TARTARICO, ACIDO

Enciclopedia Italiana (1937)

TARTARICO, ACIDO

Pietro LEONE
Alberico BENEDICENTI

. È uno degli acidi organici più diffusi del mondo vegetale. Si trova nell'uva, nel tamarindo, nelle sorbe, nelle patate, nei cetrioli, negli ananas, nei frutti di pepe nero, ecc., in parte libero, in parte sotto forma di sale, generalmente di potassio o calcio. Frequentemente si trova insieme con altri acidi, soprattutto con il malico. La sua formula grezza è C4H6O6, quella di struttura:

Lo si può considerare derivato dall'acido succinico per sostituzione di due H con due OH; donde il nome di acido diossisuccinico. Possiede due atomi di carbonio asimmetrici (i due segnati con con asimmetria equivalente; esiste quindi in quattro forme stereoisomere, due attive nella stessa misura ma di segno opposto, la destro- e la sinistrogira, e due inattive, la racemica, cioè la mescolanza delle due forme attive, scindibile, e la mesotartarica inattiva per compensazione interna o intramolecolare, non scindibile (v. stereoisomeria). Le quattro forme possono venire schematicamente così rappresentate:

Le proprietà dei quattro acidi sono pressoché identiche, essi differiscono, oltre che nel potere rotatorio, in qualche altra proprietà fisica.

I processi sintetici di formazione dell'acido tartarico forniscono in generale la forma racemica accanto a piccole quantità di mesotartarico; nelle piante è contenuto invece l'acido d-tartarico, il primo ad essere conosciuto, il più diffuso, detto anche perciò acido tartarico ordinario.

La scoperta dell'acido tartarico si deve a Scheele, che nel 1769 l'ottenne dal cremor tartaro. Nel 1822 Kestner, fabbricante di acido tartarico in Thann nei Vosgi, scoprì l'acido racemico, che fu studiato nel 1826 dal Gay-Lussac. Fu proprio l'identità di struttura e composizione di queste due forme, stabilita dal Gay-Lussac e dal Berzelius, che diede modo a quest'ultimo d'introdurre il concetto di isomeria nella scienza. Nel 1838 il Biot notava il comportamento degli acidi tartarici alla luce polarizzata e Pasteur (dal 1848 al 1853) insegnava a scindere il racemico negli acidi d- e l-tartarico, a ricomporlo da questi, e scopriva anche il mesotartarico.

Nel 1861 Kekulé realizzò una prima sintesi dell'acido racemico insieme con acido mesotartarico, partendo dall'acido succinico ricavato dall'ambra; e Jungfleisch nel 1873 completò la sintesi partendo dall'acido succinico sintetico. Altre sintesi sono state effettuate a partire dall'ossido di carbonio e dal gliossale.

Acido tartarico racemico. - Si trova nel succo di uva accanto all'acido tartarico ordinario e si ottiene, come prodotto secondario, nella fabbricazione di questo, estraendolo dalle acque madri del cremor tartaro. Viene ottenuto anche con le sintesi sopra accennate, e si forma mescolando soluzioni concentrate di quantità eguali dei due acidi d- e l-tartarico. È stato ottenuto ancora per ossidazione della mannite e della dulcite con acido nitrico, per ossidazione dell'acido fumarico e per riscaldamento dell'acido tartarico ordinario con acqua a 175°. Cristallizza con due molecole d'acqua in prismi rombici meno solubili dell'acido tartarico ordinario (1 parte in 5,8 p. di acqua a 15°). Non agisce sulla luce polarizzata. I suoi sali (racemati) sono analoghi a quelli dell'acido d-tartarico, ma i cristalli non presentano superficie emiedriche. Il suo sale di calcio è più facilmente solubile dei sali di calcio degli altri tre acidi.

Acido mesotartarico. - Si forma per ossidazione del sorbinolo e dell'eritrite inattiva con acido nitrico, per ossidazione dell'acido maleico e nelle sintesi già dette accanto all'acido racemico. Il riscaldamento dell'acido d-tartarico con acqua a 165° produce una parziale trasformazione di questo in acido mesotartarico. È molto simile al racemico; ha però una molecola d'acqua di cristallizzazione e la sua solubilità in acqua è maggiore, avvicinandosi a quella del d-tartarico (1 p. in 0,8 p. di acqua a 15°). I sali di ammonio e di potassio sono molto più solubili in acqua dei sali del d-tartarico e del racemico. Riscaldato a 200°, o a 175° con poca acqua, si trasforma parzialmente in racemico.

Acido l-tartarico. - Si ottiene dal racemico separando meccanicamente i cristalli del sale sodico-ammonico, i quali presentano una emiedria destra o sinistra secondo che appartengono al d- o al l-tartarico. È quasi completamente identico al d-tartarico; ha lo stesso peso specifico, la stessa solubilità e forma cristallina. Anche i loro sali sono molto simili e per lo più isomorfi.

Acido d-tartarico (acido tartarico ordinario). - È, come già s'è detto, uno degli acidi più diffusi nel mondo vegetale.

È quello che si trova in commercio e viene estratto industrialmente dai sottoprodotti dell'industria enologica. Il mosto d'uva fresco ne contiene o,3-1,7%; in più elevata quantità si trova nel tamarindo e nelle sorbe accanto all'acido malico. Cristallizza in grossi prismi monoclini incolori e inodori, facilmente solubili in acqua e in alcool, insolubili in etere. La solubilità in acqua, piuttosto elevata (1 p. in o,76 p. a 15°), aumenta con la temperatura.

Interessante è il comportamento ottico dell'acido d-tartarico: cristallizzato devia il piano della luce polarizzata a sinistra (per uno strato di 1 cm. di spessore

ed anche le soluzioni molto concentrate, a bassa temperatura, deviano a sinistra; al contrario, le soluzioni diluite o di media concentrazione deviano a destra (per una soluzione al

Il potere rotatorio diminuisce col crescere della temperatura e della concentrazione. Fonde a 168-170°. Ha un peso specifico = 1,76. Riscaldato fino al punto di fusione, dà luogo a una modificazione amorfa che, dopo raffreddamento, si rapprende in una massa gommosa e igroscopica. Innalzando ancora la temperatura, elimina acqua e forma acido ditartrilico C8H10O11 e anidride tartarica C4H4O5 insolubile, che per ebollizione con acqua ridanno l'acido tartarico. Per distillazione secca o per ebollizione con soluzioni diluite di acido o alcali, fornisce acido pirotartarico ed acido piruvico assieme ad altri prodotti. Per ossidazione forma sostanze diverse: con H2O2, in presenza di piccole quantità di sali ferrosi e alla luce solare, dà acido diossimaleico, con un miscuglio di acido nitrico e P2O5, acido tartronico. La fermentazione batterica del suo sale ammonico conduce all'acido succinico; l'acido iodidrico lo riduce ad acido malico e acido succinico. Per elettrolisi delle sue soluzioni acquose si formano gli acidi carbonico e acetico. Riduce le soluzioni ammoniacali d'argento con formazione di pellicola metallica speculare.

Metodi di fabbricazione. - L'acido tartarico può essere prodotto per ossidazione energica di alcuni idrati di carbonio, azione dell'acido nitrico sul lattosio, sul glucosio o sull'amido, da quest'ultimo con maggior rendimento. Interessante è l'ossidazione del glucosio in presenza di catalizzatori organici (ossidasi e perossidasi), con la quale si ottiene la trasformazione del 45% del glucosio in acido tartarico. Lo si può ottenere anche dall'acido saccarico, sottoponendolo ad elettrolisi in soluzione acida o a trattamento con acqua ossigenata o perossido di bario. Anche dagli acidi fumarico o maleico per ossidazione con bromo o cloro si potrebbe ottenere acido tartarico.

Tutti questi metodi o processi, per quanto alcuni coperti da privativa, non sono ancora penetrati nella pratica tecnica, per la maggior convenienza di estrarre l'acido tartarico dai prodotti secondarî dell'industria enologica.

Complessivamente, l'uva contiene 2 kg. di acido tartarico, calcolato come bitartrato, per quintale. Di questi, 1 kg. rimane nelle vinacce spremute dopo la fermentazione principale e 1 kg. nel vino. Il vino, durante la successiva fermentazione lenta e nel periodo invernale, lascia separare altro materiale tartarico: nelle fecce per effetto della minore solubilità dei materiali tartarici col crescere del grado alcoolico, e nei tartari di botte, cioè nei depositi che si formano durante il periodo invernale sulle pareti interne delle botti, per effetto della minore solubilità con l'abbassarsi della temperatura.

Le vinacce, le fecce, i tartari di botte costituiscono appunto le materie prime per la fabbricazione dei prodotti tartarici destinati al consumo.

Le vinacce rappresentano la parte solida e semisolida dell'uva dopo la pigiatura (circa il 30%); esse sono costituite dai vinaccioli (semi), dai raspi (parte legnosa), e dalle bucce. La loro composizione, e quindi il loro valore, varia con la natura dell'uva e la sua maturazione, ma soprattutto col sistema di vinificazione. Il bitartrato potassico o cremore è molto meno solubile nei liquidi alcoolici che in quelli acquosi, in modo che la ricchezza tartarica della vinaccia è tanto maggiore quanto più elevato era il grado alcoolico del vino, e quanto più a lungo la vinaccia fu tenuta in contatto col liquido in fermentazione.

L'utilizzazione industriale delle vinacce mira a ricavarne l'alcool componente del vino di cui sono impregnate, e il bitartrato potassico. La difficoltà principale della lavorazione dipende dall'alterabilità, che le ossidazioni o fermentazioni determinano distruggendo l'alcool e l'acido tartarico. A evitare ciò, è buona norma lavorare le vinacce quanto più rapidamente è possibile dopo la spremitura e comunque conservarle in apposite fosse o in silo con speciali cure, allontanandone la parte già alterata e impedendo o riducendo al minimo possibile il contatto con l'aria.

La difficoltà di trasportare le vinacce e concentrarle presso i centri industriali fa sì che la loro lavorazione sia fatta ovunque con sistemi più o meno rudimentali e primitivi. In apparecchi di distillazione viene anzitutto estratto l'alcool, e successivamente i residui legnosi sono sottoposti all'estrazione del bitartrato per trattamento con acqua calda, dalla quale per raffreddamento cristallizza il 70-80% del bitartrato che vi è contenuto. Il tartaro grezzo così ottenuto viene inviato alle fabbriche di acido tartarico.

Le fecce sono il materiale melmoso di colore rosso mattone sporco, che il vino deposita col procedere della fermentazione. È un materiale ricco in fermenti, materie coloranti e tanniche; fresco contiene il 50%, in peso, di vino, mentre il contenuto in prodotti tartarici è vario e oscilla tra il 10-25% di cremor tartaro e il 6-20% di tartrato di calcio.

Le fecce appena allontanate dal vino s'introducono in appositi sacchi filtranti che, opportunamente legati e sospesi, lasciano scolare il vino contenuto, vengono quindi spremute in un torchio e in ultimo essiccate all'aria. Le fecce secche contengono circa il doppio di materiali tartarici di quelle umide. Qualche industria enologica progredita filtra la feccia umida in appositi filtri e la essicca in correnti d'aria calda.

Il tartaro o grume di botte è il materiale tartarico più ricco; esso contiene dal 40 all'80% di bitartrato potassico e tartrato di calcio. Così come si estrae dalle botti, viene essiccato all'aria e inviato alle fabbriche di materiali tartarici.

Fabbricazione dell'acido tartarico. - La fabbricazione dell'acido tartarico dai materiali tartarici grezzi è eseguita secondo il concetto generale di fabbricazione degli acidi organici, consistente nel separare l'acido organico sotto forma di sale insolubile, ordinariamente sale di calcio, decomporre questo con acido solforico, e sottoporre la soluzione acida a purificazione e cristallizzazione.

Si possono trattare le materie tartariche grezze con un acido inorganico forte, ordinariamente il cloridrico, in modo da portare in soluzione tutto l'acido tartarico e dalla soluzione acida si precipita poi l'acido tartarico, neutralizzandolo con latte di calce.

Poiché una parte dell'acido tartarico rimane nella soluzione neutralizzata sotto forma di tartrato neutro di potassio solubile, occorre, per la sua precipitazione, aggiungere cloruro o solfato di calcio.

Il tartrato di calcio così ottenuto viene lavato con acqua calda e poi sottoposto all'arrostimento o torrefazione a 160°-180° in appositi cilindri di ferro girevoli, o alla cottura in autoclavi di rame a 5-6 atmosfere.

L'arrostimento e la cottura hanno lo scopo di coagulare e insolubilizzare le impurezze di natura proteica presenti e rendere più facili le operazioni di filtrazione e lavaggio. Dalle materie tartariche si può anche separare l'acido tartarico, senza impiego di acido minerale. Esse vengono sottoposte a una preventiva sterilizzazione per riscaldamento a 110-120°, quindi sospese in acqua, e addizionate a caldo con latte di calce e cloruro di calce. Si lascia depositare il tartrato di calcio che viene sottoposto a 6-7 lavaggi per decantazione.

Il tartrato di calcio, in qualunque modo ottenuto, viene scomposto con acido solforico secondo l'equazione:

L'operazione viene eseguita in tini di legno rivestiti di piombo e muniti di agitatore e serpentino per il riscaldamento diretto. Entro tali tini si sospende il tartrato di calcio in 5-6 volte il suo peso di acqua, si introduce acido solforico a 60° Bé in leggerissimo eccesso, e si riscalda lentamente fino all'ebollizione. Si filtra in filtri-pressa e si lava sistematicamente la focaccia di gesso. La soluzione tartarica così ottenuta ha una densità in 10-12 Bé con un contenuto di acido tartarico del 15-25%; essa contiene inoltre acido solforico libero, gesso disciolto e numerose impurezze di natura organica e inorganica: ferro, magnesio, alluminio, potassio, acido fosforico, cloridrico, ecc. La soluzione viene concentrata in apparecchi a vuoto, di piombo indurito o rame piombato, muniti di agitatore, fino a che s'inizia la formazione dei cristalli (40-42 Bé), dopo di che viene scaricata in vasche di legno rivestite di piombo e munite di agitatori, dove viene lasciata raffreddare lentamente sotto leggiero e continuo movimento per circa tre giorni, durante i quali si vanno formando piccoli cristalli notevolmente impuri di acido tartarico (granulati).

La massa fredda viene quindi sottoposta a centrifugazione, in modo da separare le acque madri dai cristalli. Le acque madri si concentrano ulteriormente fino a nuova granulazione e così per tre volte consecutive; in ultimo si trattano con calce e il tartrato di calcio ottenuto rientra in lavorazione insieme con tartrato fresco.

I cristalli di acido tartarico invece si sciolgono in poca acqua calda, la soluzione viene trattata con carbone attivo, ferrocianuro di calcio, solfuro di bario, ecc., per decolorarla e allontanare le impurezze come ferro, acido solforico, piombo, e sottoposta a lenta cristallizzazione possibilmente in celle frigorifere.

Usi. - L'acido tartarico libero è adoperato in grandi quantità per la preparazione di limonate, succhi e conserve di frutta, polveri e sali effervescenti, nell'industria enologica, come mordente nella stampa dei tessuti, ecc.

Dei suoi derivati adoperati nell'industria il più importante è il tartrato acido di potassio o cremor tartaro, che viene fabbricato come è descritto appresso, il tartrato monoetilico usato nella stampa dei tessuti per sciogliere l'indulina, il tartrato di antimonile e potassio o tartaro emetico, assai usato come mordente nell'industria delle lacche colorate e in medicina, il tartrato sodico-potassico o sale di Seignette, largamente usato in chimica analitica nel liquido di Fehling.

Fabbricazione del tartrato acido di potassio o cremor tartaro. - Il cremor tartaro e il tartrato di calcio rappresentano le due forme sotto le quali è contenuto l'acido tartarico nei vegetali. L'estrazione del cremor tartaro dai materiali tartarici grezzi già descritti comprende tre operazioni: 1. separazione delle impurezze; 2. trasformazione del tartrato di calcio in tartrato acido di potassio; 3. purificazione dei cristalli grezzi. Le prime due operazioni vengono di norma eseguite contemporaneamente su materiali già torrefatti o riscaldati in autoclave per decomporre gli albuminoidi e agevolare le operazioni di filtrazione. I materiali tartarici vengono introdotti in tini e trattati con la quantità di acqua sufficiente a sciogliere a 90-95° tutto il bitartrato potassico; si aggiunge contemporaneamente la quantità di bisolfato potassico (o solfato potassico e acido cloridrico o solforico) sufficiente per trasformare il tartrato di calcio in bitartrato potassico, si fa bollire, si filtra a caldo, si abbandona il liquido alla cristallizzazione. Le acque madri si tornano ad usare per successive estrazioni, i cristalli si sciolgono in acqua calda, la soluzione si decolora con carbone attivo, si precipita il ferro con ferrocianuro potassico, si filtra e sottopone a cristallizzazione.

Altri processi sono stati proposti e applicati per la produzione del tartrato, che differiscono dal precedente perché invece del calore per portare in soluzione il tartaro si adoperano mezzi alcalini, come il carbonato sodico (a freddo o a caldo) in modo da trasformare il tartrato acido insolubile in tartrato neutro solubile, e dalle soluzioni alcaline ottenute viene riprecipitato il tartrato per aggiunta di acidi. La purificazione dei cristalli ottenuti procede come nel caso precedente.

Usi. - Il cremor tartaro si usa molto in tintoria, nelle tinte solide tra lana e seta, nella mordenzatura al bicromato, ecc. In Inghilterra e negli Stati Uniti trova largo uso per la preparazione delle "baking powders" che servono per facilitare la panificazione, e rendere il pane più soffice e gonfio.

Farmacologia. - L'azione delle quattro forme isomere dell'acido tartarico sugli organismi animali superiori è diversa. R. Chabrié stabilì che la tossicità aumenta progressivamente nell'ordine: mesotartarico, racemico, destrogiro, levogiro. Questa differenza corrisponde alle diverse proprietà che hanno i varî acidi di fissare il calcio-ione. Siccome il calcio è necessario alla coagulazione del sangue (L. Sabbatani) gli acidi tartarici la rallentano immobilizzando il calcio-ione; però ciò accade in modo diverso. Analisi sulla precipitazione del calcio con i varî acidi tartarici da soluzioni di carbonato di calcio in acqua satura di anidride carbonica hanno confermato l'esistenza di questa differenza (M. Chiò).

La Farmacopea Ufficiale Italiana (1929) registra: il tartrato di antimonio e di potassio o tartaro stibiato o tartaro emetico

dal quale si prepara l'unguento di tartrato d'antimonio e di potassio o unguento stibiato (unguentum tartari stibiati: tartrato d'antimonio e di potassio gr. 20, lanolina o vaselina gr. 80); il tartrato di potassio neutro o tartaro bipotassico o tartaro solubile

il tartrato borico-potassico o borotartrato di potassio o cremore di tartaro solubile (tartarus boraxatus); il tartrato ferrico-potassico o tartrato di potassio e ferro (tartarus ferratus [K (FeO) C4H4O6)]; il tartrato di potassio acido o cremore di tartaro o bitartrato di potassio o tartrato monopotassico

il tartrato sodico-potassico o tartrato di sodio e di potassio o sale di Seignette

L'acido tartarico ordinario è il destrotartarico, che s'usa come rinfrescante e dissetante. Dei sali di questo acido il borotartrato di calcio fu proposto come sedativo contro l'epilessia; il tartrato neutro di potassio è diuretico e lassativo blando; il bitartrato di potassio o cremor di tartaro si adopera come bibita rinfrescante nei processi febbrili; il tartrato sodico-potassico, detto anche sale di Seignette o di Rochelle, purgante e diuretico e il tartrato borico-potassico (boratartrolo-etos) a cui si sono attribuite proprietà antigottose e lassative, ecc. Dosi alquanto elevate di questi sali possono essere dannose per il cuore e per i reni.

Il tartaro stibiato o tartrato di antimonio e di potassio, è noto anche col nome di tartaro emetico. Preparato forse per la prima volta dal monaco Basilio Valentino (v. alchimia, II, p. 243); autore del Currus triumphalis antimonii, fu vantato da Paracelso e dagli alchimisti del Cinquecento. Introdotto in medicina dagli iatrochimici destò le ire dei medici galenisti che lo considerarono come un potentissimo veleno. Guido Patin e altri autorevoli membri della Facoltà medica di Parigi riuscirono a far espellere dalla facoltà stessa i colleghi che ordinavano preparati d'antimonio e a privarli anche del diritto di esercitare la professione. I preparati d'antimonio, che tornarono in favore come controstimolanti ai tempi del Rasori, sono caduti poco alla volta, ma ingiustamente, in dimenticanza.

Nella terapia moderna il tartaro stibiato si usa, di rado, come emetico da solo o associato all'ipecacuana. Il vomito è d'origine riflessa; dovuto cioè a stimolo delle terminazioni nervose gastriche, non ad azione sul centro. Per uso esterno, applicato in pomata sulla pelle, determina eruzioni pustolose ed è talora usato come derivativo, nelle pleuriti, nelle bronchiti e nevralgie: per infezione endovenosa ha trovato utile impiego nel kala-azar e nelle altre leishmaniosi nonché in varie malattie infettive proprie dei paesi caldi, ma si manifestano non di rado anche nell'Italia meridionale (U. Gabbi e altri).