ACQUE PUBBLICHE

Enciclopedia Italiana (1929)

ACQUE PUBBLICHE

Attilio Donato GIANNINI
Nicola MURATORE

. Fra le cose appartenenti al demanio pubblico tutte le legislazioni annoverano le acque pubbliche, cioè quei corsi e bacini che per i loro caratteri idrografici più direttamente interessano la pubblica amministrazione, così nei riguardi della difesa del territorio dalle loro esondazioni, come ai fini del loro sfruttamento per il commercio, l'agricoltura e l'industria. La categoria delle acque pubbliche varia notevolmente da paese a paese e nella vicenda dei tempi. Nelle legislazioni francese e germanica, p. es., è l'attitudine del corso d'acqua alla navigazione e al trasporto quella che ne determina l'attribuzione al pubblico demanio, pur essendo sottoposte le altre acque all'ingerenza più o meno estesa della pubblica amministrazione, che modera il potere di disposizione e di godimento del privato per conciliarlo con l'interesse generale (cfr. legge francese 17 ottobre 1919 sull'utilizzazione delle forze idrauliche). In Italia già il codice civile del 1865 aveva dichiarato (art. 427) demaniali tutti i fiumi e torrenti, anche se non navigabili e non atti al trasporto, mentre la legge quasi coeva sui lavori pubblici (20 marzo 1865, n. 2248, allegato E) dichiarava soggetti a pubblica amministrazione, oltre ai fiumi e torrenti, anche i laghi, i fossi, i rivi e i colatori naturali. La duplicità delle fonti legislative (delle quali si discuteva se l'una dovesse prevalere sull'altra, o se fossero da armonizzare nel senso che i minori corsi indicati nella legge sui lavori pubblici si trovassero nella condizione giuridica di acque private, ma soggette alla vigilanza dello stato), l'incertezza dei termini, fiumi e torrenti, il silenzio del legislatore circa i laghi, le sorgenti, gli affluenti dei corsi pubblici, avevano dato origine a numerose contestazioni dottrinali e giurisprudenziali. Fattosi più urgente, durante la guerra, il bisogno di asservire i corsi pubblici alla produzione di forza motrice, furono emanati, prima il decreto legge 20 novembre 1916, n. 1664, indi il r. decr. 9 ottobre 1919, n. 2161 (convertito nella legge 18 dicembre 1927, n. 2595), il cui art. 3, combinato con l'art. 67, dichiara demaniali "tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, che considerate sia isolatamente, per la loro portata o per l'ampiezza del rispettivo bacino imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale appartengono, abbiano o acquistino l'attitudine a qualsiasi uso di pubblico generale interesse". Da tale norma, e tenuto conto dell'interpretazione fattane dalla giurisprudenza, si desume che nel demanio idraulico si comprendono:

a) i fiumi, i torrenti, i laghi, gli stagni, le sorgenti e i minori corsi e bacini, superficiali, d'origine naturale, che si prestino alla navigazione o al trasporto, o, mediante la derivazione, ad una utilizzazione agricola, industriale o per uso potabile, di un certo rilievo per la pubblica economia;

b) i canali principali di bonifica, la cui funzione è quella di sostituire il fiume nel rendere possibile il regolare smaltimento delle acque piovane. Per giudicare dell'attitudine di un corso d'acqua ad un uso di pubblico interesse, occorre considerarlo nell'insieme del sistema a cui appartiene, e che costituisce quindi un'unità non solo idrografica, ma anche giuridica, in quanto tutte le sue parti, come possono organicamente concorrere, con opere di allacciamento, alla produzione di più cospicui vantaggi economici, così partecipano della medesima natura giuridica. L'essere stato un corso d'acqua sistemato o modificato nel suo regime o nel suo percorso con opere artificiali non vale ad alterarne il carattere pubblico. Appartengono al demanio pubblico le acque subalvee, quali parti integranti del corso superficiale, ma non le acque sotterranee (è allo studio un progetto di legge per la loro regolamentazione), anche se artificialmente estratte e condottate per la loro utilizzazione. In tale condizione si trovano, p. es., numerose ed importanti roggie dell'Italia settentrionale, alimentate esclusivamente o prevalentemente da acque estratte dal sottosuolo (fontanili). Parimenti non sono acque pubbliche i canali di derivazione (eccettuati i grandi canali di bonifica), per quanto importanti, ed anche se appartenenti allo stato. Essi rappresentano il mezzo di cui si serve l'utente per trarre dai corsi pubblici le utilità concessegli dallo stato e nei limiti della concessione.

Le nuove disposizioni hanno quindi notevolmente ampliato la categoria delle acque pubbliche, il che trova, fra l'altro, la sua spiegazione nella particolare costituzione oro-idrografica del nostro territorio, ove abbondano i piccoli corsi montani, i quali tuttavia consentono, con l'utilizzazione dei forti dislivelli, la produzione d'ingenti quantità di forza motrice, mentre in altri paesi, prevalentemente pianeggianti, si utilizzano soprattutto le grandi portate con piccoli dislivelli.

Le acque di cui si è fatto cenno finora, appartengono allo stato; è discusso se ed in quali casi possa configurarsi un demanio idrico comunale (cfr. F. Pacelli, Contributo alla teorica del demanio idrico comunale, in Acque e Trasporti, 1920, p. 133).

È fatto obbligo agli uffici governativi di compilare un elenco di tutte le acque pubbliche esistenti in ciascuna provincia, elenco che può essere successivamente integrato da uno o più elenchi suppletivi. L'elenco, approvato con decreto reale, è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno, e dalla pubblicazione decorre il termine perentorio di sei mesi per gli eventuali ricorsi degl'interessati, sui quali si pronunciano i tribunali territoriali delle acque pubbliche. L'elenco ha carattere dichiarativo, perché la qualità legale di acqua pubblica non deriva dall'iscrizione nell'elenco, ma dalla legge (contra, per i corsi minori, Cassazione di Roma 20 dicembre 1919, in Acque e Trasporti, 1920, p. 51).

Il corso di acqua si compone dell'aqua profluens, che è una res omnium communis, e dell'alveo, costituito, a sua volta, dal fondo o letto e dalle sponde. L'alveo è demaniale, ma, se rimane essiccato per cause naturali e per il definitivo abbandono dell'acqua, passa in proprietà dei frontisti (art. 461 cod. civ.). L'alveo si estende fin dove giungono le piene ordinarie del fiume; la sua delimitazione, nel caso che le sponde siano incerte o variabili, è fatta dal prefetto ai sensi dell'art. 98 della legge sulle opere idrauliche (testo unico 25 luglio 1904, n. 523), salva la successiva competenza del tribunale delle acque. Formano parte degli alvei i rami o canali o diversivi, anche se in alcuni tempi dell'anno rimangono asciutti (art. 93 cap. testo unico citato). Le isole, isolette e unioni di terra formantisi nell'alveo di un fiume appartengono allo stato. se il fiume è navigabile o atto al trasporto, altrimenti ai proprìetarî frontisti (artt. 457 e 458 cod. civile). Le rive del fiume, cioè le strisce di terreno oltre l'alveo, sono di privata proprietà dei frontisti, ma, se laterali a fiumi navigabili, sono soggette ad una servitù di diritto pubblico, detta di marciapiede o di via alzaia (art. 52 testo unico 11 luglio 1913, n. 959, sulla navigazione interna).

Per la tutela del regime delle acque pubbliche, da un lato sono sanciti divieti e imposte limitazioni al diritto di proprietà dei frontisti, dall'altro sono conferiti all'autorità amministrativa ampî poteri di sorveglianza e di disposizione. È vietata, anzitutto, qualsiasi opera nell'alveo dei corsi pubblici senza il permesso dell'autorità amministrativa (art. 93 testo unico cit.); e solo è consentito ai frontisti di munire le sponde dei loro beni con opere di semplice difesa, aderente alle sponde stesse, che non alterino in alcun modo il regime dell'alveo e il corso ordinario delle acque, né arrechino danno alle proprietà altrui, alla navigazione, alle derivazioni e agli opifici legittimamente stabiliti (artt. 58 e 95).

Sono poi vietati in modo assoluto alcuni lavori e atti, benché compiuti sulla proprietà privata, allo scopo di evitare l'indebolimento degli argini e dei ripari a difesa delle sponde, ovvero diversioni o indebite sottrazioni di acque; quali lo sradicamento o l'abbruciamento dei ceppi degli alberi che sostengono le rive dei fiumi e dei torrenti per una distanza non minore di nove metri dalla linea a cui giungono le acque ordinarie; le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno ad una certa distanza dal piede degli argini; l'apertura di cavi, fontanili e simili in prossimità dei corsi pubblici.

Altri lavori e atti possono invece eseguirsi con speciale permesso dell'ingegnere capo del genio civile (art. 97 e art. i r. decr. 19 novembre 1921, n. 1688), quali la formazione di pennelli e chiuse nell'alveo dei fiumi e torrenti, le modificazioni e ricostruzioni delle chiuse, ecc.

Le infrazioni a tali norme sono represse con sanzioni penali. Inoltre l'ingegnere capo del genio civile ha la potestà, quando ne sia rimasto alterato lo stato delle cose, di ordinare la riduzione in pristino, e, nel caso d'inadempimento, di provvedere direttamente a spese del contravventore (art. 374 segg., art. 378 legge sui lavori pubblici, art.1, r. decr. citato)

Ma, all'infuori dei divieti e delle limitazioni specificamente indicate nella legge, l'autorità amministrativa è la sola competente a statuire e provvedere, in genere, ed anche in caso di contestazione, sulle opere, sugli usi, atti o fatti aventi relazione col buon regime delle acque pubbliche, con la difesa e conservazione delle sponde, con l'esercizio della navigazione, con quello delle derivazioni legalmente stabilite; sulle condizioni di regolarità dei ripari e argini o di qualsiasi altra opera fatta entro gli alvei o contro le sponde; come pure a verificare se i lavori rispondano allo scopo cui debbono servire e alle buone regole d'arte. Se l'autorità amministrativa ritenga tali opere, usi, atti o fatti dannosi al regime delle acque, ha facoltà di ordinarne la modificazione, la cessazione o la distruzione, salvo il ricorso dell'interessato al Tribunale superiore delle acque pubbliche e salvo, nel caso che la rimozione o la modificazione importino il sacrificio del diritto di un privato, la corresponsione a quest'ultimo della dovuta indennità (art. 2 legge sulle opere idrauliche, art. 22 legge 13 luglio 1911, n. 774).

Questa disposizione esplica la sua efficacia così nei rapporti fra la pubblica amministrazione e i privati come nei rapporti dei privati fra loro. L'autorità giudiziaria ordinaria e i tribunali delle acque pubbliche debbono, secondo la giurisprudenza ora dominante, astenersi da qualsiasi indagine e da qualsiasi pronuncia che riguardi l'esecuzione, la modificazione o la rimozione di opere nell'alveo di un corso pubblico, limitandosi ad accertare l'eventuale lesione dei diritti del privato e a pronunciare la condanna dell'una o dell'altra parte al risarcimento dei danni.

Le acque pubbliche sono destinate ad usi molteplici, dei quali alcuni sono liberamente consentiti a tutti i cittadini, altri sono condizionati alla licenza dell'autorità amministrativa, altri, infine, non possono essere esercitati senza una concessione dello stato.

Rientrano nella prima categoria gli usi per i bisogni ordinarî della vita, come l'attingere acqua, il lavare, l'abbeverare il bestiame, ed anche l'uso della pesca e della navigazione con barche a remi e a vela.

Si richiede invece una licenza per i seguenti usi:

a) per l'attingimento di acqua per mezzo di pompe mobili o semifisse, di altri congegni elevatori e sifoni posti sulle sponde o a cavaliere degli argini, occorre una licenza del prefetto, subordinata alle condizioni che la portata dell'acqua attinta non superi i 100 litri al 1″, che non siano intaccati gli argini e le sponde, né alterata la condizione del corso di acqua (art. 43 r. decr. 9 ottobre 1919);

b) per l'estrazione di ciottoli, ghiaia, sabbia e altre materie dal letto dei fiumi, torrenti e canali pubblici, occorre uno speciale permesso dell'ingegnere capo del genio civile, eccettuate le località ove per invalsa consuetudine l'estrazione stessa si suole praticare senza speciale autorizzazione (art. 97 m, legge sulle opere idrauliche);

c) la navigazione con piroscafi o comunque con battelli azionati da un motore meccanico è subordinata all'autorizzazione del Ministero dei lavori pubblici (art. 60 testo unico 11 luglio 1913, n. 959, sulla navigazione interna);

d) la fluitazione, cioè il trasporto dei legnami a galla, tanto in tronchi sciolti o annodati quanto con zattere, abbisogna di una licenza del prefetto, ed è sottoposta a speciali cautele per impedire che arrechi danno alle proprietà pubbliche e private (art. 64 segg. testo unico citato).

Tutti questi usi sono in via di principio compatibili fra loro, e non importano una modificazione permanente delle condizioni fisiche del corso di acqua, laddove lo sfruttamento del demanio idraulico mediante una derivazione, a scopo potabile, di bonifica, d'irrigazione o di produzione di forza motrice, esige un mutamento più o meno notevole della situazione idrografica naturale. Questa ultima categoria di usi è quella per la quale vige il sistema della concessione. La più vasta e razionale utilizzazione delle acque pubbliche, essendo un fattore cospicuo dello sviluppo agricolo, industriale e commerciale nel paese, dà vita ad un interesse generale, la cui soddisfazione lo stato persegue con mezzi diversi. L'attività amministrativa, quindi, non si esaurisce nel consentire le forme di utilizzazioni compatibili col regime del corso di acqua, ma da un lato tende a favorire e a promuovere, anche con l'esecuzione diretta delle opere o con la concessione di contributi, la massima e più proficua utilizzazione, dall'altro interviene nella fase successiva alla concessione, per garantire l'effettiva esecuzione delle opere e il loro esercizio in armonia con l'interesse generale. Intorno a questi fondamentali concetti s'imperniano le disposizioni del r. decr. 9 ottobre 1919, n. 2161, sulle derivazioni e utilizzazioni delle acque pubbliche.

Si è parificata anzitutto la condizione giuridica di tutti gli utenti; i possessori di un titolo antico (diverso nel contenuto e nell'estensione a seconda dell'ordinamento vigente nel tempo e nel luogo in cui fu formato) e quelli che hanno derivata e utilizzata acqua pubblica per tutto il trentennio anteriore alla legge 10 agosto 1884, n. 2644, possono continuare ad usarne, limitatamente al quantitativo di acqua o di forza motrice effettivamente utilizzata, purché ne abbiano chiesto o ne chiedano il riconoscimento entro il termine prefisso dalla legge; ma il loro diritto non ha né maggiore estensione, né una più forte protezione giuridica del diritto di colui che ottenga una concessione sotto l'impero della nuova legge (artt. 1 e 2).

Quanto alle nuove concessioni, un coordinato sistema di precetti disciplina la gara delle iniziative private per il più razionale sfruttamento del corso di acqua. Di ogni domanda si pubblica un avviso sulla Gazzetta ufficiale, e tutte le domande concernenti derivazioni tecnicamente incompatibili con quella prevista nella prima domanda sono dichiarate concorrenti, purché presentate nel termine di trenta giorni dalla pubblicazione dell'avviso. Ma anche una domanda proposta oltre tale termine può essere eccezionalmente ammessa in concorrenza con le altre, qualora presenti, a giudizio dell'amministrazione, uno speciale e prevalente motivo di pubblico interesse (artt. 9 e 11).

Fra le varie domande concorrenti è preferita quella che presenti la migliore utilizzazione idraulica, o che soddisfaccia altri prevalenti interessi pubblici; a parità di tali condizioni, quella che offra maggiori ed accertate garanzie tecnico-finanziarie e industriali d'immediata esecuzione e utilizzazione; solo se manchino altre condizioni di preferenza, vale il criterio della priorità di presentazione (art. 10).

Una domanda per una importante utilizzazione può essere accolta anche se risulti incompatibile con meno importanti utilizzazioni legittimamente costituite; in tal caso il nuovo concessionario deve indennizzare l'antico utente, o espropriandolo, o fornendogli a sua cura e a sue spese una corrispondente quantità di acqua o di energia in guisa che egli non abbia a risentirne alcun aggravio (art. 34).

Le derivazioni di acque pubbliche si distinguono in grandi e piccole a seconda che eccedano o siano contenute entro i limiti fissati dalla legge (art. 8); le prime sono concesse con decreto reale, che vale anche come dichiarazione di pubblica utilità per tutte le opere e gl'impianti occorrenti alla costruzione e all'esercizio; le seconde con decreto del ministro dei lavori pubblici di concerto con quello delle finanze. Le grandi derivazioni ad uso di forza motrice non possono eccedere la durata di sessant'anni e non solo rinnovabili: alla scadenza, tutte le opere di raccolta, di regolazione e di derivazione, i canali adduttori dell'acqua, le condotte forzate e i canali di scarico passano in proprietà dello stato senza compenso. Le grandi derivazioni ad uso potabile, d'irrigazione o di bonifica sono concesse per la durata massima di 70 anni, e sono rinnovate, qualora persistano i fini della derivazione e non si oppongano ragioni di pubblico interesse. Nel caso di mancata rinnovazione le opere di derivazione passano in proprietà dello stato. Le piccole derivazioni hanno una durata massima di trent'anni e sono rinnovabili (artt. 21 a 24).

Gli utenti di acque pubbliche sono tenuti a pagare un canone annuo allo stato (artt. 26 e 27 e art. 3 r. decr. 25 febbraio 1924, n. 456), e in alcuni casi anche un sopracanone alla provincia e ai comuni (art. 40); a iniziare e compiere i lavori nel termine fissato nel disciplinare la concessione, a mantenere le imboccature delle derivazioni munite degli opportuni manufatti e a conservarle in buono stato; ad osservare le discipline legislative e regolamentari in vigore; ad eseguire a loro spese le variazioni nelle opere di derivazione che l'amministrazione ritenesse necessarie per sopravvenute circostanze (art. 17 reg. 14 agosto 1920, n. 1285).

L'utenza si estingue: a) per il decorso del termine, salva la rinnovazione nei casi in cui è ammessa; b) per la rinuncia dell'utente; c) per la decadenza in cui egli incorra per una delle cause previste dalla legge, e che sia pronunciata dal ministro dei lavori pubblici (art. 41); d) per la sopravvenuta modificazione del regime di un corso bacino che renda impossibile il mantenimento o il ristabilimento della derivazione (se la modificazione dipende da cause naturali, lo stato non è tenuto ad alcuna indennità; se, invece, dall'esecuzione da parte dello stato di opere rese necessarie da ragioni di pubblico interesse, l'utente ha diritto a un'indennità, qualora non gli sia possibile senza spese eccessive di adattare la derivazione al corso di acqua modificato (art. 35); e) per la espropriazione consentita dall'autorità amministrativa allo scopo di rendere possibile una più importante utilizzazione.

La costruzione d'impianti idroelettrici e la diffusione della irrigazione, se suscitano o facilitano molte altre energie produttive, e determinano un accrescimento della ricchezza nazionale, non sempre rappresentano per l'esecutore delle opere un affare redditizio, donde l'opportunità dell'intervento finanziario dello stato con agevolazioni fiscali o con sussidî, conformemente a ciò che da tempo si verifica, in Italia e altrove, per le costruzioni ferroviarie. L'intervento dello stato nelle utilizzazioni idrauliche è dalle norme vigenti diversamente disciplinato nei riguardi della costruzione di serbatoi e laghi artificiali, degl'impianti idroelettrici e delle opere irrigue.

a) Lo sfruttamento del demanio idraulico presenta punti di contatto con lo sfruttamento dei giacimenti minerarî, nel senso che richiede uno sforzo sempre maggiore man mano che si esauriscono le più facili e semplici possibilità di utilizzazione, e che si delinea la necessità di sostituire alle condizioni naturali non propizie uno stato di cose più favorevole. Fondamentale è, sotto tale aspetto, l'importanza dei serbatoi, o laghi artificiali, e delle altre opere regolatrici del deflusso delle acque, cioè, delle opere, che consentono l'immagazzinamento dell'acqua nei periodi delle maggiori precipitazioni, per essere fatta defluire, proporzionatamente, nelle ore del giorno o nelle stagioni dell'anno in cui abbisogna per l'irrigazione dei campi o per la produzione dell'energia. Tali opere, inoltre, regolando il corso di acqua, impediscono anche o attenuano le periodiche inondazioni dei terreni da esso attraversati. Al concessionario di queste opere, oltre ad alcune agevolazioni tributarie, può essere accordata dallo stato una sovvenzione annua, per la durata massima di cinquant'anni fino a lire 8000 per ciascun milione di metri cubi di acqua invasata, ed anche oltre, nel caso in cui la costruzione del serbatoio renda in tutto o in parte inutile l'esecuzione di opere idraulico-forestali o di bonifica, oppure giovi all'irrigazione o alla produzione di forza motrice per il prosciugamento e la bonificazione agraria di vasti territorî, ma non può mai superare il disavanzo determinato in base al piano finanziario dell'opera (artt. 48-51 r. decr. 9 ottobre 1919). Allo stesso concessionario sono tenuti a corrispondere un contributo annuo di miglioria. da stabilirsi dal ministro dei lavori pubblici, tutti coloro a cui la costruzione del serbatoio reca un vantaggio, o con l'aumentare la portata minima del corso d'acqua, o con l'accrescere la superficie dei terreni privati a valle, salva la facold di abbandonare al concessionario gli accrescimenti del terreno (art. 57).

b) Meno importante, in corrispondenza al più tenue interesse generale, e di carattere transitorio, è la sovvenzione accordata ai costruttori d'impianti idroelettrici e ai costruttori ed esercenti di nuove linee di trasmissione dell'energia di tensione superiore a 2000 volts (r. decr. 2 ottobre 1919, n. 1995; r. decr. 17 settembre 1925, n. 1852; r. decr. 15 aprile 1928, n. 854)

c) Molto più sensibile è il contributo dello stato per le opere irrigue, ritenendosi, da un lato, che l'iniziativa privata non s'induca, se non sia adeguatamente incoraggiata, ad eseguire opere costose e di rendimento non immediato, dall'altro, che il miglioramento fondiario ottenuto con l'irrigazione apporti vantaggi economici e sociali duraturi che trascendono l'interesse privato del proprietario del suolo. L'ammontare del contributo è leggermente diverso nell'Italia settentrionale e centrale, in cui vige, oltre al testo unico 2 ottobre 1922, n. 1747, il r. decr. 13 agosto 1926, n. 1907, e nell'Italia meridionale e insulare ove si applicano le disposizioni del testo unico e quelle del r. decr. 20 maggio 1926, n. 1154: nelle prime regioni il contributo varia dal 35 al 45% dell'importo delle opere, nelle seconde dal 35 al 50%. Nel fissarne la misura si tiene conto dell'importanza dell'intrapresa per l'interesse pubblico e degli oneri che la gravano, avuto riguardo non solo alle spese di impianto, ma anche a quelle di esercizio e alla necessità di ulteriori lavori di sistemazione dei terreni da irrigare.

L'ordinamento giuridico favorisce la costituzione di consorzî per l'utilizzazione di acque pubbliche. Già durante il procedimento amministrativo per la concessione della derivazione l'articoio 13 del r. decr. 9 ottobre 1919 dà facoltà all'autorità amministrativa d'imporre ai richiedenti l'obbligo di consorziarsi per l'esecuzione delle opere in comune. Nella fase successiva alla concessione il consorzio può sorgere o per la spontanea adesione di tutti gl'interessati (consorzio facoltativo) o, sulla domanda della maggioranza, mediante una decisione dell'autorità giudiziaria (artt. 657-661 cod. civ.; legge 2 febbraio 1888, n. 5192, r. decr. 24 giugno 1888, n. 5297, sui consorzî per derivazione di acque ad uso industriale). Ma per l'esecuzione e l'esercizio delle opere irrigue il consorzio può anche essere obbligatoriamente costituito con decreto reale, allorché la relativa proposta, che può essere fatta da qualunque dei proprietarî interessati o anche dal prefetto della provincia, riporti, nell'adunanza dei proprietari, all'uopo indetta, l'adesione della maggioranza degl'intervenuti, e questa rappresenti la maggior parte del territorio da irrigare, o, concorrendo speciali condizioni, almeno un quarto del territorio stesso (art. 10 segg. r. decr. 13 agosto 1926, per l'Italia settentrionale e centrale; art. 8 segg. r. decr. 20 maggio 1926, per l'Italia meridionale e insulare).

Per la risoluzione delle controversie relative alle acque pubbliche è istituita una giurisdizione speciale detta dei tribunali delle acque pubbliche, giustificata dalla speciale natura della materia, nella quale, più che in ogni altra, le questioni giuridiche si compenetrano con le questioni tecniche, e i varî interessi che si collegano allo sfruttamento delle acque pubbliche, devono essere coordinati e armonizzati secondo criterî, talvolta di pratica opportunità, che non si possono rigorosamente definire (cfr. art. 544 cod. civ.). I tribunali delle acque pubbliche sono formati da magistrati e da tecnici, questi ultimi prescelti tra i funzionarî del genio civile, e nominati con decreto reale su designazione del presidente del consiglio superiore dei lavori pubblici. Si distinguono, in armonia col sistema vigente della giurisdizione nei rapporti con la pubblica amministrazione, due ordini di controversie: quelle aventi ad oggetto la tutela dei diritti soggettivi del privato di fronte all'autorità pubblica o ad altro privato, già di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria, e quelle che concernono la protezione degli interessi legittimi, la cui cognizione apparteneva al Consiglio di stato in sede giurisdizionale. Le prime sono esaminate in primo grado dai tribunali territoriali delle acque pubbliche, sedenti in otto fra le principali città d'Italia, e in secondo grado dal tribunale superiore sedente in Roma, che giudica con cinque votanti, dei quali tre magistrati, un consigliere di stato e un tecnico. Le seconde sono decise dallo stesso tribunale superiore, diversamente composto, in quanto alla decisione partecipano sette votanti cioè tre magistrati, tre consiglieri di stato e un tecnico. Disposizioni speciali, che in più punti derogano al diritto processuale comune, regolano, con una certa libertà di movimenti e con un più esteso potere d'iniziativa del giudice, il procedimento dinanzi a questa speciale magistratura (art. 65 segg. r. decr. 9 ottobre 1919; r. decr. 27 novembre 1919, n. 2235).

I canoni demaniali sotto l'aspetto tecnico-finanziario.

Nella legislazione italiana si è cominciato a parlare di canone demaniale nelle concessioni di acque pubbliche, sin dal primo corpo di leggi organiche fondamentali dato al regno pochi anni dopo l'unificazione.

L'allegato F), infatti, della legge 20 marzo 1865, n. 2248, per l'unificazione amministrativa del regno d'Italia, allegato che costituì la legge sui lavori pubblici (legge Jacini), all'art. 133, prescriveva, in materia di derivazioni di acque pubbliche, che i reali decreti di concessione di acqua, "sia in proprietà assoluta, sia per semplice uso temporaneo e determinato..., stabiliranno l'annuo canone o il prezzo di vendita da corrispondersi alle finanze dello stato".

Forse non si ebbe, in questa legge, una precisa nozione degli attributi e della portata del carattere di pubblicità o demanialità dei fiumi e torrenti, che pur, qualche mese dopo, il vigente codice civile del 25 giugno 1865 dichiarava far parte del demanio pubblico dello stato (art. 427) per sua natura inalienabile (art. 430).

Forse si usò la dizione "concessione in proprietà assoluta" impropriamente per quella di "derivazione a tempo indeterminato" adottata nel successivo art. 134, o di "concessione perpetua", dal momento che anche la vendita si fece rientrare nel concetto generale di concessione, e che anch'essa fu subordinata alla "osservanza delle cautele, che, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici, saranno state proposte in linea d'arte dal Ministero dei lavori pubblici, nell'interesse e a tutela del buon regime degli alvei, della libera navigazione e delle proprietà laterali", prescrivendo che i decreti reali di concessione determinassero, oltre all'annuo canone o al prezzo di vendita, anche "la qualità, il tempo, il modo e le condizioni delle estrazioni, e occorrendo, le condizioni della condotta e dell'uso delle acque, o le norme della costruzione e dell'uso dell'opificio".

Forse s'intese di separare i corsi d'acqua dalle acque convogliate, e riservare gli attributi della demanialità, nel pubblico interesse, soltanto ai primi e non alle seconde. Se così fosse, si sarebbe errato gravemente, in quanto oggi è pacifica la demanialità delle acque derivate dai fiumi e torrenti persino quando scorrono entro un canale privato; e in sostanza la posizione del principio di demanialità va proprio invertita, dovendo la demanialità riconoscersi necessariamente alle acque, non necessariamente al cavo conduttore.

Forse, infine, il fatto delle strettezze finanziarie in cui si trovava lo stato, e il bisogno di ottenere qualche cospicua entrata dalle concessioni, fece passare in seconda linea l'antitesi esistente fra demanio pubblico e vendita.

Quanto alla misura del canone, l'art. 13 del regolamento per le derivazioni di acque pubbliche, approvato con r. decr. 8 settembre 1867, n. 3952, disponeva testualmente:

"Per la determinazione del canone si avrà riguardo in complesso:

a) alla quantità dell'acqua da derivarsi... e alle condizioni locali;

b) all'utile presuntivo, che il concessionario può ricavare dall'acqua derivata, tenuto però conto delle condizioni della concessione, degli oneri e delle spese che egli deve sopportare".

La decorrenza pel pagamento del canone non fu espressamente indicata, in quanto l'art. 18 del predetto regolamento lasciò al decreto di concessione il compito di stabilirla, pur facendo al concessionario "l'obbligo di pagare il canone, quand'anche non usufruisse in alcuna parte della concessione, salvo in tutti i casi al concessionario il diritto di rinunziare e liberarsi dal pagamento del canone medesimo allo spirare dell'anno in cui sarà fatta la rinunzia".

L'art. 25 poi dichiarava: "Dal giorno della collaudazione il concessionario s'intende immesso in possesso della derivazione, e potrà quindi fare uso delle acque".

In conclusione vuolsi soltanto affermare che il concetto, in base al quale la legge del 1865 stabilì l'annuo canone o il prezzo di vendita, fu esclusivamente quello d'imporre al privato che venisse ad essere avvantaggiato dalla concessione di acque pubbliche pertinenti allo stato, un corrispettivo in ragione di tale vantaggio, da stabilire caso per caso, secondo le circostanze, il costo delle opere ed il prevedibile rendimento delle utilizzazioni idrauliche; criterio questo puramente finanziario, non influenzato affatto dal concetto che il canone dovesse essere imposto piuttosto, o anche, come segno di ricognizione dell'alto dominio dello stato sul pubblico demanio.

Anche per l'altro ramo più importante di pubblico demanio - cioè le spiagge marine - l'art. 779 del regolamento 20 novembre 1879, n. 5166, per l'applicazione del codice della marina mercantile 24 ottobre 1877, n. 4146 (tuttora vigenti, per quanto una commissione sia gia incaricata degli studî per la riforma della legislazione in materia) si attiene al concetto di corrispettivo, disponendo che "in massima... il canone da imporsi per le concessioni ordinarie di tratti di spiaggia o di spazî acquei non sarà inferiore a centesimi 10 il metro quadrato, e dovrà essere concertato... in ragione dell'importanza dell'occupazione, del fine cui essa intende e dei profitti che può ricavare il concessionario". È lo stesso criterio della libertà di valutazione lasciata all'amministrazione per le concessioni di derivazione di acque pubbliche dall'art. 133 della legge sui lavori pubblici.

Soltanto per la concessione di spiagge ad uso di cantieri navali l'art. 755 dello stesso regolamento faceva eccezione, stabilendo il canone annuo nella misura fissa di centesimi 5 per metro quadrato, canone che fu poi ridotto a cinque millesimi con l'art. 44 della legge 23 luglio 1896, n. 318. Ma la speciale disposizione non altera il principio di corrispettivo, in quanto la riduzione aprioristica del canone non poté essere giustificata se non dal riconoscimento che i cantieri navali, in quel momento almeno, non facevano lucri che giustificassero il pagamento di elevati canoni, in ragione della grande estensione che le concessioni per tale uso importano, ovvero dal proposito del governo di agevolarne il sorgere, riducendo l'onere delle concessioni.

Il concetto, invece, di un "riconoscimento delle ragioni demaniali e della servitù marittima", insieme con quello del "corrispettivo delle facoltà accordate con l'atto di concessione", è accennato nell'art. 789 del regolamento del 1879, di cui trattasi; è poi affermato indipendentemente nell'art. 811, per giustificare l'imposizione di un "canone minimo", non più precisamente designato, per le occupazioni di demanio pubblico marittimo "accordate ai corpi morali e ai privati cittadini per formare opere destinate ad uso pubblico e di pubblica utilità, e sempre che il concessionario non ritragga alcun lucro dalla concessione".

Frattanto la dottrina della demanialità si era fatta larga strada. Cosicché, quando fu presentato al parlamento il disegno di legge, poi divenuto la legge (Genala) 10 agosto 1884, n. 2644, che disciplinò ex novo l'intera materia delle derivazioni di acque pubbliche, i concetti della demanialità informarono la nuova disciplina giuridica, sebbene con più d'una e non lieve contraddizione.

Anzitutto l'art. 2 della nuova legge, a simiglianza di quanto aveva fatto, per le pertinenze di demanio pubblico marittimo, l'art. 158 del citato codice della marina mercantile, dichiarò che le concessioni di derivazione di acque a perpetuità non potessero farsi che per legge. È fuori luogo - in questa sede - discutere se sia accettabile la dottrina, secondo cui la concessione a perpetuità (sempre temperata dall'intervento disciplinatore dello stato in materia di polizia idraulica e dal principio della revocabilità ad nutum concedentis per ragioni insindacabili di pubblico interesse) sia compatibile col concetto pieno della demanialità, di cui, come abbiamo visto, è attributo l'inalienabilità. La discussione ci porterebbe in una sfera, avente pochi contatti con l'argomento dei canoni demaniali, che ci occupa. Ma, comunque, fu sottratta all'amministrazione la potestà di "vendere" le acque e di ricavarne un prezzo come contrattazione di diritto privato, e anche quella di vincolarle con concessioni perpetue, riservate alla sola sede legislativa. Da un punto di vista puramente razionale, ove si ammettesse che la concessione perpetua è già uno strappo alla demanialità, neppure la legge varrebbe a colmare l'abisso; ma nelle cose dello stato, non siamo a discutere in un campo astratto, siamo di fronte ad esigenze concrete, così che anche il rigido dottrinario può essere soddisfatto, quando ciò che egli non ammette, può essere consentito soltanto con una legge, la quale, come la res iudicata e più di questa, può fare de albo nigrum e viceversa.

D'altra parte, la legge, all'art. 1, confermava quanto già trovavasi nell'art. 132 della legge del 1865, ammettendo a derivare, non solo chi ne avesse ottenuta la concessione in base alla legge stessa, ma anche chi avesse un titolo legittimo, che poteva bene essere stato costituito sotto l'antico regime giuridico, in cui le acque, considerate proprietà del principe, erano divenute oggetto della più ampia contrattazione, compresa la vendita. Il contrasto, inesistente nella legge del 1865, la quale continuava ad ammettere la vendita delle acque, sorse palese dalla legge del 1884, che non consentiva più la vendita. L'attributo della demanialità, quando viene affermato, dovrebbe operare ex tunc, non ex nunc; ad ogni modo, può darsi che possa ritenersi tutto giustificato dal rispetto dovuto a diritti legittimamente acquistati dai cittadini, spesso a titolo oneroso.

Ma una ben più grave transazione col concetto della demanialità fece la legge del 1884, con l'art. 24, stabilendo che "per gli effetti dell'art. 1 della presente legge, il possesso trentennale anteriore alla promulgazione di essa avrà in ogni caso nei rapporti col demanio valore ed efficacia di titolo". Così, in via quasi d'interpretazione della dizione "titolo legittimo" contenuta nell'art. 1, si venne ad ammettere per le acque pubbliche l'acquisto dei diritti con una speciale forma di prescrizione (limitata ad un determinato periodo anteriore e non operante successivamente), mentre l'inalienabilità dei beni di demanio pubblico (art. 430 cod. civ.) comprende anche la imprescrittibilità, in quanto l'art. 690 del cod. civ. aveva bene stabilito che "il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà, non ha effetto giuridico" e perciò esso non poteva essere, almeno dal 1° gennaio 1866, considerato un possesso legittimo capace di costituire la base per l'acquisto di diritti ad usucapionem (art. 2106 stesso codice). Forse influì su questa grave transazione l'ammissibilità delle vendite di acque pubbliche, contenuta nella citata legge sui lavori pubblici del 1865.

Da questo ordinamento della legge derivarono, come stretta conseguenza, i concetti affermati e le norme stabilite sui canoni demaniali.

Il ministro proponente (il Baccarini) credette di essersi informato, in materia di canoni, al puro concetto della demanialità, in quanto affermò nella relazione che il canone rappresentava un semplice segno di ricognizione per l'alto dominio dello stato sul demanio pubblico, e in quanto concretamente il canone venne determinato dalla stessa legge in misura fissa, senza possibilità per la finanza di commisurarlo, nei varî casi, alle variabili circostanze e all'utilità che per il concessionario avrebbe rappresentato la concessione.

Orbene i canoni vennero stabiliti dalla legge del 1884 come segue:

Art. 14. "I canoni annui per le nuove concessioni di acque pubbliche saranno corrisposti secondo le disposizioni seguenti:

"La forza motrice per la quale è dovuto il canone, viene misurata tenendo conto della caduta effettivamente utilizzata per il motore, cioè della differenza di livello fra i due peli morti dei canali, a monte e a valle del meccanismo motore".

Art. 16. "Per le concessioni di derivazione d'acqua ad uso promiscuo d'irrigazione e di bonificazione. il canone sarà ridotto alla metà di quello stabilito per la irrigazione senza restituzione delle colature o residui di acqua, e per quelle di sola bonificazione al quinto.

"Ai molini natanti si applicherà il canone di L. 1 per cavallo dinamico nominale".

Art. 17. "Per i molini ed altri opifici, i quali per la scarsezza dell'acqua possono lavorare soltanto in modo intermittente, il canone sarà regolato sulla media della forza disponibile di un anno.

"In nessun caso però il canone annuo sarà inferiore a L. 3".

"Per la concessione a scopo d'irrigazione delle sole acque iemali il cui uso è limitato, a norma del cod. civ. (art. 624), dall'equinozio di autunno a quello di primavera, il canone fissato nell'art. 14 sarà ridotto alla metà".

Art. 18. "I canoni determinati all'art. 14 non sono applicabili alle acque derivate da canali di proprietà patrimoniale dello stato".

I riconoscimenti dei diritti di uso, da farsi in esecuzione degli artt. 1 e 24 della legge sopra citata, rimasero esenti da canone (ove già non fosse stato stabilito nel titolo costitutivo) oltre che perpetui.

Correlativamente al concetto di demanialità, secondo cui il canone sta in riconoscimento del diritto eminente dello stato, i regolamenti per l'applicazione della legge, a cominciare da quello del 9 novembre 1885, n. 3544, pur confermando che il concessionario non entra in possesso dell'acqua, né può farne uso se non dopo approvato il collaudo delle opere, stabilirono che "dalla data del decreto (e non dell'effettivo uso dell'acqua) decorrono il canone e la durata della concessione", ripetendo inoltre che il concessionario "deve pagare il canone, quando anche non faccia (poi fu aggiunto: "o non possa fare") uso in alcuna parte (poi fu detto: "in tutto od in parte") della concessione, salvo in tutti i casi il diritto di rinunciarvi, con liberazione dal pagamento del canone stesso allo spirare dell'anno (anno di concessione, non anno solare) in cui sia stata fatta la rinunzia".

Contro il medesimo concetto, invece, la stessa legge del 1884, stabiliva all'art. 15 un caso di esenzione dal canone anche per le concessioni future: "Ai comuni e alle opere pie che facciano domanda di acqua potabile per distribuirla gratuitamente agli abitanti del comune o per l'uso dei ricoverati nelle opere pie, la concessione sarà gratuita".

Altre esenzioni, ovvero facoltà di accordare esenzioni dal canone demaniale per le utilizzazioni di acque pubbliche, furono contemplate da successive leggi speciali.

Citiamo le seguenti disposizioni:

1. L'art. 50 della legge 31 marzo 1904, n. 140, concernente provvedimenti a favore della Basilicata, che consente al governo per la durata di un ventennio di concedere gratuitamente le derivazioni di acque pubbliche, subordinatamente a date condizioni: notisi che il limite di 20 anni riguarda il periodo di tempo durante il quale il governo ha potuto fare - come ha fatto - concessioni gratuite, ma la esenzione è ammessa per tutta la ordinaria durata della concessione, cioè per 30 anni. Il ventennio è ormai scaduto, né è stato prorogato.

2. L'art. 18 della legge 8 luglio 1904, n. 351, per il risorgimento economico della città di Napoli, che autorizzò il governo a concedere a perpetuità e gratuitamente al municipio di Napoli la facoltà di sfruttare tutta la forza idraulica valutata a circa 16.000 HP., ricavabile dalle sorgenti del Volturno.

3. L'art. 88 della legge 25 giugno 1906, n. 255, concernente provvedimenti a favore della Calabria. Esso riproduce esattamente il riferito art. 50 della legge per la Basilicata. Anche questo ventennio è scaduto e non è stato prorogato.

4. L'art. 2 della legge 11 luglio 1907, n. 502, e l'art. 1 della successiva 6 aprile 1908, n. 116, sui provvedimenti per la città di Roma, con i quali il governo fu autorizzato a concedere gratuitamente e a perpetuità al comune di Roma la facoltà di derivare acqua dal fiume Aniene e dal fiume Nera, in tratti determinati, per produrre una complessiva forza motrice di 25.000 cavalli nominali.

5. L'art. 38 della legge 2 giugno 1910, n. 277, riguardante provvedimenti per il demanio forestale di stato e per la tutela e l'incoraggiamento della silvicoltura, in virtù del quale le concessioni di derivazione per utilizzazioni locali di acque, con produzione di forza motrice non eccedente i 15 HP. teorici in regime di magra, sono esenti dal pagamento del canone per la durata massima di 30 anni, quando siano intese a favorire le piccole industrie alpine.

6. L'art. 3 della legge 11 luglio 1913, n. 985, per la costruzione di serbatoi e laghi sul Tirso in Sardegna e sui fiumi silani in Calabria, che autorizzò il governo ad accordare ai concessionari le stesse agevolazioni dell'art. 88 della legge 25 giugno 1906, n. 255, concernente provvedimenti in favore della Calabria, per tutta la durata delle concessioni, che l'art. 1 stabiliva in 60 anni.

Una profonda innovazione nel diritto delle acque portò il decreto-legge luogotenenziale 20 novembre 1916, n. 1664, sia perché preparò la costituzione di un demanio idraulico industriale, da poter essere gestito direttamente dallo stato (art. 12), sia perché stabilì nell'art. 43 che "le utenze riconosciute o da riconoscere in base al possesso trentennale anteriore alla promulgazione della legge 10 agosto 1884, n. 2644, avranno la durata massima stabilita dall'art. 11 per le varie specie di concessioni (elevata a 50 anni per le concessioni di forza motrice, e a 70 per quelle di acqua potabile o ad uso d'irrigazione e bonifica)". Per una categoria di utenze, dunque (non per l'altra categoria di utenze costituite con titolo formale), venne a cessare il diritto alla perpetuità, e a quello che poté considerarsi come un diritto patrimoniale privato su acque pubbliche, fu assegnato un termine.

Quanto ai canoni demaniali, invece, tranne un riordinamento delle disposizioni, nulla fu innovato dalla nuova legge disciplinatrice, e anche le vecchie utenze restarono esenti.

Ai canoni demaniali, poi, il decreto-legge del 1916 aggiungeva, per le concessioni idroelettriche, anche i sopracanoni a favore dei comuni rivieraschi, beneficiati inoltre da una riserva di energia ad uso dei pubblici servizî, con una disposizione del seguente tenore: "Quando l'energia sia trasportata oltre i 25 km. dal territorio dei predetti comuni rivieraschi, il ministro delle finanze, sentito il Consiglio superiore delle acque, stabilirà con proprio decreto a favore degli enti locali un ulteriore canone annuo a carico del concessionario di L. 2 per ogni cavallo dinamico nominale Questo canone verrà ripartito fra i comuni rivieraschi nel modo stabilito dal regolamento, che stabilirà anche in quali casi ed in quale misura la provincia potrà partecipare alla ripartizione del canone stesso"

Il decreto del 1916 fu poi sostituito, con modificazioni conformi alle osservazioni del Senato, dal r. decreto-legge 9 ottobre 1919, n° 2161 (ora convertito nella legge 18 dicembre 1927, n. 2595), il quale - nei punti che qui c'interessano - mirando sempre più a liberare il pubblico demanio delle acque da ogni residuo di diritti privati perpetui, con l'art. 125 soppresse la perpetuità di tali diritti, non solo per quelli costituiti col possesso ultratrentennale anteriore alla legge del 1884, ma anche per quelli costituiti con titolo formale, disponendo all'art. 125 che ambedue le categorie di utenze abbiano la durata massima stabilita nell'art. 21 con decorrenza dal 1° febbraio 1917, salva rinnovazione (durata massima 30 anni per le piccole derivazioni di ogni specie; 60 anni per le grandi derivazioni per produzione di forza motrice; 70 anni per le grandi derivazioni ad uso potabile, d'irrigazione o bonifica).

Nessuna innovazione fu portata alla misura dei canoni dagli articoli 26, 27 e 29.

Anche col decreto del 1919 i riconoscimenti dei diritti di uso restarono esenti da canone, ove già il canone non risultasse dai titoli costitutivi.

Alle esenzioni stabilite, e qui confermate, per le concessioni di acqua ad uso potabile in favore dei comuni e delle istituzioni pubbliche di beneficenza che la distribuiscono gratuitamente (art. .39), fu aggiunta la facoltà di consentire l'esonero parziale o totale dal canone per le utilizzazioni idrauliche conseguenti alla costruzione di serbatoi, o laghi artificiali regolanti il deflusso delle acque pubbliche (art. 48).

Notevole è pure la disposizione dell'ultimo comma dell'art. 27, giusta la quale - mentre per le piccole derivazioni (sino a 300 cavalli dinamici nominali; 100 litri secondo di acqua potabile; 1000 litri secondo di acqua per irrigazione; 5000 litri secondo di acqua per bonificazione a colmata) resta fermo l'obbligo del pagamento del canone dalla data del decreto di concessione - per le grandi derivazioni (eccedenti tali limiti) il pagamento del canone decorre dalla scadenza del termine assegnato per l'ultimazione dei lavori.

Il privilegio che era stato concesso all'erario per la riscossione dei canoni col decreto del 1916, fu revocato con quello del 1919, che, sostituendosi in tutto al precedente, non ne fece più menzione.

Furono mantenuti la riserva di energia a favore dei comuni rivieraschi e il sopracanone di 2 lire per cavallo vapore a vantaggio degli stessi comuni rivieraschi e delle provincie, quando l'energia viene trasportata rispettivamente oltre i 15 km. dal territorio comunale e fuori della provincia (art. 40).

L'art. 9 del decreto, infine, stabilì che ogni richiedente concessioni di acque pubbliche dovesse depositare, insieme con la domanda, una somma pari a un decimo del canone annuo nel limite minimo di 50 lire. Non trattasi peraltro di un aumento di canone, ma di una tassa, al pagamento della quale sono subordinati la recezione e l'esame delle domande.

Le entrate così raccolte dovevano essere destinate al mantenimento del servizio idrografico speciale; oggi, però, esse non hanno più quella speciale destinazione e vengono riscosse come proventi demaniali.

A questo punto, raccogliendo le fila della esposizione, giova porsi la seguente domanda: se nel regime della legge del 1865 il canone demaniale prescindeva interamente dal concetto della demanialità pubblica delle acque (che la legge considerava come un bene dal quale la Finanza potesse e dovesse trarre tutto il reddito di cui esso era suscettibile) in quanta parte il concetto della demanialità, nettamente sviluppato nella successiva legislazione dal 1884 al 1919, informò di sé la materia dei canoni demaniali?

Abbiamo visto come, a base dell'attuale sistema di canoni (a parte la misura, che fu quadruplicata, come si dirà), risalendo alla legge del 1884, lo stesso governo pose il principio che il canone rappresentasse la recognitio dominii. A questa concezione del canone demaniale aderì una parte della dottrina, della giurisprudenza e della prassi amministrativa. In sostanza, s'intendeva con ciò di fare una netta distinzione tra il canone di affitto dei beni patrimoniali rappresentante un corrispettivo di natura civilistica, e il canone afferente i beni di demanio pubblico, stabilito per le concessioni rientranti nell'orbita del diritto pubblico.

Questo concetto e questa distinzione, se sono stati in seguito attenuati, non hanno perduto il proprio valore e la propria ragione d'essere.

Vi è bensì chi ritiene che non si possa fare, come facevasi da una certa rigida dottrina, la netta separazione degli atti delle pubbliche amministrazioni fra quelli compiuti iure imperii e quelli compiuti iure gestionis, per assoggettare i primi esclusivamente al diritto pubblico e i secondi esclusivamente al diritto privato, separazione che avrebbe avuto da parte delle pubbliche amministrazioni l'attuazione ed il segno tangibile esterno col fatto che i primi si pongono in essere per mezzo di decreti, sia pure appoggiati spesso a disciplinari sottoscritti solo dall'altera pars, e i secondi per mezzo di contratti in tutto bilaterali.

Non è il caso di soffermarsi troppo a lungo, in questa sede, su tale dottrina. Certo è che essa, sebbene temperata dal concetto che la pubblica amministrazione non può mai divenire un soggetto esclusivamente privato, perché mai può spogliarsi della sua veste, secondo la quale agisce sempre nell'interesse pubblico, pur agendo come spesso accade per mezzo di contratti a carattere prevalentemente privatistico (p. es., per le concessioni dei beni di pubblico demanio marittimo, per le derivazioni d'acqua dai canali demaniali, che pur sono acque pubbliche, e così via), non può essere interamente respinta. Certo è, ad ogni modo, che nel campo delle derivazioni di acque pubbliche di cui particolarmente qui si tratta, la concessione costituisce un rapporto di diritto pubblico e non di diritto privato bilaterale, nel senso che chi dà è solo lo stato, chi riceve è solo il privato; che il primo resta libero con tutte le sue facoltà discrezionali, anche di disciplinare e anche di revocare la concessione per motivi di pubblico interesse, e il secondo invece è solo ad impegnarsi, con i disciplinarî, ad un complesso di obblighi che gli fanno carico.

Fra questi oneri sta anche il pagamento dell'annuo canone ma il canone non è più, dal 1884, stabilito in modo da rappresentare quello che, secondo il giudizio dell'amministrazione finanziaria, rappresenta la esatta controprestazione in danaro alla prestazione in natura fatta dallo stato. Non si può dunque negare che il canone rappresenti anche un segno tangibile del riconoscimento, da parte del concessionario, del diritto eminente dello stato sui beni di pubblico demanio e del titolo di pura concessione, col quale egli fa, nel proprio esclusivo interesse, l'utilizzazione che lo stato gli ha consentito.

Ma d'altra parte non si può convenire che il canone rappresenti, nella legislazione dal 1884 al 1919, soltanto il segno esteriore di tale riconoscimento.

Infatti:

1. Il principio avrebbe dovuto essere costantemente applicato, dal momento che esso avrebbe potuto consentire di ridurre la misura del canone, p. es., ad una sola lira annua, cioè ad esser tale da non costituire onere sostanziale per l'utente. Quindi non si sarebbero dovuti lasciare in completa esenzione gli antichi diritti di uso gratuiti costituiti da titolo formale e quelli da riconoscere in virtù del possesso trentennale anteriore alla legge del 1884, né si sarebbero dovute autorizzare le concessioni gratuite per acqua potabile ai comuni e alle istituzioni pubbliche di beneficenza e le utilizzazioni idrauliche dipendenti da invaso, in base alla stessa legge fondamentale, e quelle prevedute a gratuità dalle citate leggi speciali.

2. Il principio avrebbe addotto il pagamento del canone dalla emissione del decreto che stabilisce l'esistenza giuridica della concessione, e non avrebbe consentito, sotto questo aspetto, la distinzione in piccole e grandi derivazioni, per assoggettare le seconde al pagamento del canone solo dal giorno assegnato per l'ultimazione dei lavori, sebbene ciò non significhi sempre coincidenza dell'inizio del pagamento con l'inizio della utilizzazione.

3. Il principio non avrebbe richiesto di proporzionare esattamente il canone alla entità della utilizzazione; tanto per litro, tanto per cavallo, tanto per ettaro irrigato.

4. Il principio avrebbe dovuto escludere nell'amministrazione il pensiero di aumentare la misura dei canoni, come essa cominciò a proporsi dal 1902, imponendo con i disciplinari, ai concessionarî per forza motrice, di accettare l'aumento che fosse stato stabilito per legge fino a 10 lire per cavallo dinamico nominale.

5. Il principio avrebbe dovuto assolutamente escludere quella specie di compartecipazione dei comuni e delle province, con la facoltà concessa al ministro delle finanze di decretare i sopracanoni, nei casi previsti, a favore degli enti locali non partecipanti certo alla sovranità dello stato sulle acque pubbliche.

6. Il principio non avrebbe reso necessaria la quadruplicazione della misura dei canoni disposta col r. decreto-legge 25 febbraio 1924, n. 456 (decreto De Stefani), ora legge 22 dicembre 1927, n. 2535.

A questo punto dobbiamo trattare del decreto del 1924, che ha una particolare importanza nella materia dei canoni demaniali.

Questo decreto, e più ancora la relazione che lo illustra, precisano i criterî del governo in materia di canoni demaniali, rimettendoli alquanto in onore dal punto di vista pratico finanziario, e riducendo indirettamente nei giusti limiti la dottrina unilaterale del semplice segno ad recognitionem dominii, che minacciava di inaridire la fonte, sia pure modesta, di entrata rappresentata nel bilancio statale dai proventi del pubblico demanio. Il decreto non ha inteso abbandonare del tutto la tradizionale dottrina, ché anzi l'ha confermata, dichiarando, in via d'interpretazione piuttosto che d'innovazione, che i canoni di questa specie non sono affrancabili (art.1), e l'ha altresì consolidata in estensione, assoggettando al canone sia le utenze di acque pubbliche rimaste gratuite, ferme però le esenzioni espressamente stabilite dalle leggi (art. 6), sia anche quelle esistenti sulle acque dei canali demaniali, che sono acque pubbliche, sempre a prescindere dalla spettanza del cavo che le adduce; a tali utenze ha esteso la stessa sistemazione giuridica delle prime per quanto concerne l'istituto del riconoscimento e il limite di durata (art. 7). Ma dal complesso delle disposizioni e dalla relazione governativa emerge chiaramente che il concetto della recognitio dominii - se resta sempre come uno dei fondamenti non punto scalzato, donde deriva, a nostro avviso, la necessità che in ogni concessione si stabilisca un canone - non è solo quello che può informare il criterio pratico dell'amministrazione nell'imporlo, anche legislativamente, quando dal principio pregiudiziale dell'obbligo del canone si passi a considerare la misura in cui esso deve essere fissato.

Non basta che il canone esista; occorre che esso sia congruo, affinché giunga a rappresentare, quando non si oppongano ragioni speciali, cui le leggi debbano dare sanzione, qualche cosa di più tangibile di un semplice segno, qualche cosa che avvicini, più di quanto non sia stato fatto in passato, la misura della controprestazione in danaro alla entità della prestazione in natura rappresentata dalla concessione. Detta concessione pur non conferendo diritti reali al concessionario, pur non assicurandogli neppure il godimento del locatario, sottrae ad ogni modo alla collettività la disponibilità, ai fini economici, di un bene demaniale, assegnandolo ad un privato nel suo personale interesse, con esclusione - in linea di massima, non in via assoluta, e per quella che è la particolare utilizzazione consentita - di chiunque altro e dello stato stesso. "Non può ammettersi - dice infatti la relazione - che un'utilità economica accordata dallo stato al privato cittadino per mezzo della concessione dei beni comuni si risolva in una liberalità - dato che non vi faccia riscontro un equo canone - a tutto danno della generalità dei cittadini, i quali dovrebbero far fronte con imposte anche a quelle maggiori entrate che non si volessero ottenere dal demanio e dal patrimonio". Ed aggiunge che l'aumento dei canoni, "in quanto resti contenuto nei limiti della svalutazione della moneta, non fa che ripristinare il preesistente equilibrio dei rapporti fra stato e concessionarî".

In dipendenza del primo concetto, l'art. 1 del decreto autorizza la libera revisione dei canoni per tutte le categorie di beni in esso indicati, canoni che erano stati stabiliti in misura variabilissima secondo il tempo e le circostanze, e che perciò, ai fini della rivalutazione con effetto anche perequativo, non potevano essere assoggettati ad un aumento proporzionale. E dichiara che possono essere riveduti i canoni, quando l'amministrazione li ritenga "non più congrui in relazione alle attuali condizioni economiche e monetarie del mercato generale e ai prezzi correnti per simili concessioni, al beneficio che ne deriva all'interessato o alle speciali condizioni dei beni cui i canoni si riferiscono".

In dipendenza del secondo concetto, l'art. 2 quadruplica la misura minima normale dei canoni, per le concessioni di demanio pubblico marittimo, quali risultano dagli articoli 755 e 779 del regolamento 20 novembre 1879, n. 5166, per l'applicazione del codice della marina mercantile (annullando l'agevolazione che era stata accordata dall'art. 44 della legge 23 luglio 1896, n. 318, ai cantieri navali, perché venutane meno la necessità, e l'art. 3 quadruplica la misura unitaria fissa stabilita per le concessioni di derivazioni di acque pubbliche dagli art. 26 e 27 del r. decreto-legge 9 ottobre 1919, n. 2161, risalente alla legge 10 agosto 1884, n. 2644. Con questa differenza: che mentre la disposizione dell'art. 2 dà norma solo per il futuro, così che per la revisione dei canoni della concessioni marittime in corso, trattandosi di canoni non fissi, ma variabilmente stabiliti caso per caso col solo criterio di un limite minimo normale, e in genere non coincidenti con tale limite, la revisione deve pure essere fatta caso per caso a' sensi dell'art.1; per i canoni invece delle derivazioni di acque pubbliche si tratta di applicare, tanto alle concessioni esistenti, quanto alle future, la nuova misura unitaria quadruplicata, che già le leggi precedenti, dal 1884, stabilivano in misura fissa.

In concreto, circa le derivazioni di acque pubbliche esistenti all'entrata in vigore del r. decreto-legge 25 febbraio 1924, n. 456, si è avuta la quadruplicazione aritmetica dei canoni precedenti, quando le concessioni erano posteriori alla legge del 1884; per le concessioni anteriori e per le utenze antiche soggette a canone, non si è avuta la quadruplicazione aritmetica, bensì la determinazione di un nuovo canone, applicando la nuova misura unitaria (quadrupla di quella del 1884) ai dati che stabiliscono l'entità della utilizzazione: litri derivati, cavalli vapore nominali prodotti, superficie di terreno irrigato.

Il decreto del 1924, nell'aumentare i canoni demaniali anche per le concessioni d'acqua esistenti, consentì alle imprese produttrici distributrici di energia elettrica di rivalersi sugli utenti della energia per i due terzi dell'aumento del canone, ritenuto che esse avrebbero dovuto trovar margine per sostenere il carico dell'altro terzo nell'aumento delle tariffe già prima loro consentito. Gli articoli 12 e 13 del r. decreto-legge 4 marzo 1926, n. 681, chiariscono poi, anche con effetto modificativo, che questa facoltà può essere esercitata esclusivamente sotto forma di richiesta di revisione delle tariffe vincolate, a motivo di oneri sopravvenuti, in conformità di quanto stabilisce il decreto stesso per tali revisioni di tariffa.

Bibl.: Delle opere antiche o meno recenti si citano: F. M. Pecchio, Tractatus de aquaeductu, Pavia 1670-86, voll. 4; G. D. Romagnosi, Della regione civile delle acque, Firenze 1834; id., Della condotta delle acque, Firenze 1934; C. Bosio, La legislazione sulle investiture di acque per irrigazione e movimenti di opifici, Verona 1860, voll. 2; S. Gianzana, Le acque nel diritto civile italiano, Torino 1879; G. D. Tiepolo, Le acque pubbliche nella legislazione italiana, Torino 1889. La letteratura più recente è ampia, ma di valore assai ineguale: A. Mazza, Dei diritti sulle acque, Roma 1913; E. Presutti, L'amministrazione pubblica, dell'agricoltura, in V. E. Orlando, Primo trattato completo di diritto amministrativo, V; C. Vitta, Le acque pubbliche, ibid.; F. Pacelli, Le acque pubbliche, 2ª ed., Torino 1918; A. Vitale, Il regime delle acque, Milano 1921; C. Manes, Le acque pubbliche nel diritto italiano vigente, Roma 1922. Notevolissima, soprattutto come amteriale di studio, la pubblicazione del Ministero dei lavori pubblici, Le derivazioni di acque pubbliche, Relazione statistica, Roma 1921-1923, voll. 2 (il II contenente dati statistici e norme). Fra gli articoli di riviste, i più importanti, R. Panzarasa, Le acque oggetto di pubblica amministrazione, in Riv. di dir. pubbl., II (1914), p. 476; F. Vassalli, Premesse storiche all'interpretazione della nuova legge sulle acque pubbliche, in Acque e trasporti, 1917, p. 34; G. P. Chironi, Dottrina della demanialità e sue applicazioni alle acque, ibidem, 1918, p. 413; G. Vacchelli, Pubbliche e private utilità nel regime delle acque, in Il dir. dei pubblici appalti, 1917, 1; id., Regime giuridico della fluenza e regolazione dei grandi laghi della valle del Po, in Studî ded. alla memoria di P. P. Zanzucchi, Milano 1927, p. 221 segg.

CATEGORIE
TAG

Amministrazione pubblica

Pubblica amministrazione

Diritto amministrativo

Ordinamento giuridico

Autorità giudiziaria