opera unificatrice di Carlomagno in Francia l'autorità del vicario di s. Pietro, costringendo il papa ad ungere re gli orfani di Carlomanno, il che gli avrebbe inoltre permesso, creando difficoltà tra A. e Carlomagno, di avere più agevole la via alla totale conquista degli ultimi domini dell'Impero nella penisola italiana. Sin dai primi inizi del pontificato del nuovo papa, Desiderio si era provato ad ottenere che egli acconsentisse a stipulare con lui un patto d'amicizia. A., nella risposta data agli ambasciatori che gli avevano portato la richiesta, aveva subordinato i relativi negoziati all'integrale, effettiva cessione dei territori, oggetto degli impegni assunti nel 757 dal re longobardo con Stefano II, che non erano stati ancora consegnati alla Chiesa di Roma.

Quando, alle reiterate insistenze in sede diplomatica, Desiderio aggiunse violente azioni intimidatrici, facendo invadere l'Esarcato di Ravenna e la Pentapoli e facendo compiere nello stesso territorio romano razzie, una delle quali desolò Bieda nell'estate del 772, il papa fronteggiò con grande fermezza l'aggravarsi della situazione. Si dichiarava pronto ad incontrarsi col re in qualunque luogo avesse preferito, esigeva però che prima Desiderio sgombrasse i territori allora occupati e consegnasse tutti quelli promessi a Stefano II. E quando la minaccia del re di portare le sue armi contro Roma, se il papa non si fosse recato da lui e non avesse unto re i figli di Carlomanno, rese evidente l'impossibilità di un accordo pacifico, A. cominciò a prendere le misure necessarie per mettere la città in condizione di difendersi. A. si era sino allora preoccupato soprattutto di mantenere il conflitto nell'ambito dei rapporti con Desiderio. Probabilmente ancora incerto nella valutazione degli sviluppi della situazione interna in Francia, A. si proponeva di evitare sino all'estremo un appello a Carlomagno, che necessariamente implicava il riconoscimento di quanto egli aveva operato in danno dei nipoti. Soltanto nel febbraio o al principio del marzo 773 un inviato giunto in Francia via mare consegnò a Carlomagno, mentre svernava a Thionville, la lettera con cui A. invocava il soccorso del "re dei Franchi e patrizio dei Romani". Il papa si era deciso perché stretto alla gola dall'incalzare degli avvenimenti, "necessitate compulsus" scrive il suo biografo. Nell'attesa, alla notizia che Desiderio e Adelchi, nella primavera del 773, si erano mossi da Pavia alla volta di Roma, alla testa dell'esercito, e portando con loro la vedova ed i figli di Carlomanno, A. provvide a preparare la resistenza ad oltranza facendo affluire nella città tutte le truppe dei Ducati di Perugia e di Roma, ingrossate da reparti provenienti dalla Pentapoli, e mise al sicuro in Roma i tesori delle basiliche di S. Pietro e di S. Paolo. Ma Desiderio, preoccupato dell'imminente intervento franco, ed anche delle minacce di anatema lanciategli dal papa, dopo esser giunto nelle vicinanze del confine, ricondusse il suo esercito alla guardia dei valichi alpini. A. seppe allora cogliere con sagace tempestività la fase durante la quale Desiderio lottava in difesa del suo stesso trono, e Carlomagno non glielo aveva ancora strappato, per mettere il re franco di fronte al fatto compiuto di una situazione politica nell'Italia centrale che consentisse alla Chiesa di Roma di trattare nelle migliori condizioni quando, finita la guerra, si sarebbe deciso del nuovo assetto generale della penisola italiana.

Ripresa la via accennata da Gregorio III e percorsa da Stefano II, A. raccolse i primi frutti già dal momento in cui Desiderio indisse la mobilitazione generale per affrontare i Franchi. Diversi maggiorenti di Spoleto e di Rieti, tra i quali lo spoletino Ildeprando, invece di obbedire al loro sovrano, cercarono asilo in Roma, dove giurarono fedeltà a s. Pietro ed ai suoi vicari. Ugual giuramento prestarono i rappresentanti di tutti i ceti della popolazione del Ducato di Spoleto convenuti a Roma nel settembre 773, quando Carlomagno aveva appena iniziato l'assedio di Pavia; essi chiesero ed ottennero il consenso del papa perché fosse eletto duca Ildeprando. L'esempio fu seguito dai Longobardi di "Castellum Felicitatis" (Città di Castello), di Fermo, di Osimo e di Ancona. Al principio del 774 A. poteva ritenere d'esser riuscito ad estendere a gran parte dell'Italia centrale la sfera d'influenza politica del papato, assicurando più ampio respiro alle difese dei Ducati di Roma e di Perugia, e alle loro comunicazioni con la Pentapoli e con Ravenna. Il giuramento da lui imposto ai Longobardi che gli avevano fatto atto di sottomissione era soltanto di fedeltà a s. Pietro ed ai suoi vicari, mentre di fedeltà anche a Pipino era stato quello richiesto da Stefano II nel 757. A. si proponeva dunque di dare a tali riconoscimenti del governo temporale dei papi il carattere di una validità indipendente da un consenso o da una compartecipazione, comunque, di Carlomagno, il quale, tuttavia, ormai ben risoluto ad una vera guerra di conquista, voleva che tutto il problema della successione nei domini dei re longobardi fosse oggetto di accordi bilaterali, discussi insieme col papa in un convegno personale. Trattative per prepararlo probabilmente vi furono, ma il re franco non attese che esse avessero portato a precise intese preliminari: ad A. giunse inaspettata e sconcertante la notizia che Carlomagno, lasciata sotto Pavia una parte dell'esercito, stava attraversando la Tuscia di gran fretta per arrivare a Roma il 2 aprile, vigilia di Pasqua, con notevoli forze e largo seguito di grandi ecclesiastici e laici. La prima visita ed il primo convegno a Roma di un sovrano franco con un papa fu evento memorando, e perché senza precedenti, ed ancor più perché il momento era di singolare importanza. S'impegnò allora fra A. e Carlomagno una partita politica, che in quella fase iniziale parve volgersi a favore del papa. Il 6 aprile 774, infatti, nella basilica di S. Pietro, presenti gli alti ecclesiastici, dignitari e funzionari della Chiesa, i capi dell'aristocrazia militare romana, i grandi ecclesiastici e laici franchi, Carlomagno rilasciò solennemente la sua "promissio donationis", tanto discussa dagli studiosi. Con essa concedeva a s. Pietro, e s'impegnava a far consegnare a A., le Venezie, l'Istria, l'intero Esarcato di Ravenna nella sua antica estensione, con la Pentapoli, i Ducati di Spoleto e di Benevento, la Corsica, i territori di dominio longobardo a sud di una linea che da Luni, sul litorale tirrenico alle foci della Magra, per Filattiera, la Cisa, Berceto, Parma, Reggio Emilia e Mantova, raggiungeva a Monselice, sul versante adriatico, la zona di confine con la Venezia bizantina e con l'Esarcato.

Una contropartita indubbiamente v'era, e di natura da offrire al suo beneficiario quanto bastava per neutralizzare a suo tempo, così da renderle inoperanti, le clausole della "promissio". Consisteva, per ciò che riguardava la Francia, nel riconoscimento dato dal papa all'unione dei domini di Carlomanno con quelli di Carlomagno; per ciò che riguardava l'Italia, nel consenso che il re franco, vinto Desiderio, assumesse anche il titolo ed i poteri di "rex Langobardorum". Nel secondo convegno avuto con Carlomagno a Roma nel 781, A., se il Sabato santo (14 aprile) ne battezzò il figlio Carlomanno, che prese allora lo stesso nome dell'avo, Pipino, e lo unse re d'Italia, e unse re d'Aquitania l'altro figlio Ludovico (il futuro Ludovico il Pio), dovette però accettare che la clausola della "promissio" concernente l'intero Ducato di Spoleto fosse sostituita da un nuovo particolare "scriptum donationis", limitato ai soli beni fondiari sui quali la Chiesa di Roma avesse diritti di proprietà nel sottile lembo della Sabina spoletina, fra il Tevere e il territorio di Rieti. Il papa non poté impedire che nell'intero Ducato, compreso il territorio di Fermo, fosse riconosciuta la soggezione, anziché a s. Pietro ed ai suoi vicari secondo il giuramento del 773, a Carlomagno nella sua qualità di "rex Langobardorum". Del Principato (già Ducato) di Benevento decise il terzo convegno, avvenuto a Roma nei primi mesi del 787.

A. dovette accontentarsi di una nuova "donatio", che prevedeva la cessione al governo temporale dei papi solo della zona periferica settentrionale del Principato, con Sora, Arce, Arpino (fin qui semplice reintegrazione del Ducato di Roma nello "status quo ante" il 702, data alla quale le tre città gli erano state tolte dal duca Gisulfo I), Aquino, Capua e Teano. Ma la "donatio" non fu mai tradotta in realtà concreta, e il Principato di Benevento rimase infatti intatto da una qualunque fosse pure piccola mutilazione a vantaggio della Chiesa di Roma. Anche della Tuscia longobarda fu decisa la sorte nel terzo convegno di Roma, e anche per essa con danno del papa. Posta a sud della linea Luni-Monselice rientrava fra le regioni contemplate nella "promissio" del 774. Nel 787 si parlò di cessione soltanto della sua parte meridionale, con Populonia, Roselle, Sovana, Bagnoregio, Viterbo e Tuscania; per il resto, ferma rimanendovi la sovranità di Carlomagno, sarebbero passati all'amministrazione pontificia solo i cespiti qui annualmente percepiti dal fisco regio. In merito Carlomagno rilasciò una "donatio", e A. contraccambiò con un "praeceptum" di ratifica. Allora e negli stessi atti, o già nel convegno del 781 e negli atti relativi, anche per il Ducato di Spoleto fu stabilito, con le stesse formalità e con la stessa riserva della sovranità, il versamento all'amministrazione pontificia dei cespiti fino allora percepiti dal fisco regio. Se si aggiunge che A. non riuscì a farsi consegnare Populonia e Roselle, e che la "promissio" del 774 rimase lettera morta anche per la Corsica, le Venezie, l'Istria e per la zona a sud di Monselice, appare evidente lo scacco subito dal papa rispetto all'impostazione da lui data alla sua politica territoriale nel primo convegno con Carlomagno.

L'area geografica sotto il reggimento temporale dei papi rimaneva quella sulla quale già trent'anni prima Stefano II aveva cercato di affermarlo, ampliata soltanto con l'acquisto di Tuscania, Viterbo, Bagnoregio e Sovana nel lembo meridionale della Tuscia longobarda. Vi si distinguevano due principali complessi territoriali, differenziati dalle circostanze che vi avevano segnato il passaggio alla "potestas" temporale dei vicari di s. Pietro dalla "potestas" dei sovrani che in precedenza ne avevano avuto il dominio diretto: i Ducati di Roma e di Perugia, dove gli imperatori avevano perduto l'esercizio effettivo della sovranità per il naturale e graduale maturarsi di una situazione interna di fatto, che non era stata interrotta da interventi dall'esterno e che le popolazioni e le autorità civili e militari locali avevano accettato, onde né Stefano II da Pipino né A. da Carlomagno avevano dovuto sollecitare un qualunque atto di donazione; l'Esarcato di Ravenna e la Pentapoli, dove i ripetuti interventi di Liutprando, di Astolfo e di Desiderio da parte longobarda, di Pipino e di Carlomagno da parte franca, avevano reso inevitabile che il passaggio alla "potestas" temporale dei papi fosse legato da Stefano II alla sanzione del vincitore di Astolfo, e da A. a quella di Carlomagno, non solo vincitore, ma addirittura successore di Desiderio come "rex Langobardorum".

A maggior ragione la stessa necessità si era imposta per l'orlo meridionale di quella Tuscia che dal tempo di Agilulfo era sempre rimasta sotto la diretta sovranità dei re di Pavia. Non era derivata al governo temporale dei papi, dal modo come si era venuto configurando, una latitudine di poteri tali da conferire all'area geografica dentro cui venivano esercitati il carattere di un vero Stato, cioè di uno Stato della Chiesa a sovranità piena e indipendente da altra sovranità. Non a questo aveva mirato Stefano II che, in nome di s. Pietro e dell'autorità pastorale trasmessa da s. Pietro ai suoi successori, si era proposto soltanto l'acquisizione di un'autonomia politico-amministrativa adeguata ad assicurare alla Chiesa di Roma una più efficace difesa dell'ortodossia cattolica dall'eterodossia bizantina, e dell'indipendenza politica, minacciata dalla conquista longobarda. Nello stesso ordine di idee si mosse papa Adriano. Il passo, assai discusso dagli studiosi, di una sua lettera a Carlomagno del maggio 778, che tra le munifiche elargizioni di Costantino Magno alla Chiesa di Roma al tempo di Silvestro I precisa quella della "potestas in his Hesperiae partibus", ha valore semplicemente di richiamo ad un fatto del remoto passato, come stimolo ad un maggior zelo del re franco nel procurare la restituzione integrale di tutti i beni patrimoniali tolti alla Chiesa di Roma dai Longobardi; non intende prospettarlo come capace di dare fondamento giuridico a rivendicazioni di sovranità. Per Roma e per il suo Ducato, per i Ducati di Perugia e della Pentapoli, per l'Esarcato di Ravenna, si può considerare definitivo con A., ed a cominciare dal 774, il distacco dal nesso statale dell'Impero. Si espresse a Roma anche con l'emissione di monete recanti l'effigie ed il nome del papa anziché del sovrano di Bisanzio, e con la sostituzione negli atti (a partire dal 781) degli anni di pontificato a quelli di regno degli imperatori. Si accompagnò tuttavia, nella realtà, con l'ingresso nell'ambito della sovranità di Carlomagno, ingresso peraltro avvenuto in forme e modi così peculiari da conferire ai rapporti di subordinazione, derivatine verso la persona del re franco, un carattere ben diverso da quello dei rapporti di dipendenza che le vincolavano il Regno dei Longobardi e il Ducato di Baviera.

Erano rapporti derivanti dalla dignità di "patricius Romanorum", che era della tradizione non franca, ma imperiale. Il fatto di esserne insignito, di potersi quindi considerare, in certo qual modo, subentrato nelle funzioni degli esarchi d'Italia, offerse a Carlomagno motivo per attribuirsi poteri effettivi di alta vigilanza sul governo temporale della Chiesa di Roma nei territori rimasti, sino alla metà del sec. VIII, dominio, sia pure nominale, dell'Impero, mentre sul resto, dominio antico od occupazione recente dei re di Pavia, il re franco poteva vantare diritti di successione nei loro stessi diritti di alta sovranità. A. non disconobbe mai il fondamento che l'agire di Carlomagno poteva trovare nel fatto d'essere patrizio; ammise l'esercizio della sua "regalis tuitio" sui territori della Chiesa; gli contrappose, è vero, una volta il "patriziato", e cioè la "potestas" anche temporale, di s. Pietro sull'Esarcato di Ravenna e sulla Pentapoli per sollecitarne l'integrale rispetto: ma anche allora riconobbe esplicitamente che tale "patriziato" del principe degli apostoli derivava dalle donazioni di Pipino e di Carlomagno. Non si provò ad affermarne una diretta origine da una autorità superiore tale da trascendere quella terrena dei re franchi. In sostanza, nel campo politico, A., dopo un primo effimero momento, dovette subire, volente o nolente, le iniziative di Carlomagno. Ne accolse anche la richiesta di avere l'appoggio dell'autorità apostolica contro Tassilone III. Se ne parlò in entrambi i convegni del 781 e del 787. Nell'occasione del secondo, il papa non esitò a minacciare d'anatema il duca ed i suoi, e a dichiarare che se la disobbedienza ai suoi moniti avesse provocato la guerra, egli avrebbe proclamato Carlomagno ed i Franchi esenti da ogni colpa per le rovine e le stragi che ne avrebbe sofferto la Baviera. È vero che qui gli interessi politici di A. e dei Franchi coincidevano, perché Tassilone III era cognato di Adelchi e di Arechi, i due capi preconizzati della riscossa longobarda.

Ma non è men vero che dall'atteggiamento del papa in una questione che stava tanto a cuore al re, questi trasse vantaggi ben più concreti di quanto A. aveva ottenuto da lui per un problema vitale nei riguardi del papato e di Roma, qual era il nuovo assetto territoriale e politico-amministrativo della penisola italiana. Anche nell'ambito dei problemi ecclesiastici e religiosi si ha l'impressione che A. si sia lasciato talora condurre, in un certo senso, a rimorchio, consentendo a Carlomagno di dare all'assolvimento dei suoi compiti di "defensor Ecclesiae" una latitudine tale da attribuirsi l'ufficio addirittura di "rector Ecclesiae". Il re franco s'ingerì in questioni che toccavano direttamente i costumi morali anche dei sacerdoti romani e le stesse consacrazioni impartite dal papa. Per queste ultime A. dovette mettere bene in chiaro i particolari delle norme canoniche in materia, allo scopo di dimostrare che bastava la loro rigorosa osservanza - ed il papa assicurava di averlo sempre fatto - ad escludere ogni possibilità di consacrazione viziata da precedenti simoniaci. Non che egli abbia mancato di affermare l'autorità apostolica. Sollecitò il re a vietare che i vescovi ed i presbiteri del suo seguito andassero armati, e ad esigere che nel Regno longobardo fossero rispettate le norme canoniche, in materia di giurisdizioni episcopali, e le regole monastiche, perché avessero termine le continue controversie tra quei vescovi sui confini delle rispettive diocesi e i casi così numerosi di abbandono dell'abito religioso, seguiti perfino da illeciti matrimoni, e per questi casi chiese che i colpevoli fossero mandati a Roma per esservi giudicati e puniti da lui. Ma anche sui punti più delicati il linguaggio delle sue lettere a Carlomagno mantiene, di norma, toni di grande pacatezza, di innegabile dignità, senza varcare i limiti di una polemica implicita od appena accennata.

L'iniziativa di ristabilire rapporti diretti con la Chiesa spagnola, ancora tenacemente attaccata alle tradizioni dell'autonomia goduta sotto la guida del metropolita di Toledo quando era la Chiesa nazionale del Regno visigoto, ebbe l'appoggio di A., ma partì da Carlomagno. Egila, il vescovo recatosi nella penisola iberica per promuovervi una riforma ecclesiastica generale, ricevette la consacrazione episcopale non a Roma dalle mani del papa, come Bonifacio, ma in Francia, dall'arcivescovo di Sens, Wilchario, previo però il consenso di Adriano. L'adozionismo spagnolo fu condannato da A. in una lettera indirizzata a quell'episcopato: ma da Carlomagno e dagli ecclesiastici raccolti intorno a lui a Ratisbona, nei primi mesi del 792, Felice, vescovo di Urgel, terra occupata dai Franchi, il quale aveva aderito all'eresia, fu costretto a riconoscere l'errore, e solo in un secondo tempo il re provvide a farlo condurre a Roma, perché il papa procedesse a sua volta contro di lui. A Carlomagno ed ai vescovi di Francia indirizzò l'episcopato spagnolo le lettere in cui chiedeva la reintegrazione di Felice nella sua sede e difendeva l'adozionismo. Non A. ed i suoi consiglieri, ma Carlomagno e gli uomini d'insigne dottrina e di acceso zelo religioso (Franchi, Visigoti, Longobardi, Anglo-sassoni) adunati alla corte franca, divenivano così il centro della disputa per l'adozionismo spagnolo, mentre stavano per porsi al centro anche della disputa per l'iconoclastia degli Orientali. A. pareva risoluto ad agire di sua esclusiva iniziativa, quando, in data 26 ottobre 785, rispose al messaggio in data 29 agosto 784, col quale Irene e Costantino VI gli avevano comunicato la loro decisione di convocare un concilio ecumenico, il quale ristabilisse l'unità della Chiesa nella condanna dell'iconoclastia formulata d'accordo col papa, che perciò invitavano a recarsi di persona a Bisanzio, o a farsi rappresentare al concilio da propri legati. A. deplorava il modo come Irene aveva provveduto alla sede patriarcale di Costantinopoli, facendovi innalzare un alto funzionario della sua corte, Tarasio, il quale era così passato dallo stato laicale all'ecclesiastico solo al momento della consacrazione (25 dicembre 784); deplorava altresì che a Tarasio, nella sua nuova dignità, fosse ufficialmente attribuita quella qualifica di ecumenico che già due secoli prima Gregorio Magno aveva rivendicato come di spettanza soltanto del vescovo di Roma. Ma approvava la convocazione del concilio e, definita la dottrina della Chiesa di Roma sulla materia controversa, preannunciava il successivo invio di due suoi legati. Nello stesso senso il papa rispose a Tarasio che, nella sinodica di rito, gli aveva comunicato la propria accettazione del culto delle immagini. Ora A. si astenne dall'informare Carlomagno delle sue risposte. Ed invero quanto aveva scritto non era tutto tale da apparire conforme agli interessi del re franco.

Il papa, nel comprendere fra i punti, dei quali chiedeva l'accoglimento per giudicare soddisfacente un accordo, anche la restituzione dei beni patrimoniali incamerati e delle diocesi sottratte alla Chiesa di Roma dall'Isaurico, lasciava come trasparire un accenno alla possibilità che ciò procurasse all'Impero, oltre alla pace religiosa, anche il ritorno del papato nella sua sfera politica. L'accenno, pur se sfumato in tocchi assai lievi di forma, assumeva, data la delicatissima situazione politica del momento, per il trascinarsi delle trattative matrimoniali fra le corti di Bisanzio e franca, un'implicita gravità di sostanza, che neutralizzava le ampie lodi rese nello stesso scritto a Pipino ed a Carlomagno, additati come esempio per le concessioni territoriali da loro elargite a s. Pietro. Concorrevano senza dubbio a determinare l'atteggiamento di A. tanto le delusioni del convegno del 781, quanto le speranze da un lato di frustrare i maneggi di Adelchi e di Arechi a Bisanzio, dall'altro di guadagnarsi nell'Impero un appoggio che potesse bilanciare la paventata strapotenza in Italia del re franco. Due legati, l'arcipresbitero Pietro e l'abate del monastero greco di S. Saba, in Roma, rappresentarono effettivamente la persona del papa al concilio di Nicea (VII ecumenico, II niceno; 24 settembre-23 ottobre 787), che deliberò il ristabilimento nell'Impero del culto delle immagini e condannò la iconoclastia. Anche per tutto il tempo corso sino allora sembra che A. abbia avuto cura di non dare notizie a Carlomagno su quanto stava accadendo fra Roma e Bisanzio. Tanto più energica e di vasta portata fu la reazione del re franco, non appena gli atti conciliari furono da lui conosciuti in un'infelice traduzione latina, giuntagli in circostanze non ben chiare; un secolo più tardi si affermava in Francia che gliela avesse inviata lo stesso Adriano. La reazione si manifestò con quel Capitulare de imaginibus, che è più comunemente noto sotto il titolo di Libri Carolini, e sfociò nel concilio di Francoforte del giugno 794.

Non è probabilmente semplice coincidenza se proprio in questo periodo traspaiono nel carteggio del papa col re più chiari gli accenni polemici, pur se accompagnati da solenni assicurazioni reciproche: del sovrano, che non si proponeva di venire comunque meno né alle promesse fatte a s. Pietro, né al patto d'amicizia con la Chiesa di Roma; di A., che non intendeva mancare al rispetto della dignità patriziale del re, e la voleva anzi tenere in sempre maggior conto. In questo periodo corsero voci di una lettera scritta dal re di Mercia, Offa, a Carlomagno per consigliargli di liberarsi di A., cacciandolo dalla Sede apostolica ed insediando in essa uno dei suoi Franchi; e si disse che il papa ne aveva avuta notizia. Alle nette smentite ufficiali dei due re fece eco A., negando che gli fosse arrivato anche solo un sentore di tali voci; ma ritenne non fuori di luogo aggiungere una serie di citazioni scritturali per proclamare solennemente che, se Dio era con lui, niente un uomo poteva contro di lui; che egli deteneva la Sede apostolica come vicario di s. Pietro e da essa reggeva l'intera cristianità in quanto non eletto da uomini, ma chiamato, perché a ciò predestinato, direttamente da Cristo. L'estrema violenza del linguaggio polemico, con cui nel Capitulare de imaginibus si cerca d'invalidare la convocazione e le deliberazioni del concilio di Nicea, sembra proporsi a bersaglio principale le persone d'Irene e di suo figlio; aveva tuttavia implicitamente di mira anche un altro bersaglio, agli occhi di Carlomagno in realtà più importante, e cioè la persona di A., senza dubbio perché si temeva e si voleva impedire un riavvicinamento troppo stretto del papa con l'Impero. Il Capitulare implicava, infatti, la sconfessione di tutto l'operato dello stesso papa, e formulando una diversa dottrina in un trattato di contenuto teologico presentato come opera alla quale aveva deciso di por mano lo stesso re, significava il trasferimento da A. a Carlomagno delle funzioni di guida suprema nello stesso magistero in materia di fede, che costituiva il retaggio lasciato da s. Pietro ai papi suoi successori in Roma. Il corollario logico delle posizioni postulate dal Capitulare de imaginibus fu il concilio di Francoforte. Qui non solo venne pronunciata la condanna definitiva dell'adozionismo spagnolo, ma il carattere di assise solenne di tutte le Chiese dell'Occidente cristiano, al di sopra delle divisioni politiche, conferito al concilio dalla presenza d'inviati anche dei paesi anglosassoni, ne accentuò il significato di manifestazione intesa, per volontà di Carlomagno, in nome appunto dell'intera cristianità occidentale, non solo a declassare il concilio niceno dal rango di ecumenico a quello di particolare delle sole Chiese orientali, ma anche a rifiutarne la validità e a condannare quanti lo accettavano. A. veniva posto in una situazione tanto più incresciosa in quanto anche a Francoforte egli si era fatto rappresentare da due suoi legati, vescovi entrambi, il che implicava un suo assenso preliminare anche alla convocazione di questo concilio, e poteva giustificare la precisazione, data all'inizio del Capitulare redatto alla chiusura dei lavori, che i vescovi partecipanti vi si erano recati in forza dell'autorità apostolica e per ordine del re.

Ne usciva la figura paradossalmente contraddittoria di un papa non solo consenziente alla convocazione sulla stessa materia di due successivi concili, il primo in Oriente ed il secondo in Occidente, ma rappresentato, in entrambi, da propri legati che nulla avevano trovato da eccepire alle rispettive deliberazioni, sebbene il secondo, a distanza di sette anni, avesse respinto la validità e le decisioni del primo. Non risulta che Carlomagno abbia trasmesso al papa gli atti di Francoforte per sottoporli alla sua approvazione. Risulta solo che gli mandò a mezzo di un suo fiduciario, Angilberto abate di Saint-Riquier, una copia del Capitulare de imaginibus. Il testo della risposta costituisce l'unico documento rimasto a gettare qualche luce sulla linea di condotta cui allora si attenne il papa: è un'ampia difesa delle deliberazioni nicene, ove si confutano puntualmente le argomentazioni del Capitulare, e si pongono in risalto gli errori d'interpretazione sui quali esse erano fondate. Per la cronologia della missione di Angilberto e della risposta di A. gli studiosi oscillano fra il 791 e un tempo posteriore al concilio di Francoforte.

Nell'uno e nell'altro caso non muta sostanzialmente la portata storica dell'agire di Carlomagno e del suo concilio nei riguardi di Adriano. Se erano già in possesso della risposta, l'avrebbero di proposito ignorata; se la missione di Angilberto è posteriore al concilio, il re avrebbe evitato di trasmettere ad A., insieme con l'esemplare del Capitulare de imaginibus, anche quello degli atti conciliari, ed ugualmente senza tener conto dell'autorità apostolica, perché nel Capitulare non si parla di una risposta papale, e nessuna revisione fu apportata alle decisioni di Francoforte: sulla loro base si continuò in Francia a definire il concilio niceno uno pseudo-sinodo dei Greci, che non era né ecumenico né settimo, e che a Francoforte era stato refutato ed annullato. In realtà, Carlomagno poteva considerare il suo modo di agire giustificato, in un certo qual senso, dallo stesso scritto di A. in quanto il papa lo aveva informato ad uno spirito di propensione al compromesso, e non di intransigente affermazione del suo magistero supremo in materia di fede. Ed invero A. si era preoccupato di chiuderlo annunciando che si proponeva di insistere categoricamente perché l'imperatore restituisse le diocesi ed i patrimoni tolti alla Chiesa di Roma, con la minaccia, ove non lo avesse fatto, di proclamarlo eretico. Eretico, dunque, sul piano non delle dottrine definite a Nicea, ma della mancata riparazione alle offese che i suoi predecessori avevano recato alla Chiesa di Roma come sede metropolitana e come proprietaria dei beni destinati a fornirle i mezzi per le spese del culto e per il sostentamento dei poveri. Era l'unico modo per conservarsi aperta la possibilità di venire incontro alle esigenze di Carlomagno, senza contraddire al precedente argomentare in prova della validità del concilio niceno. E si badi che A., annunciando l'idea di scrivere a Bisanzio nel senso indicato, si preoccupava di avvertire che ne subordinava l'attuazione ad un preliminare consenso del re franco. Appare evidente la via che A. intendeva seguire per attraversare lo spineto creatogli da Carlomagno: eludere le pressioni dirette a indurlo a sconfessare il concilio niceno, sconfessando implicitamente se stesso; evitare così una rottura immediata con Bisanzio che pregiudicasse le prospettive di una pace religiosa e di un riavvicinamento politico con l'Impero; evitare, nel contempo, di dare alla difesa di Nicea il carattere di una precisa conferma apostolica, tassativamente formulata in sede dottrinale, per non essere costretto a trarne conseguenze in sede pratica, a proclamare, cioè, solennemente che le decisioni nicene erano vincolative anche nell'ambito dei domini di Carlomagno, ed esporsi così al rischio ugualmente deprecabile di un conflitto religioso e politico col re franco; guadagnar tempo, evitando di impegnarsi su due fronti, in attesa che ulteriori chiarimenti sulle intenzioni di Carlomagno offrissero nuovi elementi agli effetti di una successiva presa di posizione. La risposta di A. ha per oggetto soltanto il Capitulare de imaginibus.

Se fu redatta dopo Francoforte, il silenzio su quel concilio starebbe a indicare anche il proposito di A. di conservare la libertà di pronunciarsi nei suoi riguardi soltanto in seguito, quando avesse giudicato opportuno. A. ne fu comunque impedito dalla morte avvenuta il 25 dicembre 795: il giorno successivo veniva sepolto in S. Pietro. Pietro Mallio (1153-1183), nella sua Historia Basilicae Antiquae, colloca la tomba di A. in un oratorio a ridosso del transetto della basilica vaticana, tra l'oratorio di Leone Magno e quello di Paolo I, alle cui pareti era affissa la celebre iscrizione. Nel XII secolo l'oratorio venne dedicato al papa, ma si è ipotizzato che A. l'avesse dedicato in origine al martire orientale Adriano di Nicomedia che a partire dal VII secolo era molto venerato a Roma. Il biografo del Liber pontificalis annovera ben centotrentaquattro interventi, tra donazioni, restauri e costruzioni ex novo (queste ultime documentate solo in due casi) che sembrano distribuirsi nella città e nel territorio circostante in maniera piuttosto omogenea e organizzati secondo un ordine cronologico, in quanto il testo originario è stato oggetto di un sistematico aggiornamento biennale in rapporto alle fasi indizionali (Le Liber pontificalis, pp. 486-523). I lavori di ripristino dei monumenti sono spesso indicati con un formulario generico che non permette di valutarne sempre l'entità. Il pontefice, pur rispettando l'assetto spaziale preesistente, elaborò e realizzò un piano urbanistico su vasta scala finalizzato alla riorganizzazione difensiva e assistenziale della città e al recupero sistematico dei luoghi di culto "pro restaurationibus ecclesiarum Dei et divini cultus melioratione" (ibid., p. 502).

Gli interventi di restauro promossi dal pontefice in ambito urbano interessarono sia chiese titolari sia devozionali: nell'area del Campo Marzio furono restaurate le chiese di S. Marco (adiacente al palazzo di famiglia di A.), dove il pontefice promosse profonde innovazioni architettoniche dividendo l'aula mononave dell'edificio originario in tre navate, di S. Marcello sulla via Lata, dei SS. Apostoli, sempre sulla via Lata, il cui restauro era già stato iniziato da Paolo I come indica il Liber pontificalis (p. 500), di S. Lorenzo in Lucina, dove è forse da attribuire all'intervento adrianeo la fodera di rinforzo dell'abside, di S. Lorenzo in Damaso dove A. donò anche una "vestem de post altare [...] ubi requiescit corpus sancti Damasi" documentando così l'avvenuta traslazione delle reliquie di papa Damaso. Sul "Pincius" venne restaurata la chiesa di S. Felice "in Pincis"; sul Quirinale la chiesa di S. Susanna. Nella zona compresa tra la collina del Viminale, il "Cispius" e la Suburra sono documentati rifacimenti delle chiese di S. Prassede, S. Eusebio, S. Pudenziana, dove sia l'Ugonio che il Ciacconio alla fine del XVI secolo videro il monogramma di A. a mosaico sull'arco trionfale. Di un certo rilievo i lavori compiuti a S. Maria Maggiore, con il rifacimento del tetto e restauri dei pannelli musivi e delle decorazioni a stucco. Sempre nella stessa zona vennero restaurate le chiese di S. Lorenzo "ad Formonsum", la "basilica beati Silvestri [...] in Orfea" (ibid., p. 505), la cui localizzazione precisa da ricercare presso l'antico titolo fondato da papa Silvestro rimane incerta, e la chiesa di S. Martino "iuxta titulum Sancti Silvestri" (ibid., p. 507), forse da identificare con l'edificio fatto costruire da papa Simmaco. Sul Colle Oppio si restaurò il "titulum Apostolorum quae appellatur Eudoxia ad Vincula" (S. Pietro in Vincoli) (ibid., p. 508).

A proposito di S. Giovanni in Laterano, nel Liber pontificalis si dice che venne restaurata "basilicam Salvatoris [...] iuxta Lateranense patriarchio cum quadriporticis suis atriisque et fontes" (ibid., p. 507), espressione forse da riferire all'atrio del palazzo episcopale piuttosto che ad un ambiente antistante la cattedrale della cui esistenza non ci sono conferme. Nel patriarchio si costruì ex novo una "turrem" collegata ad un portico di cui rimane testimonianza solo nel Liber pontificalis (p. 503). Nei pressi del Laterano venne ristrutturata la basilica di S. Croce in Gerusalemme. Sul Celio furono interessate dagli interventi adrianei le chiese di S. Clemente, dove, oltre al rifacimento del tetto, sono forse da attribuire ad A. anche la ristrutturazione del colonnato settentrionale ed una fase decorativa pittorica (in particolare l'affresco della Madonna Regina e sante raffigurate entro una nicchia nella navata destra della chiesa inferiore), SS. Giovanni e Paolo, SS. Quattro Coronati, S. Stefano Rotondo. Sulla via Latina è documentato il restauro di S. Giovanni "iuxta portam Latinam", edificio menzionato per la prima volta nella biografia di A. cui è probabilmente attribuibile la decorazione pittorica delle absidi che sporgono dai pastofori, e S. Sisto Vecchio sulla via Appia. Sull'Aventino A. rinnovò S. Prisca, a Trastevere S. Maria in Trastevere, di cui si attesta per la prima volta nella sua biografia la dedicazione alla Vergine. Sconosciuta è invece l'ubicazione di S. Lorenzo "ad Taurellum", chiesa menzionata nella biografia del papa. Dal Liber pontificalis si desume che il tipo di intervento più consueto praticato su questi edifici da parte di A. fu il rifacimento dei "sarta tecta".

Di notevole rilievo fu anche l'attività svolta dal pontefice nel recupero, sia morale che materiale, dei monasteri urbani. In particolare, nell'area del Campo Marzio meridionale il monastero di S. Lorenzo "Palatinis", menzionato per la prima volta nella biografia di A.; la sua ubicazione è sempre stata controversa anche se recentemente si è proposto di collocarlo a nord dell'esedra della Crypta Balbi, nello spazio attualmente occupato dalla chiesa di S. Stanislao ai Polacchi. Questo monastero, insieme a quello di S. Stefano "Vagauda" a cui viene associato nella biografia, fu sottoposto alla vicina chiesa titolare di S. Marco. Venne posto alle dipendenze di S. Maria Maggiore, dopo il suo restauro, il monastero dei SS. Lorenzo e Adriano, probabilmente da localizzare presso la gradinata di accesso alla basilica.

Dietro l'abside della cattedrale venne restaurato il monastero di S. Pancrazio che, insieme al "monasterium Honorii", probabilmente da localizzare ad ovest del battistero lateranense nella zona dell'attuale ospedale di S. Giovanni, fu preposto da A. al servizio della basilica lateranense. Sull'Aventino A. restaurò il monastero di S. Saba "qui appellatur Cella Nova". Il pontefice dedicò particolari cure alle diaconie, cioè a quelle istituzioni che avevano la funzione specifica di carità e di assistenza ai poveri. Nell'area del Foro Romano ne fondò due ex novo: S. Adriano, dove il pontefice promosse alcuni rifacimenti strutturali all'interno della chiesa ("schola cantorum" e cappella esterna all'aula contenente un altare per le reliquie), e SS. Cosma e Damiano, che, insieme a quella preesistente dei SS. Sergio e Bacco (restaurata perché distrutta dal crollo del tempio della Concordia), occupavano antichi edifici romani già trasformati in chiese. A. decorò con affreschi l'atrio della diaconia di S. Maria Antiqua, nei quali venne rappresentato anche il suo ritratto in qualità di donatore; inoltre è probabilmente da riferire ad A. la costruzione della "schola cantorum" con i relativi affreschi.

Presso il foro Boario il papa ricostruì completamente la chiesa di S. Maria in Cosmedin, menzionata come diaconia per la prima volta nella sua biografia; l'opera di ricostruzione comportò lo smantellamento di un "monumentum", forse da identificare con l'ara massima di Ercole, e l'erezione di una grande aula a tre absidi con una cripta, ricavata per la custodia delle reliquie di martiri oggetto di traslazioni. La funzione assistenziale del complesso era completata da ambienti per lo stoccaggio delle derrate alimentari. Con la costruzione di S. Maria in Cosmedin veniva confermata la funzione tradizionale di transito della zona e il suo carattere commerciale, inoltre si caratterizzava ulteriormente la creazione di un quartiere greco tanto che nell'itinerario di Einsiedeln la diaconia è definita "aeclesia graecorum" situata nella "schola graecorum" (Itineraria et alia geographica, p. 332).

Recentemente si è proposto di attribuire ad età adrianea anche le pitture, con raffigurazione dei ss. Giovanni e Paolo, che decorano il quarto e il quinto vano della diaconia di S. Maria in via Lata. Oltre ai singoli edifici, il progetto urbanistico di A. interessò due importanti settori delle opere pubbliche per i quali fu necessario un largo impiego di mezzi e di mano d'opera: il restauro e la ricostruzione delle mura sull'intero circuito della cinta e la completa ricostruzione di quattro dei maggiori acquedotti. A., a differenza dei suoi predecessori, fece ricostruire, lungo l'intera cinta, mura e torri "usque ad terram eversas"; un cantiere che durò per tutto il corso del suo pontificato (Le Liber pontificalis, p. 513). Per quanto riguarda il restauro delle strutture di approvvigionamento idrico, A. si preoccupò di ripristinare quattro acquedotti. La "forma Claudia" serviva soprattutto il complesso lateranense e il battistero; i suoi archi attraversavano il Celio, dove operava la diaconia di S. Maria in Domnica, e raggiungevano il Palatino, ai cui piedi sorgevano molti istituti diaconali. L'acquedotto Giovio, diramazione dell'Acqua Marcia, scorreva fino alla diaconia di S. Maria in Cosmedin. La "forma Sabbatina" azionava i mulini del Gianicolo e alimentava la fontana nell'atrio della basilica di S. Pietro e i bagni adiacenti; A. fece ricostruire un centinaio di arcate a parecchi chilometri di distanza dalla città e fece restaurare le condutture in piombo. Infine l'acquedotto dell'Acqua Vergine partiva da Porta Salaria e proseguiva fino al Pantheon, nei cui pressi sorgevano le diaconie di S. Eustachio e di S. Maria in Aquiro. È evidente che anche il restauro degli acquedotti rientrava in un piano programmato di interventi finalizzato a garantire il funzionamento delle diaconie e degli edifici di culto attorno ai quali ruotava la vita religiosa della città.

Di grande rilevanza furono le opere promosse dal pontefice nell'area suburbana della città finalizzate alla rivitalizzazione dei maggiori complessi cimiteriali divenuti oggetto di intensi flussi di pellegrinaggio per la presenza di tombe venerate. Il restauro degli edifici, sia subdiali sia sotterranei, fu finalizzato al ripristino delle loro funzionalità e a garantirne la continuità della frequentazione. In questo senso risulta particolarmente significativo il rifacimento dei portici che consentivano percorsi coperti ai pellegrini diretti ai santuari martiriali più importanti (S. Pietro in Vaticano, S. Paolo fuori le Mura e S. Lorenzo fuori le Mura) divenuti veri e propri poli di aggregazione urbanistica. Nel caso di S. Pietro vennero sbancate le rive del Tevere per ricavarne il materiale di costruzione da impiegare nell'ampliamento e nell'abbellimento del portico che dal fiume conduceva alla basilica, e che non era più sufficiente ad accogliere il movimento delle masse sempre crescenti dei fedeli (ibid., pp. 507-08). Sempre nella basilica vaticana, A. restaurò le scale che conducevano dall'atrio al nartece e quelle che davano accesso alla chiesa dai portici laterali che evidentemente si trovavano ad una quota inferiore rispetto a quella della basilica. Da segnalare anche l'installazione nell'atrio di porte bronzee.

Sono da attribuire ad un unico progetto decorativo voluto dal pontefice l'abbellimento con ornamenti aurei della "confessio", del fronte dell'altare e della cripta e il restauro di alcuni danni al mosaico absidale (ibid., pp. 503, 508). Per il restauro del tetto della monumentale basilica furono messe in opera travi lignee di notevole lunghezza (circa 24 m); si trattò di un'impresa che richiese l'intervento diretto del "vestararius" pontificio "Ianuarius" (ibid., p. 505) e che portò il pontefice a coinvolgere l'imperatore Carlomagno affinché fornisse un "magister" che si occupasse del reperimento della materia prima necessaria (Codex Carolinus, ep. 65, p. 592).

Presso la basilica di S. Pietro A. rimise in funzione tre diaconie preposte all'organizzazione caritativa del centro martiriale: S. Maria "quae ponitur in Adrianium", S. Maria "in caput portici", S. Silvestro "iuxta hospitale Sancti Gregori" (Le Liber pontificalis, pp. 505-06). A. si fece inoltre promotore di alcune traslazioni di reliquie nella cripta della basilica vaticana, come attesta un frammento di iscrizione. Sempre sulla via Aurelia, immediatamente fuori porta "S. Pancrati", A. restaurò la basilica cimiteriale di S. Pancrazio e del vicino monastero di S. Vittore, menzionato per la prima volta (ibid., p. 508). Sulla via Salaria "vetus" si segnala il rifacimento della basilica ipogea di S. Ermete che venne scandita in tre campate con un sistema di nicchie e di pilastri con archi trasversali; all'intervento può essere riferita anche una lastra pertinente ad un ciborio inquadrabile nell'ambito dell'VIII-IX secolo. Nella basilica di S. Ermete si conserva inoltre la decorazione pittorica dell'abside da attribuire ad Adriano.

In base al Liber pontificalis si desume che A. promosse il miglioramento dell'intero complesso cimiteriale di S. Felicita sulla via Salaria "nova" costituito dalla basilica subdiale dedicata alla martire, da quella ipogea di S. Silano e dall'oratorio che ospitava il sepolcro di papa Bonifacio. Sulla stessa via furono oggetto dei restauri adrianei la basilica di S. Saturnino, da localizzare nel sopratterra del cimitero di Trasone che ospitava i sepolcri dei ss. Crisanto e Daria anch'essi restaurati, e il cimitero "sanctae Ilariae", probabilmente da identificare con le gallerie di catacomba attraverso cui si accede alla catacomba dei Giordani. In quest'ultima sono forse riconducibili ai restauri adrianei alcune strutture di sbarramento erette per creare un percorso obbligato per i pellegrini verso il cubicolo del martire Alessandro. Nel cimitero di Priscilla l'intervento adrianeo dovette interessare soprattutto le strutture subdiali, in particolare l'"ecclesia Sancti Silvestri". Sulla via Nomentana, nella basilica di S. Agnese fatta costruire da papa Onorio I, non sono state individuate eventuali tracce materiali pertinenti al restauro di A. cui però si possono forse collegare alcuni frammenti scultorei che suggeriscono un rifacimento integrale del sistema di ornamentazione e di recinzione del presbiterio.

Altri insediamenti cimiteriali posti sulla via Nomentana che subirono rifacimenti sono la basilica di S. Emerenziana, localizzata nell'area subdiale del "Maius", e la catacomba di Nicomede. Lungo la via Tiburtina sono ricordati i restauri di alcuni edifici subdiali: la "basilica beati Ianuarii foris porta beati Laurentii", ricordata per la prima volta nel De Locis come la più vicina alle mura (Itineraria et alia geographica, p. 318), la basilica di Agapito, l'"ecclesia" di S. Stefano "ubi corpus sancti Leonis [...] quiescit" (Le Liber pontificalis, pp. 508, 511) da identificare con un edificio equidistante dai complessi di S. Lorenzo e S. Ippolito. Nella catacomba di S. Ippolito il pontefice propose un programma di rinnovamento complessivo del santuario mediante rifacimenti decorativi, a cui bisogna riferire un frammento di pittura che presenta la parte alta di una testa di Cristo nimbato, e una valorizzazione e monumentalizzazione della basilichetta ipogea. L'intervento di A. si collocò in un momento successivo alla traslazione delle reliquie del martire Ippolito "intra urbem" durante il pontificato di Paolo I, ma quando ancora la basilichetta conservava una funzione cultuale; i restauri di A. rappresentano l'unica testimonianza di lavori dopo la fase vigiliana e prima dell'abbandono del luogo di culto. Nel cimitero di Ciriaca il Liber pontificalis ricorda il restauro di un "ascensum" (p. 508).

Sulla via Labicana A. restaurò la basilica ipogea dei SS. Marcellino e Pietro, nel cimitero omonimo, in particolare il tetto e i gradini che permettevano la frequentazione diretta dei sepolcri (ibid., p. 500). Nel sopratterra della catacomba di Aproniano, al II miglio della via Latina, la "basilica sanctae Eugeniae" fu oggetto di restauri radicali e presso di essa il papa fece erigere "a fundamentis" un "monasterium puellarum" (ibid., pp. 509-10). A. restaurò anche il cimitero di Gordiano ed Epimaco con il "cymiterium Simplicii et Serviliani", forse da identificare con una basilica semipogea, e il cimitero "sancti Tertullini", di dubbia identificazione. Sulla via Appia venne restaurata l'"ecclesia Apostolorum" del complesso "ad Catacumbas" (S. Sebastiano), anche se non rimangono tracce materiali ascrivibili a tale intervento; inoltre A. "noviter restauravit" i santuari subdiali e ipogei del cimitero di Pretestato (ibid., p. 509).

La basilica di S. Paolo sulla via Ostiense viene menzionata, oltre che per il restauro del "porticus" (ibid., p. 508), anche per la sostituzione delle "trabes" del tetto, per la ripavimentazione dell'atrio e il restauro delle navate laterali, e inoltre per l'abbellimento della basilica con doni di oggetti e arredi di vario genere (ibid., 506). Sulla via Portuense rinnovò i monumenti subdiali relativi al cimitero ipogeo di Ponziano legati al culto martiriale di Abdon e Sennen e di Candida. È probabilmente da identificare con la basilica fatta erigere da papa Giulio I al III miglio della via Portuense l'"ecclesia sancti Felicis" fatta restaurare da Adriano I. A. diede rilevante impulso alla vita economica, estendendo a sempre più vasti complessi di beni fondiari della Chiesa nelle campagne, per un raggio di sedici miglia intorno a Roma, il sistema di gestione diretta, che era carattere proprio delle sue grandi unità aziendali denominate "domuscultae", già fondate sotto il pontificato di papa Zaccaria, ma alle quali A. diede un notevole incremento. Egli ne fondò altre sei. In particolare, sulla via Cassia fondò la "domusculta Capracorum" con la chiesa di S. Cornelia dove il pontefice fece traslare le reliquie dei papi e martiri Cornelio, Lucio, Innocenzo e Felice; quest'ultimo, martire sconosciuto, all'epoca di A. viene identificato con l'antipapa Felice II (ibid., p. 506).

Del complesso attribuibile ad età adrianea sono stati individuati un piccolo edificio di culto a tre navate, un battistero inserito in una piccola aula absidata, alcune tracce di un atrio antistante la chiesa e alcune strutture forse relative all'immagazzinamento dei viveri oppure impiegate come sede residenziale e amministrativa della "domusculta". Inoltre nella zona retrostante l'edificio di culto è stata rinvenuta un'area cimiteriale costituita da sepolture databili tra la fine dell'VIII e il IX secolo. La seconda "domusculta" fondata da A. (Galeria Aurelia) è da localizzare al IX miglio della via Cornelia dove venne restaurata la chiesa di SS. Rufina e Seconda con il suo battistero, all'interno dell'episcopio di "Silva Candida"; dell'intero complesso sembra essere rimasta un'aula forse con funzioni di rappresentanza. I due passi del Liber pontificalis (pp. 502, 508) riguardanti questo insediamento sono piuttosto ambigui in quanto si parla di una chiesa di SS. Rufina e Seconda nell'episcopio di "Silva Candida" e di una chiesa di S. Rufina al X miglio della via Aurelia. Al XII miglio della via Portuense, in località Ponte Galeria, A. fondò un'altra "domusculta" (Galeria Portuense). La "domusculta Calvisianum" è da localizzare al XV miglio della via Ardeatina; sempre sulla via Ardeatina, però al XVI miglio, A. costituì la "domusculta" di S. Edisto includendo una chiesa martiriale che A. ampliò e decorò (ibid., p. 505). Al V miglio della via Flaminia A. accorpò la chiesa e il monastero di S. Leucio con una donazione privata. Per la "domusculta" detta "Sulficianum" il Liber pontificalis non ne attribuisce ad A. la fondazione, che in assenza di fonti non è possibile precisare, ma segnala il restauro della basilica di S. Teodoro posta in "Sabellum iuxta domoculta Sulficiano" (ibid., p. 508); il sito è probabilmente da localizzare presso Albano e la chiesa di S. Eufemia precedentemente restaurata da papa Dono. Ulteriori interventi segnalati dal Liber pontificalis nel territorio sono il rifacimento "a fundamenta" del monastero di S. Anastasio "ad Aquas Salvias" posto al VII miglio della via Laurentina e il restauro della chiesa di S. Secondino di cui sono stati riconosciuti i resti al XXX miglio della via Prenestina (ibid., p. 510).

La fondazione di "domuscultae" da parte di A. evidenzia la volontà di riattivare l'agricoltura creando vaste aziende possedute e gestite dalla Chiesa, finalizzate al sostentamento materiale del papato, del clero, delle chiese e degli istituti assistenziali. Le sei "domuscultae" fondate da A. in alcuni casi (Galeria Aurelia, Galeria Portuense, e forse "Calvisianum") furono connesse a sedi episcopali suburbicarie, in altri (S. Edisto, "Capracorum" e S. Leucio) rappresentarono il mezzo per un vasto processo di accorpamento fondiario che presuppose l'individuazione a priori delle aree da controllare e sfruttare. Ci mancano elementi per stabilire quali innovazioni A. abbia introdotto nell'esercizio della "potestas" temporale, di recente origine, perché cominciato solo con gli ultimi anni del pontificato di Stefano II. Certo è che anche da lui le forze armate e i loro ufficiali ricevevano gli ordini. Probabilmente A. non soltanto cercò di garantirsi della loro leale osservanza del giuramento di fedeltà a s. Pietro ed ai suoi vicari, ormai accettato da tutti, mediante la nomina di un membro della sua famiglia, il nipote Teodoro, a duca, ma mirò anche e riuscì ad arginare l'influenza politica della casta militare nel Ducato romano, decentrando l'alto comando con la nomina di più duchi. Per l'Esarcato di Ravenna e per la Pentapoli A., come già Stefano II, avocò a sé la nomina dei funzionari delle singole città, senza però insediare in Ravenna un organo superiore ecclesiastico-militare, esecutivo della "potestas" papale, come aveva fatto Stefano II, che vi aveva inviato un presbitero e lo stesso duca di Roma del tempo, Eustachio. Ne fu probabilmente distolto non solo dalle resistenze dell'autonomismo locale, avverso a Roma, ma anche dal proposito di non lasciare che nel governo di quei territori la casta militare romana avesse una qualunque compartecipazione stabile e diretta. Dalle città avute nella Tuscia longobarda A. non pretese, come dai Longobardi del Ducato di Spoleto, al momento della loro effimera sottomissione nel 773, il taglio simbolico della chioma alla foggia romana; ebbe anzi cura di assicurare a Carlomagno che le avrebbe lasciate libere di seguire la loro legge. Intendeva dunque modellarsi sull'esempio dato dal re franco nei suoi rapporti di "rex Langobardorum" con i nuovi sudditi d'Italia, per la evidente preoccupazione che un diverso trattamento potesse spingere quelle città a volere il loro ricongiungimento al resto della Tuscia rimasta nell'ambito del Regno.

Non risulta che la politica interna di A. si sia mai urtata in Roma, per tutti i quasi ventiquattro anni del suo pontificato, contro serie difficoltà. Egli aveva saputo interpretare i sentimenti di decisa avversione a Desiderio ed alle sue creature in seno al patriarchio lateranense, che avevano condotto l'aristocrazia militare a farsi solidale con i maggiorenti della Chiesa per abbattere il predominio della fazione di Paolo Afiarta. Dall'aristocrazia militare uscivano A. e suo zio Teodoto, ma erano passati entrambi agli uffici dell'amministrazione pontificia, e A. aveva percorso tutti i gradi della carriera ecclesiastica. In lui si era dunque auspicato, eleggendolo, il papa che, riconciliati tra loro i ceti dirigenti cittadini, li guidasse poi alla lotta inevitabile contro il pericolo longobardo. Questo compito aveva assolto A., assicurando a Roma un lungo periodo di pace all'interno ed all'esterno, che le aveva inoltre indubbiamente permesso anche una notevolissima ripresa economica: ne sono indizio innegabile i grandi lavori edilizi e di pubblico interesse. Per eliminare il pericolo longobardo A., come già Stefano II, si era trovato nella necessità di provocare l'intervento dei Franchi. Carlomagno aveva però mire politiche e religiose diverse dal padre, e pesò in ben altra misura sugli sviluppi della situazione italiana e del papato. Gli aspetti essenziali del pontificato di A. furono perciò caratterizzati da un ininterrotto dialogo tra lui ed il re franco, sì che non è stato possibile tracciare la sua biografia senza tenere continuamente conto dell'opera dell'altro interlocutore.

Fu un dialogo non sempre piacevole, e la morte di A. lo interruppe quando era ancora lontano da un chiarimento soddisfacente il problema che aveva costituito la maggior preoccupazione del papa, quello cioè dei rapporti con Carlomagno. Nella tradizione imperiale la dignità patriziale non conferiva a chi ne era insignito quella capacità di agire come alto "defensor Ecclesiae", che era prerogativa rimasta sino al principio del sec. VIII riconosciuta di spettanza esclusiva degli imperatori. Stefano II, per trasferirla ai re dei Franchi, si era avvalso dell'autorità che gli derivava da s. Pietro, ma necessariamente ciò aveva significato legare, con l'istituto germanico della "regalis tuitio", l'esercizio della "defensio Ecclesiae", in quanto questo non poteva evidentemente considerarsi legato con la dignità patriziale. A Roma la sensibilità giuridica non era certo così affievolita da non avvertire lo slittamento verso concezioni estranee al mondo romano ed ai rischi che esso comportava, specie dopo la conquista del Regno longobardo da parte di un uomo di tanto rilievo. Secondo ogni probabilità A. pensò che rischi minori sarebbero risultati se l'esercizio della prerogativa sovrana della "defensio Ecclesiae" fosse stato ricondotto nell'alveo della tradizione romana, e che il modo più opportuno per riuscirvi poteva esser quello di avvalersi dell'autorità di s. Pietro per fare del re franco un imperatore.

Il pensiero si appalesa in una ben nota iscrizione metrica votiva, che il papa appose ad una corona aurea da lui offerta alla confessione del principe degli apostoli. Il testo è di sicura autenticità: esso è tuttavia assai discusso anche in sede di accertamento critico di alcune lezioni della silloge in cui è giunto. A. vi riprende la dottrina gelasiana del "regale sacerdotium" di Cristo, e dei due poteri istituiti dal Redentore a guide supreme del mondo: quello del pastore del gregge dei fedeli affidato a s. Pietro, ed allora a lui, A., come suo vicario, e quello della sovranità romana che Cristo elargiva nell'Urbe fedele a chi gli fosse piaciuto, e che Carlomagno avrebbe ricevuto dalla destra di Pietro, "suscipiet dextra glorificante Petri". Era l'adattamento alle nuove esigenze di quella idea di un Impero religiosamente purificato da un suo ritorno all'unità con la Chiesa di Roma, che aveva cominciato ad affacciarsi nei circoli lateranensi al tempo di Stefano II, espressa nella formula "Sanctae Dei Ecclesiae res publica Romanorum"; ma era un pensiero non facilmente accessibile alla mentalità religiosa e giuridico-politica del mondo cui il re franco apparteneva, e tale da destare le sue preoccupazioni piuttosto che lusingare le sue ambizioni. La "defensio Ecclesiae" rimase così legata alla "regalis tuitio" germanica, il re si attenne alla dignità di "patricius Romanorum" ed ai poteri non bene definiti che egli ne poteva derivare. Base dei rapporti fra lui e Roma continuarono ad essere i patti di mutua amicizia e fedeltà che risalivano a Stefano II ed a Pipino, e che da ultimo erano stati confermati con i giuramenti scambiati il 2 aprile 774 sulla tomba di s. Pietro da Carlomagno e dai suoi grandi con A. e con i maggiorenti romani della Chiesa e del laicato.

Certo, in connessione con tutto ciò, scomparve dalla terminologia di A. la formula ereditata dal tempo di Stefano II, che egli ancora usava al principio del suo pontificato, aveva anzi ancor più, diciamo, "romanizzata" premettendo un "nostra" a "Romanorum res publica", e che nelle sue lettere a Carlomagno è attestata un'ultima volta per la fine del 775. Cominciava invece a delinearsi l'idea di una "christiana res publica", che aveva ben altro significato, perché concepita non a Roma, ma alla corte franca, ed incentrata sulla figura non del papa "vicarius S. Petri", ma del re franco "rector Ecclesiae": il Capitulare de imaginibus ed il concilio di Francoforte ne avevano dato i primi indizi. A. era stato costretto ad abbandonare il sogno ambizioso di un papato reggitore temporale di gran parte della penisola italiana, dalle regioni prospicienti il golfo di Venezia, l'Adriatico ed il golfo di Taranto, a quelle bagnate dal Tirreno. Gli si deve, però, riconoscere, e non è poco, di aver salvato i frutti dell'opera di Stefano II e di averli, sia pure in modesta misura, accresciuti, dando all'area geografica posta sotto il governo della Chiesa di Roma l'estensione che rimase sostanzialmente immutata durante secoli interi. Di A. va inoltre messo in rilievo che fu il primo papa ad usare l'arma spirituale della minaccia d'anatema sul terreno politico. La usò contro Desiderio e contro Tassilone III, in entrambi i casi per una valutazione del loro agire che egli certo fondava anche su motivi di natura religiosa: la paventata offesa del re longobardo alla città sacra a s. Pietro e sede del suo vicario; l'offesa al buon ordine morale, di un mancamento, da parte del duca dei Bavari, ai giuramenti di fedeltà prestati ai re dei Franchi. A. aveva conseguito buoni risultati nell'ambito delle vicende interne di Roma, risultati che erano tuttavia più apparenti che di durevole durata. Per il papato l'acquisto del governo temporale aveva significato il determinarsi di una situazione in sviluppo sotto il gioco di forze soprattutto materiali, che non erano tutte e sempre dominabili dalla sola autorità personale dei papi. Senza dubbio anche per non alienarsi un appoggio che in determinati frangenti poteva rappresentare la salvezza, A. aveva giudicato opportuno mostrarsi così spesso conciliante verso Carlomagno.

Vari fattori concorrevano a preparare in Roma, sotto la tranquillità esteriore, il risorgere di correnti d'opposizione: il disappunto nei circoli ecclesiastici e dell'aristocrazia militare per le mutilazioni imposte da Carlomagno al programma politico-territoriale patrocinato dal papa e inizialmente accolto nella "promissio" del 774; l'insoddisfazione di coloro che giudicavano troppo condiscendente A. e talora addirittura debole nei suoi rapporti con Carlomagno; lo stato d'animo dell'aristocrazia militare di fronte alla tendenza del papa a limitarne l'influenza politica nel nuovo ordine di cose, e di fronte all'auspicio da lui espresso, nella iscrizione votiva di cui parlammo, di un re franco creato imperatore per mano di s. Pietro, e cioè di un fatto del tutto ignoto alle tradizioni romane, le quali potevano invece offrire ai capi delle forze armate di Roma motivi per rivendicare il diritto che anche la loro voce fosse sentita in materia. D'altra parte A., per consolidare il suo potere personale, come aveva nominato duca il nipote Teodoro, così aveva chiamato un altro nipote, Pasquale, all'alto ufficio di primicerio dei notai, che consentiva al titolare larga parte nella trattazione degli affari della Chiesa, donde un innegabile incentivo al rinfocolarsi di gelosie e di rivalità in seno ai circoli ecclesiastici.

Questo agitarsi profondo si sarebbe manifestato in superficie già nella scelta del successore di A., Leone III: lo prova il fatto che il primicerio Pasquale ed altri da A. tenuti in gran conto saranno tra i promotori della rivolta in cui non tardò a pericolare non soltanto la "potestas", ma la vita stessa del nuovo papa. Carlomagno, che con tanta vigile cura aveva costantemente seguito gli atti del pontificato di A., che nel corso di quasi un quarto di secolo aveva largamente beneficato del suo spirito di comprensione, misurò in pieno quale perdita fosse per lui la scomparsa di chi gli era stato sulla cattedra papale così a lungo un amico prezioso, ne pianse sinceramente la morte e volle, per l'ultima volta, legarne il nome al proprio, raccomandarsi al suo ricordo in cielo, attestargli che mai lo avrebbe dimenticato, nell'iscrizione metrica che fu apposta sulla tomba del defunto in S. Pietro ad esaltare la santità della sua vita, il fervore delle sue opere, l'umanità degli affetti da lui raccolti, e di questo supremo elogio volle passare alla posterità come autore: "[...] / Post patrem lacrimans Karolus haec carmina scripsi, / Tu mihi dulcis amor, te modo plango, pater. / Tu memor esto mei, sequitur te mens mea semper; / [...] / Nomina iungo simul titulis, clarissime, nostra; / Hadrianus, Karolus rex ego, tuque pater. / [...]".

Questo prodotto epigrafico si propone come uno degli esempi più cospicui della rinascenza scrittoria carolingia, la quale, peraltro, per quanto riguarda le forme grafiche e l'organizzazione complessiva dell'impianto, si manifesta come tributaria di modelli librari. Se infatti la geometria delle lettere, la coerente organizzazione dello spazio di scrittura, l'incisione a sezione triangolare dei tratti rimandano immediatamente all'"antico", i nessi tra le lettere contigue e alcuni elementi ornamentali indicano viceversa il modello dei codici di lusso tardoantichi. Aveva composto l'iscrizione, per incarico del re, Alcuino, certo uno dei suoi più autorevoli consiglieri, quasi certamente l'estensore di quel Capitulare de imaginibus che era stato l'ultimo motivo polemico del dialogo di A. con Carlomagno.

fonti e bibliografia

Biografia, certo opera di un contemporaneo, in Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I , Paris 1886, pp. 486-523.

Lettere di A. a Carlomagno sino al 791 circa: Codex Carolinus, nrr. 50-97, a cura di W. Gundlach, in Epistolae Merowingici et Karolini Aevi tom. I, in M.G.H., Epistolae, III, a cura di W. Gundlach-E. Dümmler, 1892, pp. 565-648. cfr. Appendix, nr. 1, pp. 654 s. Altre lettere di A.: Epistolae selectae pontificum Romanorum Carolo Magno et Ludovico Pio regnantibus scriptae, a cura di K. Hampe, in Epistolae Karolini Aevi tom. III, in M.G.H., Epistolae, V, 1, a cura di E. Dümmler-K. Hampe, 1898, nrr. 1-2, pp. 3-57.

Per le lettere è da usare con molta cautela la stampa della P.L., XCVI, coll. 1203-342, perché vi sono accolte anche quelle spurie o di dubbia autenticità. Divalis sacra di Costantino VI e di Irene a A. per il concilio di Nicea, e lettere di A. in risposta ai due sovrani ed a Tarasio patriarca di Costantinopoli in I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XII, Florentiae 1766, coll. 984-86, 1055-76, 1077-84.

Carme acrostico di A. a Carlomagno: Poëtae latini Aevi Carolini, in M.G.H., Poëtae Latini Medii Aevi, I, 1, a cura di E. Dümmler, 1880, pp. 90 s.

Iscrizione di A. sulla corona aurea votiva: ibid., p. 106, nr. XIII. Epitaphium Hadriani papae, ibid., p. 113, nr. IX.

Regesti di A.: Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I, Lipsiae 1885, pp. 289-306.

Regesti di Carlomagno (per il periodo del pontificato di A.): J.F. Böhmer-E. Mühlbacher-J. Lechner, Die Regesten des Kaiserreichs unter den Karolingern, in J.F. Böhmer, Regesta Imperii, I, Innsbruck 1908, pp. 69-145; Le Annales regni Francorum [...], ad aa. 772-796, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, VI, a cura di G.H. Pertz-Fr. Kurze, 1895, pp. 32-99. Éginhard, Vie de Charlemagne, a cura di L. Halphen, Paris 1923 (Les classiques de l'histoire de France au Moyen Âge, 1), cap. 6, pp. 18-23; cap. 19, p. 60; cap. 23, p. 70.

Per l'epigrafe sepolcrale: Annales Laureshamenses e Chronicon Moissiacense, ad a. 795, in M.G.H., Scriptores, I, a cura di G.H. Pertz, 1826, pp. 56 e 302; Libri Carolini sive Caroli Magni Capitulare de imaginibus, ibid., Leges, Legum sectio III: Concilia, II, 2, Supplementum, a cura di H. Bastgen, 1924; Capitulare Francofurtense, in Concilia Aevi Karolini, ibid., II, 1, a cura di A. Werminghoff, 1906, pp. 165-71; S. Abel, Papst Hadrian I. und die weltliche Herrschaft des römischen Stuhls, "Forschungen zur Deutschen Geschichte", 2, 1862, pp. 453-532; Id., Jahrbücher des fränkischen Reiches unter Karl dem Grossen, I (2a ediz. rielaborata da B. Simson), Leipzig 1888; II (continuazione di B. Simson), ivi 1883; F. Hirsch, Papst Hadrian I. und das Fürstenthum Benevent, "Forschungen zur Deutschen Geschichte", 13, 1873, pp. 33-68; O. Kühl, Der Verkehr Karls des Grossen mit Papst Hadrian I. in Betreff der italienischen Angelegenheiten, diss., Königsberg 1879; G.B. de Rossi, L'inscription du tombeau d'Hadrien I composée en France par ordre de Charlemagne, "Mélanges d'Archéologie et d'Histoire. École Française de Rome", 8, 1888, pp. 478-501; K. Hampe, Hadrians I. Vertheidigung der zweiten nicaenischen Synode gegen die Angriffe Karls des Grossen, "Neues Archiv der Gesellschaft für die Ältere Deutsche Geschichtskunde", 21, 1896, pp. 83-113; Th. Hodgkin, Italy and Her Invaders, I-VIII, Oxford 1880-99: VII, pp. 342-98; VIII, pp. 1-107; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medio Evo, I, Roma 1900, pp. 580-662; L.M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, II, 2, Gotha 1903, pp. 257-324; Ch.J. Hefele-H. Leclercq, Histoire des conciles d'après les documents originaux, III, 2, Paris 1910, pp. 601-1085; L. Duchesne, Les premiers temps de l'état pontifical, ivi 1911, pp. 133-65;H.K. Mann, Hadrian I, in Id., The Lives of the Popes in the Early Middle Ages, II, London 1925, pp. 394-497; L. Serraz, Les lettres d'Hadrien Ier lues au deuxième concile de Nicée, "Échos d'Orient", 30, 1926, pp. 407-20; E. Caspar, Hadrian I. und Karl der Grosse, "Zeitschrift für Kirchengeschichte", 54, 1935, pp. 150-214; G. Romano-A. Solmi, Le dominazioni barbariche in Italia, Milano 1940, pp. 442-94; O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna 1941, pp. 663-719, 737-39; E. Amann, Le pape Hadrien et Charlemagne, in Id., L'époque carolingienne, Paris 1947, pp. 49-70 (v. anche la trad. it. L'epoca carolingia (757-888), Torino 1977²); P. Brezzi, Roma e l'Impero Medioevale, Bologna 1947, pp. 3-31; E.C., I, s.v., coll. 338-41; Dictionnaire de théologie catholique, I, Paris 1923, s.v., coll. 448-52.

Materialmente impossibile sarebbe dare qui una bibliografia, anche solo essenziale, dei numerosissimi studi pubblicati sulle donazioni carolinge; ci si limita a richiamare quanto sulla biografia di A. scrive il Duchesne nella introduzione alla sua edizione del Liber pontificalis, pp. CCXXXIV-CCXLIII, ed a ricordare, fra i negatori dell'autenticità del passo che nella biografia riguarda il contenuto della promissio donationis del 6 aprile 774, L. Saltet, La lecture d'un texte et la critique contemporaine. Les prétendues promesses de Quierzy (754) et de Rome (774) dans le "Liber Pontificalis", "Bulletin de Littérature Ecclésiastique", 42, 1940, nr. 4, pp. 176-206; 43, 1941, nr. 2, pp. 61-85 (ricerca rimasta incompiuta).

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Per quanto riguarda la documentazione archeologica, iconografica ed epigrafica v. inoltre: Codex Carolinus (a proposito del restauro del tetto della basilica vaticana); R. Krautheimer, Corpus basilicarum christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma (Sec. IV-IX), I, Città del Vaticano 1937, pp. 79-83 (SS. Apostoli), 118-36 (S. Clemente), 137-43 (SS. Cosma e Damiano), 165-94 (S. Croce in Gerusalemme), 209-15 (S. Eusebio), 265-300 (SS. Giovanni e Paolo), 301-16 (S. Giovanni a Porta Latina); E. Josi, Cimitero cristiano sulla via Latina, "Rivista di Archeologia Cristiana", 16, 1939, pp. 19-48; Id., Cimitero cristiano sulla via Latina, pt. II, ibid., 17, 1940, pp. 18-30 (a proposito del sopratterra della catacomba di Aproniano); Monumenta epigraphica christiana saeculo XIII antiquiora, quae in Italiae finibus adhuc extant [...], a cura di A. Silvagni, I, Roma, Città del Vaticano 1943; N. Gray, The Paleography of Latin Inscriptions in the Eighth, Ninth and Tenth Centuries in Italy, "Papers of the British School at Rome", n. ser., 16, 1948, pp. 53-4 n. 12; Itineraria et alia geographica, a cura di P. Geyer, Turnholti 1965 (Corpus Christianorum, Series Latina, 175); R. Krautheimer-S. Corbett-W. Frankl, Corpus basilicarum christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma (Sec. IV-IX), II, Città del Vatica- no 1962, pp. 187 (S. Lorenzo in Panisperna), 251-270 (S. Maria Antiqua), 279-310 (S. Maria in Cosmedin); A. Mancini, La chiesa medioevale di S. Adriano nel foro romano, "Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia", Rendiconti, ser. III, 40, 1967-68, pp. 191-245; J.Ch. Picard, Étude sur l'emplacement des tombes des papes du IIIe au Xe siècle, "Mélanges d'Archéologie et d'Histoire. École Française de Rome", 81, 1969, p. 767; R. Krautheimer-S. Corbett-W. Frankl, Corpus basilicarum christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma (Sec. IV-IX), III, Città del Vaticano 1971, pp. 1-60 (S. Maria Maggiore), 65-71 (S. Maria in Trastevere), 72-81 (S. Maria in via Lata), 87-125 (S. Martino ai Monti), 179-234 (S. Pietro in Vincoli), 235-60 (S. Prassede), 261-79 (S. Prisca), 280-305 (S. Pudenziana); H. Geertman, More veterum, Groningen 1975, pp. 7-35 (a proposito della biografia di A. riportata nel Liber pontificalis); R. Krautheimer-S. Corbett-W. Frankl, Corpus basilicarum christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma (Sec. IV-IX), IV, Città del Vaticano 1976, pp. 1-34 (SS. Quattro Coronati); 157-70 (S. Sisto Vecchio), 191-229 (S. Stefano Rotondo); R. Krautheimer-S. Corbett-A. Frazer, Corpus basilicarum christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma (Sec. IV-IX), V, Città del Vaticano 1980, pp. 1-96 (S. Giovanni in Laterano), 171-285 (S. Pietro in Vaticano); R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Roma 1981, pp. 144-49 (sugli interventi edilizi di A. in ambito urbano e suburbano); G. Bertonière, The Cult Center of the Martyr Hippolytus on the Via Tiburtina, Oxford 1985, p. 65 n. 155 (a proposito dei monumenti posti sulla via Tiburtina); S. Episcopo, L'ecclesia baptismalis nel suburbio di Roma, in Atti del VI Congresso nazionale di archeologia cristiana, Ancona 1985, pp. 301-02 (a proposito dei monumenti subdiali relativi al cimitero ipogeo di Ponziano); G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo, I, a cura di M. Andaloro, Roma 1987, pp. 155-56, 274 (a proposito della documentazione pittorica di età adrianea); J. Guyon, Le cimetière "aux deux lauriers". Recherches sur les catacombes romaines, ivi 1987, pp. 476-79; G.N. Verrando, Il santuario di S. Felice sulla via Portuense, "Mélanges de l'École Française de Rome. Antiquité", 100, 1988, pp. 331-36; A. Tomei, Vicende della basilica sino al 1823, in San Paolo fuori le mura a Roma, a cura di C. Pietrangeli, Firenze 1989, p. 55; G.N. Verrando, La chiesa di S. Pancrazio e le sottostanti regioni cimiteriali, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 113, 1990, pp. 39-40; Three South Etrurian Churches: Santa Cornelia, Santa Rufina and San Liberato, a cura di N. Christie, London 1991; A. Augenti, Ipsi lapides ululant nobiscum. Il suburbio sudorientale di Roma tra la tarda antichità e l'alto medioevo, "Mélanges de l'École Française de Rome. Moyen Âge-Temps Modernes", 103, 1991, pp. 77-8 (a proposito del monastero di S. Eugenia sulla via Latina); D. De Francesco, S. Eufemia e il 'Lacus Turni' presso Albano dall'età tardoantica al basso medioevo, ibid., pp. 93-4 (a proposito della domusculta Sulficianum); L. Pani Ermini, "Renovatio murorum" tra programma urbanistico e restauro conservativo: Roma e il Ducato romano, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell'alto medioevo occidentale, Spoleto 1992, pp. 485-507; F. Guidobaldi, S. Clemente. Gli edifici romani, la basilica paleocristiana e le fasi altomedievali, Roma 1992, pp. 189-203; F. Marazzi, Roma, il Lazio, il Mediterraneo: relazioni fra economia e politica dal VII al IX secolo, in La storia economica di Roma nell'alto Medioevo alla luce dei recenti scavi archeologici. Atti del Seminario. Roma, 2-3 aprile 1992, a cura di L. Paroli-P. Delogu, Firenze 1993, pp. 274-82 (a proposito delle domuscultae di età adrianea); Lexicon Topographicum Urbis Romae, I, Roma 1993, s.v. Cellae novae, monasterium, pp. 257-59; S. de Blaauw, Cultus et decor. Liturgia e architettura nella Roma tardoantica e medievale, Città del Vaticano 1994, pp. 524, 541, 570 (a proposito dei restauri nella basilica di S. Pietro); M.E. Bertoldi, S. Lorenzo in Lucina, Roma 1994, p. 30; Lexicon Topographicum Urbis Romae, II, ivi 1995, s.v. Domus Cyriaci, pp. 90-1; s.v. Duae Domus, p. 217; M. Cecchelli, La basilica di S. Marco a Piazza Venezia (Roma). Nuove scoperte e indagini, in Akten des XII. Internationalen Kongresses für christliche Archäologie. Bonn, 22.-28. September 1991, a cura di E. Dassmann-J. Engemann, Münster-Città del Vaticano 1995, p. 643; R. Krautheimer, Die Kirche San Lorenzo in Damaso in Rom. Vorläufiger Grabungsbericht, ibid., pp. 958-63; A. Bonanni, La Basilica di S. Susanna a Roma. Indagini topografiche e nuove scoperte archeologiche, ibid., pp. 586-89; L. Spera, Un'immagine di Cristo nel santuario di Ippolito sulla via Tiburtina: note su alcuni casi di frequentazione tarda dei complessi martiriali a Roma, "Bessarione", 1994, nr. 11, pp. 39-51; R. Coates-Stephens, Quattro torri altomedievali delle Mura Aureliane, "Archeologia Medievale", 22, 1995, pp. 501-17 (a proposito del restauro della cinta muraria); U. Falesiedi, Le diaconie. I servizi assistenziali nella chiesa antica, Roma 1995, pp. 105-06 (a proposito del restauro degli acquedotti); Lexicon Topographicum Urbis Romae, III, ivi 1996, s.v. Hierusalem, basilica, ecclesia, pp. 27-8; s.v. SS. Iohannes et Paulus, titulus, pp. 105-07; s.v. S. Laurentius qui appellatur Lucinae, basilica, pp. 183-85; s.v. S. Laurentius in Damaso, pp. 179-82; s.v. S. Laurentius in Formonso, p. 183; s.v. SS. Laurentius et Hadrianus, p. 185; s.v. S. Laurentius ad Taurellum, p. 185; s.v. S. Marcellus, ecclesia, titulus, pp. 211-12; s.v. S. Maria Antiqua, pp. 214-16; s.v. S. Maria in Cosmedin, p. 216; s.v. Monasterium Lateranense, p. 273; s.v. Monasterium Honorii, p. 273; s.v. Monasterium: S. Laurentius qui appellatur Palatinis, p. 275; L. Spera, Cantieri edilizi a Roma in età carolingia: gli interventi di papa Adriano I (772-795) nei santuari delle catacombe. Strategie e modalità d'intervento, "Rivista di Archeologia Cristiana", 73, 1997, pp. 185-254; L. Saguì, Indagini archeologiche a Roma: nuovi dati sul VII secolo, in Roma Medievale. Aggiornamenti, a cura di P. Delogu, Firenze 1998, pp. 66-7 (a proposito della localizzazione del monastero urbano di S. Lorenzo Palatinis); D. De Francesco, Partizioni fondiarie e proprietà ecclesiastiche nel territorio romano tra VII e VIII secolo.

Prospettive di ricerca alla luce dei dati epigrafici, "Mélanges de l'École Française de Rome. Moyen Âge-Temps Modernes", 110, 1998, p. 71 (a proposito del restauro della chiesa rurale di S. Secondino). S. Saffiotti Bernardi, Adriano I, in Enciclopedia Dantesca, I, Roma 1970, pp. 62-3; Biographisch-bibliographisches Kirchenlexikon, II, Hamm 1976, s.v., col. 425; Lexikon des Mittelalters, III, München-Zürich 1986, s.v. Dionisio-Hadriana. Collectio, coll. 1074-75; ibid, IV, ivi 1989, s.v., coll. 1821-22; Lexikon für Theologie und Kirche, IV, Freiburg 1995³, s.v., coll. 1133-34.

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