ADE

Enciclopedia Italiana (1929)

ADE ('Αίδης o 'Αϊδωνεύς)

Giulio GIANNELLI

Nome col quale gli antichi Greci designavano la divinità che reputavano regnare su tutte le regioni dell'oltretomba; chiamata spesso anche Plutone (Πλούτων) o Giove sotterraneo (Ζεὺς καταχϑόνιος). Figlio di Crono e di Rea, fratello di Zeus, Posidone ed Era, aveva partecipato coi fratelli alla lotta contro i Titani; e, dopo la vittoria, nella divisione del mondo fra i tre fratelli, la sorte gli assegnò il sotterra col regno dei morti (Iliade, XV, v. 191). Nella mitologia, Ade ha poco posto: confinato nel suo regno, egli nulla sa di ciò che succede sulla terra e nell'Olimpo (Iliade, XX, v. 61 segg.), e soltanto due volte interrompe la sua dimora sotterranea; la prima, per il ratto di Persefone, la seconda, per salire sull'Olimpo a farsi curare la ferita inflittagli da Eracle (Iliade, V, v. 399)

Ade significa "l'invisibile": infatti il suo regno (la "casa di Ade": δόμος "Αιδος) è avvolto nelle tenebre (cfr. Iliade, XV, v. 187), e simbolo della invisibilità del dio è l'elmo che gli copre tutta la testa ("Αιδος κυνέη). Sta al suo fianco Persefone, regina dell'oltretomba come Era è regina del cielo, designata perciò spesso dai poeti latini come Iuno inferna, averna, stygia (v. persefone). Insieme alla sposa divina, Ade abita laggiù un palazzo circondato da giardini e boschetti: nemico alle gioie della vita, detestato dagli dei, paventato dagli uomini, regna terribile su di un mondo che porta lo stesso suo nome: l'Ade. Ognuno che in esso sia entrato non ha speranza di uscirne: né con preghiere né con libagioni né con sacrifici Ade si placa.

Tuttavia anche queste divinità infere avevano culto: si tratta però di culti singoli e locali, nei quali Ade, come gli altri dèi ctonî, appare notevolmente modificato. Come dio che dimora sotterra, egli è riguardato e venerato piuttosto come una divinità benefica inquantoché ai vivi favorisce il lavoro dei campi e la vegetazione delle semente ed elargisce i preziosi metalli che la terra nasconde nel suo seno, e i morti accoglie nella sua tenebrosa dimora (cfr. Esiodo, Op., v. 465). Così Ade è spesso riguardato come un dio dell'abbondanza e della ricchezza: e, come tale, spesso rappresentato con la cornucopia e chiamato appunto Plutone, cioè il "dispensatore della ricchezza". Con questo nome si comincia a trovar designato il dio dell'oltretomba nei poeti attici del sec. V (p. es., Eschilo, Pers., v. 806; Sofocle, Antig., v. 1200), eppoi sempre più frequentemente, specie per influsso del culto eleusino. Al culto dei misteri di Eleusi (v.) si deve anche se la figura di Ade andò, a mano a mano, perdendo alquanto della sua originaria terribilità e trasformandosi in una potenza divina alla quale si pensa, bensì, con timore e anche con raccapriccio, ma alla quale ci si può talora rivolgere con confidenza e con speranza. Piuttosto che col suo nome di Ade o di Plutone si preferiva invocare il dio dell'Inferno con qualcuno dei suoi epiteti eufemistici, alludenti tutti agli aspetti più elevati e benefici della sua attività (cfr. Platone, Cratilo, 403 a). Così egli è Κλύμενος, cioè "l'illustre", nel culto di Atene e di Ermione; nei culti delle Cicladi è Εὐβουλεύς "il benevolente"; altrove è Πολυδέκτης o Πολυδέγμων, cioè "colui che accoglie molti ospiti" (i defunti che vanno a lui); oppure 'Αγησίλαος "il grande adunator di popoli"; o 'Ισοδαίτης "quegli che ad ognuno il giusto dispensa"; o anche Τροϕώνιος "colui che rende più fertile la terra" (per gli epiteti di Ade, v. specialmente Scherer in Roscher, Lexicon, I, p. 1782 segg.). Lo si rappresentava di solito montato su di un rapido cocchio, quello col quale era salito dall'Inferno sulla terra per rapire Persefone: onde gli epiteti di Κλυτόπωλος e di Χευσήνιος ("dagl'incliti cavalli", "dalle briglie d'oro").

Non fu raro il caso che i culti regionali della Grecia localizzassero in caverne della propria regione il dio, non più inaccessibile: in parecchi luoghi si mostravano "plutonie", cioè entrate nel mondo sotterraneo, e ψυκοπομπεῖα, ossia gole rocciose attraverso le quali le anime potevano salire alla luce. In Atene, una gola presso l'Areopago si considerava come sede degli dei sotterranei; Ermione, Eraclea Pontica, Cuma, Cosenza nel Bruzio ed altre città avevano, nel proprio territorio, un lago o un fiume "acheronteo", che era riguardato quale confine tra la patria dei vivi e quella dei morti (pei culti locali di Ade cfr. il cit. art. dello Scherer, p. 1787 segg.).

L'oltretomba greco. - Come abbiamo detto, col nome di Ade i Greci antichi designavano anche il regno delle divinità infere; cioè, in genere, l'oltretomba. La più semplice e antica rappresentazione che ne conosciamo, è quella omerica, dell'Odissea (specialmente nei libri XI e XXIV). Il poeta dell'Odissea conosce, per gli dei, l'Olimpo, un luogo "che i venti non commuovono, né bagna la pioggia, né mai la neve ingombra", un luogo "folgorante di rame, oro, elettro ed argento": paradiso chiuso ai mortali; dei quali solo ad alcuni pochi più insigni e privilegiati è dato di abitare, dopo la morte, un luogo di delizie, agli estremi confini della terra, dove "senza affanni scorre la vita; e non neve, non inverno, non pioggia, ma sempre i soffî vivi e spiranti di Zeffiro invia l'oceano a rinfrescar le genti". Ma tutti gli altri, forti ed imbelli, potenti ed umili, scendono nella "casa di Ade" o, più semplicemente, nell'Ade. Allo spegnersi della vita, quando lo spirito vitale (ϑυμός) abbandona il corpo, l'anima (ψυχή) ne esce volando e scende stridendo nel regno di Plutone (più tardi la si immaginerà accompagnata da Ermete Psicopompo): regione tenebrosa, dalle larghe porte sempre a tutti aperte, tanto che essa viene talora chiamata senz'altro "la porta dell'Ade" (Iliade, V, v. 395 segg.; XXIII, v. 71). Ma benché larghe e sempre aperte siano quelle porte che tutti accolgono, pure, una volta varcate, a nessuno è dato di ritornare indietro; ché, a custodia della soglia, sta l'orrendo cane di Ade, che Omero conosce ma lascia innominato, mentre per la prima volta in Esiodo (Theog., v. 311) è designato col nome di Cerbero (v.): mansueto verso chi entra, terribile e mordace contro chiunque tenti di uscire. Ed anche i fiumi infernali sono noti ad Omero: lo Stige (Il., VIII, v. 365 segg.), l'Acheronte, il Piriflegetonte o "fiume di fuoco", il Cocito o "fiume di pianto" (Odiss., X, v. 513) mentre la figura del vecchio traghettatore, Caronte, non comparisce se non nei ciclici posteriori. Nell'Erebo omerico vivono i morti in sembianze umane - ombre senza realtà corporea, ma con apparenza corporea (εἴδωλα, σκιαί) - ma "senza senno", senza dolori e senza gioie, come immerse in un perenne stupore. "Non consolarmi della morte - dice Achille ad Ulisse che, sceso nell'Ade, tenta di confortarlo - io pria torrei servir bifolco per mercede a cui scarso e vil cibo difendesse i giorni che del mondo defunto aver l'impero". Né v'è traccia in Omero di una credenza in un giudizio ultraterreno, e cioè in una ricompensa o in un castigo delle azioni del morto: la poesia omerica conosce solo la pena cui soggiacciono gli spergiuri, e alcuni singoli "espianti" ai quali i poeti posteriori aggiunsero altri nemici degli dei, come Tamiri, Anfione, Issione, Tantalo, ecc. Si può pensare che queste figure di espianti non siano state in origine altro che immagini della punizione divina che colpisce in vita, trasportate nell'oltretomba solo per finzione poetica e per rappresentare l'eterna durata della loro pena.

Per quanto la topografia degli inferi sia rimasta sempre, nella poesia greca antica, piuttosto indefinita, si possono tuttavia identificare due concezioni, notevolmente diverse, di essa: secondo l'una, la più antica e la più frequente (Iliade, IX, v. 568; XXII, v. 482; XX, v. 61), l'oltretomba veniva localizzato nel più profondo della terra; secondo l'altra, invece, posteriore e meno frequente (Odissea, X, v. 508 segg.; forse anche Esiodo, Teogonia, v. 767 segg.), nelle lontane regioni dell'Occidente, in un'isola dell'Oceano, ove regna eterna la notte, o, più precisamente anche, nel paese abitato dal popolo - miticamente elaborato su basi storiche - dei Cimmerî (Odissea, XI, v. 13 segg.).

Dalla poesia epica in poi, il modo di concepire l'oltretomba subì notevoli trasformazioni ed amplificazioni, le quali ci sono testimoniate, in un primo tempo, da alcune rappresentazioni figurate, come la famosa pittura di Polignoto nella Lesche degli Cnidî a Delfi e le pitture vascolari italiote (tarantine); in un periodo più tardo, dalle opere della letteratura (p. es. Virgilio, Eneide, VI, v. 264 segg.; Luciano, De luctu, 5-9; Apuleio, Metam., VI, 18). Conosciamo il dipinto polignoteo dalla particolareggiata descrizione che ce ne ha lasciato Pausania (X, 25-31), dalla quale tuttavia non si può ben ricostruire il contenuto e la composizione dell'intiera opera. V'era rappresentato il colloquio di Ulisse con Tiresia, circondati dagli eroi e dalle eroine dell'epica: varie figure di espianti omerici - Tizio, Tantalo, Sisifo - simboleggiavano la giustizia vendicatrice degli dei; si vedeva Caronte che, con la sua barca, traghettava varie anime di defunti: le pene riserbate ai colpevoli dei delitti più atroci, quelli commessi contro gli dèi e contro i genitori, erano rappresentate da un colpevole di violenza contro il proprio padre, effigiato nell'atto di essere strangolato dal padre stesso, e da un sacrilego costretto a bere (come almeno pare) una pozione avvelenata. La massa dei non iniziati ai misteri eleusini era rappresentata oppressa dalla fatica, che mai non ha fine, di attingere acqua, con anfore spezzate, da una botte forata. Né risulta che la rappresentazione dell'artista di Taso contenesse altra traccia di speciali orrori infernali (all'infuori della figura del demone Eurinomo, divoratore di cadaveri) né di tribunale infernale con conseguente punizione dei malvagi e premiazione dei buoni.

Eppure, mentre si andava modificando e svolgendo, nella fantasia del popolo greco, la concezione del mondo infernale, prendeva anche sempre maggior consistenza la credenza in una regione speciale dell'oltretomba, riserbata alla dimora ultraterrena delle anime elette, e quindi in una distinzione fra le anime degne di premio e quelle meritevoli di castigo. V'è, come abbiam detto, anche un Eliso omerico, del quale si trova fatta menzione per la prima volta nell'Odissea (IV, v. 561): non però, come si è detto, sede di trapassati, ma soggiorno di pochi privilegiati (generalmente imparentati con gli dei, come Menelao e Radamanto), i quali furono dagli dèi stessi accompagnati lassù in anima e corpo, prima del sopraggiungere della morte. Anche Esiodo conosce questa dimora ultraterrena degli eletti; ma non la chiama Eliso ('Ηλύσιον πεδίον), bensì Isole dei Beati (Μακάρων νῆσοι), poste ai confini della Terra, presso le correnti dell'Oceano, dove Crono governa ed abita insieme coi Titani liberati e con gli eroi dell'antico canto epico (Opere e Giorni, v. 167 segg.). Questa beatitudine ultraterrena prende contorni più definiti in Pindaro: coloro che non si macchiarono di spergiuro né di frode, canta il poeta (Olimp., II, v. 67 segg.), e che sperimentarono la loro virtù con un triplice corso di vita, se ne andranno, dopo la morte, al regno di Crono; "là, intorno alle Isole dei beati, spirano aure oceanine e spuntano dalla terra e dagli alberi fiori dorati"; "laggiù giorno e notte fruiscono i buoni del medesimo sole, scorrendo senz'anni la vita, non turbando la terra col lavoro delle loro mani né l'onda marina, per l'inutile cibo" (cfr. framm. 129).

Già dunque in questa ode di Pindaro è chiara la concezione di una distinta sorte ultraterrena per i buoni e per gli empî, di un inferno di pena e di un paradiso di beatitudine; e, al tempo stesso, di un "giudizio infernale", che detta alle anime dei trapassati quello che sarà il loro immutabile destino: "le colpe, in questo regno di Giove commesse, giudica alcuno sotterra sentenziando ineluttabilmente" (Olimp. II, v. 64 segg.). Anche Eschilo sa di un giudizio delle anime che tiene Ade in persona (Eumenidi, v. 273 segg.; cfr. Supplici, v. 230 seguenti); ma il tribunale infernale s'incontra per la prima volta regolar- mente costituito in Platone (Gorgia, cap. 79 segg.) e formato dai più pii e giusti principi e giudici della tradizione mitica (Minosse, Radamanto, Eaco, Trittolemo: cfr. Apologia, 41 a). Ma che nella fede popolare fosse fino da allora (cioè, nel secolo V e nel IV) radicata l'opinione di un giudizio ultraterreno delle azioni compiute in vita, non si può dimostrare: anzi è probabile il contrario. Soltanto le dottrine teologiche, escogitate e seguite dai poeti e dai filosofi, sapevano che nell'al di là si giudicano le azioni compiute in vita; e la concezione di una duplice sorte riserbata alle anime dei defunti era parte essenziale della religione eleusina. Ma, nella dottrina di Eleusi, il diverso destino delle anime si determinava non da un punto di vista morale, ma da un punto di vista unicamente religioso: inquantoché a coloro che in vita si erano iniziati ai misteri era promessa ed assicurata la beatitudine dopo la morte, mentre una triste sorte aspettava, nell'al di là, i non iniziati (cfr. Rohde, Psiche, trad. it., I, 315 segg.). In progresso di tempo, le immagini dei giudici infernali e le dottrine teologiche della remunerazione ultraterrena divennero famigliari anche alla fantasia e alla fede popolare. E parallelamente a questa, si sviluppò anche l'altra credenza in una precisa distinzione locale dei giusti dagli empî, nel mondo di là: nella separaziove cioè fra la sede dei beati (Eliso o Isole dei Beati) e il luogo dei dannati, o Tartaro; immaginati però non a distanza ma in continuazione l'uno dell'altro, collocandosi il Tartaro nel recesso più profondo dell'Inferno, di cui invece l'Eliso avrebbe occupato la parte superiore. Una siffatta concezione popolare dell'oltretomba, che già affiora nelle Rane di Aristofane e nel Fedone di Platone - e, nell'arte figurata, nelle pitture vascolari della Magna Grecia - è quella che ha dato materia alla costruzione dell'inferno virgiliano, nel sesto libro dell'Eneide.

Iconografia. - Di rado l'arte antica prese a soggetto delle sue manifestazioni le divinità infere, la cui vista riusciva in realtà poco grata e il culto delle quali era assai meno diffuso di quello degli altri dèi. S'intende così come, in tutta l'arte antica, non si sia mai formato un tipo di A., a differenza di ciò che avvenne invece per gli altri dèi. Si può dire che A., quando fu rappresentato, fu concepito semplicemente come una modificazione di Zeus, "una pallida copia del dio olimpico, un'ombra, anche in confronto con le vivaci rappresentazioni dell'altro suo fratello Posidone". Se pertanto i tre fratelli Cronidi furono rappresentati in modo assai simile, è anche vero che i tratti e gli attributi delle loro immagini differiscono notevolmente. Caratteristici di A. sono il piglio cupo, quasi sinistro, che contrasta con la fisionomia serena, olimpica, di Zeus; i capelli spioventi giù sulla fronte, la barba lunga ed incolta, l'abito grosso e rozzo composto di un chitone con le maniche e di un pesante mantello. Così lo si vede rappresentato in una statua di Villa Borghese; seduto in trono con allato Cerbero dalle tre teste (figg. 1 e 2). Rappresentazioni simili, assai frequenti, ci rimangono sui rilievi delle stele funerarie e sulle pitture parietali delle tombe.

La figura di Ade-Plutone, concepito cioè come divinità ctonia della vegetazione, è delineata invece con tratti più dolci, ed è di regola accompagnata, come abbiamo detto, dall'attributo della cornucopia (v. p. es. la pittura di un vaso nolano pubblicato in Mon. dell'Instit., I, tav. 4; cfr. Roscher, Lexikon, I, 1802; per le rappresentazioni di A. insieme con Persefone, specie nella scena del ratto, v. persefone).

Le più antiche rappresentazioni dell'oltretomba greco sono ispirate naturalmente alle descrizioni e alle allusioni omeriche, per quanto molto indeterminate e perciò difficili a fissare nella pittura e nel rilievo. Così una pittura vascolare arcaica di Monaco (n. 153) ci mostra, a sinistra, il supplizio delle Danaidi - le cui anime sono rappresentate come piccole figure alate - a destra, l'eterna fatica di Sisifo (pubblicata in: Inghirani, Vasi fittili, II, 135, cfr. Denkmäler der klass. Altert., III, 2040). Ma le più belle e complesse rappresentazioni dell'oltretomba greco ci sono conservate in non poche pitture di vasi italioti, di epoca posteriore, in parte ispirate alla famosa composizione polignotea nella Lesche di Delfi, ma, nella maggior parte dei loro elementi, ritraenti le concezioni popolari dell'al di là, come si andarono evolvendo e fissando dal sec. IV. Ne presentiamo qui uno degli esempî più belli e più tipici: un'anfora di Canosa, ora a Monaco (fig. 3). Il centro della scena è occupato da un'edicola ionica, dentro la quale stanno Ade e Persefone attorno ad essa sono disposti i più noti personaggi dell'oltretomba. A sinistra si vedono le figure dell'Eliso e cioè, in alto, Megara con gli Eraclidi uccisi dal padre infuriato; più in basso, una famiglia di beati: a destra, in alto, stanno Teseo e Piritoo, custoditi da Dike, e, al disotto, è il gruppo dei tre giudici infernali. La parte inferiore del quadro è occupata, in tutta la sua lunghezza, dal Tartaro, con Sisifo, a sinistra, e Tantalo, a destra: in mezzo, è raffigurato Eracle che, guidato da Ermes, incatena Cerbero.

Bibl.: Chr. Scherer, Hades, in Roscher, Lexikon der griech. u. römischen Mythol. I, 1778 segg., ed ivi Gruppe (Pfister), s. v. Unterwelt (1924); Naegelsbach, Homerische und nachhomerische Theologie, 3ª ed., Norimberga 1884; Preller-Robert, Griechische Mythologie, 4ª ed., Berlino 1887, p. 304 segg.; G. Iwanowitsch, Opiniones Homeri et tragicorum Graecorum de Inferis, in Berliner Studien, XVI (1894); Farnell, The cultus of the greek States, Oxford 1896-1909; Harrison, Prolegomena to the study of Greek Religion, 2ª ed., Cambridge 1908; id., The religion of ancient Greece, Londra 1905; G. De Sanctis, L'anima e l'oltretomba secondo Omero, in Per la scienza dell'antichità, Torino 1909, pp. 27-52; E. Rohde, Psiche, trad. italiana, Bari 1914 (specialmente I, pp. 208 segg., e 304 segg.); C. Pascal, Le credenze d'oltretomba nelle opere letterarie dell'antichità, Torino 1927.

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