ACCUMULATORE

Enciclopedia Italiana (1929)

ACCUMULATORE (fr. accumulateur; sp. acumulador; ted. Akkumulator o Sammler; ingl. accumulator)

Filippo NERI
Michele LO PRESTI

Genericamente si designa con questo nome ogni apparecchio atto a raccogliere o accumulare energia.

In pratica, si usano due tipi di accumulatori, diversissimi tra di loro: gli elettrici e gl'idraulici.

Accumulatori elettrici.

1. a) Gli accumulatori elettrici o pile secondarie sono organi suscettibili d'immagazzinare dell'energia elettrica all'atto della carica, di conservarla per un tempo più o meno lungo sotto forma di energia potenziale chimica, per restituirla più o meno integralmente allorché ad essi si richiede (all'atto della scarica).

Sostanzialmente un accumulatore consiste sempre di due elettrodi, l'uno positivo, negativo l'altro, immersi in un elettrolito che nei tipi in uso è una soluzione acida o alcalina. Durante la carica, che si compie facendo passare la corrente elettrica dall'elettrodo positivo al negativo, i prodotti della decomposizione elettrolitica della soluzione agiscono sugli elettrodi, alterandone più o meno profondamente la costituzione. All'atto della scarica, l'elemento si comporta precisamente come una pila primaria, la forza elettromotrice della quale è legata alla tonalità termica della reazione chimica secondo il concetto di Thomson, o alle tensioni di dissoluzione dei prodotti formatisi agli elettrodi, secondo quello di Nernst. Ben inteso che, per condurre a risultati praticamente sfruttabili, le reazioni che avvengono nell'interno dell'elemento debbono essere in massima parte reversibili; in altre parole, se all'atto della scarica la sostanza Ac dell'elettrodo positivo si trasforma in As, la sostanza Bc costituente quello negativo si trasforma in Bs e l'elettrolito da Cc passa allo stato Cs, allorquando si procede alla carica la maggior parte della sostanza As deve ritrasformarsi in Ac Bs in Bc e Cs in Cc.

In armonia con le leggi fondamentali della elettrochimica, per un dato tipo di reazione, le quantità di sostanze che vi partecipano sono legate da relazioni di semplice proporzionalità alle quantità di elettricità in gioco.

2. a) I fenomeni che avvengono in un accumulatore, non sono, intesa questa notazione nel modo più generale, perfettamente reversibili; vi è una categoria di questi fenomeni i quali sono in modo particolare legati alle operazioni elettrochimiche, altri che si possono riguardare più propriamente come una degradazione dell'energia (trasformazione dell'energia elettrica in calore per effetto della resistenza interna dell'elemento); i primi fanno sì che non tutta la quantità di elettricità che all'atto della carica si consegna ad un accumulatore possa poi essere restituita alla scarica; laddove entrambe le categorie di fenomeni irreversibili concorrono a diminuire la quantità di energia che l'accumulatore può dare, in confronto di quella che si è dovuta spendere per caricarlo. In relazione a questi fatti, si fa luogo, praticamente, a considerare due rendimenti dell'accumulatore, quello (ηq) in quantita di elettricità, e quello (ηw) in quantità di energia. Indicate genericamente con Q e W le quantità di elettricità e di energia rispettivamente, e riservando l'indice s alla scarica, e l'indice c alla carica, essi vengono definiti dalle relazioni:

Alla quantità Qs si riserva in pratica il nome di capacità in quantità di elettricità (o, brevemente, capacità) dell'elemento (o della batteria), e la si esprime normalmente in Ampère-ora (Ah); e alla grandezza W si può dare quello di capacità in quantità di energia ed esprimerla in Watt-ora, o kilowatt-ora (Wh o kWh).

Con riferimento alla determinazione pratica di queste grandezze, indicate genericamente con I le correnti, con V le differenze di potenziale ai morsetti, con T il tempo, esse vengono definite dalle espressioni

È bene richiamare l'attenzione sul fatto che, ad evitare equivoci, è indispensabile stabilire con precisione che cosa si debba intendere per tempo di carica (Tc) e tempo di scarica (Ts); normalmente l'uno e l'altro vengono definiti da particolari valori della forza elettromotrice (fem) o della tensione dell'elemento (v. 5 c).

Notiamo ancora incidentalmente che il rendimento in energia ηw è grandemente influenzato dalla resistenza interna dell'elemento; si tenga invero presente che energia si dissipa in essa tanto alla carica che alla scarica, onde un suo incremento anche non grande, diminuendo il numeratore e aumentando nel medesimo tempo il denominatore nella espressione che lo definisce, ne riduce notevolmente il valore.

b) È chiaro come, a parità di tutti gli altri elementi, specie in quei casi in cui una batteria di accumulatori debba rendersi trasportabile, tanto più conveniente essa risulterà, quanto più leggiera (o meno ingombrante). Per le valutazioni tecniche ed economiche si fa allora luogo a considerare e definire le caratteristiche specifiche dell'elemento, cioè capacità ed energia, riferite all'unità di peso (o eventualmente di volume).

Allo stato attuale delle cose occorre riconoscere che, per questo rispetto, la soluzione di produrre forza motrice col sistema accumulatori-motore elettrico è nettamente inferiore, per potenze di una certa entità, agli altri sistemi di cui la tecnica dispone (motori a vapore, a combustione interna e simili); molti, notevoli, e forse radicali, progressi sono ancora da fare su questa strada. Come norma generale, la via da battere può essere sostanzialmente identificata con quella che conduce alla determinazione di reazioni reversibili che, avvenendo fra sostanze di basso peso equivalente, abbiano una tonalità termica il più possibile elevata (v. 1 a) e lascino possibilmente inalterata la composizione dell'elettrolito.

La convenienza delle prime condizioni è evidente, se si fa riferimento alle leggi fondamentali dell'elettrochimica nonché a quella di Thomson (v. 1 a); quanto all'ultima, si osservi che, se essa è rispettata, non essendovi più un minimo necessario nella quantità di elettrolito affinché le reazioni si compiano in modo completo, la quantità stessa, che grava in modo non indifferente sul peso totale dell'elemento, può essere ridotta, ove non ostino difficoltà di altra natura, al limite sufficiente ad assicurare il passaggio della corrente da un elettrodo all'altro (vedansi i paragrafi 5b; 6a; 6c).

Questo in via teorica; ché, praticamente, non si può prescindere né dalle caratteristiche del supporto atto a contenere le sostanze attive, né da altri fattori, come, p. es., i pesi specifici, la compattezza, il rendimento in energia, il costo, la durata e altri più propriamente inerenti alla qualità del servizio richiesto.

3. a) Il tipo di elemento industriale di gran lunga più adoperato in pratica è quello cosiddetto a piombo. Il primo esemplare di questi accumulatori si deve a Gastone Planté (1859), il quale costruì gli elettrodi con due sottili lastre di piombo, separate tra loro da strisce di guttaperca arrotolate sì da formare, per ovvie ragioni di economia di spazio, un elemento cilindrico (fig. 1), il quale era poi immerso in un recipiente contenente acido solforico in acqua nella proporzione del 10% circa. Prima di poter essere praticamente usato, l'elemento aveva bisogno di una serie di operazioni di formazione, le quali consistevano essenzialmente in un seguito di cariche periodicamente invertite, e successive scariche; le une e le altre, attraverso i processi elettrochimici di cui è parola in seguito, avevano lo scopo essenziale di trasformare gli strati superficiali del piombo, costituente inizialmente gli elettrodi, in sostanze attive delle quali l'elettrodo originario stesso veniva a costituire, allora, il supporto, e di aumentare via via lo spessore degli strati stessi sino a quando essi, e quindi la quantità di sostanze partecipanti alle reazioni, non fossero sufficienti ad assicurare una capacità praticamente accettabile all'elemento (v. 2 a).

b) Il processo di formazione, così come veniva praticato dal Planté, risultava necessariamente lungo; ma era logico venisse l'idea di disporre alla superficie degli elettrodi di piombo, se non proprio addirittura un conveniente strato di quelle sostanze che presumibilmente vi si trovavano a formazione ultimata (PbO2 al positivo, Pb spugnoso al negativo: v. 5 a), delle sostanze che, con maggiore facilità che non il piombo, potessero in esse trasformarsi, attraverso una o poche operazioni di carica.

È questa l'idea che Camillo Faure (1881), assistente dello stesso Planté, realizzò, disponendo alla superficie dei due elettrodi di piombo uno strato compresso di ossido (precisamente Pb3O4 sul positivo, PbO sul negativo), tenuto in posto con feltri o altri setti porosi. Nei primi elementi Faure, nei quali effettivamente il periodo di formazione veniva assai abbreviato, era ancora mantenuta, per gli elettrodi, la tipica disposizione originaria del Planté. A questa si rinunciò successivamente, per ragioni costruttive e pratiche, e si venne alla disposizione ancor oggi universalmente adottata, della suddivisione degli elettrodi, prima unici, in più placche (o piastre) piane, tra loro connesse elettricamente, come è schematicamente indicato, in pianta, alla fig. 2; cioè si hanno le placche positive alternate con le negative, tutte le prime e tutte le seconde essendo poi riunite fra di loro a formare il polo + e il polo − dell'elemento. La distanza tra le placche adiacenti è mantenuta da appositi spessori o diaframmi isolanti di vetro, ebanite ondulata e perforata (fig. 2) ecc., a seconda dei costruttori e anche delle sollecitazioni meccaniche più o meno energiche, alle quali l'elemento può essere assoggettato durante l'esercizio. Il tutto è immerso nell'elettrolito, contenuto in un recipiente rettangolare, che, a seconda dei casi, può essere di vetro, di ebanite, di celluloide o di legno foderato di piombo e verniciato. Una certa distanza va tenuta tra il fondo inferiore del recipiente e le placche, per dar modo alle sostanze che cadono dagli elettrodi durante il funzionamento (v. 5 f), di raccogliervisi, senza provocare corti circuiti fra gli elettrodi stessi.

c) Molti brevetti, alcuni veramente ingegnosi, seguirono alla scoperta del Faure. Erano essi tutti intesi a perfezionare e a rendere costruttivamente semplice ed efficace il modo di fissare la pasta attiva alle placche di piombo (placche impastate) e soprattutto di tenerla in posto durante il funzionamento normale. Si tratta quasi sempre di reticolati o celle, ricavate di fusione sulla placca di piombo vergine, con le pareti più o meno tormentate, più o meno ingegnosamente sagomate, nelle quali viene compressa, all'atto della fabbricazione, la pasta attiva. Più raramente, sono pastiglie di sostanza attiva, che vengono predisposte nella forma, nella quale si fa poi la colata di piombo. La fig. 3, ci mostra alcune fotografie di alcuni fra gl'innumerevoli tipi di placche Faure del commercio; essa può dare un'idea della loro costituzione; da qualche cella è stata asportata la materia attiva, per mostrare con maggiore chiarezza la loro conformazione.

Gli impasti che si adoperano per le placche di tipo Faure sono di diversissimi tipi, a seconda dei fabbricanti; più generalmente si tratta di ossidi di piombo (minio, litargirio, perossido, ecc.) mescolati in proporzione diversa tra loro, e impastati con acido solforico, diluito o no, il quale, reagendo chimicamente con l'ossido inferiore, forma a sua volta del solfato; qualche volta si uniscono delle sostanze inerti che, eliminate poi in un modo o nell'altro, contribuiscono a dare porosità alla massa.

All'operazione preliminare d'impastatura segue la formazione, la quale consiste sostanzialmente in una carica eseguita in acido solforico diluito, facendo agire la placca da formare da anodo o da catodo, in guisa che le miscele di ossidi e di solfato di piombo si trasformino rispettivamente, e in modo quasi completo, o in perossido o in piombo spugnoso. La fig. 4, a, b, mostra molto chiaramente come varî, durante la formazione, la proporzione dei singoli componenti dell'impasto, in una placca negativa e in una positiva rispettivamente.

d) Come si vedrà più innanzi (5 f), le placche Faure compensano i vantaggi della rapida ed economica formazione e del peso relativamente limitato, con l'inconveniente di una durata relativamente breve. Il fenomeno è particolarmente sentito per le placche positive (v. 5 f), tanto che per esse molti costruttori, specie per gli elementi stazionarî, cioè quando la riduzione del peso non abbia importanza preminente come nel caso di quelli trasportabili, sono ritornati alla formazione Planté, rivolgendo invece gli studî ad aumentare, con artifizî diversi, la superficie della placca interessata dalle reazioni (placche a superficie). Tali artifizî consistono oggi esclusivamente nel munire la placca di nervature o alette, ottenute o partendo da una lastra liscia di spessore adeguato e lavorandola con appositi utensili taglienti, come nel tipo Maiert (fig. 5), o direttamente con la fusione della placca in apposita forma metallica (fig. 6), oppure costituendo l'intera piastra con una serie di elementi riuniti fra loro con saldatura autogena e ottenuti per trafilatura (fig. 7).

Non sarebbe difficile, con questi artifizî, ottenere delle superficie utili di placca anche venti volte maggiori di quelle che corrispondono alle dimensioni laterali; solitamente però questo rapporto non supera 10 per non giungere a nervature eccessivamente sottili, e perdere così il principale vantaggio delle placche Planté, cioè quello della loro maggior durata (v. 5 f).

La formazione delle placche a superficie, cioè la trasformazione degli strati superficiali di piombo dolce in perossido e in piombo spugnoso, è conseguita industrialmente in più modi. Il sistema Planté propriamente detto consiste nel sottoporre le placche di piombo a più cariche e scariche successive in soluzione acquosa di acido solforico, invertendo di tanto in tanto il senso della corrente; esso riesce relativamente lungo e costoso, ma può essere sostanzialmente abbreviato, riducendosi ad una sola le operazioni di carica, introducendo nell'elettrolito una sostanza (acido nitrico o nitrati alcalini), la quale fornisca un anione facilmente separabile, e che, in presenza dell'acido solforico, sia atto a produrre uno strato sufficientemente spesso di solfato alla superficie della piastra; solfato che viene in seguito perossidato o ridotto (v. 5 a). Si può anche, invece, procedere per via chimica, trattando le lastre di piombo dolce con un reagente (p. es. acido nitrico), il quale formi alla superficie uno strato sufficientemente grande di un sale o ossido di piombo facilmente poi trasformabile in perossido o in piombo spugnoso mediante carica in soluzione acquosa di acido solforico. Si può infine, elettrolizzando soluzioni di sali di piombo opportunamente scelti, e con speciali modalità di esecuzione, produrre direttamente sulle placche depositi di perossido e di piombo spugnoso; nel qual caso, in via di principio, si ha il vantaggio che il deposito stesso non avviene più, come nei casi precedenti, a spese di una equivalente quantità di piombo dolce sottratto alle nervature delle stesse placche in formazione. I sistemi oggi preferiti sono però i primi due.

e) Alle due categorie di placche esaminate, Faure e Planté, ne va aggiunta una terza, quella delle cosiddette placche miste, le quali non sono altro, in sostanza, che placche Faure, in cui, essendo le celle relativamente piccole ed i setti che le separano piuttosto spessi, la superficie esterna di questi ultimi a contatto con l'elettrolito rappresenta una parte ragguardevole dell'area totale, e perciò esse partecipano ad un tempo delle proprietà delle placche impastate e di quelle a superficie.

f) All'elettrolito si dà oggi una concentrazione maggiore di quella data originariamente dal Planté (v. 3 a); si sta di solito verso il 30÷35% di acido solforico (25÷30 Bé, e peso specifico 1,22÷1,26) a fine carica (v. 5 b); non converrebbe spingere la concentrazione massima oltre questi limiti, perché, se da una parte la fem dell'elemento subirebbe un incremento (v. 5 c), dall'altra non solo si potrebbero avere dei fenomeni di corrosione delle placche, ma ci si allontanerebbe anche dalle condizioni di minima resistenza interna e quindi di massimo rendimento in energia dell'elemento (v. 2 a), presentando appunto la curva di resistività dell'elettrolito, nelle vicinanze di questi valori, un minimo assai marcato (fig. 8).

4. a) Gli sforzi d'innumerevoli inventori sono stati, in tutti i tempi, diretti alla ricerca di un tipo di accumulatore il quale riuscisse più leggiero, a parità di tutte le altre condizioni, che non quello a piombo, descritto nel paragrafo precedente: atteso l'enorme interesse industriale della cosa, è naturale come un numero relativamente grande di soluzioni siano state, in tempi diversi, proposte. Poche, peraltro, hanno retto al severo collaudo dell'esercizio pratico; rammentiamo solo, tra questi ultimi tipi, per le sue proprietà veramente preziose in alcune particolari applicazioni, l'accumulatore che va sotto il nome di Edison.

L'elettrolito è qui alcalino (soluzione al 20÷25% di potassa addizionata con piccola quantità di litina), e gli elettrodi sono costituiti così: quello positivo, con perossido di nikel idrato, con aggiunta di potere di nichel la quale ha il solo scopo di diminuire la resistenza ohmica della pasta attiva, di per sé relativamente elevata; quello negativo, con ferro e protossido di ferro. La maniera di contenere la materia attiva varia da fabbricante a fabbricante. In alcuni tipi essa è contenuta in tubi di acciaio (nichelato) traforati, del diametro di circa 7 mm. per le placche positive, in piccole celle rettangolari pure di acciaio (nichelato), sempre traforato, per le negative; tubi e celle essendo poi fortemente incastrati in sottili intelaiature di acciaio (nichelato) a formare rispettivamente elettrodi positivi e negativi dell'elemento. In altri tipi più recenti si è abbandonata la diversità di costruzione dei due elettrodi che vengono invece costituiti entrambi a celle, le quali sembrano assicurare al complesso una maggiore compattezza meccanica. Nella fig. 9 è rappresentata a sinistra l'intelaiatura di una di queste placche, con una cella in posto; a destra la piastra completa. L'insieme degli elettrodi è poi immerso in un recipiente, pure di acciaio (nichelato), contenente l'elettrolito (fig. 10).

5. a) Non tutti sono d'accordo circa le reazioni che avvengono all'atto della carica e della scarica nell'interno di un elemento a piombo. La cosiddetta teoria della doppia solfatazione è però ancora quella che sembra render conto nel modo migliore per lo meno della parte principale dei fenomeni. L'equazione globale reversibile che riassume il comportamento dell'accumulatore, secondo questa teoria, dovuta a Gladstone e Tribe (1882), si scrive:

La fem, calcolata in base alla tonalità termica relativa a questa reazione, coincide sensibilmente con quella dedotta per via sperimentale.

Allo stato di carica, cioè, al polo positivo la materia attiva sarebbe in massima parte costituita da biossido di piombo, a quello negativo da piombo spugnoso; laddove, ad accumulatore scarico, entrambe queste sostanze si sarebbero trasformate quasi interamente in solfato (donde il nome della teoria).

b) Dalla equazione sopra scritta risulta chiaramente come l'elettrolito varii la propria concentrazione in funzione dello stato dell'elemento; e precisamente il peso specifico del liquido ad accumulatore carico è maggiore che non ad accumulatore scarico.

Si può ritenere che peso specifico dell'elettrolito e quantità di elettricità siano tra loro legate da una semplice relazione lineare; perciò il rilevare lo stato di carica di una batteria da una misura di densità è cosa estremamente semplice, ove, naturalmente, del peso specifico dell'elettrolito si conoscano, per quella determinata batteria, i valori estremi, a fine scarica e a fine carica. Così, p. es., per misure precedentemente eseguite si sappia che l'elettrolito di una batteria ha peso specifico 1,15 e 1,20 rispettivamente a fine scarica e a fine carica. Se, ad un determinato istante, essendo la batteria in riposo da qualche tempo (per aver dato modo al liquido di assumere in tutti i suoi punti la medesima concentrazione: v. 5 c), una determinazione di peso specifico (che si eseguisce con densimetri costruiti appositamente di forma appiattita, talché si possano agevolmente introdurre nei recipienti che contengono le placche) dà il valore di 1,18, si può dire che dalla batteria si sono scaricati circa i

della capacità totale, rimanendo dunque in essa utilizzabili i restanti

Il fatto che l'elettrolito partecipa alle reazioni è peraltro uno svantaggio, dal punto di vista della leggerezza dell'elemento (v. 2 b).

c) Il comportamento pratico dell'elemento a piombo si può, per quel che riguarda le tensioni in gioco, riassumere in diagrammi del tipo di quelli rappresentati nella fig. 11, dove in ascisse sono riportati (in ore) i tempi di carica o di scarica, in ordinate le tensioni ai morsetti dell'accumulatore, supponendo che carica e scarica siano fatte sotto una determinata intensità costante. La tensione media di scarica può assumersi in 1,9 V.

All'atto della carica, la tensione, dopo un rapido accrescimento non ingente quantitativamente, sale con lentezza per un tempo relativamente lungo; poi l'ascesa diviene più rapida, e si giunge, dopo una nuova diminuzione nel gradiente, al valore di 2,7÷2,75 V (punto A). Il raggiungimento di questa tensione è accompagnato da uno sviluppo ingente di gas, e segna, praticamente, la fine della carica. Se, a questo punto, il circuito dell'accumulatore viene aperto e l'elemento abbandonato a sé, la sua tensione discende rapidamente dal valore raggiunto fino a poco più di 2 V (curva a tratti). All'atto della scarica, dal valore di circa 2,05 V, che può considerarsi come il valor medio della tensione di riposo dell'elemento, si discende, lentamente in principio, un po' più rapidamente poi, fino al valore di 1,75÷1,8 V, raggiunto il quale l'accumulatore può considerarsi praticamente scarico (punto B). Anche qui per altro conviene osservare che se, raggiunto il valore minimo al quale si è accennato, si abbandona l'elemento a sé, la sua tensione (parte tratteggiata della curva di scarica) risale rapidamente ad un valore un po' superiore ai 2 V. Tanto questo fenomeno quanto l'altro che si verifica all'atto della carica sembrano in massima parte dovuti al fatto che, col tempo, ove si cessi la somministrazione o la erogazione della corrente, la densità della soluzione acida che aveva prima valori diversi da punto a punto (precisamente era più concentrata in vicinanza degli elettrodi e nell'interno dei pori della massa attiva all'atto della carica, lo era meno alla scarica), rapidamente in principio, più lentamente in seguito, com'è logico, per naturale diffusione, assume un valore medio eguale in tutti i punti. Occorre invero tener presente che la fem dell'elemento è influenzata dalla densità dell'elettrolito; e precisamente cresce al crescere di questa (detto g il numero di grammi di H2SO4 per litro, E la fem dell'elemento, si avrebbe, secondo determinazioni di Streinz: E = 1,850 + 0,00057 g). I fenomeni accennati mostrano come sia praticamente impossibile l'accertarsi dello stato di carica di una batteria in riposo con una misura di tensione; non v'è, all'uopo, che sfruttare il fenomeno di variazione di densità dell'elettrolito di cui si è prima detto (v. 5 b).

d) Circa la capacità (v. 2 a) di un elemento o di una batteria a piombo, conviene osservare che essa, per la medesima batteria, definiti, come precedentemente si è detto, gl'istanti di fine carica e fine scarica (e quindi il tempo Ts), non è una costante, ma varia eminentemente col variare del regime di scarica. Come regola generale, si tenga presente che, a pari modalità di carica, la quantità di elettricità che un determinato elemento può fornire è tanto più grande, quanto più lenta è la scarica.

Più precisamente si possono (Peukert) stabilire tra le grandezze Is, Ts, Qs (§ 2, a) le seguenti relazioni (empiriche) ricavabili una dall'altra:

N (e quindi m) varia col tipo di elemento (praticamente n = 1,3 ÷ 1,6), k con la sua grandezza. È bene però avvertire subito ed esplicitamente che le relazioni soprascritte debbono intendersi valide, e atte pertanto a fornire risultati praticamente accettabili, solo entro quei limiti di regime di scarica, che ciascun costruttore consiglia, pei singoli tipi di elementi, di non superare. Non si deve invero credere che, sia pur contentandosi di bassi rendimenti, sia lecito forzare oltre certi limiti la corrente di scarica; per intensità eccedenti un certo valore, che deve ritenersi come limite non superabile, la materia attiva della placca abbandona con grande facilità la propria sede, sforzi meccanici ingentissimi nascono per effetto del rapido aumento di volume (v. 5 f) della sostanza attiva stessa, che provocano l'incurvamento delle positive, per cui la durata della batteria può ridursi a valori economicamente disastrosi e tecnicamente inaccettabili. Analoghe limitazioni sussistono per la carica.

Per molti usi pratici è sufficiente considerare la terza delle relazioni precedenti, la quale permette di vedere come varî la capacità dell'elemento al variare del tempo di scarica. Per liberarsi dall'uso degli esponenti, essa può essere comodamente rappresentata di volta in volta nel diagramma logaritmico di fig. 12, dove in ascisse sono riportati i tempi, in ordinate le capacità (in %). Il suo uso si chiarirà immediatamente con un esempio: un elemento dia alla scarica in 3 ore e in 10 ore rispettivamente 486 e 650 Ah; quale capacità avrà alla scarica in 5 ore? Assunta eguale a 100% la capacità corrispondente alla scarica, p. es., in 10 ore, quella relativa alla scarica in 3 ore è di

Prese allora sul diagramma, in corrispondenza dei tempi 3 e 10, le ordinate 75 e 100 (punti A e B) e riunitele con una retta, essa dà, in corrispondenza al tempo di 5 ore (punto C), il valore di ~ 84,5%. La capacità a questo regime sarebbe allora

La scelta degli elementi che debbono costituire una batteria in regime variabile di scarica, può farsi, supposte note le costanti n (od m) e k, con una ovvia estensione della prima relazione (la quale a rigore si riferisce a scariche a regime costante), innalzando alla potenza n le ordinate del diagramma di carico (correnti in funzione del tempo) e ragguagliando poscia l'area del diagramma così ottenuto alla costante k degli elementi del commercio. Praticamente però, attesa da una parte la necessità di arrotondare i risultati del calcolo per renderli realizzabili con elementi commerciali, dall'altra quella della relativa larghezza che occorre sempre avere in predeterminazioni di tal genere, si può procedere più speditamente, per quanto meno razionalmente, ragguagliando l'area del diagramma di carico (cioè la quantità di elettricità che dev'essere erogata) alla capacità degli elementi sui quali si è fissata l'attenzione, ridotta al tempo totale di scarica. Si debba, ad es., scegliere il tipo di elemento da adottare per una batteria destinata ad un impianto il quale eroghi per 3 ore una corrente di 182 A, e per 3 ore una corrente di 91 A. La totale quantità di elettricità erogata è di 182 × 3 + 91 × 3 = 821 Ah. Porremo allora attenzione a quegli elementi, segnati sul listino del fabbricante, i quali abbiano, in condizioni di scarica del tipo di quella che ci interessa, delle capacità prossime a quella calcolata, e pei quali sia ammessa una corrente massima superiore o uguale a 182 A (l'osservazione ha particolare valore per quei casi in cui il diagramma di richiesta presenti delle punte di carico particolarmente intense rispetto al valore medio). Supponiamo che il listino porti, per i due tipi che presumibilmente saranno adottabili nel nostro caso, i dati seguenti:

La capacità, ridotta a 6 ore (3 + 3), risulta, pel tipo A di ~ 830 Ah e pel tipo B di ~ 890 Ah. Si vede quindi che il tipo A sarebbe, per quanto strettamente commisurato, sufficiente allo scopo; si potrà, naturalmente, adottare il tipo B, se si vorrà una certa tranquillità e un certo margine di sicurezza.

La determinazione sperimentale della capacità di una batteria ad un determinato regime di scarica si fa in modo ovvio, avendo presente la sua definizione analitica (v. 2 a).

Riscontrandosi, in prove di collaudo o altro, una capacità deficiente di un elemento, il fatto può essere imputato o alle placche positive, o alle negative, o ad entrambe (v. 5 f). Per decidere occorre rilevare, durante la scarica della batteria, non solo l'andamento delle differenze di potenziale ai morsetti, ma anche quello delle tensioni che si hanno tra le singole placche e un elettrodo supplementare (di zinco, cadmio, mercurio, piombo, ecc.), il quale, per immersione più o meno diretta nell'elettrolito, acquisti un potenziale ben definito e costante (positivo o negativo) rispetto all'elettrolito stesso. L'andamento delle tensioni così rilevate in funzione del tempo permette di decidere con tutta sicurezza. Nella fig. 13, se le curve a, b, a tratto continuo, dànno i tipi di diagrammi che si ottengono operando con elettrodo ausiliario di zinco per un elemento in condizioni normali, la coppia a1 b rivelerebbe una deficienza di capacità delle positive, quella a b1, deficienza delle negative, laddove la coppia a1 b1 rivelerebbe che la deficienza è dovuta alle une e alle altre.

e) Quanto ai rendimenti in quantità di energia e in quantità di elettricità (v. 2 a), essi appaiono, dopo quanto si è detto, assai variabili, al variare dei regimi di carica e di scarica; per elementi di tipo normale e ai quali non si richiedano servizî di natura particolare, quei due rendimenti possono ritenersi dell'ordine di 0,75 e di 0,90 rispettivamente.

f) La vita o durata degli elementi dipende dal tipo degli elettrodi e, per un determinato elemento, dal regime a cui esso è sottoposto. Le placche negative durano sempre più delle positive (normalmente il doppio). Per batterie stazionarie con placche del tipo a superficie, con buona manutenzione, si può contare su 1000 scariche complete per le positive, e su circa 2000 per le negative; per le batterie con placche impastate, queste cifre scendono notevolmente, giungendo verso le 200 e 400 per gli elementi trasportabili normali, e a 100 e 200 per quelle di tipo leggero. Naturalmente queste cifre possono notevolmente aumentare, se le scariche non sono complete ma solo parziali.

Le cause che limitano, in aervizio normale, la durata della placche, sono diverse per le positive e per le negative. La materia attiva che allo stato iniziale di carica si trova sulle placche positive, trasformandosi parzialmente col procedere della scarica in PbSO4, aumenta notevolmente di volume (1 cm3 di PbO2 si trasforma in 1,925 cm3 di PbSO4), ed è d'altra parte da ammettere che, con la ricarica che succede alla scarica, non si ritorni, per quello che concerne la struttura fisica di quella parte di materia che partecipa alla reazione, allo stato primitivo, in quanto il perossido che si rigenera dal solfato sembra avere una costituzione cristallina più minuta che non quella iniziale; i movimenti e la diminuzione di compattezza che conseguono a questi due fatti producono inevitabilmente la caduta della materia attiva tanto nel caso delle placche tipo Faure, quanto in quelle Planté, e quindi, oltre un certo limite, alla diminuzione della sostanza che può prendere parte alle reazioni si accompagna fatalmente quella della capacità dell'elettrodo. La caduta di materia dalle placche positive è più ingente per quelle Faure che per quelle Planté. Per le prime il deposito che si raccoglie al fondo del recipiente contenente le placche (e che in grosso è costituito per il 90% da perossido e per il 10% da solfato di piombo), è dell'ordine dei 20÷30 mg. per Ah fornito dall'elemento; questa cifra sale a 60÷90 mg. per Ah nel caso delle piastre Faure; valori intermedî si hanno per quelle miste. La vita delle placche positive appare quindi, a parità di altre condizioni, legata allo spessore delle nervature di piombo nel caso delle Planté, poiché appunto a spese del metallo la sostanza attiva continuamente si rigenera, oppure a quello dell'impasto nel caso delle Faure: si comprende quindi come per le batterie trasportabili leggiere, nelle quali alle piastre, e quindi all'impasto, allo scopo di ottenere delle alte capacità ed energie specifiche, si dànno degli spessori di 2÷3 mm., si debba necessariamente sottostare ad una minore durata.

La graduale diminuzione della capacità delle placche negative non appare invece dovuta ad una diminuzione, per caduta, della sostanza attiva, ma ad una modificazione eminentemente fisica che si compie in essa e che limita la quantità di sostanza che può partecipare alle reazioni; la materia attiva invero, che inizialmente si presenta come molto permeabile all'elettrolito, acquista, col succedersi delle cariche e scariche, una compattezza relativamente grande, che, diminuendo la porosità della massa, limita le reazioni a strati sempre più superficiali. Le placche negative esaurite sono però rigenerabili, bastando allo scopo assoggettarle a due cariche successive, facendole funzionare una volta da anodo e una volta da catodo. Si riesce in tal modo a ridare al piombo spugnoso la primitiva porosità.

g) Circa le caratteristiche specifiche (v. 2 b) valgano, come cifre di grande massima e di primo orientamento, quelle riassunte nella tabellina seguente, avvertendo che i valori in essa riportati si riferiscono ad elementi completi.

6. a) Le reazioni che sembrano avvenire alla carica e alla scarica di un elemento Edison (v. 4 a), possono rappresentarsi con l'equazione reversibile:

Allo stato di carica, cioè, la materia attiva dell'elettrodo positivo si trova allo stato di ossido idrato di nichel, mentre quella del negativo si trova, almeno in gran parte, allo stato di ferro spugnoso; alla scarica, mentre l'ossido idrato di nichel si riduce, si ha un fenomeno di ossidazione del ferro spugnoso.

b) È importante notare che, contrariamente a quanto avviene negli accumulatori a piombo (v. 5 b), qui l'elettrolito, come risulta chiaramente dall'equazione scritta, non sembra complessivamente partecipare alla reazione; cioè esso conserva inalterata la propria composizione, sia l'accumulatore allo stato di carica completa, sia in quello di completa scarica; lo stato della batteria non può dunque, in questo caso, essere controllato, come per gli elementi a piombo (v. 5 b), con misure di concentrazione e di peso specifico dell'elettrolito. Il fatto costituisce, d'altro lato, un vantaggio per quel che riguarda il peso dell'elemento (v. 2 b).

c) I diagrammi riportati alla fig. 14 dànno il tipo delle curve rappresentatrici delle tensioni ai morsetti, all'atto della carica e della scarica. Salvo i valori assoluti, notevolmente più bassi che non quelli degli accumulatori a piombo (v. 5 c; fig. 11), e il più rapido degradare della curva di scarica, l'andamento dei diagrammi assomiglia a quelli già esaminati per questi ultimi. La tensione media di scarica può qui assumersi in 1,2 V.

Una particolarità si presenta, se si spinge la scarica al disotto di 1 V circa; la tensione subisce un brusco abbassamento (parte tratteggiata della curva di scarica), al quale segue una reazione di tipo diverso da quella esaminata, sulla quale non tutti sono d'accordo, ma che, secondo alcuni, consisterebbe in un'ulteriore ossidazione del Fe(OH)2 costituitosi nella prima fase.

d) Gli elementi a ferro-nichel nella loro presente costituzione sono introdotti nella pratica corrente da non moltissimi anni, e manca quindi ancora, per essi, quella copia di dati e di osservazioni che si posseggono per quelli a piombo.

Si può tuttavia dire che, in confronto di questi ultimi, essi posseggono alcuni vantaggi, preziosi in verità, in alcune applicazioni particolari:

1° compattezza e robustezza meccanica grandissime;

2° possibilità di cariche e scariche rapidissime, senza che la vita dell'elemento sia comunque pregiudicata;

3° durata delle placche assai maggiore;

4° attitudine a rimanere scarichi anche a lungo senza che le proprietà elettriche generali risultino sensibilmente alterate;

5° mancanza di esalazioni nocive o pericolose;

6° minore variazione della capacità con le intensità di scarica.

Si hanno per contro degli svantaggi:

1° tensione media notevolmente più bassa (1,2 V contro 1,9 V, cioè il 63% circa) e maggiori variazioni percentuali della tensione di scarica;

2° rendimento in quantità di elettricità, e specialmente in energia, assai inferiori.

In servizio corrente il primo è dell'ordine del 75%, il secondo dell'ordine del 50%; conseguenza, quest'ultima, dell'elevata resistenza interna dell'elemento (v. 2 a e 5 e).

3° Prezzo, a parità di capacità e soprattutto di energia, molto maggiore.

Quanto alla energia specifica, si può dire che oggi buoni accumulatori a piombo opportunamente scelti e accumulatori a ferro-nichel possono fornire delle cifre pressoché equivalenti. Lo svantaggio derivante dalla bassa tonalità termica della reazione di scarica sembra quindi, globalmente, compensare i vantaggi derivanti dal basso peso delle placche e dalla non partecipazione dell'elettrolito alle reazioni (v. 2 b).

Nulla si può quindi dire di assoluto sulla superiorità o inferiorità di un tipo, essendo questa da valutarsi unicamente in base alle modalità del servizio che si tratta di compiere; l'attento esame tecnico ed economico dei punti che abbiamo prima esposti permetterà, di caso in caso, di orientarsi sulla scelta.

7. a) Il caso più semplice e più ovvio di uso di batterie di accumulatori è quello che fa riferimento alla possibilità di accumulare in essi una certa quantità di energia e di differirne la restituzione a quando la sorgente che ha servito per la carica non è più a nostra disposizione. Il proporzionamento della batteria è naturalmente legato alla entità e alla qualità del servizio che ad essa si richiede; così pure alle esigenze del servizio debbono essere adeguate le particolarità e gli accessorî d'impianto. In via generica, il calcolo procederà in questo modo:

1° Si determinerà il numero di elementi da mettere in serie a costituire la batteria. Converrà qui distinguere il caso in cui siano tollerati scarti anche sensibili di tensione, dal caso in cui a variazioni di tensione non si voglia sottostare che in misura molto limitata. Nel primo caso, il numero di elementi si otterrà dividendo la tensione V da realizzare per quella media vs med di scarica di un singolo elemento (v. 5 c; 6 b).

Nel secondo caso, il numero di elementi alimentanti i circuiti di utilizzazione (ossia le sbarre da cui questi sono derivati) non può più essere costante; dette invero vs max e vs min le tensioni in principio e a fine di scarica (figg. 11 e 14), esso deve evidentemente variare da

cioè aumentare, a mano a mano che gli accumulatori diminuiscono la propria tensione; l'organo che permette di eseguire l'operazione di graduale inserzione di nuovi elementi, via via che la scarica procede, è il cosiddetto sommatore o inseritore, che, nella ipotesi da cui siamo partiti, può essere semplice. Il suo modo di funzionare scaturisce senz'altro dallo schema di principio riportato nella fig. 15 (sola parte a tratto continuo), nella quale gl'interruttori I2 e I3 dovranno essere supposti chiusi e I1 aperto. All'inizio della scarica, l'organo mobile S1 del sommatore sarà nella posizione a1 (elementi inseriti N1); alla fine della scarica nella posizione b1 (elementi inseriti N2). La carica della batteria (I3 aperto, I1, I2 chiusi e deviatore D su 1) s'inizierà con S1 in bi1; via via che gli elementi del sommatore raggiungeranno lo stato di carica completa, esso si sposterà verso a1.

Per un impianto a 220 V, p. es., supponendo di adottare elementi a piombo e assumendo (fig. 11) vs min = 1,8 V; vs max = 2,05 V, si avrebbe

Gli elementi del sommatore sarebbero 120 − 110 = 10.

2° Si procederà alla scelta del tipo di elemento coi criterî e con le avvertenze date a 5 d.

Batterie di accumulatori sotto la forma qui esaminata si usano praticamente nei seguenti casi principali:

α) in alcune batterie stazionarie, come, p. es., quelle adibite a riserva in impianti di generazione o al comando di organi di regolazione e di controllo in centrali elettriche;

β) in quasi tutte le batterie trasportabili, e cioè:

1° Nella trazione ferroviaria. In Italia il sistema non è adottato dall'amministrazione delle ferrovie dello stato; furono fatti, circa ventisette anni fa, e precisamente nel 1901, alcuni esperimenti ufficiali in proposito, che però, per ragioni varie, non sortirono i risultati che se ne attendevano; non è peraltro escluso che, da una parte per i perfezionamenti tecnici apportati agli accumulatori, e d'altra parte usando il sistema solo in tratti con caratteristiche altimetriche appropriate e a traffico poco intenso, ulteriori esperienze non possano oggi condurre a conclusioni diverse. All'estero, in Germania p. es., si ha un numero relativamente ragguardevole di tronchi di ferrovie esercite con locomotori ad accumulatori.

Questi ultimi da noi si trovano quasi esclusivamente adottati in stabilimenti industriali, per servizî di manovra su raccordi ferroviarî. La fig. 16 dà una rappresentazione schematica di un tipo di tali locomotori. Gli elementi costituenti la batteria sono allogati nei due cofani A, A, anteriore e posteriore. Qualche applicazione, pure di limitata importanza, si ha su binarî a scartamento ridotto, sempre a servizio di particolari industrie; così, per esempio, nelle miniere, in quei casi in cui, per la presenza di polveri o di gas infiammabili, la trazione con filo aereo e trolley non sia effettuabile, per ovvie ragioni di sicurezza.

2° Nella trazione su strade ordinarie, per mezzo di autoveicoli. Essa ha qualche diffusione anche in Italia, non solo per trasporto di merci (fig. 17; le batterie sono allogate in A), ma anche, in qualche città, a sussidio e integrazione del servizio tranviario.

L'autonomia di tali mezzi di trasporto, cioè il percorso che essi possono effettuare con una carica, varia naturalmente con le caratteristiche del servizio, del percorso e della batteria, nonché con la proporzione fra il peso di quest'ultima e quello totale del veicolo; normalmente essa è di parecchie decine di chilometri.

Si consideri una tonnellata di un veicolo, il quale debba marciare alla velocità di 20 km. all'ora. Supponendo il percorso a pendenza nulla, e assumendo un coefficiente di trazione di 20 kg/tonn., la potenza (elettrica) del motore necessario allo scopo può facilmente valutarsi in circa 1,4 kW. Se si suppone che il peso della batteria debba ragguagliarsi alla terza parte di quello dell'intero veicolo in assetto di marcia per ogni tonnellata di quest'ultimo potremo impiegare circa 330 kg. di accumulatori; e se per questi si ammette una energia specifica di 25 Wh al kg. (v. 5 g), si avranno disponibili complessivamente 5,75 kWh, sufficienti ad alimentare per circa 4 ore, e cioè per un percorso di circa 80 km., il nostro veicolo, con un regime di scarica di ~ 4,25 W/kg. L'autonomia si ridurrà naturalmente un poco, se si vorrà tener conto dell'energia necessaria per gli avviamenti, curve e accidentalità varie del terreno.

3° Nei sommergibili. Sono ovvie le ragioni per le quali, almeno allo stato odierno della tecnica, queste navi non possono, durante la navigazione subacquea, usare i motori a combustione; questi ultimi sono adoperati solo durante la marcia in emersione, e sono allora normalmente sfruttati anche per la ricarica della batteria, alla quale è poi riservato l'ufficio di alimentare i motori elettrici che servono alla propulsione durante la marcia in immersione. L'impossibilità di oltrepassare certi limiti di peso nelle batterie di accumulatori contiene entro limiti modesti la velocità subacquea dei sommergibili (che non oltrepassa per solito i 10 nodi orarî) e l'autonomia subacquea (che non oltrepassa le 100 miglia a velocità tra 4 e 5 nodi all'ora). Le batterie dei sommergibili hanno per solito la tensione di 220 V.

Gli elementi debbono qui rispondere ad esigenze assolutamente speciali, inerenti alla delicatezza e importanza del loro ufficio e alle necessità di spazio e di servizio. Essi debbono, fra l'altro, avere i recipienti a chiusura assolutamente ermetica, in guisa da impedire la diffusione nell'ambiente di gas corrosivi o pericolosi (gas tonante), donde la necessità di spie per l'osservazione dell'interno; di prese di corrente opportunamente studiate, affinché riescano perfettamente stagne; di sfogatoi, i quali durante la carica sono messi in comunicazione con una condotta in aspirazione, la quale porta all'esterno i gas che si sviluppano; di cosiddetti caminetti d'immissione, dai quali, durante la carica, l'aria ambiente, richiamata dalla depressione provocata dal ventilatore di estrazione, può penetrare nell'interno degli elementi e diluire così il gas tonante che si forma, ecc.

4° Nella illuminazione dei treni, in quei casi in cui alla ricarica delle batterie si provveda in apposite stazioni con apparecchiatura di tipo consueto (gruppi motore-dinamo, raddrizzatori a vapore di mercurio o meccanici). È questo il sistema usato in tutta la rete delle ferrovie dello stato italiano.

All'estero, oltre questo, è in uso anche il sistema che comporta la ricarica della batteria per mezzo di dinamo apposita installata sul veicolo e azionata attraverso trasmissione a cinghia da uno degli assi del veicolo stesso. Gli schemi d'impianto acquistano allora una fisionomia del tutto particolare, attesa la necessità di assicurare in modo completamente automatico una tensione pressoché costante alle lampade e un normale servizio di ricarica della batteria, nelle più svariate condizioni di velocità del treno, e quindi della dinamo.

5° Nell'avviamento di motori d'automobile e in altre applicazioni minori.

b) Batterie di accumulatori sono spesso usate in pratica in parallelo con dinamo (o eventualmente convertitrici), allo scopo importante di regolarne il carico, conseguendosi così un migliore sfruttamento del macchinario generatore (o convertitore) e una maggiore stabilità della tensione alle sbarre.

Batterie tampone o a repulsione o volano.

Sia per esempio quello rappresentato a tratto continuo nella figura 18 il diagramma giornaliero di richiesta di un gruppo di utenti (ascisse le ore della giornata, ordinate le correnti). In assenza di batteria, la potenza di macchinario da installare nella centrale di generazione (o di conversione) dovrebbe essere quella corrispondente alla corrente massima (punto M); lo sfruttamento del macchinario stesso sarebbe relativamente cattivo perché durante una parte della giornata esso lavorerebbe con un carico ridottissimo (circa il 20% del massimo). Orbene, la riduzione della potenza installata può conseguirsi, all'incirca fino al limite di quella media, mediante l'adozione di una batteria d'accumulatori, la quale immagazzini energia durante le ore di carico ridotto, per restituirla poi in quelle di massimo carico. Nel caso della figura, p. es., supponendo che il macchinario debba funzionare a carico costante per tutte le 24 ore della giornata, sarebbe possibile ridurne la potenza al 40% circa di quella prima necessaria, integrando però la installazione con una batteria di capacità adeguata. La posizione della retta di compenso r, che con la sua ordinata ci dà senz'altro la corrente costante che la macchina dovrà erogare, viene qui determinata con la condizione ovvia

la quale esprime il fatto che, della quantità totale di elettricità immagazzinata dalla batteria, espressa graficamente dall'area tratteggiata Σ α = α1 + α2, solo la parte ηt Σ α può poi venire utilizzata sul circuito esterno. L'area β ci esprime allora graficamente gli Ah che la batteria deve fornire, e le ordinate intercette fra la retta di compenso r e il diagramma di carico, le correnti assorbite (zona tratteggiata) o erogate (zona punteggiata) dalla batteria stessa. Alla scelta degli elementi si potrà ora procedere coi criterî già esposti (v. 5 d).

Alle volte può essere richiesto che il funzionamento delle macchine non si prolunghi per tutte le 24 ore; allora la retta r della fig. 18 viene sostituita da una spezzata rettangolare, alla cui definizione è, naturalmente, sempre di base il concetto prima esposto. Preziosi servizî possono prestare, nella risoluzione dei problemi più complessi, i diagrammi integrali di quello di carico, usati in modo analogo a quello che si suol seguire nel campo della idraulica per lo studio dei serbatoi.

Anche per le batterie tampone bisogna distinguere, per quel che riguarda gli schemi d'impianto, il caso in cui la tensione alle sbarre possa subire delle variazioni, dal caso contrario.

Nel primo caso, la installazione può semplificarsi al massimo grado, risolvendo peraltro solo in modo approssimato il problema della costanza del carico del macchinario, mettendo semplicemente la batteria, il cui numero di elementi inseriti è allora costante, in parallelo con la dinamo, senza alcun organo supplementare di regolazione, com'è indicato nello schema di principio riportato nella fig. 19 (sola parte a tratto continuo).

Si sfrutta qui il fatto che le caratteristiche esterne della batteria (curve aventi in ascisse le correnti di carica o di scarica e in ordinate le tensioni) sono assai poco inclinate, attesa la piccolezza della resistenza interna degli elementi, laddove quella della dinamo, con opportuni accorgimenti costruttivi (elevata reazione di armatura) o con artifizî diversi, può essere resa assai discendente. Si comprende allora come, essendo batteria e dinamo vincolate sempre al medesimo potenziale, le variazioni del carico esterno debbano necessariamente ripercuotersi in massima parte sulla batteria. Tanto più piccole saranno le variazioni di potenziale alle sbarre, e tanto più ci si avvicinerà alla condizione ideale di carico costante per la dinamo, quanto più discendente sarà la caratteristica di quest'ultima e quanto più pianeggianti saranno quelle della batteria, il numero di elementi della quale sarà, ben inteso, da scegliersi in guisa che la sua tensione a vuoto uguagli, all'incirca, quella della dinamo a pieno carico.

Circa l'esercizio, si noti che anche per servizî relativamente poco delicati, quale p. es., quello della trazione, le variazioni di potenziale tollerabili non sono tali da consentire, durante l'esercizio stesso, la ricarica a fondo della batteria; perciò a questa operazione, necessaria alla buona conservazione degli elementi, occorre qui procedere di tanto in tanto, allorquando l'alimentazione del circuito esterno possa essere interrotta.

Se invece variazioni sensibili di tensione alle sbarre non si vogliono tollerare, lo schema dell'impianto si complica. Praticamente, i sistemi adottati sono due, che possono essere intesi come modificazioni o completamenti di quelli già esaminati e rappresentati nelle figg. 15 e 19 rispettivamente.

Nel primo caso, data la necessità di curare, elemento per elemento, che la carica avvenga regolarmente, il sommatore semplice si trasforma in un sommatore doppio, il cui schema di principio è rappresentato ancora nella fig. 15 (parte a tratto continuo più parte tratteggiata). Allorquando, pur alimentando il circuito esterno, la dinamo deve procedere anche alla carica della batteria, tutti gli interruttori essendo chiusi; il deviatore D deve portarsi su 2. Il collegamento tra dinamo e sbarre non è più allora diretto, ma avviene attraverso gli elementi del sommatore, i quali, con opportune manovre dei due organi mobili, S1 ed S2 aggiungono o sottraggono la propria tensione a quella di macchina, necessariamente variabile per seguire le esigenze della carica, mantenendo così pressoché costante la differenza di potenziale ai capi del circuito di utilizzazione.

Il numero di elementi del sommatore riesce qui assai rilevante, se si vuole prevedere la possibilità di ricarica a fondo della batteria durante l'esercizio. Detta ancora V la tensione (costante) alle sbarre, vc max la tensione di un elemento a fine carica (figg. 11, 14), gli elementi dell'inseritore, com'è facile vedere, sono

Nel caso già esaminato addietro (v. 7 a), assumendo vc max = 2,7 V, essi risulterebbero in numero di 40.

In impianti moderni però, specie in quei casi in cui le fluttuazioni del carico esterno sono molto rapide, e la batteria deve quindi con grande frequenza e con grande prontezza passare dallo stato di carica a quello di scarica (caso della trazione), alla soluzione con sommatore doppio si ricorre di rado; si preferisce ricorrere all'adozione di schemi nei quali compaiono delle macchine ausiliarie, i cosiddetti surdevoltori. Il numero di elementi utilizzati della batteria è allora costante, ma in serie con la batteria stessa (fig. 19, parte a tratto continuo più parte tratteggiata) è inserito lo avvolgimento indotto di una dinamo S, la cui fem, es può a piacere variarsi (ed eventualmente invertirsi). Il surdevoltore è comandato, solitamente, da un motore elettrico, M, inserito sulle sbarre, alle quali la tensione dev'essere mantenuta costantemente al valore V. Supponiamo allora di cogliere l'istante in cui il carico esterno è esattamente eguale a quello che la dinamo può fornire. In queste condizioni, la batteria non dovrà né dare né assorbire corrente; basterà, a conseguire tale risultato, che il surdevoltore S sia così eccitato da fornire una fem es,0 tale che, sommata con quella EB della batteria, renda la somma EB + es,0 = V. Il carico esterno ora cresca, talché la dinamo da sola non basti più a sopperire alla intera erogazione; aumentando allora la fem del surdevoltore in guisa da rendere es > es,0, la batteria entrerà in scarica, sommando la propria corrente a quella della dinamo nel circuito di utilizzazione. La manovra inversa si dovrà naturalmente fare, allorquando il carico esterno sia inferiore a quello normale della macchina principale; basterà diminuire la eccitazione e quindi la fem del surdevoltore sino a rendere es es,0, perché la batteria entri in carica; la dinamo alimenta allora il circuito esterno, e contemporaneamente la batteria.

A questi concetti s'informano più o meno tutti i diversi sistemi escogitati per gl'impianti con batteria a repulsione, destinati a funzionare su circuiti di utilizzazione a tensione pressoché costante; varia solo da un sistema all'altro il valore di es,0, e quindi il numero di elementi della batteria e il modo seguìto per ottenere automaticamente la opportuna variazione della fem es del surdevoltore. In alcuni schemi quest'ultimo ha una sola eccitazione, derivata solitamente sulla batteria, e la registrazione della fem si consegue, variando la corrente nella eccitazione stessa con regolatori di tipo normale (schemi Magrini, Thury) o di tipo speciale (Entz); in altri (Pirani) il surdevoltore ha una eccitazione differenziale, parte in serie sul circuito principale, parte derivata sulla batteria, e perciò il funzionamento viene reso completamente automatico senza ricorrere a regolatori propriamente detti. Gli uni e gli altri schemi possono poi, all'atto pratico, complicarsi, fermo rimanendone il concetto informativo, se il surdevoltore è munito di una eccitatrice separata; la regolazione suole allora farsi sulla eccitazione di quest'ultima.

La regolazione del carico può conseguirsi per mezzo di batterie di accumulatori anche in impianti a corrente alternata; s'intende che allora il collegamento tra sbarre e batteria dev'essere fatto con l'intermediario di un gruppo di conversione, o di convertitori speciali (Danielson), e il rendimento complessivo della installazione risulta piuttosto basso.

Bibl.: I diversi argomenti generali relativi alla genesi, teoria, applicazioni degli accumulatori, possono trovarsi svolti più o meno ampiamente in L. Jumau, Les accumulateurs électriques, Parigi 1927, e, più succintamente, in Étude résumée des accumulateurs électriques, Parigi 1924, dello stesso autore.

La memoria originale di Planté si trova nei Comptes-rendus des séances de l'Académie des sciences, L (1860), p. 640. Negli stessi Comptes-rendus, XCII (1881), p. 951, è annunciata la scoperta di Faure.

Per la teoria degli accumulatori a piombo, può consultarsi Nature (1882), dove furono pubblicati i primi studî di Gladstone e Triebe. Le teorie (Darrieus, Elbs, ecc.) che furono a suo tempo opposte a quelle della doppia solfatazione, si trovano, insieme con quest'ultima, esposte e discusse nei due libri di Jumau citati, più diffusamente nel primo. Una teoria più recente è stata avanzata da Ch. Féry in Revue générale de l'électricité, I (1917), p. 10, e successivamente, nella stessa rivista, sono apparsi ulteriori studî dello stesso autore, solo e in collaborazione: IV (1918), p. 34; V (1919), p. 627; XIX (1926), pp. 296, 337; e di altri: II (1917), p. 165; XIX (1926), p. 890; XX (1926), pp. 235, 239, 878; XXII (1927), p. 229.

Per i progressi ottenuti nella costruzione, vedasi L. Jumau, in Revue générale de l'électricité, XII (1922), pp. 767, 804; XVI (1924), pp. 790, 827.

Di un nuovo tipo di accumulatore (piombo zinco) si è da qualche anno occupata la stampa tecnica italiana: L'elettrotecnica, VIII (1921), pp. 621, 683, 743, 749; IX (1922), p. 91; XII (1925), pp. 484, 544, 575; XIII (1926), pp. 617, 650, 742, 770. Qualche notizia su un altro nuovo tipo di accumulatore (Almeida) può trovarsi in Revue générale de l'électricité, XVI (1924), pp. 329, 375, 850.

Per l'applicazione degli accumulatori alla trazione su strada ordinaria, si veda J. Boes, in Revue générale de l'électricité, XIV (1923), pp. 905, 967; XVI (1924), pp. 991, 1030, e F. Rossi, Rendiconti delle riunioni annuali della Associazione elettrotecnica italiana, VII (1928); per la trazione su ferrovia, oltre lo studio citato del Rossi, L. Ventrella, in L'elettrotecnica, XIV (1927), pp. 34, 58. Dell'impiego degli accumulatori sui sommergibili si è recentemente occupato G. Gamucci, in Rendiconti delle riunioni annuali della Associazione elettrotecnica italiana, VII (1928). Per la illuminazione dei treni, vedasi, oltre una memoria di G. O. Abbo nei citati Rendiconti, anche H. Guerin, in Génie civil, 1922, pp. 13, 36, 59.

Per il proporzionamento e l'impiego delle batterie, oltre i citati libri di Jumau, vedasi W. Peuckert in Elektrotechn. Zeitschr., 1907, pp. 705, 826; R. Werkner, ib., 1911, p. 39; Berdelle, ib., 1927), p. 926. Per la compensazione dei diagrammi di carico in impianti a corrente alternata, oltre il citato lavoro di Werkner, W. Schreder, in Elektrotechn. Zeitschr., 1906, p. 324; ib., 1911, p. 1288; 1915, pp. 61, 75.

Schemi d'impianto completi di batterie possono trovarsi, p. es., in E. Morelli, Costruzioni elettromeccaniche, Torino, III, p. 133 segg., e in Piazzoli, Tecnica degl'impianti elettrici, Milano 1922, p. 643 segg., e, in genere, in tutti i libri di elettrotecnica applicata, p. es. Lombardi, Corso teorico pratico di elettrotecnica, Milano 1926.

Accumulatori idraulici.

Sono stati ideati da Armstrong; e, sostanzialmente, sono dei serbatoi di fluido compresso, che completano le installazioni negli impianti ove si sfrutta come forza motrice l'acqua in pressione, come nelle presse idrauliche, negli apparecchi di sollevamento, nelle macchine per stampare metalli, nelle paratoie dei porti, ecc. Sono schematicamente costituiti dalla coppia cinematica stantuffo-cilindro. Può, a seconda dei tipi, essere fisso il primo e mobile il secondo, o viceversa.

Nel tipo a cilindro fisso l'acqua pompata nel cilindro eleva lo stantuffo, che trascina seco il contrappeso di cui è caricato. Si accumula così dell'energia di posizione, che è proporzionale al carico sullo stantuffo e alla sua corsa.

Il carico P è determinato dall'area dello stantuffo (di diametro D) e dalla pressione unitaria p (kg/cmq.) con un aumento del 15÷20% per le perdite d'attrito dell'acqua in pressione:

Il diametro dello stantuffo non si fa, d'ordinario, maggiore di cm. 60

In questi tipi si può avere il cilindro immerso nel terreno e il carico collocato su un piatto collegato alla testa dello stantuffo.

Per raggiungere pressioni specifiche elevate senza contrappesi eccessivamente grandi, si costruiscono tipi a stantuffo differenziale fisso con cilindro mobile. In questi il carico P è proporzionale alla corona circolare premuta, ossia

essendo D e d i due diametri dello stantuffo differenziale.

Generalmente si arriva fino a capacità di 250-300 litri e fino a pressioni di 300 atmosfere. L'altezza può variare fra 6 e 9 metri a seconda delle condizioni speciali dell'impianto e del volume d'acqua da raccogliere nell'accumulatore.

Quando difetti lo spazio, i pesi possono essere sostituiti con contropressione di vapore, camera d'aria compressa e altri mezzi ausiliarî. Spesso, per la continuità del lavoro, o per grandi capacità, è conveniente disporre due accumulatori, di cui uno è regolato per una pressione un po' minore dell'altro, così che si mantenga pieno fino a completo esaurimento di quello più potente. Ciascun accumulatore esclude automaticamente il motore delle sue pompe, quando si trova nella posizione più elevata, e lo inserisce nuovamente, quando raggiunge la posizione più bassa.

Negl'impianti centrali l'accumulatore agisce come conguagliatore dei diversi consumi istantanei d'acqua in pressione delle varie macchine, e costituisce con la sua capacità una piccola riserva in modo da rendere in certa misura il funzionamento della macchina indipendente da quello delle pompe. Si possono, cioè, usare pompe più piccole che restino in funzione un tempo più lungo.

L'accumulatore raccoglie il lavoro di poca entità prodotto dalle pompe, e lo restituisce con maggiore intensità in un tempo assai più breve.

La velocità nell'ascesa e nella discesa è regolata mediante la maggiore o minore apertura delle valvole o saracinesche degli organi di distribuzione.

Le figg. 20-21 rappresentano un accumulatore, costruito in Italia, della capacità di 180 litri, funzionante a una pressione di 160 atmosfere.

Nello schema della fig. 22 è rappresentato, poi, l'impianto di una pressa idraulica che funziona per mezzo di un 'accumulatore idraulico.

Bibl.: G. Colombo, Manuale dell'ingegnere, 7ª ed., Milano 1929; Hoffmann, Die Hydraulischen Schmiedepressen, Berlino; Förster, Manuale del costruttore, Milano 1921.

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