ABRUZZO

Enciclopedia Italiana (1929)

ABRUZZO (A. T., 24-25-26)

Cesare RIVERA
Roberto ALMAGIA
Camillo Giulio BERTONI
Ugo ANTONIELLI
Ignazio Carlo GAVINI
Giulio FARA

Il nome, la sua estensione e le sue vicende. - L'origine del nome Abruzzo (la forma singolare è la più corretta anche per designare tutto il paese), Aprutium nel latino medievale, è ignota. Il nome, sconosciuto, per quanto si sa, nell'età classica, appare per la prima volta nel sec. VI d. C. in alcune lettere di S. Gregorio, una delle quali diretta a un Oportunus de Aprutio; indica dapprima il territorio teramano o forse la sola città di Teramo. Dal fatto che quel territorio era nell'antichità abitato dai Praetutii, e Teramo si chiamava Interamna Praetutia, alcuni (primo fu Flavio Biondo) hanno voluto vedere in Aprutium una corruzione di Praetutium, ma tale etimo appare poco soddisfacente, né altri proposti sembrano più accettabili. Come circoscrizione amministrativa, troviamo l'Aprutium tra i sette gastaldati costituiti dai Longobardi a sud del Tronto; esso corrispondeva a un dipresso all'odierno circondario di Teramo, senza che peraltro si possano indicare i suoi confini precisi. Più tardi si ha notizia di una diocesi aprutina, il cui territorio era compreso fra il Tronto, il Vomano, il mare e le giogaie onde hanno origine quei due fiumi; e tali dovevano essere a un dipresso anche i confini del comitato aprutino, di cui si hanno poche notizie, soprattutto nel sec. XI. Sotto i Normanni si comincia a parlare di Aprutium con significato più estensivo, come ad indicare genericamente tutte le terre poste presso i confini settentrionali del Regno. Di un giustizierato di Abruzzo si ha notizia per la prima volta nel 1176, poi nella prima metà del sec. XII; Federico II ne assegnò definitivamente il capoluogo (Sulmona) e i limiti, i quali probabilmente corrispondevano a quelli dei sette gastaldati longobardi riuniti; l'Abruzzo aveva pertanto un'estensione non molto diversa dalla presente. Da allora il nome Abruzzo restò alla regione. Nel 1272 Carlo d'Angiò divise il giustizierato in due, ultra e citra flumen Piscariae; l'elenco delle località appartenenti al primo si ha in un documento del 1273, di quelle appartenenti al secondo si ha un elenco del 1320. La Pescara formava il confine dal mare a Popoli: più a monte i confini erano assai irregolari; irregolarissimi eran quelli fra l'Abruzzo da un lato, il Contado di Molise e la Terra di Lavoro dall'altro; essi subirono, in progresso di tempo, parecchi mutamenti, ma non molto ragguardevoli. Dapprima un solo governatore, o preside, residente a Chieti, reggeva le due provincie; solo nel 1641 fu creato un preside e un'udienza speciale ad Aquila, e nel 1684 un'altra udienza fu creata a Teramo, venendosi così in realtà a dividere l'Abruzzo Ulteriore in due parti. Ma ufficialmente la creazione delle due provincie distinte di Abruzzo Ulteriore I e Abruzzo Ulteriore II coincide col principio del regno di Giuseppe Bonaparte (19 gennaio 1807). Passaggi di comuni dall'una all'altra provincia ve ne furono non di rado, dal sec. XIV in poi, e anche nel secolo XIX; così dicasi di qualche trapasso di comuni dall'Abruzzo al Molise, e viceversa. Ma sostanzialmente la circoscrizione delle tre provincie di Abruzzo Citra (capoluogo Chieti), Abruzzo Ultra I (cap. Aquila) e Abruzzo Ultra II (cap. Teramo) rimase immutata. Con la nuova circoscrizione stabilita il 6 dicembre 1926, fu creata una quarta provincia abruzzese, quella di Pescara, mentre quasi tutti i comuni più settentrionali dell'Aquilano venivano aggregati alla nuova provincia di Rieti. La divisione odierna dell'Abruzzo risulta pertanto dalla tabella a pag. 129.

Le caratteristiche fisiche. - L'Abruzzo comprende due regioni profondamente diverse tra loro per caratteri fisici: ad O. un grande altipiano, fiancheggiato e sormontato da rilievi (tra i quali si annoverano i più alti massicci montuosi della Penisola) incavato da grandi conche; ad E. la regione collinosa e pedemontana che si affianca all'altipiano, dal suo orlo orientale, il più elevato, declinando via via fino al mare Adriatico. I rilievi che formano il margine occidentale dell'altipiano (monti Carseolani e Simbruini) sono i meno elevati, ma già questi ultimi superano con alcune vette i 2000 metri (M. Viglio 2165 m.). I rilievi centrali sono più elevati: la lunga catena di Monte Velino (2487 m.), quella del Sirente (2349 m.), la Serralunga a S. del Fucino, i Monti Marsicani alti sono i rilievi che formano l'orlo orientale dell'altipiano: in continuazione dei Sibillini, dai quali anzi si diparte la lunga dorsale che serra a N. l'Abruzzo, culminando nel Terminillo (2218 m.), si adergono prima i Monti della Laga (Gozzano 2455 m.), poi il massiccio del Gransasso, il più elevato (M. Corno 2914 m.), in fine la Maiella (M. Amaro 2795 m.) col Morrone (2060 m.).

Tutti questi massicci e l'altipiano stesso che ne forma l'imbasatura, sono costituiti da pile potenti di calcari, cristallini, biancastri, grigi, spesso dolomitici, che il geologo distingue in molti diversi orizzonti, di età variabile dal Giurassico fino al Miocene; ma con rappresentanza soprattutto del Cretacico (i cui calcari compatti, contenenti talora tasche di bauxite, formano l'ossatura d'intere montagne), e dell'Eocene, col calcare nummulitico, che prevale nel Gransasso e nella Majella (v. appennino). L'orientazione prevalente dei rilievi montuosi, da NO. a SE., corrisponde a quella dell'asse delle maggiori conche che incavano l'altipiano: la conca aquilana, quella di Sulmona e quella del Fucino; quest'ultima, la più elevata, fu occupata fino a pochi decennî fa da un lago, prosciugato artificialmente, le altre due sono oggi riempite da depositi di natura e di origine molto diversa. La formazione di queste conche è legata certamente, da un lato, a fatti tettonici, ma è anche, dall'altro, in relazione coi fenomeni carsici, che, data l'enorme estensione dei calcari, hanno grandissimo sviluppo in Abruzzo. Sono frequenti i grandi piani carsici, circondati da rilievi calcarei, dove l'acqua trova sfogo sotterraneamente attraverso inghiottitoi, per riapparire poi alla base in sorgenti copiose. Tra i maggiori, l'altipiano di Roccadimezzo, il Piano di Capestrano, quello delle Cinquemiglia, il Quarto Grande, il Quarto S. Chiara, ecc. Meno frequenti sono le doline, che di solito hanno pur grandi dimensioni; rare le caverne di notevole estensione finora segnalate. Le parti interne, più elevate, dei massicci montuosi sono scarse d'acqua, poiché questa circola in profondità. I corsi d'acqua maggiori percorrono valli longitudinali, spesso molto incassate, e sono alimentati dalle ricche sorgive alla base dei ripidi pendii che le fiancheggiano: così l'Aterno, il fiume abruzzese per eccellenza, così l'alto Sangro, così anche il Salto e il Turano.

L'Abruzzo interno è una regione frequentemente visitata dai terremoti. Alcune grandi catastrofi, come quelle del gennaio-febbraio 1703, colpirono più o meno gravemente tutta la regione interna; centri sismici particolari costituiscono poi l'alta valle del Tronto e quella dell'Aterno (1627, 1639, 1672, 1730, 1859, ecc.), l'Aquilano (1315, 1349, 1456, 1461, 1646, 1786, 1791, 1848-49, ecc.), notevoli per il frequente replicarsi delle scosse in periodi sismici di lunga durata, la regione della Majella (1706, 1789, 1881, ecc.) e la Marsica (1885, 1915).

La regione subappenninica, che declina ad oriente verso l'Adriatico, ha un aspetto del tutto diverso. Costituita da terreni terziarî, dall'Eocene al Pliocene, con predominio di arenarie, argille, sabbie, forma un paesaggio di non alte montagne o di colline, raramente superanti i 1000 metri. Veramente, per costituzione litologica, vi appartengono i Monti della Laga, formati da pile potenti di arenarie, dei quali è un'appendice la Montagna dei Fiori (1797 m.), fra Teramo e Ascoli; ma fuori di quest'area rilievi così elevati sono un'eccezione. Dove prevalgono le argille, si osservano i fenomeni di demolizione e di erosione accelerata, che sono purtroppo comuni in tutta la fascia adriatica dell'Appennino, frane e calanchi; mentre l'alternanza delle sabbie con le argille dà forme a gradinata, con ripe o cornici ripide sui fianchi dei rilievi, in contrasto con le sommità rotondeggianti o anche spianate, tabulari.

La regione collinosa digrada lentamente, come si è detto, verso il mare, ma una cimosa pianeggiante vera e propria manca, se si prescinda dalle brevi pianure alluvionali alle foci dei fiumi maggiori; del resto la costa corre rettilinea, unita, e perciò importuosa; essa, anzi, rappresenta il tratto più lungo di costa unita della Penisola. Una breve sporgenza ripara la marina di Ortona; del resto gli approdi difettano, e scarso ricetto offrono anche le foci dei fiumi, tranne la foce della Pescara, dov'è il piccolo porto omonimo. Ma in conclusione la costa abruzzese ha piuttosto scarso valore per l'uomo.

I fiumi dell'Abruzzo adriatico scorrono in valli trasversali, con letti larghi, riempiti solo nell'epoca delle piene; traversando terreni facilmente erodibili, si caricano di torbide, e hanno perciò acque limacciose, in contrasto con la limpidezza di quelle dei corsi d'acqua della regione interna calcarea. Ma alcuni dei maggiori fiumi subappenninici hanno oggi una continuazione in un corso d'acqua longitudinale dell'interno. Così l'Aterno-Pescara, il più lungo fiume abruzzese (145 km.), così il Sangro, composti entrambi da un tronco superiore longitudinale e da un tronco inferiore trasversale: la saldatura fra i due tronchi si effettua mediante una gola strettissima, che non si spiega se non considerando tutta l'evoluzione idrografica della regione (v. appennino, italia). L'Aterno-Pescara è senza dubbio anche il più importante tra i fiumi abruzzesi (v. aterno); la sua valle, dall'Adriatico mettendo capo alla conca di Sulmona, donde è facile il passaggio alla Marsica, apre la miglior via di comunicazione che vi sia, in tutta l'Italia centrale, fra i due opposti mari.

Come diverse sono le forme del suolo nella regione subappenninica rispetto a quella interna, così diversa è anche la distribuzione delle sorgenti, diversa, anche in relazione con l'altimetria, la fisionomia della vegetazione, diverse le colture, i tipi e la distribuzione delle dimore e dei centri abitati, come si dirà più oltre.

Il clima, la vegetazione, la fauna. - Anche riguardo al clima, per quanto si può dedurre dai non molti dati che si posseggono come risultato di lunghe osservazioni sistematiche, vi sono differenze notevoli tra le varie parti dell'Abruzzo, e non soltanto tra l'Abruzzo adriatico e l'Abruzzo interno, ma anche, in seno a quest'ultimo, tra le aree più elevate ed esposte dei massicci montuosi e le conche chiuse che s'incavano fra essi. È noto che l'Italia tirrenica, esposta ai benèfici effetti dei venti occidentali, gode di inverni più miti e di calori estivi più moderati, e che l'Appennino costituisce una barriera per tali venti; ora nell'Abruzzo, dove la barriera è soprattutto poderosa e compatta, il versante adriatico viene ad essere escluso da quelle influenze mitigatrici. Infatti, si riscontra che nell'Abruzzo adriatico l'escursione annua, cioè il salto fra le temperature medie del mese più caldo e del mese più freddo, è alquanto più elevata che nel versante tirreno a pari latitudine, e soprattutto che minore è la piovosità. Ma il fattore climatico più importante è senza dubbio l'altitudine. Col crescere di questa, diminuisce la temperatura, cresce in genere la piovosità, aumenta la durata della permanenza del mantello nevoso sul suolo. Come condensatori di precipitazioni agiscono soprattutto i due grandi massicci del Gransasso e dei monti che rinserrano l'alto Sangro (Marsicani-Meta); quivi, almeno nel versante vòlto al Tirreno, la piovosità, ancora ad altezze abitate dall'uomo (1200-1300 m.), si avvicina a 1500 mm. annui, e anzi, nella regione sangritana, supera forse questa cifra; quantità più elevate debbono aversi ad altezze maggiori, dove mancano osservatorî. Il versante adriatico è probabilmente meno inaffiato anche in questi massicci, ma non abbiamo per ora dati precisi. Le conche chiuse si segnalano per gl'inverni lunghi e rigorosi e per le estati molto calde: ad Aquila la temperatura media del gennaio (non ridolta al livello del mare) è di poco superiore a 1°, quella del luglio è di 21°,5, con escursioni superiori a 20°; ad Avezzano l'escursione si avvicina a 22°. La piovosità è, invece, naturalmente bassa in queste conche riparate dai venti: supera di poco i 700 mm. ad Aquila e forse è ancora un po' inferiore a Sulmona, restando in ogni modo al disotto della piovosità dell'Abruzzo adriatico, anche delle zone meno favorite, che sembra siano quelle del Teramano, al riparo del Gransasso (Teramo 790); dovunque altrove si superano, sul versante adriatico, gli 800 mm., e a Chieti, in corrispondenza alla larga breccia della valle della Pescara, i 900.

Quanto alla distribuzione stagionale delle piogge, le massime precipitazioni si hanno dovunque in autunno (ottobre-novembre), le minime nel cuore dell'estate (luglio-agosto); nelle conche chiuse la siccità estiva è molto rilevante. Un secondo massimo di piogge si ha in primavera, cioè tra l'aprile e il maggio, nel Teramano tra maggio e giugno. Ma quivi, anzi in tutto l'Abruzzo adriatico, anche il gennaio sembra un mese di forti precipitazioni, mentre la fine della stagione invernale è caratterizzata da relativa scarsezza di precipitazioni.

La vegetazione originaria dell'Abruzzo è stata profondamente modificata dall'uomo, con la distruzione della macchia, specie nella regione marittima, e del bosco nelle regioni elevate; con l'introduzione delle colture e anche con la grande diffusione della pastorizia ovina, cosicché vaste distese sono mantenute a pascolo e presentano l'aspetto di steppe.

Nelle alte montagne, al disopra dei 2000 m., appare la flora di tipo alpino, con formazioni esclusivamente erbacee, relitto dell'epoca glaciale; flora che peraltro nell'Abruzzo si è oggi localizzata nelle aree culminali, isolate l'una dall'altra, e che perciò presenta caratteri dovuti appunto all'isolamento, oltre che differenze, rispetto alla flora delle Alpi, determinate dalla diversità della roccia. Ma nei Monti della Laga, nel Gransasso, nella Maiella, nei Marsicani, le genziane, le sassifraghe, il rododendro, le campanule, i seneci ricordano da vicino le specie consorelle delle Alpi; la stella alpina si trova sulla Maiella come nei Sibillini, mentre manca sul Gransasso. La Maiella è poi nota ai botanici per la presenza di numerose piante erbacee rare, tra le quali si trovano molte erbe medicinali e aromatiche.

Il bosco di latifogli è rappresentato da querce in basso, da faggi più in alto; vaste distese boscate rimangono in poche zone: faggete soprattutto nella Majella e nei Marsicani, dove la provvida istituzione del Parco nazionale d'Abruzzo preserva da ora in poi l'originario mantello vegetale. E qui si trovano anche boschi di pini (Pinus nigra), in parte rimasti anche sulla Majella; del resto, il pascolo ha fatto quasi scomparire la fascia degli aghifogli, che in origine succedeva dovunque, nelle aree più elevate, ai latifogli.

L'Abruzzo adriatico (scomparsa, o quasi, la macchia) presenta la caratteristica flora mediterranea; l'ulivo vegeta fin verso i 500 m. nel Teramano, e nella valle dell'Aventino risale fino a Palena (760 m.); la vite arriva anche più in su, in località ben esposte fino a 700-750 m.; il castagno raggiunge i 1000 metri. E rappresentanti della flora mediterranea si trovano, per lo più importati dall'uomo, anche nelle elevate conche interne, dove l'estate calda e secca e la modesta piovosità ne permettono la diffusione: tra essi l'ulivo, sui margini della conca di Sulmona fin verso i 700 metri (Goriano Sicoli), e anche più in alto presso Navelli (750 m.), e ai margini del Fucino, dove peraltro ormai la coltura è limitata a pochi gruppi; inoltre, alcuni alberi da frutto come il pesco, e soprattutto il mandorlo, che nell'Aquilano vegeta fin sopra i 1000 metri, e di cui si fa larga coltura.

La fauna ha subìto, ancor più che la flora, modificazioni profonde per opera dell'uomo che ha determinato soprattutto la scomparsa degli animali selvaggi. Tranne il lupo, ancor frequente e dannoso in tutta la montagna abruzzese, e il gatto selvatico, che s'incontra tuttora, qua e là nei boschi, si può dire che gli altri rappresentanti della fauna selvatica si conservano solo, in pochi esemplari, nei limiti del Parco nazionale d'Abruzzo, dove sono tutelati da leggi protettive: tra essi, l'orso, il camoscio (varietà diversa da quella alpina), il capriolo (v. parco). La lince sembra scomparsa almeno da un secolo, e scomparso è anche il cervo. Tra i mammiferi più piccoli è comune la volpe, assai meno lo scoiattolo; rarissimo ormai l'istrice. L'aquila è pur essa divenuta estremamente rara. Tra i rettili è notevole, oltre quella della vipera, la presenza di due specie di colubri (Coronella austriaca Laur. e girondica Dum. e Bibr.), della biscia dal collare (Tropidonotus natrix Boie), oltre a una o forse due specie di Elaphis.

La popolazione dell'Abruzzo. Dati demografici. Movimento della popolazione. Densità. - La popolazione dell'Abruzzo, riferita alla data dell'ultimo censimento (1 dicembre 1921), ma distinta secondo la circoscrizione amministrativa presente, è dimostrata dalla seguente tabella, nella quale abbiamo compreso anche i dati sulla popolazione calcolata al 31 dicembre 1926.

Sulla popolazione nelle epoche passate possiamo ricavare dati assai copiosi dalle cosiddette Numerazioni dei fuochi, di cui la prima, ordinata per tutto il Reame da Alfonso I d'Aragona nel 1443, fu in realtà eseguita quattro anni dopo; ne seguirono una quindicina circa, a varî intervalli, fino al termine del sec. XVIII, ma non di tutte sono conosciuti, neppur sommariamente, i risultati. Ne raccogliamo alcuni nella tabella seguente, nella quale si sono calcolate 5,5 persone per ogni fuoco o famiglia, secondo la media che ad autorevoli statistici sembra più conforme al vero per l'Italia meridionale (cifre arrotondate).

Queste cifre sono da ritenersi solo all'incirca approssimate, e non ci permettono un esame approfondito dell'andamento della popolazione, ma non può non colpire il contrasto fra l'aumento notevolissimo durante il sec. XVI (oltre l'1% annuo nell'Abruzzo Citra), che condusse a raddoppiar quasi la popolazione in meno di cento anni, e la diminuzione durante il sec. XVII, indubitabile, data la cura con la quale fu effettuata la numerazione del 1669. Tale diminuzione interessa, del resto, come è noto, gran parte del Regno di Napoli, e si riporta a varie cause connesse con le tristi condizioni generali del sec. XVII, aggravate per l'Abruzzo anche da flagelli, come i terremoti e le pestilenze, tra le quali gravissima quella del 1656 (nell'Abruzzo Citra la popolazione nel 1648, cioè prima della peste, si calcolava a 153.000 ab., nell'Abruzzo Ultra a circa 247.000).

La fine del sec. XVII e soprattutto il sec. XVIII, più tranquillo per l'Abruzzo, vedono restaurarsi il normale ritmo dell'aumento non però così rapido come quello del sec. XVI; ma le cifre del 1788, per più riguardi sospette, sono forse alquanto inferiori al vero. A partire dal 1815, cioè dalla Restaurazione, possiamo seguire più da vicino il movimento della popolazione per tutto il sec. XIX e fino ai nostri giorni. I dati statistici relativi, per i due censimenti borbonici del 1815 e 1848 e per tutti quelli del regno d'Italia, sono raccolti nella tabella a piè di pagina, che si riferisce alla popolazione presente, e indica anche la percentuale annua dell'aumento.

Risulta da questa tabella che il movimento della popolazione nell'Abruzzo, durante il sec. XIX, è stato assai irregolare, né si può sempre spiegare il diverso comportamento, sia dei singoli circondarî, sia di uno stesso circondario, nei varî periodi. In ogni modo è da notare che vi sono regioni nelle quali, durante tutto il periodo considerato, si è riscontrato un costante aumento, e queste sono in genere le regioni meglio favorire per condizioni fisiche e climatiche e anche per la viabilità: tra queste, le maggiori conche dell'interno (l'aquilana, la sulmonese, quella del Fucino), la fascia litoranea tra Pescara e Ortona, e quella fra Tronto e Vomano; inoltre i dintorni di Teramo. Invece i territorî che dimostrano un aumento molto lento o una tendenza alla diminuzione, sono soprattutto alcune delle zone più elevate (alto Aquilano, territorî di Leonessa, di Accumoli, ecc.) e alcune tra le regioni più ingrate per condizioni di suolo (formazioni argillose rotte da calanchi e da frane) del territorio chietino e del teramano.

Richiama poi l'attenzione il rallentarsi evidente dell'aumento all'inizio di questo secolo, e anzi, in talune regioni, la tendenza alla diminuzione. La quale si manifesta dapprima nell'Abruzzo adriatico, specialmente nel Chietino (ma è notevole anche in alcune parti del Teramano, dove per giunta succede a un periodo di forte aumento); più tardi, ma con maggiore intensità, nell'Aquilano. Che tale tendenza sia in rapporto diretto con l'intensificarsi della emigrazione, è dimostrato da ciò che il fenomeno migratorio, propagatosi dal Molise al prossimo Chietino e poi, più lentamente e in minor misura, al Teramano e all'Aquilano, non era stato, sino alla fine del secolo scorso, di grande rilievo (circa 10-12.000 emigranti annui in tutto l'Abruzzo, di cui un terzo emigranti temporanei, negli anni 1899-1900, e da 5 a 8000 negli anni precedenti); nel 1901, invece, gli emigranti salgono di un balzo a oltre 16.000 nell'Aquilano, e a ben 47.000 in tutto l'Abruzzo; e negli anni successivi l'emigrazione, pur variando, continua a sottrarre all'Abruzzo un contingente annuo ben di rado inferiore a 25.000 persone valide, spesso superiore a 40.000, culminando nel 1913 con 48.126 persone! La distribuzione degli emigranti per provincie, dal 1901 al 1915, è dimostrata dalla tabella che riportiamo in testa alla pagina seguente.

Quanto al carattere dell'emigrazione, mentre nel sec. XIX aveva ancora notevole importanza l'emigrazione temporanea, soprattutto dall'Aquilano (lavoratori invernali diretti in varî paesi europei, impiegati specialmente in lavori stradali ed edilizî), nel sec. XX prende un sopravvento sempre più assoluto l'emigrazione oltre oceano, classificata come permanente.

Il fiotto migratorio s'interrompe quasi del tutto negli anni 1917-18, nei quali culmina il grande conflitto mondiale; accenna a riprendere intensamente negli anni 1919-20, ma poi si attenua di nuovo, anche per le difficoltà opposte da alcuni paesi transoceanici all'accesso dei nostri lavoratori; e, quel che ancora importa notare, di nuovo si dirige in molto larga misura a paesi europei, con carattere di emigrazione temporanea.

Se l'emigrazione si manterrà tale, a un dipresso, anche per l'avvenire, come è prevedibile, e se conserverà lo stesso carattere, cesserà, in Abruzzo, la tendenza alla stasi o alla diminuzione della popolazione rivelatasi negli ultimi decennî. Che tale diminuzione rappresenti qui un fenomeno transitorio, e perciò non eccessivamente preoccupante, lo dimostra il fatto che esso si è già verificato qualche volta, qua e là, in passato (come si rileva anche dalla tabella a pag. 129), ma sempre in modo passeggero, e lo conferma l'osservazione, agevole a farsi sullo stesso censimento 1921, che cioè nel Teramano e nel Chietino, dove il fenomeno, come si è già detto, si manifestò prima, la fase acuta di esso è già superata. L'alta natalità degli ultimi anni (1925: Aquila e Teramo oltre 33‰; Chieti circa 31‰) è del resto l'indice più confortante di un graduale ritorno alle condizioni di normale aumento, ritorno chiaramente dimostrato anche dallo stato della popolazione alla fine del 1926 (tabella a pag. 129).

La densità media della popolazione in Abruzzo è notevolmente inferiore alla media del Regno, ma già tra le varie provincie si hanno differenze notevolissime: Pescara si avvicina a 150, Chieti supera i 135; entrambe dunque varcano la media del Regno, laddove Aquila ha una densità di poco superiore alla metà di quella del Regno. Il contrasto tra l'Abruzzo adriatico e quello interno è dunque evidente. In realtà, in tutta la fascia litoranea tra la foce del Sangro e il confine settentrionale della provincia di Pescara, come pure nella bassa valle del Tronto, la densità supera i 200, e supera i 100 abitanti in tutta la zona marittima e collinosa, fino a 30-35 km. dal mare e più ancora in corrispondenza alla valle del Sangro; la valle dell'Aterno poi conserva questa densità in tutto il suo percorso fino a monte di Aquila. Nell'Abruzzo adriatico, oltre la zona ora indicata, la densità diminuisce col crescere dell'altezza. Nell'Abruzzo interno, caratteristico è il contrasto fra le conche, ove la popolazione si addensa, e le elevate dorsali calcaree che le rinserrano, dalle quali l'uomo rifugge. Oltre le conche di Aquila (140 ab. per kmq.) e di Sulmona (circa 200), è fittamente popolata la conca del Fucino (120) e qualcun'altra delle minori. Attraverso la conca di Sulmona e quella del Fucino, una fascia ad alta densità (oltre 100 ab. per kmq.) si spinge dall'Adriatico ai confini del Lazio. Invece al disopra di 800 m. circa, la densità dovrebbe scendere in genere sotto i 50. Non sono poi più di una quarantina i centri abitati tutto l'anno al disopra dei 1000 metri, e forse otto solamente quelli che superano i 1300 metri; di essi il più elevato è Rocca Calascio (1464 m.), cui fanno seguito Campotosto (1492 m.) e Pescocostanzo (1395 m.); Gioia Vecchia (1418 m.) è ormai abbandonata. Anche le dimore isolate permanenti non si spingono ad altezze maggiori; s'incontrano invece in alcune aree montuose (Maiella, Monti Marsicani), dimore estive fino a 2000 m. e oltre. Si è già accennato che nelle regioni più elevate si riscontra poi di solito una notevole diminuzione della popolazione negli ultimi anni (più dell'1% nei comuni dell'altipiano di Roccadimezzo; più del 2% in quelli del Piano delle Cinquemiglia); gli abitanti mostrano la tendenza, che probabilmente si accentuerà di più in avvenire, ad abbandonare le zone molto elevate, ove condizioni di clima e di suolo rendono la vita assai ingrata e penosa.

Le condizioni economiche. Agricoltura e pastorizia. Industrie e commerci. - L'ultima rilevazione che si possegga per l'Abruzzo, circa la ripartizione dei terreni dal punto di vista agricolo, risale al 1913 e si riferisce perciò alle tre provincie in cui allora la regione si divideva; tuttavia essa mette in vista il contrasto tra l'Abruzzo interno e quello adriatico. Infatti, mentre nella provincia di Chieti i terreni utilizzati per l'agricoltura (seminativi, vigneti, uliveti, frutteti) superavano il 77,5% dell'area totale, e in quella di Teramo il 73,5%, per contro in quella di Aquila non raggiungevano il 36%. Poco minore era quivi la percentuale dei terreni a prato o a pascolo (oltre 34%) e il bosco superava il 22,5%; per Chieti le cifre rispettive erano 6,5% e 7,5%, per Teramo 15% e 6%. La povertà di terreni agrarî della provincia di Aquila non ha riscontro, in Italia, se non in talune provincie alpine, nella Maremma toscana, in provincia di Cosenza, in Sardegna. Né tale povertà è compensata, come altrove, da una cospicua estensione del bosco, perché, pur essendo la provincia di Aquila la più boscata d'Abruzzo, essa resta molto al disotto di tutte le provincie toscane, delle liguri e di alcune delle alpine.

La proprietà in Abruzzo è molto frazionata; mancano, si può dire, le grandi colture (tranne quelle della proprietà Torlonia nel Fucino), mentre sono estremamente diffuse le piccole e anche piccolissime proprietà; tuttavia i coltivatori raramente sono sparpagliati in masserie nelle campagne; per lo più, invece, hanno, da tempo remoto, l'abitudine di agglomerarsi in grossi centri, e taluni compiono ogni giorno lunghi percorsi per recarsi al lavoro nei campi. Nelle zone piane o di bassa collina prossime al mare, predominano i cereali (grano e granturco) consociati con la vite e anche con l'ulivo, specialmente intorno ai centri maggiori. La coltivazione dell'ulivo ha un'estensione notevole nell'Abruzzo adriatico, ma le pratiche di coltura e i metodi di fabbricazione dell'olio sono piuttosto arretrati. Veri boschi di ulivo si hanno intorno a Penne, a Loreto Aprutino, a Catignano, ecc. La viticoltura si esercita anche con vigneti specializzati; notevole è soprattutto la zona a vigneto irriguo della conca di Sulmona e dei dintorni di Popoli. Gli agrumi occupano ristrette zone ben esposte e riparate sul litorale adriatico (Giulianova, S. Vito, Vasto ecc.). Nella zona pedemontana e montana, il grano e il mais sono meno diffusi e dànno naturalmente prodotti più scarsi; solo in piccola misura sono integrati da cereali più adatti a terreni di montagna, come l'orzo e l'avena. La coltura veramente caratteristica dell'Abruzzo montano è invece la patata. Tra le leguminose ha importanza la fava da seme; zone orticole assai prospere si hanno sul litorale. La frutticoltura è diffusa un po' dovunque, ma dà prodotti mediocri; notevole è, come già si è accennato, la coltura del mandorlo nelle conche interne asciutte e molto calde d'estate (Aquila, Capestrano, Marsica).

Per le quattro colture principali si possono paragonare le medie del quinquennio prebellico (1910-14) e quelle del quinquennio 1921-25 (cifre in migliaia di quintali).

La diminuzione della coltura del granturco, dovunque, e di quella della patata nelle provincie orientali, è probabilmente in rapporto con le migliorate condizioni generali della popolazione, che ora consuma di preferenza il grano. La produzione di questo, caduta negli ultimi anni della guerra, va rapidamente tornando al livello prebellico, anzi lo ha superato già nel 1926, a giudicare dai dati complessivi che si hanno per l'Abruzzo-Molise. La patata resta come coltura essenziale nell'Abruzzo montuoso. Il grande incremento della produzione dell'uva in provincia di Aquila è dovuto specialmente al fortunato sviluppo della viticoltura nella zona di Sulmona.

Tra le colture industriali, ha il primo posto la barbabietola, localizzata quasi soltanto nella regione del Fucino; per essa l'Abruzzo è superato, tra le regioni dell'Italia peninsulare, solo dalla Toscana. Notevole sviluppo ha preso in tempi recenti la coltura del tabacco in alcuni luoghi del Teramano (Città S. Angelo), mentre limitata è quella delle piante tessili (canapa e lino) e sempre più ristretta ormai l'antica coltura dello zafferano, il cui commercio fu già così fiorente nell'Aquilano.

All'agricoltura si associa la pastorizia, altro fondamento della vita economica abruzzese. Ma gli estesi pascoli della montagna e degli altipiani, scarsi di acqua, pietrosi, e perciò con scarsa vegetazione erbacea poco rigogliosa, o addirittura rada, tanto che sovente non si presta neppure alla falciatura, sono poco adatti all'allevamento dei bovini, mentre possono essere utilizzati per gli ovini. Lo specchio in calce alla colonna che segue, mostra difatti l'assoluto predominio rimasto a questi ultimi, fino ai nostri giorni, nonostante l'enorme diminuzione verificatasi nell'Aquilano, cui fa riscontro un aumento dei bovini e dei suini, in tutto l'Abruzzo.

L'allevamento è brado tanto per i bovini quanto per gli ovini; la scarsezza delle acque e dei prati da foraggio favorisce il perpetuarsi di abitudini pastorali antichissime e quasi primitive, anzitutto quella della transumanza degli ovini. Pecore e capre trascorrono i mesi estivi nelle regioni elevate, dove i lanuti stanno all'aperto, accumulati in recinti chiusi da muretti di pietra, mentre i pastori abitano rozze dimore temporanee (stazzi), spesso lontani da ogni abitato, quasi segregati dal mondo; in settembre migrano coi greggi verso le pianure della Capitanata o anche nell'Agro romano, dove trascorrono i mesi invernali. Queste periodiche, lunghe migrazioni si fanno per i tratturi, vie erbose appositamente create e mantenute da epoca remota, dove gli ovini possono pascolare; di tratto in tratto si trovano, al margine di questi tratturi, delle aree per i pernottamenti (riposi). La vita caratteristica dei pastori, le loro abitudini, la loro stessa psicologia hanno ispirato artisti, scrittori e poeti.

Il declinare della pastorizia ovina nell'Abruzzo interno, accentuatosi a partire dall'ultimo quarto del secolo scorso, non senza suscitare allarmi, è in sostanza un fenomeno che accompagna tutti i paesi in progresso agricolo e industriale, e soprattutto quelli assai fitti di popolazione, nei quali non possono mantenersi a lungo sistemi invecchiati, come quelli connessi col seminomadismo dei pastori. D'altro lato, mano a mano che si aprono all'allevamento terreni quasi vergini nei paesi nuovi dell'America, dell'Australia, dell'Africa meridionale, la concorrenza delle lane provenienti da questi diminuisce il vantaggio della produzione nostrana. Ma di contro a un regresso inevitabile, è indice confortevole di progresso dell'industria armentizia lo sviluppo dell'allevamento dei bovini, più notevole nell'Abruzzo adriatico, e soprattutto l'incremento dei suini, comune a tutto l'Abruzzo, e così notevole, che il numero totale può ritenersi oggi triplicato rispetto a quello avutosi nel 1881. Le statistiche del 1918 risentono troppo ancora delle condizioni anormali connesse con la guerra perché si possano fare considerazioni di carattere generale. Appare evidente, peraltro, che le perdite causate dalle necessità belliche si sono rapidamente risarcite, e che anzi si delinea netto, almeno nell'Abruzzo adriatico, un nuovo incremento del patrimonio bovino, mentre la diminuzione degli ovini si è arrestata anche nell'Aquilano.

La pesca ha in Abruzzo importanza assai scarsa, come risulta dal censimento del 1921, che ha dato poco più di 900 pescatori in tutta la regione; sono quasi soltanto genti di Giulianova, Pescara, Francavilla ed Ortona; esercitano la pesca con paranze, spingendosi nell'Adriatico fin presso le opposte sponde e nelle acque albanesi; il prodotto serve in parte al consumo locale, in parte viene avviato per la ferrovia litoranea o per quella della Pescara ai centri dell'interno, ma la diffusione ha un raggio assai limitato (mercati di Chieti, Sulmona, Teramo, Ascoli, ecc.).

L'industria ha per ora importanza secondaria in Abruzzo. In passato, quando le comunicazioni erano scarse, e nelle zone più montuose ogni vallata, ogni conca chiusa faceva vita a sé, come un piccolo cantone isolato, fiorivano le piccole industrie domestiche, che lavoravano i prodotti locali per uso immediato della popolazione. Tipica l'industria della lana, che alimentava un tempo centinaia di piccoli laboratorî, e non solo produceva i panni per i bisogni dell'intera regione, ma largamente li esportava, mentre ora non sopravvive se non in qualche angolo remoto, dove si tessono e si tingono ancora, con procedimenti tradizionali, stoffe soprattutto per i costumi muliebri. Rimangono talune piccole industrie di carattere artistico, con spiccata impronta locale: quella delle ceramiche nel Teramano, soprattutto a Castelli; quella dei merletti, specialmente ad Aquila, a Pescocostanzo, a Gessopalena, dove accenna a rifiorire; quella dei lavori in ferro battuto (Guardiagrele); inoltre, quella dei liquori e degli estratti d'erbe aromatiche (Tocco Casauria, Pòpoli), quella dei confetti (Sulmona), ecc.

La grande industria moderna trova scarso alimento nei prodotti del sottosuolo. Tra essi primeggia oggi la bauxite, che si trova in molti luoghi dell'Appennino Abruzzese, ma soprattutto nei dintorni di Villavallelonga, Ovindoli e Lecce dei Marsi, e alimenta gli stabilimenti produttori di alluminio a Bussi sul Tirreno, dove sono i primi grandi impianti abruzzesi che abbiano usato l'energia idroelettrica. A questi primi impianti, che sfruttano le acque del Tirino, altri ne sono susseguiti sulla Pescara stessa, più a valle, a Piano d'Orta, dove con due salti successivi l'energia dell'acqua dà la forza motrice a grandiosi stabilimenti elettrochimici. Un terzo e un quarto salto e un bacino artificiale in costruzione, accresceranno di molto la potenzialità di questi impianti. Nello stesso tronco della valle della Pescara si hanno falde petrolifere (Tocco) e giacimenti bituminiferi (Manoppello) di non grande rendimento, ma dei quali oggi s'intensifica la utilizzazione. In conclusione, questo della valle della Pescara è oggi il più notevole distretto industriale abruzzese. Le ligniti si trovano in giacimenti di scarsa importanza, fugacemente messi a profitto durante la guerra; allora fu anche avviato con intensità lo sfruttamento della vasta e buona torbiera di Campotosto, ma ora anch'esso è interrotto. Argille, pozzolane, calcari sono adoperati in moltissimi luoghi per la produzione di cemento, calce idraulica, laterizî, ecc.

Gli stabilimenti di Bussi e Piano d'Orta producono anche carburo di calcio, cloro, soda, ecc.

La bieticoltura, nella zona del Fucino, ha dato vita al grande zuccherificio di Avezzano, capace di produrre giornalmente fino a 15.000 q.; esso è uno dei maggiori d'Italia.

La produzione di energia idroelettrica ha assunto notevole sviluppo soltanto negli ultimi anni. Nel 1925 si avevano già nella regione una quindicina d'impianti, capaci di fornire circa 90 milioni di kWh., pari a circa 8 kWh. per abitante, cifra che pone bensì l'Abruzzo alla testa di qualunque regione dell'Italia meridionale e delle isole, ma che lo lascia molto al disotto delle regioni alpine e anche di tutte le altre dell'Italia centrale. I più importanti impianti sono quelli già ricordati di Bussi e Piano d'Orta, che servono ad alimentare l'industria locale, e quello, testé ultimato, ad Anversa sul Sagittario, che fornirà forza motrice per l'elettrificazione di alcune ferrovie abruzzesi e per la distribuzione dell'energia a distanza, anche fuori della regione.

Ma in complesso difettano finora nell'Abruzzo le condizioni favorevoli per un rigoglioso fiorire della grande industria moderna. Lo sviluppo di questa in regioni più favorite d'Italia, da un lato, e dall'altro la creazione delle vie di comunicazione rapida, che agevolano il trasporto delle merci a distanza, hanno determinato una profonda trasformazione nel commercio dell'Abruzzo. Così il commercio delle lane di Aquila, di Lanciano, di Sulmona (dove erano anche celebri tintorie di panni), quello delle sete, quello dello zafferano, fiorenti nei secoli XV e XVI, così da richiamare in quelle città, e soprattutto in Aquila, colonie di mercanti veneziani, ferraresi, milanesi e anche trafficanti d'oltralpe, decaddero a poco a poco; in tempi più recenti si restrinse, insieme con la produzione, il commercio dell'olio (già prospero nell'età classica), decaddero anche i rapporti commerciali, alimentati da alcune industrie locali, come le ceramiche, i ferri battuti, i cuoi lavorati, che per il loro valore artistico si erano acquistata larga fama fuori della regione e talora anche fuori d'Italia. Si affievolì in pari tempo l'importanza di talune fiere e mercati già frequentatissimi, come quelli di Sulmona, Lanciano e Aquila. Oggi la lana si esporta in massima parte greggia, insieme con le pelli e altri prodotti dell'industria armentizia; si esportano ancora, ma in misura ristretta, uve e vini, zafferano, liquirizia, liquori, dolciumi e taluni dei sopravviventi prodotti dell'arte paesana; tra i prodotti industriali lo zucchero del Fucino, l'alluminio, il carburo di calcio e altri prodotti delle officine di Val Pescara, ecc.

La limitata importanza dell'industria in Abruzzo, soprattutto in confronto all'agricoltura, appare anche dalla tabella a piè di pagina che dà sommariamente i risultati della statistica delle occupazioni, secondo il censimento del 1921 (cifre percentuali).

Questa tabella mette poi in evidenza un'altra caratteristica dell'Abruzzo; cioè che le donne non prestano larga opera nei lavori agricoli veri e proprî, ma perpetuano l'antica tradizione di accudire alla casa, il che tuttavia impone loro sovente lavori non meno gravosi e forse meno salutari di quelli dei campi.

La viabilità. - Anche le vie hanno in Abruzzo mutato d'importanza col volger dei tempi. Nell'antichità le comunicazioni con Roma si effettuavano, prima, lungo l'antichissima Via Salaria per Rieti e Antrodoco, dove la via si biforcava raggiungendo con un ramo Ascoli e la valle del Tronto, con l'altro Amiternum e Castrum Novum; ad essa si aggiunse poi la Claudia- Valeria, da Roma per la Forca Caruso a Sulmona, e di qui lungo la Pescara fino al mare. Questa seconda via ebbe maggior importanza nel Medioevo, per le comunicazioni col Lazio; ma, intensificandosi i rapporti col Napoletano, crebbe a poco a poco, fino a diventare massima arteria della regione, la via da Caianello, per Isernia, Casteldisangro, il Piano delle Cinquemiglia, a Sulmona, e di qui per Pòpoli ad Aquila (Via Consolare degli Abruzzi) e per Cittaducale nell'Umbria. Da Sulmona divergeva la via per Pescara e poi lungo il litorale verso le finitime Marche. Queste rimasero l'arterie maggiori per le comunicazioni con le regioni contermini, fino, si può dire, alla unificazione nazionale e all'inizio delle costruzioni ferroviarie. Dopo il 1860, il nuovo regno ha provveduto assai largamente ad estendere la viabilità con strade nazionali e provinciali, spesso di costruzione e manutenzione difficile in un paese così montuoso. Tutte le maggiori vallate sono risalite da rotabili, e parecchie altre strade poi collegano valle a valle, bacino a bacino, salendo ad altezze rilevanti, talora fin oltre i 1300 m. (come l'anzidetta strada da Casteldisangro a Sulmona per il Piano delle Cinquemiglia; la bellissima strada dalla Marsica all'Aquilano per l'altipiano di Roccadimezzo, quella dalla Marsica a Pescasseroli e all'alto Sangro ecc.). L'isolamento di taluni cantoni, risalente ai tempi più remoti, è perciò venuto a cessare salvo nei mesi invernali, quando le vie più alte sono bloccate dalla neve; e questo, se ha contribuito alla decadenza di talune industrie dirette a provvedere ai bisogni locali, ha per contro giovato a facilitare l'importazione di prodotti dei quali, a cominciare da taluni dei più necessarî l'Abruzzo stesso difetta.

L'importanza delle strade rotabili è oggi assai aumentata, dacché molte di esse sono percorse da servizî automobilistici. Le linee regolari, sovvenzionate dallo stato, sono ormai una cinquantina per una lunghezza complessiva di km. 1800.

La prima linea ferroviaria abruzzese fu quella da Roma per Avezzano e Sulmona a Pescara, sul percorso dell'antica Via Claudia-Valeria, aperta nel primo tronco (Pescara-Sulmona) nel 1873, ma terminata solo nel 1892, che resta sempre l'unica comunicazione diretta da mare a mare attraverso l'Abruzzo. Le si innestano due linee in senso meridiano: quella da Rieti per Aquila a Sulmona (1875-83) e poi di qui ad Isernia e Caianello (1897), e quella litoranea da Ancona per Pescara a Foggia. Hanno importanza locale la linea da Avezzano a Roccasecca per la valle del Liri e la ferrovia sangritana da Casteldisangro a Ortona e San Vito. Da Giulianova un tronco risale fino a Teramo; il suo prolungamento fino a congiungersi con la linea aquilana gioverebbe assai a facilitare le comunicazioni fra l'Abruzzo interno e quello adriatico, e più ancora gioverebbe la creazione di una linea più rapida di comunicazione fra Aquila e Roma per la Sabina.

I centri abitati. - Anche nella ripartizione della popolazione si nota un notevole contrasto fra l'Abruzzo interno e quello adriatico. Nel primo manca, si può dire, la popolazione sparsa, se si fa eccezione per le conche, intensamente coltivate, di Aquila e di Sulmona. Nell'Abruzzo litoraneo, invece, la popolazione sparsa raggiungeva nel 1921 il 47% della totale, e si avvicinava al 60% nella regione collinosa del Teramano. Zone di particolare disseminazione della popolazione sono i dintorni di Teramo, la regione collinosa tra Vomano e Pescara, da Cermignano a Bisenti, Penne, Loreto, Pianella, e la regione sulla destra della Pescara, nei dintorni di Chieti e giù giù verso il mare, nelle valli del Foro, del Moro, dell'Arielli, ecc.

Caratteristica di tutto l'Abruzzo è l'agglomerazione della popolazione in centri piccoli, il che è indice dello scarso sviluppo industriale. Sei soltanto superano i 10.000 ab. e undici i 5000; essi raccolgono nell'insieme appena il 12% della popolazione totale. Qualche altro centro, di popolazione un po' minore, ha pur l'aspetto e la fisionomia cittadina; la grandissima maggioranza sono villaggi agricolo-pastorali. La pietra è sempre la materia principale che entra nella costruzione delle case, anche nei più piccoli villaggi di montagna; il legno, in una regione così povera di boschi, ha parte ovunque molto accessoria.

Nell'Abruzzo interno un'influenza evidente nel richiamare e aggruppare i centri abitati esercitarono sempre le maggiori conche, che offrono le più vaste estensioni di suolo coltivabile e sin dall'antichità costituirono i nuclei di altrettante tribù. Situazioni preferite non sono i fondi delle conche, spesso acquitrinosi e freddi, ma i pendii marginali o i dossi di alture emergenti alla periferia, in posizione più asciutta e più soleggiata. Così nella vasta conca formata dall'Aterno, già centro dei Vestini, è Aquila (20.000 ab. nel 1926), situata su una collina (725 m.) quasi isolata, che domina la parte centrale della conca. Più a sud, nel bacino, ampio e ben coltivato, ove il Sagittario e il Gizio si versano riuniti nell'Aterno, bacino che fu già centro dei Peligni, è Sulmona (16.000 ab.), anch'essa tuttavia su uno dei margini (meridionale) della conca, non lontana dal sito dell'antica Corfinium. La posizione, all'incrocio delle due maggiori vie che traversano l'Abruzzo (v. sopra), fece poi di Sulmona il mercato più importante di tutto il paese. Quasi al centro della conca stessa è il grosso villaggio di Pràtola (9000 ab.), e allo sbocco orientale Pòpoli (7000 ab.). Sui margini della conca del Fucino, già centro dei Marsi, troviamo Celano (8200 ab., 800 m. s. m.), più ad ovest Avezzano (10.500 abitanti; 700 m. s. m.), di sviluppo più recente, entrambe sul percorso dell'antica via Valeria; ancor più a occidente, a guardia del passo che conduce nella valle dell'Aniene e a Roma, e pur sul margine di una minore conca (Campi Palentini), Tagliacozzo (775 m. s. m.; 8000 ab.). Nella conca percorsa dal Sangro all'uscita dalle selvagge gole del corso superiore, Casteldisangro (4500 ab.; 800 m. s. m.) anch'essa situata al margine della conca stessa.

Tutti questi centri sono, come si è visto, collocati ad altezze notevoli. Centri minori si trovano in conche o pianalti più elevati ancora, o di minor estensione, quali quello di Montereale, notevole (come anche il limitrofo dell'Amatrice ora incluso nella provincia di Rieti) per il disseminarsi degli abitanti in moltissimi piccoli centri, o quelli di Capestrano, di Roccadimezzo, delle Cinquemiglia.

Molti sono poi i centri sorti intorno a gruppi di sorgenti cospicue, alla base dei grandi massicci calcarei, oppure su cocuzzoli elevati e di difficile accesso, intorno a castelli e rocche (nella sola provincia di Aquila si contano più di 20 villaggi il cui nome è composto con Castello, Castro o Civita, e 14 il cui nome è composto con Rocca); una designazione caratteristica per indicare una pendice molto ripida o una rupe a picco è, in Abruzzo, pèsco (da pensilis), che dà il nome a sette villaggi dell'Aquilano.

Nell'Abruzzo adriatico, solcato in valli trasversali dai tributarî di quel mare, sono preferiti, piuttosto che i fondi delle valli, i pendii, specialmente quelli esposti a S., oppure i dossi spartiacque, come di sopra si è detto. La stessa Teramo (14.000 ab. nel 1926) è su una collina spianata (265 m.), una sorta di sprone, fra Vezzola e Tordino: sono posti su dossi o su colline Civitella del Tronto (438 m. s. m., 4200 ab.); Loreto Aprutino (307 m. s. m., 2900 ab.); Città S. Angelo (320 m. s. m., 3800 ab.); e sulla destra della Pescara, Chieti (330 m. s. m., 28.000 ab.), Guardiagrele (577 m. s. m., 4000 ab.), Orsogna (434 m. s. m., 4700 ab.), Lanciano (283 m. s. m., 10.000 ab.); Atessa (430 m. s. m., 3500 ab.), ecc.

Le due vallate più popolate sono quelle interamente percorse da ferrovie, cioè quelle della Pescara e del Sangro; la prima comincia ad avere oggi, come si è già detto, importanza, anche dal punto di vista industriale, onde il rapido sorgere di alcuni centri, come Bussi (3000 ab.) e Pòpoli.

Il mare non ebbe mai, come si è accennato, grande importanza nella vita dell'Abruzzo, la cui costa è unita e importuosa. I pochi centri marittimi sono sorti in prossimità delle foci dei fiumi. Pescara, il più grande, oggi eretta a capoluogo di provincia (circa 23.000 abitanti nel 1926), risulta dalla fusione di Pescara, il centro più vecchio, sulla destra del fiume, già in provincia di Chieti, con Castellammare sulla sinistra, in provincia di Teramo, centro di più recente sviluppo, ma oggi più popoloso. Più a nord, Giulianova (3200 ab.) è, si può dire, lo scalo marittimo di Teramo, che è ad essa congiunto per ferrovia; nel Chietino, Francavilla a Mare (3200 ab.) e Ortona hanno soprattutto importanza come stazioni balneari, ma quest'ultima si è oggi sviluppata come sbocco della ferrovia sangritana (9500 ab.). Il Vasto (9000 ab.) non è propriamente sul mare, ma su una collina che ad esso si affaccia (145 m.); la sua importanza, che nei secoli addietro era assai notevole, è oggi invece diminuita.

Bibl.: E. Abbate, Guida dell'Abruzzo, Club Alp. Ital., Roma 1903; A. Balzano, Abruzzi e Molise, Torino 1927; Carta Idrografica d'Italia. Aterno-Pescara, Roma 1900; Sangro, Salino, Vomano, ecc., Roma 1903; L. F. De Magistris, Gli Abruzzi e il Molise in La Terra, di G. Marinelli, IV, pp. 1069-1152; Th. Fischer, La penisola italiana, Torino 1902, pp. 457-58 e passim; E. Furrer, Natur und Kulturbilder aus den Abruzzen in Jahrb. des schweiz. Alpenclub (1923) pp. 227-53; K. Hassert, Die Abruzzen in Geogr. Zeitschrift, 1897; A. Mac Donnel, In the Abruzzi, Londra 1908; C. Minieri-Riccio, Biblioteca storico-topografica degli Abruzzi, Napoli 1862 (con supplemento di A. Parasca 1876, V. Bindi 1884 e G. Pansa 1891); F. Sacco, Gli Abruzzi in Boll. Soc. Geol. Ital., 1907; Touring Club Italiano, Guida dell'Italia Meridionale, I, Milano 1926.

Folklore.

Il popolo abruzzese è dedito in gran parte alla pastorizia, all'agricoltura e, in proporzione assai minore, alla pesca. I pastori sono caratteristici non solo per il loro abbigliamento invernale (calzoni e giacca di pelle) per la loro mazza incisa di bizzarri disegni, ma soprattutto per l'espressione seria e grave del volto. Partono dalle loro montagne, con i primi freddi autunnali, e attraverso i lunghi tratturi conducono il gregge a svernare nei pascoli delle pianure. Tornano a giugno, e vivono in luoghi remoti, attendendo alle faccende del loro mestiere e a certi lavori manuali in osso e in legno. Solo ogni quindicina possono scendere all'abitato, ma non possono restarvi più di tre giorni. Più numerosi e varî gli agricoltori: silenziosi, aspri, rudi quelli delle montagne, più gai, espansivi ed esuberanti quelli delle pianure. La loro operosità è uniforme e metodica: vanno al lavoro prima che sorga il sole; mangiano sui campi tre volte al giorno; vanno a letto prima che si faccia notte. I contadini abruzzesi dànno del tu a tutti, e salutano anche gli sconosciuti con un sobrio e grave Dio sia laudato. I marinai sono per lo più modesti pescatori, o si spingono con i loro trabaccoli carichi di merce, dalle foci della Pescara o dai porti d'Ortona, sulle coste della Dalmazia. Le fogge dei vestiti hanno, col tempo, perduto la stretta caratteristica regionale: solo i pastori sono restati fedeli alle loro tradizioni. Anche gli abbigliamenti femminili conservano fogge paesane, talora molto singolari e risalenti ad una remota antichità, come a Pettorano, a Pescasseroli, a Scanno.

Gli Abruzzesi sono tenaci e rigidi nell'osservanza di certi riti tramandati per lunga successione di anni. Le cerimonie nuziali variano da paese a paese: in certe località, alla vigilia delle nozze, il fidanzato canta una serenata (la partenza) sotto la finestra della ragazza; e, quando nel giorno successivo, un lungo corteo accompagna gli sposi alla casa maritale, dei ragazzi stendono nastri variopinti sulla strada, e la comitiva dovrà offrire dolci e doni, se vorrà avere sgombero il passaggio. La coppia di sposi procede di solito sotto una pioggia di confetti, che parenti e conoscenti gittano dalle finestre sul corteo. Vecchia e quasi sacra, in taluni paesi d'Abruzzo, la consuetudine di offrire grano e pane alla sposa. Ma se uno, o tutti e due gli sposi, siano d'età avanzata, o vedovi, allora si fa alla malcapitata coppia una serenata di fischi e urli, accompagnati dal fragore di vecchie stoviglie, campanacci e latte di petrolio (la scampanacciata). Sincero e profondo è il culto dei morti. Lunghe processioni di confraternite accompagnano il defunto al cimitero: gli uomini, che le compongono, indossano prolisse cappe bianche o nere o rosse, con i cappucci rialzati sulla fronte oppure calati per intero sul volto. La cassa da morto, in taluni paesi, viene per lo più portata a mano e sorretta da tovaglie bianche. Se si tratta d'un morticino, il corteo è formato da lunghe file di fanciulle vestite di bianco, e accompagnato da un gruppo di sonatori, che salutano con dolci melodie l'ascensione al cielo del nuovo angioletto. Per parecchi giorni consecutivi i parenti offrono al più prossimo congiunto del morto il pranzo, detto cunzolə: le vivande vengono portate in grosse ceste, ma le stoviglie devono essere lavate altrove, per evitare che una nuova sciagura si abbatta sulla famiglia. Il giorno dei morti, ogni famiglia accende tanti ceri quanti sono i suoi defunti, e lascia presso la porta di casa una conca piena d'acqua, perché si crede che i trapassati ritornino per estinguere la loro arsura. Dalla casa i morti si recano, secondo una diffusa credenza, in chiesa per ascoltarvi una messa misteriosa: e chi si ponga uno staccio avanti agli occhi o appoggi il mento ad una forca, può vederli e riconoscerli. I morti restano nelle proprie case fino all'Epifania e perciò non si deve far oscillare la catena del focolare, per non destarli dal loro riposo. Alcune credenze risalgono a tempi lontanissimi; e tracce di danze macabre non mancano nella pittura abruzzese, come, per es., l'affresco della cattedrale di Atri (prima metà del sec. XV) e quello della chiesa di S. Maria in Piano, presso Loreto Aprutino. Reliquia di antichi contrasti tra vivo e morto è il Verbumcaro, in cui due cantastorie sostengono la parte del defunto e del superstite, per mettere a nudo le vanità dei piaceri mondani. Al culto dei morti si ricollegano alcuni pregiudizî: chi è stato ucciso, sconta i proprî peccati nel luogo del delitto; la farfalla che vola attorno al lume, è un'anima che chiede preghiere; le stelle cadenti sono anime che ci avvertono di qualche sciagura prossima; un Pater che si riesca a recitare durante la caduta della meteora, varrà a liberare un'anima dal Purgatorio.

Affini agli spiriti sono certi esseri misteriosi che dànno l'incubo nel sonno e levano il respiro con la sola loro vicinanza: hanno, per lo più, la forma di grossi gatti neri, e vengono chiamati Pandàfechə. Molesto, ma non nocivo, è il mazzemarèllə, piccolo folletto burlone, che porta un berretto rosso, e combina bizzarre beffe alle donne. Più terribile, il demonio si aggira, di notte, come gli spiriti maligni, nelle parvenze d'un cane nero dagli occhi fiammeggianti o di caprone irrequieto. Gli uragani, le grandinate, i più paurosi fenomeni atmosferici si credono prodotti da demonî, spiriti maligni e streghe. Certi venti vorticosi suscitati dagli spiriti degli assassinati, sul luogo del delitto, si chiamano vutarilli (singolare vutarèllə): e con questo nome si designa anche l'anima inquieta che dentro vi si agita. La tromba marina (scijonə) è per lo più una creatura umana che nasce alla mezzanotte di Natale: può riacquistare la sua sembianza, qualora sia colpita a sangue, ma conserverà la traccia della ferita. Contro l'infuriare di queste forze malefiche si ricorre a scongiuri, che consistono per lo più nell'esporre una creatura innocente, oppure nel collocare sul davanzale della finestra un coltello, o una scure, per premunirsi contro le saette; nel porre sulla strada ferri d'ogni sorta o la catena del focolare, o una palma benedetta per allontanare gli spiriti; nel trinciare con la falce tre croci in direzione della nuvola minacciosa, come se si volesse squarciarla, per scongiurare la grandine durante la mietitura. I contadini e il popolo abruzzese credono fermamente all'azione di forze malefiche che si sprigionano stranamente da certi individui, per lo più cupi o deformi o desiderosi dell'altrui male (la jettaturə, jiattaturə, malucchiə). Ma più terribili sono quelle influenze sinistre che si ottengono con certi particolari esorcismi o con la confezione di droghe malefiche e ripugnanti: la fattura. Con la fattura si costringono gl'individui a passioni invincibili, a profondi e indissolubili legami, a particolari debolezze, e ad inguaribili deperimenti e malattie. Essa si esercita o dando a ingerire a qualcuno, senza che se ne avveda, sconce mescolanze di droghe varie, o, per lo più, stregando con particolari formule magiche la camicia o altro indumento intimo della persona designata. Per scongiurare e preparare le fatture, si ricorreva all'opera di curiosi magaruni.

Il sentimento religioso in Abruzzo è vivo, profondo, diffuso: nell'osservanza di certe consuetudini e di certi riti il popolo perpetua la profonda serietà delle sue credenze. Notevole, per es., la grandiosità di certe processioni, in cui i giovani fanno a gara, con ricche offerte di denaro, e doni alla chiesa, per sorreggere la pesante statua del santo, che viene condotta per il paese a suon di banda tra lo schioppettìo assordante dei mortaretti. Lungo il percorso vengono drappeggiati i balconi e le finestre con le più belle e sgargianti coperte, e, di tanto in tanto, la statua viene deposta su appositi tavolini rivestiti di tappeti serici, che qualche famiglia ha collocati presso la casa, per propiziarsi con doni il favore del santo o ringraziarlo di qualche grazia ricevuta. Caratteristiche certe processioni in onore del Cristo morto, che sfilano in certi paesi d'Abruzzo, la sera del venerdì santo: una lunga teoria di statue simboliche, raffiguranti per lo più la Morte, il Calvario, la Fede, la Speranza e la Carità, precede la bara su cui è steso Gesù, accanto al quale piange la Desolata. Il giovedì santo, in molte chiese s'usa raffigurare su vasti palchi scene della Passione, con apposite statue di grandezza naturale. Trattasi di vere e proprie reliquie di sacre rappresentazioni, le quali, fino a pochi anni fa, erano ancora in uso, in certi paeselli d'Abruzzo, come ad Orsogna e a Capistrello. Ad una vera e propria sacra rappresentazione si riduce, a Lanciano, la processione di Pasqua. La Madonna, vestita a lutto, è collocata sotto un grande baldacchino di rami verdi: il suo sguardo è rivolto verso Lanciano vecchia, donde per tre volte arriva a lei S. Giovanni, per annunziarle la resurrezione di Gesù. Invano: la Madonna non gli presta fede. In fine Maria, esortata dal messo, muove in cerca del Salvatore, e, quando le due statue s'incontrano, la Madonna viene rivestita d'un gran manto reale, donde spiccano il volo passere e colombe, mentre la banda e le campane suonano a festa. Altre caratteristiche processioni d'Abruzzo sono: quella di Cocullo (1° giovedì di maggio), in cui la statua di S. Domenico viene ricoperta di serpi vive, e serpi vive portano coloro che vi prendono parte; quella della Madonna del Ponte a Lanciano, preceduta da una schiera di donne che portano in testa conche colme di frumento; quella di Loreto Aprutino, nel lunedì dopo la Pentecoste, in cui la statua del Santo viene scortata da tutte le rappresentanze degli agricoltori, e da un bove rivestito di nastri e drappi rossi. Durante la festa della Madonna del Rifugio, sfilano ad Ortona curiose barelle (talami), su cui è stesa una ragazza, preceduta da bambini, che rappresentano episodî dell'Antico Testamento. A Taglianico la statua di S. Pantaleone è seguìta da una schiera di donne, che reggono canestre di grano. A Bisenti (Teramo), durante la festa della Madonna degli Angeli, vien portato in giro, per il paese, a suon di banda, un asino inghirlandato, seguìto da una processione di giovinette che recano sul capo ceste di grano. La stessa consuetudine si osserva a Bugnara (Aquila) il 5 di agosto, e pare sia una sopravvivenza del culto di Demetra. Ma le due più caratteristiche feste d'Abruzzo sono quelle di S. Antonio (17 gennaio) e di S. Giovanni (24 giugno). La sera precedente la festa di S. Antonio allegre brigate si recano per le case, a cantarvi poesie celebranti la vita del Santo e le sue vittorie sulle dispettose insidie del demonio. Un individuo della comitiva, camuffato con un lungo càmice, con una barba di stoppa e con una mitra di carta, rappresenta S. Antonio: accanto a lui un demonietto saltella, bertucciando la comitiva con varî lazzi. La festa di S. Giovanni è, invece, la festa della primavera, e vanta una tradizione antichissima. I giovani usano, di solito, porre fiori presso le porte e le finestre delle persone amate, e spine e frutta fradice presso le case di coloro che odiano. La rugiada (huazzə) che cade nella notte di S. Giovanni, è sacra; anche l'acqua acquista virtù miracolosa, perché si crede che in quella notte si bagnino il sole e la luna. Perciò, ai primi albori, molti si recano a fare il bagno nel mare o nel fiume, e le donne vi sciolgono le trecce, perché diventino più belle e voluminose. La festa di S. Giovanni inoltre consacra i più intimi e cordiali legami d'affetto. In questo giorno, infatti, s'usa inviare a persona amica doni e fiori (ramajjéttə), e s'attende il ricambio per la festa di S. Pietro. In tal modo i due si considerano compari, e la persona del compare resta sacra nell'affetto e nella stima della famiglia: egli è addirittura il S. Giuvannə; ogni offesa fatta a lui è esecranda e spregevole agli occhi di tutti. Tra giovinetti e giovanette il comparatico si celebra non soltanto con lo scambio di doni, ma intrecciando i mignoli, e ripetendo certe formule versificate, che sono un giuramento di fedele e tenace amicizia.

Ma l'anima abruzzese raggiunge il massimo dell'esaltazione religiosa nei pellegrinaggi. Mete principali cui tendono tante anime devote, sono le Grotte di S. Michele Arcangelo, presso Civitella del Tronto; la Grotta di S. Angelo, presso Balsorano; la Grotta di S. Colomba sul Gran Sasso; il Santuario della Madonna del Lago, presso Scanno; Guardiagrele; Manoppello; S. Gabriele e la S. Casa di Loreto. Si pernotta di solito nei santuarî visitati, dormendo per devozione sulla nuda terra, in una curiosa mescolanza di sessi. A S. Gabriele si suole stendere il corpo dell'ammalato sulla lastra tombale, ove una volta era sepolto il santo, e attendere per lunghe ore ansiosamente che il miracolo si compia. Uguali consuetudini si osservano nelle grotte di S. Franco d'Assergi, di S. Domenico Villago, di S. Michele Arcangelo, di S. Colomba. Qualche volta la grazia si domanda con più tragico ed esasperante trasporto; in certe circostanze i devoti attraversano più e più volte in ginocchio la chiesa, segnando con la lingua croci sul pavimento, oppure la preghiera assume l'energia d'un comando o la violenza d'un'imposizione. La fede del popolo abruzzese si manifesta anche nella decisa volontà di sentire la presenza di Dio e interpretarne le segrete intenzioni, in certe circostanze particolari della vita. Perciò diffusa e profonda in Abruzzo è la credenza nei presagi: la direzione, p. es., delle scintille che ricadono dai fuochi artificiali, può nelle sere d'estate preannunziare l'abbondanza o la scarsità del raccolto; il plenilunio nella notte di Natale è di ottimo augurio; dalla direzione dei venti che spirano, mentre si celebra la messa di Natale, si possono indovinare le vicende delle stagioni. Gittando sul piano rovente del focolare, una dopo l'altra, dodici foglioline d'ulivo, si potrà, nella notte di capodanno, sapere se una persona vivrà più o meno prosperamente, a seconda della rapidità e frequenza di movimenti: se la foglia resterà immobile e brucerà, il destino dell'individuo è già segnato. A Chieti le fanciulle gittano sulla strada l'acqua nuova di capodanno, e spiano chi passi prima sul bagnato, per attingere presagi circa il loro futuro sposo. Quando, nella domenica delle Palme, il sacerdote rientra in chiesa, se gli è vicino un ricco o benestante, se ne trae buon augurio per il raccolto dell'annata, ecc.

Numerose e varie sono le tradizioni sacre o rivestite di un colorito sacro, diffuse anche oggi in Abruzzo: alcune, come quelle di S. Antonio, risalgono alle origini della nostra letteratura. Curiosa la persistenza d'una leggenda secondo la quale i principali personaggi della Passione sarebbero nati in certi paesetti abruzzesi, come Collarmele, Pietracamela (Teramo), Stiffe, Prata Ansidonia (Aquila) e Amiterno. Lanciano sarebbe, secondo una tradizione, la patria di Longino, Bisenti avrebbe dato i natali a Pilato: i due, convertiti e penitenti, avrebbero trascorsi in Abruzzo gli ultimi anni della loro vita. Resti di tradizioni mitologiche sopravvivono non soltanto nella novellistica, ma anche nella toponomastica locale (Grottə de lu Cecalèupe, grotte del Ciclope, presso Civitella, Arabona, Ara Bonae Deae, presso Sulmona, Opi e Villa Opi, nell'Aquilano, Colle Fauno, Ara di Saturno, Poggio di Giano, Monte Giano nell Aquilano, Collejano, nel Teramano). Annibale lasciò nella toponomastica, a proposito e a sproposito, tracce del suo passaggio in Abruzzo. Tomba d'un generale cartaginese, secondo la tradizione, sarebbe un gran masso che trovasi nell'agro frentano. Un Guado d'Annibale trovasi al confine del Teramano e dell'Ascolano. Presso Luco de' Marsi si nota la Grotta di Nerone, ove pullulano molte leggende circa il cunicolo praticato nella montagna sovrastante il lago Fucino.

Non mancano motivi di leggende medievali: il nome di Rocce di Cecco d'Ascoli portano da secoli certi blocchi silicei sorgenti nel circondario di Cittaducale, i quali presentano una profonda spaccatura attribuita dalla leggenda all'opera infernale di Cecco. Colle di Renzi è chiamata una località della Majella, ove, secondo la tradizione, il tribuno avrebbe fatto vita di penitenza, insieme con altri eremiti che si trovavano in quel luogo. Anche le tradizioni carolinge sono diffuse in Abruzzo ed hanno lasciate numerose tracce, oltre che nei racconti, nella toponomastica. Un Colle del re Pipino sorge nelle vicinanze di Cittaducale; Ponte dei Paladini trovasi presso Montorio; e Piana dei Paladini (presso Manoppello), Strambo del Paladino (presso Antrodoco), Grotta dei Paladini o Sepolcro dei Franchi (presso la Majella), Macchia d'Orlando (presso Carsoli), Colle d'Orlando (presso Castel di Sangro), Guardia d'Orlando (nella Marsica), Grotta d'Orlando (presso il Monte Tetrico), Peschio d'Orlando (nella Marsica), Colle di Rinaldo (presso Antrodoco), Carlo Magno (presso Castel di Sangro), Grotta d'Olivieri (presso il Velino), Olivieri (presso Civitella del Tronto) sono altri nomi di località abruzzesi. A Monte Bovo, presso Tagliacozzo, Orlando e Bovo d'Antona avrebbero difeso la Marsica da una invasione di Saraceni. Nella tradizione popolare abruzzese, i paladini sono diventati smisurati giganti, che sorreggevano pesi fantastici e divoravano quantità enormi di cibi. Tale leggenda vive anche oggi fra Teramo e Giulianova, ove certi ruderi hanno assunto il nome di Passi d'Orlando, lungo la vallata del Vomano; nelle vicinanze di Spello e presso Antrodoco, ove si attribuiscono ai paladini costruzioni di mura ciclopiche. Ad Atessa e in altri paesi del Chietino, si narrano ancora le imprese di Bovo d'Antona, che derivano dal IV libro dei Reali di Francia di Andrea da Barberino, con introduzione di elementi d'origine novellesca. Così nella novellistica popolare ricorrono di frequente nomi cavallereschi e motivi carolingi, come, p. es., Carlomagno e reminiscenze di Berta. A Scanno si ricorda l'assedio postovi da Carlomagno per strappare, alla maga Angiolina e al fratello Corrubulante, Alda la bella, che questi aveva fatto rapire. Una tradizione d'origine dotta vuole che Penne sia stata fondata da Carlomagno, e che Vasto sia stata in origine Guasto Aimone, per ricordare il padre di Rinaldo da Montalbano. Diffusa in Abruzzo è anche la leggenda di Pietro Baialardo (alterazione di Pietro Barliario, astrologo salernitano, morto nel 1149) che narra le sue imprese prodigiose di negromanzia, compiute con l'aiuto del libro magico. A lui si attribuisce fra l'altro la Via lattea, fatta costruire quando l'astuto mago si recò a S. Giacomo di Galizia. Ampiamente nota in Abruzzo è la leggenda dei tesori nascosti, nelle profondità delle grotte, sotto i macigni, o in luoghi inaccessibili. La tradizione presenta di solito questi tre motivi fondamentali: una porta di ferro vieta il tesoro; un diavolo, o talvolta una fata, una strega, o una sibilla (termini che si equivalgono) lo custodiscono, e atterriscono con uragani, fiammate, grida, fragori di catene coloro che tentano d'impadronirsene; il tesoro si presenta diviso in tre mucchi, d'oro, d'argento e di rame. In talune località è un vitello d'oro (Vasto, Camera presso Campli), statue d'oro con occhi di brillanti (Pentima), pelli d'oro (tesoro di Ovidio a Sulmona), chioccia con pulcini d'oro, telai d'oro, capre d'oro, montoni d'oro. Spesso si tratta di qualche individuo assassinato presso un tesoro nascosto; e allora s'impadronirà della ricchezza chi osserverà certi riti prescritti dal morto. Tale la leggenda di Giuditta Forchetta, una veneziana che, secondo la tradizione, sarebbe stata uccisa dal fratello e giacerebbe sepolta insieme col tesoro presso S. Clemente a Casauria. Carattere di cupa tragicità hanno certe leggende che ricordano il ius primae noctis, diffuse con grande frequenza in tutto l'Abruzzo. La novellistica abruzzese ripete e svolge i soliti motivi di molte novelle tipiche, patrimonio comune dei più varî popoli: quelli della fanciulla barbuta, della Cenerentola, della Betta Pilusa, della figlia della maga, del Re Porco, di Prezzemolina, del Mago dalle sette teste, del Gatto fatato o Chat botté, della serva saracena, dello sciocco fortunato, della lanterna prodigiosa, della fanciulla dalle mani troncate si ripetono di frequente, e talvolta variamente s'incrociano nelle narrazioni abruzzesi. Anche nella poesia popolare ritornano i soliti motivi tradizionali: sono per lo più canti d'amore e di preghiera, brevi spunti narrativi, rispetti, strambotti, canti epico-lirici e stornelli. Ma nel vecchio fondo dei motivi comuni penetra talvolta un particolare atteggiamento di spirito, che imprime loro una nota di assoluta originalità: l'ostinazione selvaggia, il dispetto, la decisa volontà di possesso. Un senso, p. es., di rustica cavalleria, tuttora viva in certi paesetti dell'Appennino, anima e colorisce una curiosa serenata edita dal Finamore. Essa esprime tutta l'esasperazione con la quale un giovane, la cui passione è aspramente ostacolata dai parenti della fanciulla, grida la sua rabbia e il suo dispetto sotto le finestre della donna vietata. La parola d'amore diventa parola d'odio, di provocazione violenta; vi si respira un'acre voluttà di sangue, in cui si sente maturare la fosca tragedia imminente. Ma non mancano voci di bontà e d'intimità affettuosa: certi canti hanno morbide movenze di suoni ed esprimono, specialmente i pianti della Madonna, l'affetto materno con solennità profonda; certi canti d'amore esprimono la gioia del possesso e della bellezza, con impeti selvaggi o con candore infantile. Talvolta il dolore sale chiuso e desolante nelle strofe di alcuni lamenti, come per esempio, il canto della vedova, edito anch'esso dal Finamore, che ha una compostezza grave e sobria di suoni e una sincerità profonda di sentimento.

Una rielaborazione artistica di motivi tradizionali si ha in parecchie opere di Gabriele d'Annunzio.

Bibl.: Ricordiamo soltanto le opere fondamentali, in cui del resto non mancano saggi di vasta e varia bibliografia. A. De Nino, Usi e costumi abruzzesi, voll. 6, Firenze 1879-97; G. Finamore, Credenze, usi e costumi abruzzesi, in Curiosità popolari tradizionali di G. Pitré, Palermo 1890, VII, XIII; id., Novelle popolari abruzzesi, in Arch. per le trad. pop., III (1884); IV (1885); V (1886); id., Il pastore e la pastorizia in Abruzzo, in Arch. per le trad. pop., IV (1885); id., Storie popolari abruzzesi in versi, in Arch. per le trad. pop., I (1882); id., Streghe e stregherie, in Arch. per le tard. pop., III (1884); id., I tesori, in Arch. per le tradizioni pop., II (1883); III (1884); id., Trad. popolari abruzzesi, voll. 2, Lanciano 1882-886; id., Tradizioni popolari abruzzesi, Palermo 1884; D. Ciampoli, Fiabe abruzzesi, Lecce 1880; id., la leggenda di Ovidio in Sulmona, in Archivio per le trad. pop., IV; G. Pansa, La jettatura, in Archivio per le trad. popolari, IV (1885); id., Miti, leggende e superstizioni dell'Abruzzo, voll. 2, Sulmona 1924-1927; id., Ovidio nel Medioevo e nella tradizione popolare, Sulmona 1924; L. C. Smith, in Studi e materiali di Storia delle religioni, IV (1928); M. Parrozzani, La poesia popolare abruzzese, Noto 1907; V. Balzano, Abruzzo e Molise, Torino 1927; R. De Vestea, L'Abruzzo, Milano s. a.

Dialetti.

Il tipo dialettale abruzzese-molisano può dirsi risulti dal concorrere di varî fenomeni, che spettano anche quasi tutti, in grado maggiore o minore, a regioni finitime. Tuttavia questi fenomeni dànno, incrociandosi e assommandosi l'uno con l'altro, un particolare aspetto e una propria fisionomia al nostro dominio. Certi tratti e aggruppamenti, poi, si possono dire caratteristici di una o di altre sezioni, di una o di altra varietà.

Vocalismo. - Lo sviluppo di a in æ, e, ei ed è guizza per il nostro territorio, in condizioni diverse (p. es. a Teramo, quando la vocale non sia in posizione: pænə "pane", sænə "sano", ecc.; a Bucchianico: mélə "male", cirché "cercare", ma l'á resta quando la finale sia -a, p. es. stradə "strada"; a Scanno quando preceda suono palatile, p. es. fijjè "figliare", magnè "mangiare", di fronte a kjamà, purtà, parlà, ecc.; per più larghe e precise informazioni, v. italia: dialetti: Dialetti centro-merid.). Questo tratto fonetico ricongiunge il nostro dominio da un lato al marchigiano e all'umbro (che si riattaccano a loro volta rispettivamente al romagnolo-emiliano e al gruppo aretino-chianaiuolo), e dall'altro lato alle Puglie e alla Capitanata, dove abbiamo le propaggini estreme di questo fenomeno di palatalizzazione. In particolare, l'a si palatalizza in e, giungendo sino a ie e ad i, sotto l'influsso di un -i finale. A Vasto: kanə "cane", ma plur. kénə "cani", kavallə, plur. kavéllə; jè allavə "io lavo", ma tu allévə "tu lavi", ecc. A Lanciano e a Scanno: sing. manə "mano", menə "mani", ecc. Nel Chietino si ha ie od i, e nel Teramano addirittura i: fritə "frati", kinə "cani", ecc., sviluppo comune ad altre varietà, come ad Atessa (kinə "cani"). Sono forme di plurale estese al singolare: mjenə "mano" a Paglieta e minə ad Atessa. Anche a Bucchianico: scillarite "scellerati".

Tratto notevole del vocalismo è la cosiddetta metafonesi di tipo napoletano, per cui l'é??? e l'ó???, nelle voci che finiscano per -i e anche, in taluni luoghi, per -u, si sono fatti, per assimilazione, in età antichissima, i e u. Questa fase perdura, p. es., ad Atessa: cridə "credi", ma credə "credo". Poi, questi i e u hanno subìto in più varietà dialettali le sorti di ogni ò e ù??? latino, i quali, in varie zone, in tempi meno antichi o relativamente recenti, si sono dittongati in ei, ai, oi e in éo, iu (p. es. a Palena, Vasto, Bucchianico). Ecco, dunque, che a Vasto, per venire ad un esempio, abbiamo il plurale cëici "ceci", con un ëi, sviluppatosi da un i, come in amëikə "amico", e così al sing. fjaurə "fiore" risponde un plur. fjîurə con un îu, che risale a un u (come in urə "muro"). Ne consegue che il dittongamento di ogni i e u in abruzzese è posteriore alla metafonesi.

Nel Molise, come si osserva nelle varietà più rappresentative (p. es., Campobasso), le condizioni metafonetiche sono ancor più spiccatamente napoletane.

Fuori di metafonesi, l'è e l'î si sviluppano in èi, ai e rispettivamente ou e au in molti luoghi. A Pratola Peligna: inteise "inteso" 'náure "onore", kráuna "corona". Così anche a Palena, a Bucchianico e altrove.

Anche å e ñ subiscono gli effetti detti metafonici. Le condizioni di Scanno sono le seguenti: mentre, fuori di metafonesi, queste vocali si fanno aperte o chiuse, secondo che siano libere o in posizione (té' "tiene", vona "buona"; šta, voita "volta"), per ragione metafonica dànno rispettivamente e (tjembo, puoche, ecc.). A Teramo, sotto metafonesi, si ha ie e u (tiempə, juchə). A Campobasso: ie e uo (vermə, plur. vjermə; luokə, uossə, ecc.). A Pratola Peligna: pèukə "pochi", kjèuvə "chiodo".

Un'altra caratteristica da mettere in evidenza è l'influsso di un u precedente sulla vocale tonica. L'abr. lə puatre risale a lu patre. Così, a Vasto abbiamo: lu tsujanə "lo zio", ma plur. li tsijéne, "gli zii"; lu kuoppèllə "il cappello"; málə "miele", ma lu muélə "il miele"; kéurə "cuore", ma lu kuéurə "il cuore"; allunguá "allungare", ecc.

Sempre nell'ordine vocalico, è da notare lo scadimento d'ogni vocale finale, compresa -a, scadimento che, oltrepassando la fase di suono indistinto -ə, può arrivare sino alla scomparsa. Tuttavia, l'-a sopravvive nell'interno della frase o in proclisia paratattica: p. es., la fémməna bèllə, ma la bèlla fémmənə.

Sono limpide e istruttive (e perciò degne di essere considerate in modo particolare) le condizioni del vocalismo di Agnone (Molise). Si tratta di squisiti fenomeni, che sono uno strumento prezioso per la migliore intelligenza del trattamento che subiscono le vocali in tutto il territorio abruzzese-molisano (territorio linguisticamente inscindibile). Quivi l'á, nei parossitoni, quando sia libero, cioè in condizioni di estrema sensibilità, volge ad ea "un suono che incomincia con e e va a finire in a", ma, per effetto di un u precedente, diviene uo e persino, con accento ritratto, úə: per es., ru nuó???se "il naso", ru kuó???nə "il cane". In metafonesi o preceduto da palatale, si fa jé???, ije: kjènə "piano", mañjé??? "mangiare". Quando sia in posizione, l'a resta, ma nei casi sopra mentovati si muta rispettivamente in ï e é: bušó???rdə "bugiardo", ùé???nnə "ghianda", kjênde "pianta". L'i si dittonga a oi (îivə "oliva"), mentre resta in sillaba chiusa e nei proparossitoni, e a questo riflesso giunge anche l'é??? sotto metafonesi, dopo essere passato per i (aâó???itə "aceto", mó???isə "mesi"). L'è, in sillaba libera, dà ai (âairə "cera", kraitə "creta"), in sillaba chiusa permane è, mentre, in quest'ultima condizione, si mantiene sotto metafonesi nella fase i (âíppə "ceppo"). L'u si rompe in iu, iu (meniutə "venuto"). L'î si comporta in modo parallelo ad è, cioè: liupə "lupo", ma kulaurə "colore"; krottə "grotta" e kjummə "piombo". L'è sotto metafonesi, in sillaba aperta e chiusa, dà ié???, mentre fuori di metafonesi volge ad ei e ïi: pïidə "piede". Condizioni analoghe per ó???, che, sotto metafonesi, passando per uə giunge ad úə (uóvə, úəvə "ovo"), mentre, fuori di metafonesi, rimane in sillaba chiusa e si muta in éu in sillaba aperta (léukə "là", lat. loco).

Consonantismo. - Per il sistema consonantico, è notevole che in una zona centro-meridionale compaiano intatti i nessi di consonante labiale con l (pl, bl, fl), come ad Atri: plajə "piaggia", a Penne: fléumə "fiume", a Teramo: plandá "piantare", plazzə "piazza", ecc. Ma questa conservazione è apparente, perché in tutti questi casi non abbiamo avuto che un'epentesi (pel, bel, fel) seguìta da ettlissi (cioè: plajə risale a pelajə), com'è dimostrato dal fatto che in quella medesima zona rimangono sviluppi di pl in kj (kju da plus), e che si hanno risoluzioni in pr, vr (br), fr a Lanciano, Chieti, Orsogna, Archi, ecc. Ne viene che lo sviluppo di questi nessi in pj, bj, fj si palesa d'importazione italiana o letteraria.

È altresì caratteristica la risoluzione di gn in -hn-, mentre nel pugliese si ottiene -u̯n-, e non è improbabile che lo sviluppo in -jn- sia dovuto ad un influsso italiano. Comunque sia, dai lat. lignum, agnus, pugnum abbiamo rispettivamente: lene, campob. lé???jəna; lancian. ájənə; teram. púnəjə, campob. pújənə, ecc.

Il g- iniziale o intervocalico scompare, svanendo in una leggera aspirazione, come in teram. hallə "gallo", mahə "mago", ovvero, tra vocali palatili, si riduce ad j: fatijí, kastijí. Anche nel gruppo gr- il g è fognato: rannə "grande".

I gruppi -lt- e -ld- diventano, in molta parte del territorio, -dd-: káddə "caldo", áddə "alto", úddəmə "ultimo", addarə "altare". Abbiamo, dunque, l'assimilazione, come in altre congiunture (p. es., teram. báääəmə "balsamo", caççə "calce", voddə "volta"), notando sempre che, in tutti i casi in cui questo fenomeno ha luogo, la consonante sorda digrada a sonora. Ma, a Campobasso, l'l dinanzi a dentale si fa ll solo in sillaba protonica. Altrimenti, si velarizza: autə "alto", mentre dinanzi a labiale o a gutturale si rotacizza: (zurfə "zolfo"), quando non si abbia lo sviluppo di una vocale epentetica (maləva "malva", ecc.). I nessi -l + t, z, â hanno in abruzzese gli esiti più svariati. Mentre a Teramo, come abbiamo veduto, a Vasto e a Paglieta si ha l'assimilazione, a Gessopalena e a Scanno l'l si palatalizza (aitə, voitə), ad Atessa e ad Ari si velarizza (áutə), o, come anche a Lanciano, quest'u è assorbito (atrə "altro", atess. cazə "calza"), ovvero si è consonantizzato, avutasi l'epentesi (lanc. avətə "alto", atess., lanc. savəzə "salsa", ecc.).

È assai diffuso il fenomeno dell'anaptissi fra l, r + consonante: akkaleká "calcare", sólekə "solco", teram. befóləkə "bifolco", vast. várekə "barca", ecc. Così il lanc. álekə, gazza marina, si è potuto giustamente connettere ad alcedo (alca). A Gessopalena abbiamo kalekə "qualche".

Per altri fenomeni consonantici, può dirsi che i dialetti abruzzesi-molisani si congiungano in particolare con le Puglie e in generale con le parlate meridionali: nt in nd (p. es., teram. quandə, quanto); nd in nn (p. es., piagnennə "piangendo", ad Atessa, Bucchianico, Chieti, Gessopalena, Lanciano, Teramo, Pratola Peligna, Sulmona; chiançen' a Canosa Sannita, ecc.); -mb-, -mv-, -nv- in -mm- (vast. mmeâə "invece", teram. kammə "gamba"); -bj-, -vj- in -çç- o -jj-, p. es. teram. rajə "rabbia", kajólə "gabbia"; -mj- in -ñ- (teram. vennéñə "vendemmia"). Altrettanto si dica di -nç- e -ngl- in -ñ-; di s + consonante che volge talora a š; di -gl- (-ggl-) in -j-, -jj-, -ff-, -gghj-; di -rb- in -rv; di -pj- in ââ, e di b- in v- (lancian. varvə "barba", vast. váreke "barca"). Nell'Abruzzo e, in particolare, nel Molise, penetra pure il fenomeno del rotacismo di d iniziale e d intervocalico. Anche il fenomeno del palatalizzamento di l- e di -l- seguìto da ê e u s'insinua nell'Abruzzo (p. es., ad Aquila), e quivi si spegne al termine di una zona che ricongiunge la regione al Lazio. A Scanno alla l palatile risponde una sibilante: jeäo "gelo", articolo masch. zu, zi.

Morfologia. - Non mancano, come nelle parlate centrali, i plurali in -ora (détərə "dita", fíkərə "fichi", camp. nérera "nidi", ecc.). L'articolo è lu, la negli Abruzzi. Nel Molise è diffuso ru, ra; ru, la; u, a. Vi è comune il sistema numerale vigesimale, p. es. a Teramo: do vendínə, quaranta, ire vendínə, do vendinə e settə. Così, vi abbiamo: únnəâə cendə "mille e cento", dúdəcə âendə, ecc.

Per il verbo, noteremo, in antico abruzzese, la terminazione -au -ao per -avit, oggi scomparsa (mentre resiste nel siciliano, nel calabrese e nel napoletano); e nei dialetti moderni il condizionale in -ara, -era, accanto ad -ia, assai diffuso in tutto il dominio: p. esempio mañara, vulera "vorrei" (a Vasto -arrë). Sia poi notata la tendenza a ridurre a una sola, salvo per gl'infiniti, tutte le coniugazioni. La preposizione con è rappresentata da nghə (da in con) su largo territorio (nchi a Villa Santa Maria).

Sintassi. - Tra i fenomeni sintattici più importanti, ricorderemo la costruzione con homo e la 3ª pers. sing. per l'impersonale (cfr. franc. on chante), che si trova a Teramo (omədiâə "si dice"), a Chieti, Gessopalena, Lanciano, Villa S. Maria (p. es., la 'ngiuria che m'à l'omo fatta), ecc. L'accusativo retto da ad si rinviene più d'una volta, p. es. a Vasto: prikə a li parinde tu. Diffuse le combinazioni come frátəmə, sóreme, ecc. Si ha l'imperfetto congiuntivo per il condizionale nelle locuzioni come vast. si tu l'avëssə dettə, štattëssə kkjù béunə "se tu l'avessi detto, staresti meglio". V'è, poi, la tendenza ad usare coi verbi transitivi l'ausiliare "essere", invece di "avere". Per es., a Teramo, soprattutto nel passato remoto: so scrittə na léttərə "ho scritto una lettera". Invece, "avere" si usa nella coniugazione di "essere" (in mste zone: Lanciano, Atessa, Chieti, Teramo, ajə statə "sono stato") e con i verbi di moto, ma non già a Canosa Sannita, Castelli, Sulmona (p. es., erä statö). È d'uso il "tu" quale pronome di reverenza, tanto che lo si adopera persino con 'ssignirí: p. es., teram. t'ajə dett'a 'ssignirí. Sono da registrare infine, le costruzioni: n'amikə de li mi "un mio amico", nu fijje de li mi "un figlio mio", e simili.

Bibl.: F. D'Ovidio, Fonetica del dialetto di Campobasso, in Arch. glottol. italiano, IV, p. 145 segg.; F. Savini, Il dialetto di Teramo, Firenze 1882; C. de Lollis, in Arch. glottol. ital., XII, p. 26 segg. e in Misc. ling. in onore di G. I. Ascoli, 1901, p. 275; G. Rolin, Die Mundart von Vasto, in Prager deutsche Studien, VIII (1908), p. 477 segg.; P. G. Goidanich, in Misc. ling. in onore di G. I. Ascoli, p. 403 segg.; C. Merlo, in Rend. Istit. Lomb., s. 2ª, XLIII, p. 280; in Mem. della R. Acc. d. Sc. di Torino, LVIII, p. 153; in Boll. d. Soc. filol. rom., IV, p. 26; in Rev. de dial. rom., I, pp. 240 segg. e 413 segg.; G. Finamore, Vocabolario dell'uso abruzzese, 2ª ed., Città di Castello 1893; G. Ziccardi, Il dial. di Agnone, in Zeitschrift f. rom. Phil., XXXIV, p. 405.

Sono sempre importanti le informazioni del Meyer-Lübke nella Rom. Grammatik e nella Italienische Grammatik, Lipsia 1890, mentre è troppo frettoloso lo schizzo che il medesimo autore ha consacrato all'abruzzese nel primo volume del Grundriss del Gröber, traduz. italiana di E. Polcari, Milano 1906, p. 188. Dei principali caratteri, linguistici dell'abruzzese ha toccato G. Bertoni, Italia dialettale, Milano 1916, p. 151 segg.

Letteratura dialettale.

Uno dei più antichi poeti dialettali che l'Abruzzo possa vantare è Buccio di Ranallo di Popplito (v.), nato in Aquila, forse nei primi anni del sec. XIV e morto nel 1363. Egli è autore d'un poemetto giullaresco su S. Caterina, composto verso il 1330, e d'una Cronaca aquilana rimata, che narra, in strofe tetrastiche d'alessandrini monorimi, la storia della sua città dalle origini al 10 maggio 1362. Nell'asprezza rude, maschia e spontanea dell'espressione alitano motivi di cultura giullaresca e una certa intonazione epica, che fa ricordare le chansons de geste, ma sopratutto s'esprime una certa austera disposizione del cronista a collocarsi al disopra degli avvenimenti per giudicarli con severa imparzialità. Notevole, tra i suoi continuatori e imitatori, Antonio di Buccio di S. Vittorino, che narrò gli avvenimenti di Aquila dal 1363 al 1381, e che compose anche un poema sulla venuta di Carlo di Durazzo nel Regno. Ma per il forte colorito regionale merita d'essere ricordato Nicola di Cimino da Bazzano dell'Aquila, che, nei primi anni del sec. XV, compose un poema sulla Guerra di Braccio, in cui narra le vicende di questo capitano di ventura, durante la spedizione contro Aquila, dalla primavera del 1423 fino alla battaglia del 2 giugno 1424, nella valle presso Ocre e Bazzano. Più che un poema, è una rapsodia in undici canti, i quali per l'andamento ingenuamente popolaresco della narrazione, per le frequenti invocazioni e i frequenti commiati, per il costante rivolgersi ad ipotetici uditori, ricordano assai da vicino i cantari, di cui conservano anche l'ottava. Ricorrono assai spesso reminiscenze di eroi bretoni e carolingi e tanto profondamente l'autore è imbevuto di queste tradizioni, che paladini diventano per lui i protagonisti del poema. Nonostante questo, la realtà storica è rigidamente rispettata. Il suo dialetto è un aquilano meno aspro di quello usato da Buccio e continuatori, bensì corretto e come mitigato dallo sforzo di avvicinarsi ai grandi modelli toscani. Nel sec. XV poetò anche certo Costantino Gaglioffi, aquilano, che nel 1487 fu arrestato a Napoli per aver congiurato contro re Ferrante, e morì forse assassinato in prigione, prima del 13 luglio 1493. Una sua vasta raccolta di capitoli in terza rima, conservata nella biblioteca provinciale di Fermo, e in gran parte inedita, è un'oscura, pesante e assai pedestre esposizione di precetti morali. Nel resto l'antica poesia abruzzese non ha una particolare fisionomia regionale che la differenzî dal vasto materiale medievale di letteratura religiosa e giullaresca. Il Contrasto dei tre vivi e dei tre morti, con altri analoghi componimenti, rientra nel campo d'una produzione ampiamente diffusa nel Medioevo. Non meno diffuse furono certe leggende sulla vita dei santi. Due redazioni, per esempio, della Leggenda di S. Antonio sono derivazioni d'un più antico testo lombardo, ricco di varî elementi giullareschi; un poemetto sul Transito della Madonna (manoscritto del sec. XV) rientra in un ciclo di leggende assai note nel Medioevo, e la forma metrica (stanze di quattro alessandrini monorimi, seguìti da una coppia di endecasillabi) ricorda il Decalogo e il Salve regina bergamasco, il Cato, il S. Alessio e il S. Lorenzo, il Liber de regi.mine civitatis e Cielo d'Alcamo. Il poemetto su S. Caterina di Buccio segue tradizioni assai diffuse nella letteratura medievale e una forma metrica comune alla poesia didascalica e narrativa francese. Ricchi di elementi giullareschi sono i poemetti su S. Giuliano e S. Margherita: il primo dei quali del resto, insieme con altre narrazioni pur esse abruzzesi su S. Gregorio e S. Elena, risulta in gran parte di ottave, e rivela perciò la spiccata azione del toscanesimo in Abruzzo. Grande è il contributo che l'Abruzzo ha portato alla storia della lauda e del teatro: basti qui ricordare che in questa regione i drammi sacri finirono col congestionarsi in vaste rappresentazioni cicliche e coll'irrigidirsi nei seguenti caratteri: sestina endecasillabica; tornello nelle risposte e chiuse di parlate; terzina di annuncio e di licenza. Carattere strettamente regionale hanno certi sermoni semidrammatici, introdotti dai francescani: erano prediche intramezzate qua e là da un'azione teatrale consistente nella recitazione di poesie a monologo e a dialogo, fatta dal predicatore stesso; o addirittura in vere e proprie rappresentazioni, che si venivano intercalando alla predica, per mettere sotto gli occhi del pubblico i momenti più commoventi della Passione.

Col diffondersi della poesia toscana, il vernacolo abruzzese fu considerato come un povero e umile mezzo d'espressione, incapace d'atteggiare profondi sentimenti e alti pensieri, e a cui, tutt'al più, poteva essere riservato un posticino assai umile nella piccola satira locale e domestica o in qualche modesto racconto religioso. La poesia dialettale incominciò quindi ad assumere quel particolare e falso carattere di letteratura inferiore. Perciò mancano opere di qualche pregio fino al sec. XIX, in cui poetarono, nel Chietino, Giustino Razionale di Chieti, Michele Buccerone di Guardiagrele, Camillo de Ritis di Ortona a Mare, Giuseppe de Nobili di Casoli, Silvino d'Ercole di Scerni, Giuseppe Paparella di Tocco Casauria, Gaetano Murolo di Vasto, Ferdinando Pulsinella di Palena; nel Teramano, Nicola Palma, di Teramo, che fu anche storico autorevole della sua città, Pietro Marcozzi, Orazio Delfico, che compose due commedie in vernacolo (Il Medico, Il sensale di matrimonî), Federico Pensa, che scrisse fra l'altro una parodia in gran parte dialettale del Congresso degli scienziati italiani tenuto a Napoli nel 1845; Filippo Dottorelli di Teramo, Michele Forti di Cesacastina, Tito de Blasi di Civitella Casanova; nell'Aquilano, Giovanni de Paulis da Sulmona. Gran parte della loro opera è inedita, e conserva ancora il carattere di arguta poesia occasionale, di vivace scherzo locale, che perde ogni interesse fuori della circostanza, dell'ambiente e del momento che l'ispirarono. Soltanto ai giorni nostri, la poesia dialettale ha acquistato un più largo senso di umanità o una più vasta ricchezza di motivi lirici. Luigi Anelli di Vasto (nato nel 1860) ha composto una raccolta di Proverbî vastesi, vivaci commediole in un atto (Crëšte gná váite accuscë' pruváite, Cristo come vede così provvede; A ch'attocch'attocche, A chi tocca, tocca), Fujj 'ammëšche (Foglie mescolate) e Macchiette vastesi: brevi componimenti, per lo più sonetti, in cui il poeta vuol concentrare situazioni di vita locale, ispirati talvolta a certa drammaticità e malinconia. Modesto della Porta (nato a Guardiagrele nel 1885) canta nei suoi sonetti le piccole e grandi miserie della povera gente di paese; Luigi Dommarco di Ortona (nato nel 1876), in varî volumi di poesia (Amori e lagrime, Macchiette e profili, Confidenze, Le canzoni del mare) ha tentato d'imitare la vivace varietà di motivi della canzone napoletana; Luigi Renzetti di Lanciano (nato nel 1860) ha composto canzoni campestri e quadretti vivaci di vita paesana, in cui talvolta s'esprime la nostalgia di cose passate e lontane, Luigi Brigiotti di Teramo (nato nel 1859) in una lunga e ininterrotta attività poetica ha cercato di cogliere tutta la festevole vivacità della vita cittadina e di chiudere nel giro dei suoi componimenti osservazioni argute, ispirate talvolta all'amara esperienza della vita popolare; e poeta della vita paesana, còlta in tutta la varietà delle sue situazioni, è Vincenzo Ranalli di Città S. Angelo (nato nel 1870). Fedele Romani (v.), anima con grazia e vivacità paesana, e in alcuni stupendi sonetti (Sunette de nu Culledarese), che sono tra le cose più belle della letteratura dialettale abruzzese, celebrò la grande religione del focolare domestico e la serena pace dell'affetto materno. Questi ultimi sono, non già come gli altri in dialetto teramano, ma in colledarese. Ma l'anima abruzzese ha trovato la sua più profonda e viva espressione nella poesia di Alfredo Luciani e di Cesare de Titta. Alfredo Luciani (nato a Lanciano nel 1887) ha raccolto in sé i motivi vaganti nell'incertezza dei canti tradizionali, le piccole e grandi passioni del popolo, i suoi rimpianti accorati, le sue nostalgie profonde, la sua scherzosa giovialità: e vi ha impresso il suggello d'una fantasia vigorosa e che riesce ad esprimere in un verso largo, pieno di risonanze appassionate e in un dialetto che, come egli stesso scrive, è "sintesi ideale ed istintiva, fatta di saporosità paesanissima e di una certa aristocrazia verbale di elezione". Cesare de Titta (v.) è uno dei più fecondi e varî poeti d'Abruzzo: numerosi sono i suoi libri di versi, e interessante anche il suo tentativo d'un vero e proprio teatro dialettale, denso di vita e d'azione. Ha cantato l'amore, la gelosia, le gioie della casa, la serenità familiare, il gaio sorriso della vita campestre, ma, soprattutto, il vasto fremito della natura, che, in alcune sue canzoni e poemetti, s'anima e vive d'una propria vita, e il senso religioso d'una forza superiore e potente che pesa su tutte le cose. In questo consiste l'originalità del De Titta, che non è perciò poeta esclusivamente regionale, ma ha vissuto, con anima abruzzese, i grandi problemi che appassionano l'umanità.

Bibl.: Per l'antica letteratura abruzzese, v. E. Monaci, Una leggenda ed una storia versificate nell'antica lett. abruzzese, in Rendiconti della r. Accademia dei Lincei (Classe di scienze mor. stor. fil.), V, fasc. 12; F. Novati, Sopra un'antica storia della leggenda di S. Antonio, in Raccolta di studi critici dedicati ad A. D'Ancona, Firenze 1901, pp. 741-799; E. Percopo, Quattro poemetti sacri dei sec. XIV e XV, Bologna 1885; E. Percopo, Laudi e devozioni della città di Aquila, in Giornale stor. d. lett. ital. dal 1886 al 1892; C. de Lollis, Ricerche abruzzesi, in Bullettino d. Istit. stor. ital., III; V. De Bartholomaies, Ricerche abruzzesi, in Bull. dell'Ist. stor. ital., VIII; Cronaca Aquilana rimata di Buccio di Ranallo, edita da V. De Bartholomaeis, Roma 1907; N. V. Testa, Buccio di Ranallo, in Bull. della società di storia patria L. A. Antinori, s. 2ª, XIX, punt. XVII (1907); C. Guerrieri-Crocetti, L'antica poesia abruzzese, Lanciano 1913; id., Per una leggenda popolare abruzzese, in Rivista abruzzese di scienze lettere ed arti, XXXIV (fasc. 5 e 6); V. De Bartholomaies, Prose e rime aquilane del sec. XIV, in Bull. della r. Deputazione abruzzese di storia patria, s. 3ª, V, punt. I, II, III; V. Parlagreco, La guerra di Braccio, poema di N. Ciminello... con l'aggiunta dei capitoli di Costantino Gaglioffi, Aquila 1903. Per l'antico teatro abruzzese, oltre ai citati lavori del De Lollis e del De Bartholomaies, v. D'Ancona, Origini del teatro in Italia, Torino 1891; E. Monaci, Per la storia del dramma in Italia, in Rendic. d. r. Accademia dei Lincei (Classe di scienze mor. stor. filol., 1893, p. 344 segg.); V. De Bartholomaies, le origini della poesia drammatica italiana, Bologna 1924; id. Il Teatro abruzzese del Medio Evo, Bologna 1924; P. Toschi, L'antico sacro dramma ital., 2 voll., Firenze 1927; P. Toschi, La poesia religiosa del popolo ital., Firenze 1925. - Una ricca e varia bibliografia dà A. Tosti, Poeti dialettali dei tempi nostri, raccolti ed annotati... (Italia meridionale), Lanciano 1924.

Preistoria.

Scarse sono state le campagne di scavo effettuate con metodo scientifico o con larghezza di esame, nella vasta regione montana compresa fra Tronto e Biferno; tanto scarse che ben si potrebbe dire essere gli Abruzzi, sotto l'aspetto paletnologico, ancora per la massima parte inesplorati. Infatti, se si prescinde dalle ricerche eseguite con cura e con successo da C. Rosa nella valle della Vibrata (Teramo) tra il 1867 e il 1873, e interrotte dalla morte di lui, ben poco ci rimane da citare in fatto di nomi di scavatori e di azioni intese con qualche larghezza alla indagine sulle antichità primitive degli Abruzzi. Dopo le ricerche del Rosa, la più memorabile e fruttuosa esplorazione fu quella compiuta da L. Mariani nella necropoli preromana dell'antica Aufidena; ad essa, per importanza, si possono far seguire gli scavi di E. Brizio nella necropoli preromana di Atri; ma dopo queste regolari campagne di scavo non si hanno da citare se non le osservazioni fatte dal Macchia e da A. De Nino, riguardanti i materiali di tipo paleolitico della valle dell'Alento e della valle del Foro, altre varie ricerche fatte dal De Nino, e alcune indagini condotte da I. Dall'Osso e da U. Rellini sul versante meridionale della Majella, nell'agro di Lama dei Peligni. Per il resto, si è ridotti a prendere in considerazione ritrovamenti fortuiti o isolati, e, in ogni modo, non dovuti ad azione diretta da ben precisati fini scientifici. Ciò non ostante, i materiali paletnologici raccolti in terra abruzzese sono copiosi e varî, appartenenti a tutte le età preistoriche; il che, unitamente ai risultati delle campagne di scavo sopra citate, e soprattutto a quelli ottenuti dalle intense esplorazioni del Rosa, permette di tracciare con qualche sicurezza il quadro delle civiltà primitive degli Abruzzi.

Paleolitico. - Le due prime industrie dell'età della pietra scheggiata, quella degli amigdaloidi (chelleano-acheulano) e quella delle schegge (mousteriano) sono largamente rappresentate: i numerosi pezzi raccolti sono nella massima parte conservati nel Museo Pigorini di Roma, in piccola parte anche nel Museo Chierici di Reggio Emilia e nel Museo Nazionale di Ancona. La loro provenienza, da giacimenti superficiali, sia sulle colline, sia nel fondo delle valli, senz'alcuna associazione a resti di fauna pleistocenica, e senza che mai si verificasse la possibilità di una precisa determinazione stratigrafica, potrebbe far nascere dubbî circa la reale appartenenza degli strumenti ai tempi del quaternario antico. Ma si può uscire dall'imbarazzo derivante dalla mancanza di prove dirette col criterio adottato da G. A. Colini, il quale per primo studiò con competenza e con acume tutto il materiale paleolitico nostrano, prendendo per l'appunto le mosse dai reperti abruzzesi, e precisamente dalla collezione formata dal Rosa con le sue esplorazioni nella valle della Vibrata. Il criterio si fonda, si può dire, su un procedimento per analogia, cui va unita un'abile valutazione d'indole archeologica: esaminando le "condizioni stratigrafiche nelle quali di solito gli oggetti simili si rinvennero in altri paesi, e soprattutto nelle contrade vicine", si renderà legittima, con i risultati della comparazione, la determinazione dell'età degli strumenti, che per la foggia e per il tipo, e talora anche per la patina che li riveste, dimostrano già la loro alta antichità. E il detto criterio maggiormente può soddisfare di fronte agli strumenti amigdaloidi, caratteristici dell'industria chelleana-acheuleana, la quale è presente in Italia anche in strati geologici intatti e sicuramente pleistocenici (Terranera di Venosa, Capri); meno sicuro invece può apparire di fronte alle schegge, punte e raschiatoi, di tipo mousteriano, in quanto che larga è la penetrazione di fogge industriali cosiffatte, o consimili, nei tempi del neolitico e perfino nell'età dei metalli. Un'altra caratteristica dei materiali abruzzesi è data dalla loro mescolanza: tipi chelleani e acheuleani si raccolsero alla superficie delle colline plioceniche e delle terrazze quaternarie, come pure nei depositi alluvionali in fondo valle, insieme con i tipi del mousteriano. Ma non è carattere particolare della regione, perché la stessa mescolanza, che da sola non può assolutamente indicare la contemporaneità delle due industrie, è un fenomeno generale nel versante adriatico e nelle regioni centrali della penisola; è comune alle Marche, all'Umbria, al Gargano, forse anche alla Basilicata.

Le località, in parte già nominate, nelle quali avvennero i ritrovamenti di selci paleolitiche, sono, procedendo da nord e nominando per prime quelle più vicine alla costa del mare: la valle della Vibrata, la valle del Tavo, la valle dell'Alento, la valle del Foro; più internamente, Massa d'Albe nell'Aquilano, e i versanti della Maiella. La valle della Vibrata fornì un discreto numero di strumenti amigdaloidi, di quarzite e di selce; e più abbondantemente punte e raschiatoi di tipo mousteriano, tanto da superare di molto il centinaio. Le contrade dove, pur restando indeterminato il giacimento, si raccolsero più frequentemente, sono quelle di S. Giuseppe, Ravigliano, Gabbiano, nel comune di Corropoli. Un particolare delle condizioni di giacitura fu osservato dal Rosa lungo il fosso detto Ravigliano, dove alla profondità di quattro o cinque metri si notarono avanzi di terrecotte d'età romana e preromana, mentre negli strati superiori giacevano alcuni degli strumenti paleolitici. Questo fatto prova che il deposito alluvionale è recente e formato dal denudamento delle alture circostanti; gli oggetti di epoca più recente furono i primi ad essere trasportati via dalle acque, e quindi rimasero sepolti più profondamente. Fra gli strumenti di tipo chelleano il Colini riconobbe due varietà; l'una più comune e grossolana, con notevoli varietà nelle dimensioni, che vanno da un massimo di cm. 19 di lunghezza a un minimo di 6, consta di oggetti formati con ciottoli fluitati di selce o di quarzite, con contorno ovulare e vertice arrotondato, ovvero con margini più dritti e punta più affilata; l'altra consta tanto di strumenti ricavati da ciottoli fluitati, quanto di nuclei silicei trovati fra le rocce sedimentarie, ma più finemente lavorati, con contorno ellittico od ovale, e anche di forma ovato-allungata. Le punte di tipo mousteriano, di foggia varia, oscillano per dimensioni fra un massimo di cm. 11 di lunghezza e un minimo di 3,5; il Rosa, oltre che nelle contrade già dette, ne raccolse sporadiche in quella denominata Casone e sulle colline di Colonnella. I raschiatoi, ricavati da una robusta scheggia di selce, ritoccata minutamente sopra uno dei margini lunghi, differiscono molto fra loro nei caratteri secondarî ma sono tipici; alcune fogge sono fra le più caratteristiche ritrovate in Italia. La provincia di Chieti, in quanto a rinvenimenti di amigdaloidi e di selci di tipo mousteriano, si può considerare fra le regioni italiane più fornite di tali relitti dell'industria primitiva dell'uomo; specialmente i dintorni della Majella ne abbondano. I comuni di Caramanico, Roccamorice, Abbatemaggio sono le zone ove più se ne raccolsero, dopo che il Macchia nel 1875 ne rivelò per primo l'esistenza. Di selce grigia, bionda o bruniccia, più raramente di quarzite, gli strumenti della Majella, alla pari di quelli raccolti nelle valli dell'Alento e del Foro, le cui acque discendono da quel grandioso massiccio, presentano in generale gli stessi caratteri che si riscontrano in quelli della valle della Vibrata; da questi ultimi, i prodotti chelleani del Chietino si differenziano per un contorno più regolare e un lavoro più accurato, che sono prova della loro superiorità dal punto di vista della tecnica. Il maggiore per dimensioni degli amigdaloidi della Majella, conservato nel Museo Pigorini di Roma, è uno dei più grandi esemplari d'Europa, misurando in lunghezza, sebbene sia spuntato, cm. 26. Varî per patina, e quindi con differenti condizioni di giacimento, in prevalenza sono quelli di medie grandezze; nessuno, come è stato già detto, fu rinvenuto in condizioni stratigrafiche tali da poterne affermare senza riserve la loro appartenenza al pleistocene.

Le medesime località che fornirono amigdaloidi, dettero anche i raschiatoi, i dischi, e le punte di fogge mousteriane. Qualche osservazione, senza risultati precisi, sui giacimenti fu fatta dal Chierici nel 1878, nella valle dell'Alento, e precisamente per la località detta Madonna del Freddo, dove più tardi il Rellini credette di raccoglier prove dell'appartenenza di molte selci di tipo paleolitico alla fine dell'età neolitica. Si noti infine che se, fra gli strumenti del Chietino, non mancano quelli che mostrano all'evidenza di essere stati a lungo trasportati e rotolati dalle acque, più spesso si presentano quelli con gli angoli vivi e senza tracce di subìto rotolamento.

Benché fra gli oggetti silicei raccolti soprattutto nella valle della Vibrata sia possibile riconoscere qualche manufatto su lama da poter avvicinare per la tecnica e per la foggia ai tipi del paleolitico superiore, specie l'aurignaciano, finora mancano prove plausibili, se non copiose, della presenza d'industrie litiche di questa fase. Non resta che rilevare la foltezza dei ritrovamenti di selci paleolitiche; il qual fatto può ragionevolmente farci supporre, sui declivî montani abruzzesi, la presenza di tribù umane primitive relativamente numerose e densamente dimoranti. Come avanzo fossile dell'uomo più primitivo, ormai, deve considerarsi lo scheletro rinvenuto dal Rellini a Lama dei Peligni, pertinente al quaternario superiore, di cui sarà detto più oltre.

Neolitico. - Questa foltezza di abitato ci è anche meglio assicurata per la seconda età della pietra nella valle della Vibrata dai ritrovamenti di C. Rosa. Gli avanzi neolitici, varî e copiosi, uscirono tanto da caverne, quanto da villaggi a fondi di capanne e dalle cosiddette officine, o stazioni all'aperto. Purtroppo, non si rinvennero vere e proprie tombe; ma qualche avanzo umano tratto dalle caverne fece supporre che, a somiglianza di altre parti d'Italia nonché d'Europa, le grotte naturali talvolta venissero usate, sia come abitazione, sia come luogo di sepoltura. In ogni modo, nulla ci è dato per la ricostruzione dei riti e degli usi funebri praticati dalle famiglie neolitiche della valle della Vibrata. Di una ventina di grotte, aperte nel monte di Civitella del Tronto, e più specialmente sui declivî scendenti al torrente Salinello, parecchie rivelarono avanzi dell'industria umana; più copiosi vennero fuori dalle grotte di Salomone e di S. Angelo, mentre in alcune altre (di S. Maria Scalena, di S. Francesco, di Fede) si raccolsero soltanto frammenti di grossolana ceramica. Le grotte guardanti a sud furono quelle che l'uomo prescelse come propria dimora.

Gli scavi più fruttuosi furon condotti nella caverna di S. Angelo, abbastanza spaziosa (lunga m. 29,50, larga da 8 a 13, e alta da 15 a 30) e illuminata per mezzo di una fenditura della roccia; in essa il Rosa poté osservare fino a cinque stratificazioni sovrapposte di ceneri e carboni misti ad altri rifiuti, prova di focolari diversi, tanto da rendere verosimile l'idea che la caverna sia stata per lungo tempo abitata, sia di continuo, sia ad intervalli, da numerose persone; perfino da più famiglie insieme. Gli oggetti ricuperati in essa e nelle altre grotte, copiosi frammenti di rozze stoviglie, armi e strumenti di selce, di pietra, d'osso, ossa di animali spaccate, ecc., formano un tutto omogeneo con gli oggetti tratti fuori dai fondi di capanne; la cui scoperta fatta nell'aprile 1871, per la priorità assoluta del riconoscimento di questo sistema di antiche abitazioni in parte sotterranee, e che si trovò poi, con le scoperte successive, così diffuso in tutta Italia e in Europa, torna a grande merito del Rosa e dell'archeologia italiana. Il Rosa riscontrò la presenza di Corropoli soprattutto, di Colonnella e di Controguerra, sulla sinistra della Vibrata, e fra questa e il Tronto; nella qual cifra son comprese altre capanne ritrovate sulla destra della Vibrata, in località dei comuni di Tortoreto e di S. Omero. Tutte queste capanne, nella maggior parte, erano riunite in villaggi, vicini l'uno all'altro, formanti un gruppo di dodici sulla sinistra della Vibrata, e di tre sulla destra. Le capanne, i cui avanzi s'incontrarono per lo più nella pianura a poca profondità dalla superficie del terreno, erano di forma circolare od ovale, costituite di una parte sotterranea, varia per profondità (da un minimo di m. 0,60 a un massimo di 1,66), assumente l'aspetto di un bacino. Probabilmente, intorno all'orlo veniva ammassata la terra cavata, a guisa di argine e a rinforzo dei pali che sorreggevano il frascame e l'intonaco d'argilla della parte elevata. Tracce di pali carbonizzati e pezzi d'impasto argilloso con impronte di rami d'albero, raccolti in più di un fondo, ci assicurano che di quegli elementi fondamentali era costituita la copertura. In alcune capanne si poterono perfino riconoscere i gradini di discesa al fondo sotterraneo, che sempre si trovò costituito di terra nerastra contenente carboni, ceneri, frammenti ossei, macine di pietra, frammenti di cocci, selci lavorate. L'ampiezza di queste abitazioni era molto varia; si trovaron fondi assai angusti, con un diametro di appena due metri, mentre nei più grandi il diametro arrivava a m. 4. In prossimità dei villaggi di capanne, e certo in intima relazione con essi, il Rosa rintracciò alcune delle cosiddette officine litiche, cioè depositi di numerosi manufatti di pietra, comprendenti di preferenza oggetti di selce scheggiata, non solo rifiniti, ma anche in via di lavorazione. Sia sparsi, sia riuniti in gruppi più o meno folti, questi manufatti, sicuri indizî della presenza dell'uomo industre, giacevano alla superficie del terreno smosso per i lavori agricoli, ovvero a scarsa profondità. Le due officine più notevoli furono trovate in contrada Scendella (comune di S. Omero) sulla destra della Vibrata, e in quella di Casone (comune di Colonnella) sulla sinistra e poco lungi dal mare.

I copiosissimi materiali, raccolti soprattutto nei fondi di capanne, costituiscono una delle più pregiate e istruttive collezioni paletnologiche, conservata nel Museo Pigorini di Roma quasi per intero. Abbondantissima è la ceramica; ancor più copiosa la serie delle armi, degli strumenti e degli ornamenti di pietra, scheggiata e levigata, con tipi e fogge che sarebbe impossibile descrivere in breve; non mancano conchiglie e denti usati per ornamento, e strumenti d'osso. Per le selci lavorate dell'età neolitica, non si può fare a meno di metterle in relazione con il materiale paleolitico uscito dalla medesima valle; è ragionevole pertanto attribuire la varietà e la molteplicità e la finezza di lavorazione degli oggetti neolitici, in certo qual modo, allo sviluppo assunto precedentemente dall'industria litica in quei medesimi luoghi.

Speciale attenzione merita l'industria fittile, che, per l'impasto ben preparato, per la buona cottura, per la forma delle anse e del modellato stesso dei vasi, per gli ornati, si associa facilmente ai prodotti ceramici dei più noti strati neolitici della penisola; ma, se ben si comparano i pezzi raccolti dal Rosa con quelli usciti dalle grotte neolitiche della Liguria, dai fondi di capanne del Reggiano e del Cremonese, di Fano, e dalla stazione di Alba (tanto per citare i più importanti), si noterà che i manufatti della Vibrata mostrano un grado di superiorità, quasi un progresso: ad esempio nella compattezza delle grosse pareti, nelle dimensioni dei recipienti, nelle superficie di taluni pezzi annerite e lucidate in modo tale che sembrano preludere all'industria del bucchero, collegandosi così a una classe ben determinata di stoviglie dell'età enea.

Questa particolarità offerta dalla ceramica non resta isolata, ma si unisce ad altri aspetti del materiale litico, sì da far assumere a tutto il gruppo archeologico della Vibrata, villaggi di capanne e caverne insieme compresi, uno speciale carattere; l'insegnamento più importante che se ne trae consiste nel fatto che, pur non mancandovi oggetti appartenenti all'inizio dell'età neolitica, questi che si riferiscono alla fine della età suddetta, e che quindi dobbiamo considerare come coevi dei più noti strati eneolotici d'Italia. È qui la prova indubbia di un fenomeno di continuità di vita industre che dovremo riconoscere anche nella successiva età del bronzo, e per cui il gruppo archeologico della Vibrata assume un'importanza eccezionale.

Anche per le età preistoriche dei tempi geologici attuali dobbiamo ripetere quanto si è detto per il paleolitico: gli Abruzzi sono una regione quasi interamente inesplorata. Non abbiamo infatti, per il neolitico-eneolitico e per l'età del bronzo, altre campagne di scavo, larghe e metodiche, da citare; ma solo possiamo ricordare poche ricerche, compiute limitatamente con qualche successo qua e là: anzi tutto in caverne, come la grotta Cóla presso Petrella di Cappadocia (Aquila), esplorata dal Nicolucci insieme con un'altra presso Torino di Sangro; l'antro dei Banditi presso Villetta Barrea (Aquila), visitato dal Graziani; le grotte dei Fornelli in quel di Caramanico e quella dei Piccioni in quel di Bolognano, nel Chietino. Ma invano, dai pochi materiali ivi rinvenuti, si tenterebbe di farci un'idea, in qualche modo precisa, dell'età cui essi appartengono. Oltre le grotte, ricordiamo la segnalazione di qualche abitato a fior di terra, o stazioni all'aperto; il Rosa ne rintracciò una nel Piano della Corte nel comune d'Isola del Gran Sasso (Teramo), dove, a quel che sembra, i rifiuti dei pasti e dell'industria eran gettati e si ammucchiavano in modo non dissimile da quello in uso nei køkkenmødding. Anche sulle pendici occidentali della Majella, nei pressi di Campo di Giove (Aquila), si ebbero indizî dell'esistenza di stazioni all'aperto.

Più interessanti e importanti sono le notizie forniteci dal Rellini circa il villaggio di Lama dei Peligni, situato nella località Fonti Rossi e costituito di fondi di capanne con materiali chiaramente neolitici. Ma più che le vestigia dell'abitato, ciò che la stazione di Lama presenta all'attenzione dei paletnologi è una tomba con scheletro ripiegato, rintracciata a tre metri di profondità dal piano di campagna, in strato assolutamente non rimaneggiato e sottoposto a quello della stazione neolitica. Dalle osservazioni d'indole geologico-stratigrafica, accuratamente fatte sul posto, il Rellini fu indotto a ritenere come preneolitica questa sepoltura, priva di corredo funebre. Il cranio del sepolto, ben conservato, dolico-alto, fu trasportato nell'Istituto di antropologia di Roma; e poiché ragionevolmente nulla si oppone alla determinazione cronologica, proposta dal Rellini, si ha con questa tomba un documento di alto valore.

Per il periodo eneolitico, più propriamente definito, oltre le vestigia dissepolte nella valle della Vibrata (soprattutto nella contrada Delfico in quel di Corropoli e nelle caverne di Salomone e Tagliacozzo (Aquila), e probabili tracce di abitato nella località Madonna del Freddo sulla Majella, nel territorio di Ripa Teatina (Chieti) e in quella di Pretoro sulla Majelletta; ma i ritrovamenti avvennero in forma poco chiara per questi abitati. Della tomba di Camerata sappiamo soltanto che era scavata nel tufo e che conteneva uno scheletro con varie punte di freccia silicee e, forse, un'ascia piatta di rame. Essa si collega a non poche altre sepolture della stessa età, ritrovate in località non propriamente abruzzesi, ma che possiamo considerare come appartenenti ad un'unica regione; le tombe di Pozzilli (località Corona de' Coppa) e di Monteroduni (località Le Soccie) nella provincia del Molise.

Età del bronzo. - Anche per questa età va nominata in primo luogo la valle della Vibrata; ivi soltanto si rintracciarono vestigia di abitazioni che comprovano il graduale passaggio dei capannicoli abruzzesi dalla civiltà della pietra a quella dei metalli. Le prove archeologiche tratte dal Rosa nel villaggio della contrada Delfico (Corropoli) e in quello della contrada Casone, la più vicina al mare, sono molteplici e sicure. Oltre a frammenti di stoviglie formate con impasto più fine e meglio cotto, e a caratteristiche forme di anse vascolari, fra cui alcune ricordanti l'ansa cornuta delle terramare, si raccolsero parecchi oggetti di metallo: ad es., pugnaletti a foglia d'ulivo e di salice, qualche ascia e cuspidi di freccia.

Questi ritrovamenti hanno molta importanza per gli archeologi, che così non sono ridotti, come per altre provincie dell'Italia centrale, a considerare l'età enea unicamente in base agli oggetti sporadici e a quelli radunati nei cosiddetti depositi.

Quattro sono i ripostigli trovati in terra abruzzese: uno nella valle della Vibrata, a Controguerra; un secondo ad Alanno (Teramo), composto di parecchie asce a margini rialzati; il terzo a Capestrano (Aquila), simile al precedente; l'ultimo, e il più importante, è quello di Loreto Aprutino (Pescara), composto di grandi lame triangolari di pugnali con manico anche metallico. C'è poi una ricca serie di armi e strumenti rinvenuti sporadicamente nell'Aquilano, nel Chietino e nel Teramano, che si conservano nel Museo Pigorini di Roma e nel Museo preistorico di Perugia. Asce a margini rialzati e pugnaletti si contano in gran numero; più rare le asce ad alette. Oggetti di maggior pregio sono: una spada di tipo quasi miceneo ritrovata nel territorio di S. Benedetto in Perillis (Aquila), alcune falci di tipo terramaricolo raccolte ad Ortucchio (Aquila) e a Controguerra (Teramo). Pugnaletti, spade a codolo piatto di foggia terramaricola, fibule ad arco di violino, coltelli concavo-convessi, scuri, ecc. vennero raccolti in buon numero nei pressi del Fucino. Siffatti oggetti, riproducenti forme caratteristiche della fase più progredita dell'età enea, probabilmente appartennero al corredo di tombe, per cui, data la casualità della scoperta, non si raccolsero dati illustrativi.

La mancanza di esplorazioni metodiche è assai incresciosa, tanto più se si considera la frequenza con cui si ritrovarono casualmente ma anche della successiva fase di civiltà.

Età del ferro. - Anche negli Abruzzi, così come in tante altre regioni d'Italia, le vestigia di questa fase di civiltà, che è veramente l'alba dei tempi storici, sono essenzialmente funebri. Gli abitati dei tempi romani, con il loro sviluppo, cancellarono le reliquie più modeste del precedente periodo. Anzitutto s'impongono due considerazioni d'indole generale, tratte dal numero veramente considerevole di scoperte o ritrovamenti, e dal rito funebre che esclusivamente si mostra praticato. Per il primo punto, si deve riconoscere una relativa foltezza di abitato, quindi una non indifferente densità di popolazione; per il secondo bisogna limitarsi al riconoscimento puro e semplice della esclusività del rito dell'inumazione. In confronto alle altre regioni dell'Italia centrale e settentrionale, dove invece si riscontra il fenomeno del complicato avvicendamento con il rito dell'incinerazione, la regione abruzzese concorda pienamente, per la esclusività del suo rito, con le Marche e con tutta l'Italia meridionale (escludendo gli elementi greci immigrati), a cominciare all'incirca dal Circello o dal Liri.

Non c'è provincia degli Abruzzi che non abbia rivelato tombe di quest'età, o scavate di proposito o incontrate a caso, il cui tipo generico è quello della fossa rettangolare o allungata, incavata nel terreno; in essa si trova deposto il cadavere, quasi sempre accompagnato dal suo corredo funebre: vasi, armi, oggetti di ornamento. A cominciare, sempre, dalla valle della Vibrata (contrade Ripa Querquellara, S. Egidio, territorio di Tortoreto), potremmo citare i nomi di una settantina di comuni che hanno rivelato sepolture più o meno ben conservate; essi sono citati nel primo volume dell'Italische Gräberkunde (Heidelberg 1924) di F. von Duhn. Qui bastino alcune notizie sui due gruppi più importanti di sepolture, che abbiamo già avuto l'occasione di ricordare, due vere e proprie necropoli nelle quali si praticarono scavi metodici: la necropoli dell'antica Aufidena (Alfedena) sul Sangro, in paese oscosannita, e quella di Atri, che si collega, forse non solo topograficamente, col gruppo e con la civiltà del Piceno. Dopo queste due località, fra le molte altre, ritrovamenti di qualche entità, ovvero con accompagnamento di sufficienti dati d'informazione, avvennero presso Sulmona, a Péntima (nel luogo dell'antica Corfinium), presso Chieti (l'antica Teate), presso Francavilla a Mare, presso Teramo, nei dintorni di Aquila, nel territorio di Lanciano, ecc.

L'importanza della necropoli di Alfedena fu messa in chiaro da Antonio De Nino, il quale nel 1876 vi praticò i primi scavi, che continuarono negli anni successivi, per cura della famiglia De Amicis, e con tali risultati da far sorgere un piccolo museo locale. Tra il 1897 e il 1900 vi eseguì due campagne di scavo Lucio Mariani, completate da altre esplorazioni negli anni successivi, che non si limitarono alle sole tombe, ma furon dirette anche allo studio delle vestigia dell'antica città distrutta dai Romani nel 298 a. C. Il numero delle tombe rinvenute tocca il migliaio e mezzo; né tutto intero il vasto campo sepolcrale fu esplorato. Senza eccezioni, le tombe sono fosse scavate nel piano formato dalle piene del Sangro, ad una profondità varia fra m. 0,70 e 2,00; generalmente rivestite di lastre di pietra grezza, a guisa di cassone ma senza fondo; talvolta anche con le pareti rinforzate da un murello di ciottoli fluviali. Le fosse furono scavate senza una norma fissa o rituale, e distribuite nella necropoli senza regolarità, mancanti assolutamente di stele o di segnali. I cadaveri vi eran collocati supini e distesi, e quasi sempre accompagnati da suppellettile funebre, la quale richiama subito l'attenzione per la sua uniformità di tipi; questa suppellettile si compone principalmente di vasi fittili, di pochi vasi di bronzo, di armi e ornamenti di bronzo e di ferro, raramente di oggetti d'oro e d'argento. Non mancano altre materie, come l'avorio, l'osso, l'ambra, il cuoio, il legno; i residui di stoffe sono di lana e di lino. La presenza di più copioso e ricco corredo nelle piccole tombe di fanciulli rivelò la cura pietosa con cui le salme vennero composte. Dal punto di vista cronologico, in base allo studio comparativo dei materiali componenti i corredi, la necropoli aufidenate deve appartenere a un periodo abbastanza avanzato, che il Mariani credette di poter fissare fra il sec. VI e il V a. C. Dal punto di vista strettamente archeologico, la civiltà rivelata non solo dalla necropoli, ma anche dai non copiosi materiali rinvenuti nell'antica città, secondo quanto ben vide il Mariani, è dello stesso genere di quella che appare in molti altri centri del Sannio e della regione marsico-peligna: essa, presentando moltissima affinità con la suppellettile del Piceno, mostra la mancanza di influenze dirette subìte dalla Grecia, mentre abbondanti palesa le relazioni con l'Apulia. In sostanza ci rivela una popolazione fiera e conservatrice, vivente in certo qual modo appartata.

Le affinità del materiale archeologico abruzzese con quello del Piceno sono rese ancor più evidenti dagli scavi condotti dal Brizio nella necropoli dell'antica Hatria. Si estende, questa, a due chilometri a SE. di Atri, nella località detta la Pretara: quivi, nel 1900, in breve spazio il Brizio mise allo scoperto trentacinque tombe, tutte ad inumazione e con orientazione da E. ad O. in tre gruppi irregolari. È probabile che molte altre tombe siano state guastate già anticamente dai lavori agricoli. Le tombe sono di due aspetti; alcune a semplice fossa incavata nel terreno e senza copertura, altre invece ricoperte con grandi lastre di pietra grezza, ma senza alcuna opera nel fondo. In esse i cadaveri giacevano distesi; solo fu notato che taluni scheletri avevano il cranio sollevato in confronto al resto, e che in due tombe maschili lo scheletro poggiava non sulla schiena, ma sopra un fianco. I sepolti dovevano essere piuttosto di bassa statura. Lance e spade sono gli oggetti più comuni del corredo nelle tombe maschili; per due volte fu trovata anche una mazza ovoidale di ferro; comuni con le donne si rinvennero gli anelli di bronzo e di ferro, e le fibule tutte di ferro; furono anche raccolti due soli rasoi; nessun elmo, nessuno scudo, e nemmeno un cinturone. Più variato, naturalmente, il corredo delle tombe femminili, consistente in collane, armille, anelli, cinture, catenelle, pendagli, ecc.; rarità, perché unico esemplare, uno scarabeo. Comuni ai sepolcri dei due sessi, infine, sono le stoviglie d'impasto grossolano, con forme per lo più panciute e notevoli per l'abbondanza dei manichi. In complesso, questa serie di tombe della necropoli di Atri rivela condizioni economiche non elevate, ma la presenza di una parsimoniosa popolazione certamente dedita alla rude vita dei campi. In quanto al tempo, il Brizio ritenne che il sepolcreto rimonti al sec. V a. C. Più antico invece gli apparve un altro sepolcreto, che fu trovato a tre chilometri a S. di Atri, nel luogo detto il Colle della Giustizia, e nel quale furono eseguiti con buon risultato alcuni saggi di scavo. Purtroppo la esplorazione più larga e metodica, che il Brizio a suo tempo auspicò, non è stata ancor fatta; e dell'età preromana di Atri ben poco ci è dato sapere, non diversamente da tante altre località d'Abruzzo, che furono centri di vita rigogliosa.

Bibl.: E. Brizio, in Not. degli scavi, 1901, p. 190; 1902, pp. 229-257 (Atri); G. A. Colini, Scoperte archeol. nella valle del Vibrata, Parma 1910 (estr. dal Bullettino Paletn., XXXII, XXXIII, XXXIV); id., L'età del bronzo in Italia, in Atti Congr. intern. sc. stor., V (1904), pp. 32-34; F. von Duhn, Ital. Gräberkunde, I, Heidelberg 1924, passim; L. Mariani, Aufidena, in Mon. antichi, X (1901) e in Atti Congr. inte n. sc. stor., V (1904), pp. 243-253; L. Pigorini, in Preistoria, passim (Cinquant'anni di storia ital., Roma 1911); U. Rellini, L'età della pietra sulla Majella, in Bull. Paletn., XL (1914), pp. 42-95; id., L'uomo primit. sulla Majella, in Atti soc. naturalisti e matem. di Modena, s. 5ª, I, 1914, pp. 49-68; R. Vaufrey, le Paléolitique ital., Parigi 1928 (Arch. de l'Inst. de Paléontol. hum., mem. 3), pp. 24-28, 58.

Storia.

Benché i paesi posti attorno al massiccio centrale dell'Appennino siano stati designati complessivamente col nome Abruzzo soltanto dopo la loro annessione al regno di Sicilia, tuttavia non così recente è il nesso che stringe quei popoli d'origine italica. All'aprirsi del Medioevo, la regione conservava il nome di Provincia Valeria, attribuitole nella divisione d'Italia fatta dall'imperatore Adriano e confermata da Costantino (v. Valeria prov.). Lo stesso nome le è assegnato da Paolo Diacono, il quale colloca la provincia Valeria tra l'Umbria, la provincia delle Alpi Appennine, il Piceno, il Sannio e la Campania. Marsi, Vestini, Peligni e Marrucini (v. marsi, vestini, ecc.) furono in tempi classici i popoli compresi nei suoi confini.

La Provincia Valeria fu tra le prime a ricevere la predicazione del Vangelo: forse dai tempi apostolici. Tuttavia, le memorie documentate dei suoi episcopati non sono anteriori al sec. V. Appartengono a questo tempo anche le memorie d'un monachismo probabilmente autoctono e, ad ogni modo, diverso da quello importato in Italia dai fondatori dei celebri monasteri farfense e volturnense, anteriori a S. Benedetto. S. Gregorio Magno ricorda vivente ai suoi tempi l'abate S. Equizio, rettore di fiorenti cenobî della nostra regione, ad uno dei quali egli stesso apparteneva. Da questi monaci fu probabilmente educato anche Bonifacio IV, nato nella Marsica, che salì al pontificato quattr'anni dopo la morte di S. Gregorio. Alla venuta dei Longobardi, questi monasteri subirono saccheggi e devastazioni e scomparvero. La furia barbarica si abbatté pure sulle nostre antiche città. S. Gregorio stesso ricorda la distrazione d'Amiterno, già capoluogo dei Sabini, e quella di Corfinio, l'illustre capitale della confederazione italica al tempo della guerra sociale.

Dopo la conquista longobarda e la costituzione del ducato di Spoleto (572), Faroaldo, primo duca, occupò la Sabina. Ariulfo, suo successore nel 591, incorporò al ducato anche il territorio degli antichi Marsi, Equi, Peligni e Vestini. Il duca Trasmondo, dopo la sua ribellione, riassoggettò nel 739 la Marsica, Valva (il terrirorio peligno), Forcone (territorio vestino ad occidente dell'Appennino) e Penne (i Vestini ad oriente). Poco dopo, gli si risottomisero anche i Sabini. Così tutta la Valeria rientrò definitivamente a far parte del ducato. La dominazione franca lasciò le cose senza mutamenti fino a che, tolta Teate (Chieti) nell'801 ai duchi longobardi di Benevento, tutto questo territorio venne anch'esso unito al ducato spoletino. Durante quest'epoca, gastaldi speciali, alle dipendenze del re o del duca, sovraintendevano all'amministrazione demaniale di questi territorî. Nell'843, la Provincia Valeria, così costituita, e allora detta Provincia dei Marsi o Marsia, fu eretta in contado autonomo, distinto e separato dal resto del ducato. Il Liber provincialis, compilato nei secoli XI e XII, così enumera i paesi costituenti questa regione: "In Marsia: Reatinus: Furconensis, Valvensis, Teatinus, Pinnensis, Marsicanus": cioè, tutto l'Abruzzo odierno, ad eccezione del circondario di Teramo e con l'aggiunta di quello di Rieti. I primi conti dei Marsi, che si successero in numero di sei, dall'843 al 926, rivestirono l'ufficio comitale ad personam, e appartennero tutti a stirpi diverse. Fu proprio in questi anni, e precisamente nell'871, che Ludovico II imperatore fondò nell'isola del Pescara il celebre monastero della SS. Trinità, detto poi di S. Clemente a Casauria, destinato, insieme con quelli di S. Bartolommeo di Carpineto, di S. Maria di Picciano, di S. Giovanni in Venere, di S. Liberatore alla Majella e di altri, ad aver tanta influenza nella storia d'Abruzzo.

Finalmente, nel 926, quando Ugo d'Arles scese in Italia a cingere la corona, tra i numerosi dinasti borgognoni e provenzali che lo seguirono, fu anche un conte Attone borgognone, suo consanguineo, zio materno a sua volta di un conte Berardo, detto il Francico, i quali ottennero dal re l'investitura comitale del paese dei Marsi. Attone ebbe la parte ad oriente del massiccio centrale dell'Appennino: i pagi di Penne e di Teate, cioè la provincia di Chieti con l'aggiunta del circondario di Penne. Berardo, ch'era di siirpe, di nazionalità e di legge franca e discendente dal sangue reale di Francia, ebbe invece la parte ad occidente, cioè la Marsia, Rieti e Amiterno, Forcone e Valva, cioè l'odierna provincia aquilana, con l'aggiunta del circondario di Rieti. La Sabina propriamente detta, cioè la bassa Sabina, corrispondente all'omonima diocesi, fu, non oltre il 939, distaccata dalla provincia dei Marsi e data al papa. Più tardi, cioè dopo il 989, ai pagi di Penne e di Teate troviamo aggiunto il vecchio contado d'Apruzzo (circondario di Teramo), territorio piceno, ch'era fin da tempi remoti alla dipendenza della marca di Camerino: Teramo, Penne e Teate costituirono da allora un dominio unico. La parte occidentale ritenne più propriamente il nome di Provincia dei Marsi, e rimase, sebbene fosse autonoma anch'essa, nel nesso politico del ducato di Spoleto, del quale i suoi conti si consideravano come dipendenti. Alla morte del capostipite Berardo, questo paese si risolveva nei suoi pagi etnici, e tre figli del primo conte si divisero il suo retaggio, formando tre contadi: quello della Marsica, quello amiternino-reatino, cui fu probabilmente annessa anche Forcone, e quello di Valva. I discendenti si divisero anche essi il paese in una quantità di piccole e discordi signorie, ben presto oggetto delle brame insaziabili dei Normanni di Capua. Due spedizioni per altro, compiute l'una nel 1067, sotto Riccardo principe di Capua, e l'altra nel 1077, sotto suo figlio Giordano, non riuscirono a stabilire la loro signoria in questi paesi.

Più fortunati furono i Normanni di Puglia contro i conti teatini. Il nipote di Roberto Guiscardo, Roberto I di Loritello, figlio di Goffredo, conte di Capitanata, circa questi tempi piombò all'improvviso sui dominî aviti del conte di Teate, Trasmondo, riuscì a farlo prigioniero e ad impadronirsi di tutto il paese a lui soggetto. Di una parte delle conquiste egli investì suo fratello Drogone, detto Tassone, mentre Ugo Malmozzetto, suo capitano, spingeva oltre le sue armi. Il contado di Penne, parte d'Apruzzo e la maggior parte del contado di Valva furono occupati. Più tardi, Apruzzo, ove dominava ancora un rampollo della vecchia stirpe burgundica, fu sgombrato; ma sul resto, questo ramo della dinastia degli Altavilla mise così salde radici, che il suo dominio durava ancora, allorquando si maturò la conquista da parte dei Normanni di Sicilia. Questa non tardò, allorché, alla morte di Lotario II imperatore, Ruggero II, re di Sicilia, prese possesso di tutto il mezzogiorno d'Italia. Togliendo a pretesto la difesa delle terre casauriensi contro i conti di Manoppello, nel marzo 1140 suo figlio Alfonso occupò le terre teatine, passò la Pescara e invase il Pennese, l'Apruzzo e il Valvense. Tre anni dopo, tutta la Marsia era in potere del re di Sicilia. Trascorsi altri 5 anni circa, cadeva anche Rieti, che fu incendiata e distrutta. Ugual sorte toccò a Teramo. Tuttavia, solo alla morte di Ruggero, poté il successore Guglielmo I, superata la terribile guerra suscitatagli contro dal conte di Loritello, ottenere a Benevento, da Adriano IV, l'investitura. Guglielmo, però, cedeva al papa Rieti e si obbligava ad un censo di 400 schifati, pel possesso della Marsia. Col nome classico, scompare, da questo momento, anche l'autonomia della regione, la quale, inclusa definitivamente nel Regno, verrà designata in modo generico e indeterminato coll'espressione: "in finibus Aprutii".

La guerra mossa da Federico Barbarossa contro il Reame, le rivolte di Messina e di Palermo nel 1167, e finalmente i torbidi avvenuti alla morte di Guglielmo II nel 1189, trovarono eco vivissima e attiva partecipazione nei paesi novamente conquistati. Anche essi si schierarono decisamente contro Tancredi in favore di Costanza regina, e favorirono il passaggio delle truppe di Enrico VI imperatore, che finì col trionfare. Morta Costanza, Pietro conte di Celano e Berardo di Loreto, conte di Conversano, assunsero il baliato del minorenne re Federico II. Pietro, anzi, nella sua qualità di Grande Giustiziere di Puglia, difese il re contro le mene del collega Riccardo, conte di Fondi. Ma, venuto in Italia Ottone IV, Pietro ne prese le parti e invase la Marca e il ducato di Spoleto. Se non che, prima ancora che Ottone fosse scomunicato, sconfitto e ucciso, Pietro era già stato annientato. Tommaso, parente d'Innocenzo III, creato conte di Celano, a sua volta si ribellò; ma, costretto esso a fuggire, Celano fu distrutta e i suoi abitanti deportati. Tornò tuttavia nel Regno Tommaso, allorché Federico, già scomunicato, partì per la crociata (1228); i signori di Poppleto e tutto l'Abruzzo si mettevano in rivolta; Gregorio IX incitava i popoli d'Amiterno e di Forcone a confederarsi, per fondare una nuova città. Contro i ribelli fortificatisi a Capitignano, muovono Rinaldo duca di Spoleto e suo fratello Bertoldo, che poi invadono la Marca. Le truppe pontificie li assalgono e li assediano a Sulmona, nel 1230. In ultimo, anche i due ufficiali imperiali si ribellano, e invano Federico li fa assediare nella rocca d'Antrodoco; può catturarli soltanto nel 1233. Ma l'ordine ristabilito, che si manifesta nella costituzione del giustizierato di Abruzzo con capoluogo Sulmona, dura poco. Appena sei anni dopo, quando Federico è di nuovo scomunicato e parte per la guerra di Lombardia, Berardo d'Amiterno, i signori di Poppleto e altri tornano a ribellarsi, e Tommaso di Celano li aiuta. Federico viene nella Marsica, invade le terre del Papa, prende e distrugge Rieti, mentre gli Ascolani occupano Teramo. Corrado imperatore può a stento riconquistare Penne e Atri.

Conclusione e sintesi di questi avvenimenti è la fondazione della città di Aquila, che Alessandro IV si affretta ad elevare a sede cattedrale. Durante una breve ripresa delle fortune sveve, la città viene abbattuta da Manfredi (1259). Ma, debellati definitivamente gli Svevi, la città risorge come libero comune; e, mercé i suoi aiuti, Carlo d'Angiò può vincere la battaglia di Tagliacozzo (v. aquila). Dopo l'assassinio di Andrea, marito della regina Giovanna, la nuova città prende le parti di Luigi re d'Ungheria e fratello di Andrea; Penne, Chieti, Lanciano, Ortona la seguono. Ma le lotte senza fine, che seguirono il ristabilimento della regina, desolarono il paese e lo gettarono in preda alle discordie e al banditismo. Uccisa Giovanna, parte della regione si schierò per Carlo di Durazzo, e parte per Luigi d'Angiò, che ebbe a suo viceré Luigi di Savoia. Più tardi, nelle note vicende seguite all'adozione di Alfonso d'Aragona e poi di Luigi d'Angiò da parte di Giovanna II, si ebbe il famoso assedio di Aquila da parte di Fortebraccio conte di Montone, che ivi trovò la morte, poco dopo che già era stato travolto dalle acque del Pescara l'altro, non meno di lui famoso, capitano Muzio Attendolo Sforza, suo avversario e rivale. Morta Giovanna II nel 1435, l'Abruzzo parteggia prima per Alfonso; poi, ad opera degli Aquilani, per Renato d'Angiò. Con l'avvento di Ferdinando, figlio naturale di Alfonso, aiutato dal papa e dai Milanesi, gli Aquilani rialzano le bandiere aragonesi, mentre Renato fugge in Provenza. Ma, in occasione della congiura dei baroni, protetti dal papa e da Venezia, contro gli Aragonesi, la città dell'Aquila si dà alla Chiesa (26 settembre 1485). Le truppe aragonesi invadono allora i dintorni di Roma e costringono il papa alla pace, mentre il duca di Calabria rientra in Aquila il 10 ottobre 1486.

Alla discesa di Carlo VIII, Aquila apriva le porte ai Francesi. Ma, tornato il re in Francia, Consalvo Fernández de Cordova riconduceva a Napoli Ferdinando II d'Aragona, che subito faceva rioccupare Aquila. Scoppiata la guerra tra Francesi e Spagnuoli, in Abruzzo si combatté ancora per i Francesi. Ciò non impedì che Ferdinando di Spagna, vittorioso nelle giornate di Seminara e Cerignola, assumesse incontrastata la sovranità di tutto il Regno. Quando poi si ebbe il nuovo tentativo francese col maresciallo Lautrec, il viceré Filiberto di Châlons principe d'Orange, in nome di Carlo V imperatore, riprese il sopravvento e mise a sacco la città di Aquila, privandola d'ogni potere politico sul contado e sulle vicine castella. In compenso, Aquila fu scelta a sede della Udienza per una seconda provincia d'Abruzzo, che in quel tempo fu costituita. Si consolidò anche in Abruzzo la dominazione spagnuola, che non fu benefica alla regione. La guerra suscitata da Paolo IV contro la Spagna non fece, con le sue ripercussioni abruzzesi, se non rincrudire le piaghe: e la rivolta di Masaniello, che ebbe forte eco anche in Abruzzo, servì solo a rinsaldare le catene.

Ai primi del '700, mentre Austriaci e Spagnuoli si disputavano il possesso del Regno, l'Abruzzo venne funestato da tremendi terremoti, uno dei quali distrusse Aquila (1703). Avvenne allora l'assedio di Pescara (1707). Gli Austriaci rimasero padroni del Regno, ma ne furono poi in breve tempo cacciati, e invano più tardi tentarono un colpo di mano contro l'Abruzzo. In questi tempi, sotto il regno di Ferdinando IV, fu creata una terza provincia d'Abruzzo con capoluogo Teramo. Alla fine del secolo, i Francesi trovarono in questa regione tenacissima resistenza. Allorché il generale Championnet, inseguendo i borbonici in ritirata, invase il Regno, una parte dell'esercito francese penetrò nell'Abruzzo. Ma già, nel generale sfacelo dei poteri costituiti, gli Abruzzesi, sull'esempio delle popolazioni limitrofe, si erano, senza distinzione di classi sociali, sollevati a respingere l'invasore. E, condotti da uomini animosi, resistettero per oltre un mese (dicembre 1798-gennaio 1799), essi irregolari e male armati, a un esercito regolare provvisto di mezzi bellici superiori e reso animoso dalle vittorie riportate sui campi d'Europa. Se le truppe di re Ferdinando, invece di ritirarsi precipitosamente come fecero, avessero dato la mano agl'insorti del Teramano e dell'Aquilano, forse i Francesi non sarebbero passati. La vittoria e la conseguente proclamazione della repubblica non ridussero peraltro le masse all'obbedienza: la guerriglia arse ininterrottamente nelle provincie abruzzesi, durante l'esistenza travagliata della Partenopea. E quando, ai primi di maggio del '99, venne ai Francesi l'ordine di ritirarsi, gli insorti, nella gola di Antrodoco e a Borghetto, ne ostacolarono la marcia, lanciando sui fuggiaschi palle infocate, pietre e olio bollente.

Nel 1821, 1841 e 1848, moti insurrezionali ebbero il loro centro in Abruzzo, fino a che, nel 1860, l'intero Reame fu congiunto anche politicamente al resto d'Italia. Le popolazioni, estranee in generale, o poco partecipi alle idealità della minoranza liberale, accolsero senza opposizione e senza entusiasmo il nuovo ordine di cose. Avvenne anche che le diverse truppe borboniche, affluite verso il nord per raggiungere la fortezza di Civitella, ancora assediata, e non riuscite in questo loro disegno, si sbandassero nella regione, si buttassero alla guerriglia fra i monti, si accrescessero di avventurieri esteri, di malviventi d'ogni paese, di amnistiati o evasi dal carcere. Ma sarebbe errore qualificare in blocco come brigantaggio la difesa di una causa tramontata, a cui si votarono anche uomini che non cercavano bottino, ma erano sinceramente convinti di combattere per la giustizia. Negli Abruzzi in modo particolare, le bande dei colonnelli Lagrange e Loverà conservarono al movimento un carattere prevalentemente politico: cosa spiegabile, in un paese limitrofo allo Stato pontificio, asilo dei Borboni caduti. Contro esse accortamente operarono il generale Ferdinando Pinelli e più tardi il conte Pallavicini di Prìola. Episodî notevoli della lotta furono, oltre all'assedio di Civitella, gli scontri di Fiamignano, Arielli, Tagliacozzo e altri. Con la distruzione del brigantaggio politico, l'unità d'Italia divenne salda e definitiva.

Bibl.: C. Minieri-Riccio, Biblioteca storico-topografica degli Abruzzi, Napoli 1862; A. Parascandolo, Supplemento alla Biblioteca storico topografica degli Abruzzi di Camillo Minieri-Riccio, Napoli 1876; V. Bindi, Fonti della storia abruzzese (Supplemento alla Biblioteca storico-topografica degli Abruzzi di C. Minieri-Riccio e di A. Parascandolo), Napoli 1884; G. Pansa, Bibliografia storica degli Abruzzi, Lanciano 1891; A. L. Antinori, Annali (ms. biblioteca provinciale di Aquila); A. L. Antinori, Raccolta di memorie istoriche delle tre provincie degli Abruzzi, Napoli 1781-1783; G. C. Fatteschi, Memorie istoriche diplomatiche riguardanti la serie dei duchi e la topografia dei tempi di mezzo del ducato di Spoleto, Camerino 1801; Faraglia, Saggio di corografia abruzzese, in Archivio storico napoletano, XVI; Ludovisi, Storia delle diocesi d'Amiterno e Forcone, in Bollettino della Società di storia patria degli Abruzzi, VII, p. 168; De Laurentiis, Il Gastaldato e la contea di Teate, in Bollettino cit., s. 2ª, XV, p. 6; De Francesco, Origine e sviluppo del feudalesimo nel Molise, in Archivio storico napoletano, XXXIV; Palma, Storia ecclesiastica e civile della regione più settentrionale del regno di Napoli, Teramo 1832-36; Savini, La contea d'Apruzio e i suoi conti, Roma 1905; Corsignani, Reggia marsicana, Napoli 1738; Lugini, Memorie istoriche della regione equicola, Rieti, 1907; Michaeli, Memorie storiche della città di Rieti, Rieti 1897-99; Romanelli, Antichità storico-critiche sacre e profane della regione frentana, Napoli 1805; Di Pietro, Memorie storico-critiche della città di Sulmona, 1904; Celidonio, La diocesi di Valva e Sulmona, Casalbordino 1909-1912; Nicolino, Historia della città di Chieti, Napoli 1657; C. Rivera, Le conquiste dei primi Normanni in Teate, Penne, Apruzzo e Valva, in Bullettino della R. Deputazione abruzzese di storia patria, s. 3ª, XVI (1925); C. Rivera, L'annessione delle terre d'Abruzzo al regno di Sicilia, in Archivio storico italiano, s. 7ª, VI (1926); L. Rivera, Le condizioni politiche in Italia dal 1700 al 1709, in Bullettino della Soc. di st. p. per gli Abruzzi, XXI (1909), pp. 281-323; Moscardi, L'invasione francese nell'Abruzzo aquilano nel 1798-99, ibid., XI (1899), pp. 121 e 164; id., L'invasione francese nell'Abruzzo teramano nel 1798-99, ibid., XII (1900), pp. 125-149; G. Rivera, L'invasione francese in Italia e l'Abruzzo aquilano dal 1792 al 1799, ibid., XIX (1907), pp. 165 e 253; XX (1908), pp. 3 e 137; XXI (1909), pp. 3, 107 e 211; Rodolico, Il popolo nelle provincie meridionali, Bologna 1927; C. Rivera, La città dell'Aquila negli ultimi anni della monarchia napoletana, 2 voll., C. R. Aquila 1912-1913; C. Cesari, Il brigantaggio e l'opera dell'esercito italiano dal 1860 al 1870, 2ª ed., Roma 1928.

Arte.

Architettura. - Prima della conquista romana, i popoli che occuparono questa terra, cioè i Pretuziani, i Vestini, i Marrucini, i Sabini, i Marsi, gli Equi, non ci lasciarono opere cospicue che permettano di giudicare del loro avanzamento artistico, ma solo necropoli e tombe che interessano più specialmente l'archeologia. I Romani, tracciandovi le grandi vie di comunicazione, portarono in Abruzzo la loro arte, che si accentrò potentemente nei municipî e nei pagi, a quanto si desume dai rarissimi monumenti scampati alla distruzione e dai resti di teatri, di anfiteatri, di tombe e di templi. Al cominciare del Medioevo, l'arte d'Abruzzo risentì grandemente della civiltà bizantina, e perciò sulle rive dell'Adriatico e nelle vallate di maggior frequenza noi troviamo largamente disseminati, nelle chiese più antiche, i resti di quella scultura monumentale che si chiamò italo-bizantina e servì a decorare specialmente pulpiti, ciborî e recinzioni presbiteriali. Al periodo precedente al Mille possono attribuirsi pochi monumenti ancora in piedi, e tra questi una parte dell'antica S. Maria Aprutiensis in Teramo; una chiesa di tipo basilicale nella valle della Vibrata, detta S. Maria a Vico; e la cripta della cattedrale di Penne, ove fanno la prima apparizione i capitelli cubici prelombardi. All'inizio del nuovo millennio, un grande spirito di rinnovamento dell'arte venne da Montecassino, donde si partì il monaco Teobaldo per la ricostruzione del monastero di S. Liberatore alla Majella (E. Gattula, Historia Abbatiae Cassinensis, ecc., Venezia 1733). Tra il 1007 e il 1019 una vera scuola di maestranze benedettine si costituì per opera di questo monaco a San Liberatore, lasciandovi impressi i caratteri di uno stile che si propagò ben presto in Abruzzo nei monasteri dipendenti da Montecassino e da San Vincenzo al Volturno. Troviamo infatti a Péntima, nell'oratorio di S. Alessandro, presso la Cattedrale di Valva, nelle cripte delle cattedrali di Sulmona e di Chieti e in molte chiese della regione, adottato sempre il medesimo tipo di architettura, il quale, nell'organismo essenzialmente latino, innesta i primi elementi dell'architettura lombarda. La scuola valvense, che può dirsi erede e continuatrice dei metodi usati a S. Liberatore, entra nel sec. XII in piena architettura romanica con le chiese cattedrali di Valva, di Sulmona e di Teramo, con S. Paolo di Peltuino, con S. Eusanio Forconese, con S. Angelo di Pianella e con S. Getulio di Teramo, dove la vòlta lombarda viene applicata senza esitazione su robuste nervature. Viene poi la scuola di Casauria, accentrata a S. Clemente alla Pescara tra il 1176 e il 1182, la quale crea, su organismo puramente italiano, soluzioni decorative di una bellezza incomparabile, capaci di rivaleggiare con quelle delle più famose cattedrali francesi e pugliesi di quel tempo. E la sua espansione, che si limita ai primi anni del Duecento, semina in tutta la regione i germi di nuove idee che si ritrovano in tutte le scuole del sec. XIII. Tra queste la scuola marsicana, così detta dalla regione in cui si formò a preferenza, adotta nelle sue chiese uno schema in cui la chiesa a sala, piegandosi alle esigenze di una pianta basilicale, risolve in modo semplice e geniale la decorazione del prospetto.

Le maestranze che componevano queste scuole, a partire dal 1165, si trovarono investite dall'arrivo delle prime forme gotiche di Borgogna, portate dai Cistercensi, che si fermarono a S. Maria di Atri e nelle abbazie di S. Giovanni in Venere e di Civitella Casanova. Ma la nuova corrente non ebbe fortuna in Abruzzo, e vi passò come una folata di vento per giungere in Puglia, ove la corte di Federico II attirava i migliori maestri. L'arte gotica si affermò più tardi, cioè a cominciare dal 1208, quando si fondarono le abbazie di S. Maria d'Arabona e di S. Maria della Vittoria nei Campi Palentini (1274-1282), e quando i concetti stilistici di Francia, tornando rielaborati dalle Puglie, si affermavano nella costruzione di S. Maria Maggiore di Lanciano (1227) e in altre sedi minori. Durante il sec. XIII, arrivano anche gl'influssi dell'arte pugliese, campana e sicula in S. Giovanni in Venere, nelle chiese di Lanciano, di Chieti e di Vasto, in Alfedena, in Penne; e ne risultano capolavori, quali il ciborio di S. Pietro ad Oratorium, l'ambone di S. Paolo di Peltuino, i candelabri di S. Maria di Bominaco e di S. Clemente a Casauria, e innumerevoli opere minori.

Con la fondazione di Aquila, avvenuta nel 1254, le nuove correnti d'arte sparse per l'Abruzzo cominciano ad accentrarsi, e formano scuole locali meglio circoscritte. Ogni città diviene quindi centro di un'architettura propria, che ben può chiamarsi distrettuale in quanto si irradia nel vicino territorio con evidente uniformità di stile. Nel '300 Atri, Aquila, Chieti, Teramo, Sulmona, Lanciano sono i centri maggiori del movimento artistico, centri che da ora in poi riassumeranno tutte le nobili gare dell'arte con la creazione di scuole locali in concorrenza fra loro. La scuola atriana, con chiese di pianta rettangolare senza absidi, studia e risolve il problema di coprire le navate con vòlte lunettate, come avviene nelle chiese monasteriali di Colromano e di Propezzano. La scuola aquilana presenta i caratteri di una maggiore espansione, e affronta problemi diversi, al pari delle scuole proprie del Chietino, del Teramano e del circondario di Sulmona. Da questi centri le scuole dei sec. XIII e XIV irradiano nella regione forme architettoniche speciali, che percorrono strade indipendenti e s'incrociano in vario senso, ma tutte ossequenti a certi principî generali che costituiscono le note caratteristiche ed eminenti dell'architettura d'Abruzzo.

Frattanto la parola di S. Francesco conquista le popolazioni, lasciando ovunque il desiderio di nuove sedi e di nuovi santuarî; ma la grande chiesa di Assisi non è subito imitata. Ovunque si prediligono le absidi quadrate o poligonali coperte a crociera d'ogiva: il concetto delle chiese a tre navate diviene grandioso, ma non si riesce a completarlo. S. Giusta di Aquila 1257) e S. Maria di Collemaggio, fondata nel 1287, nei grandi piloni cilindrici delle navate e in quelli ben maggiori del transetto, hanno caratteri che dimostrano punti di contatto con le chiese di Normandia e con quelle sorte in Inghilterra dopo la conquista normanna (1066). Tuttavia la chiesa aquilana stilisticamente più evoluta, S. Domenico, riesce a completare il sistema gotico nel transetto e nelle absidi tenute da contrafforti. Si deve alla scuola aquilana il merito di aver trovato e di avere adottato su vasta scala una soluzione tipica del prospetto delle sue chiese. Tale è la facciata a muraglia rettangolare e coronamento in piano, semplice architettura di parata fatta per nascondere l'interno organismo dell'edificio, la quale si presenta anch'essa come una nuova semplificazione, con grande prevalenza dei pieni sui vuoti, una specie di formula fatta per risparmiare ai costruttori la ricerca di motivi sempre nuovi. Il concetto grandioso della finestra a ruota, posta subito al di sopra del portale, ebbe un'importanza forse simbolica, certo tradizionale. Spetta alle fraterie del Trecento il merito non solo di avere fissato un tipo semplicissimo di chiesa a una nave, caratteristica della loro povertà, ma anche di aver raggiunto con le chiese francescane di Avezzano e di Tagliacozzo la secolare aspirazione dei costruttori, cioè la copertura di tutto l'edificio con vòlte a crociera su nervature di pietra. L'esempio venne seguìto nelle chiese di Rosciolo, di Albe, di Pescasseroli e in cento esemplari sparsi per l'Aquilano, fra cui primeggia la chiesa di S. Maria del Soccorso, dove l'ambizione di voltare con crociere su costoloni reagiva sulla tendenza a sfuggire alle difficoltà costruttive. Nella seconda metà del '400 e lungo il '500, l'eclettismo informa un numero di opere che possono riunirsi sotto la denominazione di architettura abruzzese come conclusione di tentativi secolari; ma si tratta di un eclettismo speciale e con caratteri proprî, poiché segue le norme costanti di tutte le manifestazioni artistiche d'Abruzzo. Ancora ai primi del '600 la tradizione delle vecchie scuole abruzzesi lascia tratti caratteristici nello stile barocco invadente, il quale comincia ad avere la prevalenza nei maggiori centri, e poi si sparge per le campagne. I modelli, però, che giungono da Napoli e da Roma rappresentano per gli Abruzzesi un lusso che essi non amano in architettura, sicché l'arte barocca non riesce mai a scendere nel popolo e a prendere carattere locale.

L'architettura civile e militare, che pure ebbe grande sviluppo nella regione, per quanto si serva degli stessi elementi di quella religiosa e assurga talvolta a manifestazioni d'arte di primaria importanza, presenta in generale un'evidente inferiorità costruttiva e stilistica. Esempî: in Aquila, la Fonte della Rivera, palazzi signorili e un castello per le artiglierie (1535); in Sulmona, il grande acquedotto del 1256, l'ospedale dell'Annunziata e la porta Napoli; in Campli, il Palazzo parlamentare; in Popoli, quello dei Cantelmi e la Taverna ducale; in Tagliacozzo, il Palazzo ducale Orsini-Colonna e una serie di castelli del '300 e del '400, che incomincia per importanza con quelli di Celano, di Balsorano, di Capestrano, di Pacentro, di Vasto, e discende a edifici in rovina dei quali presto scomparirà ogni traccia.

Scultura. - La scultura segue le stesse vicende dell'architettura, a cui fino al Trecento si dimostra strettamente collegata. Il suo ufficio eminentemente decorativo accompagna lo sviluppo delle scuole benedettine con ornamenti tratti per lo più da libri miniati e da avorî bizantini; poi, per mezzo di artisti indipendenti, quali Roberto e Nicodemo, fornisce ai monasteri mobili liturgici e recinzioni presbiteriali di uno stile arabeggiante, che permette di creare veri capolavori, quali il ciborio di S. Clemente al Vomano, il ciborio e l'ambone di S. Maria in Valle Porclaneta (1151), gli amboni di S. Maria del Lago in Moscufo (1159): e di Cugnoli (1166). Della scuola casauriense fanno parte, come complemento dello sfarzo decorativo, le tre lunette della chiesa di S. Clemente a Casauria; l'ambone di Pianella, opera di maestro Acuto; la Madonna delle Fornaci, ora nella cripta di S. Panfilo a Sulmona; un Angelo nella sacrestia del duomo di Teramo, e innumerevoli opere sparse, in cui predomina lo studio di emancipare la figura dalle forme stereotipate sullo stile bizantino. Nelle scuole del '200 lo studio della figura umana cede il passo ad innumerevoli applicazioni ornamentali che raggiungono effetti mirabili. Esempî: i portali delle chiese di scuola marsicana in Luco, Avezzano, Trasacco, Paterno, i plutei di Magliano de' Marsi, i portali di S. Giovanni in Venere, il pulpito di S. Paolo di Peltuino.

Scarsa è stata l'importanza della statuaria prima dell'avvento del gotico. Correnti nordiche, e più precisamente lombarde, si manifestano al principio accanto all'opera di maestri francesi e toscani attirati nel mezzogiorno d'Italia dai sovrani della casa d'Angiò, ai quali si possono attribuire sculture sparse, di legno o terracotta, (la statua della Vergine trovata a S. Maria della Vittoria, presso Scurcola, e la statua simile in S. Silvestro d'Aquila), come sembra che si debbano ad aiuti di Tino di Camaino sculture di carattere toscano (la statua della Vergine nella chiesa di Fossa, la statua dell'Addolorata di Pacentro e la statua di S. Balbina in S. Demetrio dei Vestini). È pure notevole l'attività di numerosi scultori tedeschi infiltratisi, soprattutto nella prima metà del Quattrocento, un po' dovunque nella regione, tra i quali merita di essere ricordato Gualtiero di Alemania, di cui restano opere in Santo Spirito alla Badia Morronese, presso Sulmona, e in S. Giuseppe di Aquila. Ma un grande avanzamento si ha con la formazione della scuola aquilana, in cui primeggiano Silvestro di Giacomo da Sulmona, Giovanni Francesco Gagliardelli, Giovanni di Blasuccio e Paolo dell'Aquila. Silvestro, detto erroneamente l'Ariscola (v.), tiene il primo posto in quella scuola che risente degl'influssi del Rinascimento fiorentino e romano. La statua policroma del S. Sebastiano (1478), ora al Museo di Aquila, il monumento al card. Agnifili nel Duomo, la tomba Pereira-Camponeschi (1496) e il deposito di S. Bernardino, terminato dopo la morte del maestro, e, finalmente, una serie di statue lignee della Vergine col Figlio, ove è un'espressione di particolare dolcezza, sparse nelle città e nei paeselli, sono altrettanti capolavori, spesso degni di stare a fianco delle buone opere toscane. La scuola di Silvestro Aquilano e dei suoi seguaci e contemporanei Paolo dell'Aquila, Giovanni di Blasuccio, Giovanni Francesco Gatori dei secoli seguenti una fonte inesauribile d'ispirazione.

Pittura. - Nel campo della pittura, alla mancanza di opere precedenti al Mille è possibile contrapporre un grande sviluppo nella decorazione murale in affresco con soggetti di carattere sacro, forse dovuta ad una scuola locale che dalla fine del sec. XII abbraccia tutto il XIII. Esaminando le opere di questo periodo, ed escludendo i grandi affreschi della chiesa di S. Maria di Ronzano, che si attribuiscono ad artisti francesi (É. Bertaux, L'art dans l'Italie méridionale, p. 287), possono annoverarsi in Abruzzo dei veri cicli, fatti per decorare chiese monastiche o santuarî, nei quali con arte ritardataria si riproducono le caratteristiche della pittura benedettina già conosciuta nei suoi protòtipi. A S. Maria di Antrodoco, nel campanile, un Cristo della fine del sec. XII benedice ancora alla greca. A Santa Giusta di Bazzano (1218), nell'abside di S. Liberatore a Majella, a S. Angelo di Pianella e a S. Maria di Moscufo, i soggetti e l'iconografia sembrano discendere direttamente dalle scuole benedettine del mezzogiorno d'Italia. Invece negli affreschi di S. Maria ad Cryptas, presso Fossa, in S. Pellegrino di Bominaco e a S. Maria di Cartignano (1237), la scuola locale si rafforza e prende un carattere più singolare. Si giunge, così, per gradi alla bella espressione pittorica della cripta di S. Giovanni in Venere, in cui Luca di Palustro dimostra la maturità di quest'arte, e al grande Giudizio Particolare di Loreto Aprutino, capolavoro che non nasconde contatti con lo stile di Giotto. La continuità e vivezza di quest'arte è dimostrata dal succedersi di opere che risentono di un certo eclettismo, dovuto all'incrocio delle varie scuole, facilmente spiegabile nel centro d'Italia. Pure lo studio del vero è sottoposto agl'influssi delle varie correnti e specialmente della veneta, di cui è massimo rappresentante Andrea Delitio (v.), il più originale ed elegante maestro del '400. Esempî: le decorazioni della chiesa di S. Francesco in Sulmona (1450), il S. Cristoforo di Guardiagrele (1473), le grandi Storie della Vergine nel duomo di Atri. Maestri a lui contemporanei, anch'essi eclettici, furono Leonardo di Teramo, Giacomo da Campli (1461) e i numerosi partecipanti della fiorentissima scuola aquilana, tra cui Andrea dell'Aquila (1458), Sebastiano di Cola (1493) e Saturnino Gatti, forse il più conosciuto e il più ricercato pittore della fine del secolo, in cui la pittura, tutta imbevuta di elementi umbri mescolati a ricordi di Antoniazzo Romano, si volgarizza nella sua grande espansione, divenendo facile e popolare. Sotto l'impulso vigoroso delle grandi scuole italiane, le contrade più remote d'Abruzzo assorbono l'esuberanza dei metodi e la larghezza delle concezioni. Il Filotesio, detto Cola dell'Amatrice (v.), pittore e architetto insigne, e gl'imitatori di Raffaello Sanzio, Pompeo Cesura, Troilo Emiliani, Paolo Cardone, i due Massonio, allievi e seguaci del Cesura, e i Bedeschini tentano di sollevare la pittura alle forme dei grandi maestri, ma i loro quadri cadono per lo più nei difetti dei manieristi Mario Nuzzi di Penne, detto Mario dei Fiori (v.), coi suoi studî sulla natura, e G. B. Boncori di Campli con soggetti storici e mitologici furono gli ultimi rappresentanti della grande pittura del '600.

Arti minori. - Anche la miniatura fu esercitata in Abruzzo con grande fervore durante il Medioevo, specialmente nei monasteri; ma documenti dimostrano che dal sec. XIV in poi l'arte di alluminare era tenuta in onore da laici, che seppero elevarla a maggiore originalità. Tra le arti minori tenne il primato in Abruzzo l'oreficeria, che, dopo le prime e più antiche opere d'origine bizantina (massime il trittico e la stauroteca di Albe, oggi al Museo di Palazzo Venezia in Roma), si sviluppò con influssi fiorentini e senesi, ma ben presto ebbe spiccato carattere locale. Le quattro scuole ove si esercitò questa nobile arte furono in Guardiagrele, Sulmona, Teramo e Aquila. Sommo rappresentante della prima fu Nicola da Guardiagrele (v.) o della Guardia (1378-1461), il quale, dopo aver dato impulso alla scuola paterna, si recò a Firenze a lavorare col padre del Ghiberti. Sue opere eminenti sono l'ostensorio di Francavilla (1413), la croce processionale di Lanciano (1422) e quella di Guardiagrele (1433), il busto di San Giustino in Chieti, la croce di Aquila (1434) e il famoso paliotto del Duomo di Teramo (1433-1448). La scuola sulmonese, emula della guardiese, ebbe pure orafi di grande valore, che produssero opere degne di rivaleggiare con le altre scuole italiane. Da ultimo fiorì la scuola aquilana con un maggiore sfoggio di forme e migliore slancio verso il Rinascimento.

L'arte della maiolica in Abruzzo ebbe un grande sviluppo a causa delle stratificazioni di argilla esistenti nel versante adriatico, ma nel Medioevo si applicò solo nella parte decorativa di monumenti. Raggiunse poi nei secoli XVII e XVIII una particolare importanza per opera della scuola di Castelli, dove artisti veramente geniali la sollevarono ad arte indipendente e ricercatissima. I Crue (v.), i Gentili (v.), i Fuina, i Cappelletti furono non solo modellatori e coloristi espertissimi, ma ebbero anche il dono della creazione facile e originale, sicché le loro opere andarono celebrate in Italia e all'estero. A Castelli la famiglia dei Grue aveva istituita una scuola fiorentissima, che operò dal 1594 al 1799 circa, decadendo poi ai primi dell '800. Di questa scuola furono seguaci Carmine Gentili (1679-1763), Gesualdo Fuina (1755-1822) e innumerevoli altri (collezioni principali: Museo di S. Martino in Napoli; Aliprandi in Penne; De Riseis in Napoli).

Le industrie dei metalli, dei tappeti e dei merletti ebbero in Abruzzo caratteristiche locali, dovute ad una indipendenza di produzione che si mantenne per lunghi secoli in fiore. I centri principali furono Pescocostanzo per i tappeti e merletti al tombolo e per il ferro battuto, Aquila per la fabbricazione di stoffe e di merletti. Alla stessa guisa della oreficeria e della ceramica, queste industrie locali seppero sollevarsi ad altezze non comuni.

Bibl.: E. W. Schülz, Denkmäler d. Kunst d. Mittelalters in Unteritalien, Dresda 1860; V. Bindi, Artisti abruzzesi, Napoli 1883; id., Monumenti storici ed artistici degli Abruzzi, Napoli 1889; L. Gmelin, Oreficeria medioevale negli Abruzzi, monografia tradotta dal tedesco da G. Crugnola, Teramo 1891; P. Piccirilli, Monumenti architettonici sulmonesi, Lanciano 1891; id., la Marsica, Trani 1904; É. Bertaux, L'art dans l'Italie méridionale, Parigi 1904; V. Balzano, L'arte abruzzese, Bergamo 1910; L. Serra, Aquila monumentale, Aquila 1912; A. Bertini-Calosso, l'arte in Abruzzo, in Guida d'Italia del Touring Club: Italia meridionale, I, Milano 1926; I. C. Gavini, Storia dell'architettura in Abruzzo, Milano-Roma 1927-28. Per una bibliografia particolareggiata v. Ministero della Pubblica Istruzione, Elenco degli edifici monumentali: XLIV, Provincia di Teramo, Roma 1916; id., XLV, Provincia di Chieti, Roma 1921; id., XLVI, Provincia di Aquila, Roma 1927; C. Gradara, Bibliografia artistica dell'Abruzzo, Roma 1927.

Musica.

In questa regione quanto mai ricca di colore locale, dai forti contrasti, dalle tinte cariche, dalle passioni schiette, anche la musica etnica è improntata a uno stile tutto suo e perfettamente intonato all'ambiente. Così, p. es., la tarantella abruzzese, tolta la struttura ritmica propria a questo genere di ballo, ha certi caratteri che la distinguono da tutte le altre tarantelle, compresa la napoletana.

Canti sgorgati dall'antica anima d'Abruzzo e dal popolo gelosamente conservati, sono: quelli d'amore; le arie a dispetto; i canti e le nenie mistiche, con le quali il popolo intona certe preghiere; le laudi ai santi, con le quali accompagna le processioni; i canti della culla, tesoro d'amore materno; i canti della tomba, tesoro d'amore e di dolore; i canti più propriamente campestri, con i quali il contadino allevia le fatiche dei campi: canti della vendemmia, della mietitura, ecc. In ultimo le canzoni di danza, o canti a ballo, tra le quali primeggia la tarantella; le arie che accompagnano le rappresentazioni mimo-coreografiche a sfondo amoroso; il canto satiresco che, se pure non eguaglia gli altri per bellezza melodica li vince forse nell'originalità dell'andamento, ed è in ogni modo di particolare interesse per gli studiosi. Tutti questi canti sono spesso costruiti su scale poco comuni: il modo maggiore con la quarta eccedente; il modo minore con la seconda minore tra primo e secondo grado e l'alterazione ascendente del sesto e settimo grado, come spesso si usa nei canti funebri; la scala minore con la sola seconda minore tra primo e secondo grado, ma solo in quei pochi paesi ove furono a lungo colonie albanesi. È però da notare che spesso uno stesso canto è eseguito in modo diverso a seconda del paese.

Diamo nella pagina seguente un esempio di ninna-nanna di Borbona (provincia di Aquila) e uno di canto amoroso a la langianese (modo di Lanciano, provincia di Chieti).

Molti i congegni da suono e gli strumenti musicali veri e proprî usati dal popolo abruzzese. Ma nel corteo delle cannule d'avena degli zufoli di scorza di certe piante, degli scacciapensieri, regnano sovrane la cornamusa o zampogna e il piffero o piffera. Sono gli zampognari che nel loro caratteristico costume, durante le feste di Natale, scendono dai loro monti e si spingono nella Campania, fino a Napoli, nel Lazio, fino a Roma, ove, per le strade, richiamano l'attenzione dei passanti con le ingenue melodie natalizie. La cornamusa degli Abruzzesi (diretta discendente della tibia utricularis dei Romani) ha quattro canne: la più grave e la più acuta con quattro fori laterali ciascuna, così da dare ognuna cinque suoni; le due intermedie, senza fori, fungono da bordoni con due note fisse disposte in ottava. È. notevole il fatto armonico che, mentre i suoni delle due canne estreme formano complessivamente una scala impiantata in sol maggiore, mancante del mi, sesto grado, le due canne intermedie dànno, per bordone, la nota re, cioè la dominante, anziché la tonica. Questo dà un sapore arcaico a tutta la musica che vi si eseguisce. Le cornamuse sono di varie dimensioni e tonalità. Il piffero, specie di oboe primitivo e senza chiavi, ha otto fori laterali; ve ne sono tagliati in diverse tonalità. Il complesso dei musicisti ambulanti abruzzesi, una volta di tre (cornamusa, piffero in re, piffero in sol), ora è per lo più ridotto a una cornamusa e a un piffero cui, qualche volta, si aggiunge un piccolo sonatore di tamburello.

Bibl.: G. Finamore, Melodie popolari abruzzesi, in Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, Palermo 1894; G. Fara, L'anima musicale d'Italia, Roma 1921; E. Montanaro, Canti della terra d'Abruzzo, Milano s. a., importantissima raccolta di canti. Per gli strumenti; V. Ch. Mahillon, Catalogue descriptif et analytique du Musée Instr. de Bruxelles, Gand 1893 segg.

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