ABORTO

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1978)

ABORTO (I, p. 1 10; App. I, p. 3)

Franco Mencarelli

La nozione di a. rilevante agli effetti penali viene generalmente individuata nella "interruzione intenzionale del processo fisiologico della gravidanza con la conseguente morte del prodotto del concepimento" (F. Antolisei).

La nozione così tratteggiata si articola pertanto sui seguenti elementi: a) necessità che vi sia una gravidanza; b) il processo fisiologico della gravidanza dev'essere interrotto per opera dell'agente; c) l'interruzione della gravidanza deve avere come conseguenza la morte del prodotto del concepimento (se infatti il feto non muore, l'interruzione della gravidanza dà luogo al cosiddetto acceleramento del parto, che è una forma di a. tentato).

Il codice penale distingue tre specie di a.: l'a. di donna non consenziente (art. 545); l'a. di donna consenziente (art. 546); l'a. procuratosi dalla donna (art. 547). Vi sono poi altre due figure incriminatrici per così dire ausiliarie: l'istigazione all'a. (art. 548) e gli atti abortivi su donna ritenuta incinta (art. 549). Le figure criminose in questione trovano collocazione nel titolo X del libro II° del codice penale, che disciplina la materia dei delitti contro l'integrità e sanità della stirpe. Già questa collocazione - e l'elaborazione medesima di una categoria di delitti diretta a tutelare, secondo l'espressione usata nella Relazione al codice penale, prevalentemente l'interesse della nazione di assicurare l'integrità e continuità della stirpe - ha costituito motivo di forti critiche, rispecchiando essa non esigenze sistematiche, ma solo la necessità di conseguire obiettivi strettamente connessi all'ideologia del regime vigente all'epoca dell'emanazione del codice (1930). Nello stesso tempo si è andata accentuando la polemica sulla stessa punibilità dell'a., grazie anche al movimento riformatore che ha investito in materia la maggior parte delle legislazioni estere. Attualmente, infatti, molte di queste legislazioni non considerano più l'a. un fatto in via di principio delittuoso, e prevedono invece la possibilità che esso sia praticato in un più o meno ampio numero di casi.

In Italia il dibattito sulla questione della punibilità dell'a. è incentrato essenzialmente su tre posizioni. Una prima posizione è quella della Chiesa cattolica che ritiene gravemente illecito uccidere direttamente l'uovo o l'embrione o il feto nel seno materno, ovvero procurare l'a. diretto dell'embrione o del feto vivente (occorre avvertire che il diritto canonico configura come a. esclusivamente il parto prematuro dell'embrione o del feto viventi, ma non in grado di sopravvivere).

Tale illiceità permane anche se l'a. ha costituito il mezzo per salvare l'onore della giovane o per assicurare la salute della madre, ciò in forza della motivazione che il fine non giustifica il mezzo e non si deve fare il male per ricavarne un vero o presunto bene. Ne risulta condannato non solo l'a. criminale, ma ogni altra forma di a. diretto, anche a indicazione terapeutica, sociale o eugenica. È invece considerato lecito l'a. indiretto quando vi sia una causa grave. Al riguardo si richiama il principio della doppia causalità: è lecito porre un'azione buona o indifferente, dalla quale segua direttamente un doppio effetto, l'uno buono, al quale si mira; l'altro cattivo, che solo si tollera o si permette, quando però ci sia un motivo proporzionalmente grave. È quindi lecito somministrare alla madre gravemente inferma un rimedio, anche se pregiudizievole al feto, quando si verificano queste condizioni: la malattia della madre sia tanto più grave quanto maggiore è il pericolo dell'a.; manchino altri rimedi inoffensivi; il rimedio adoperato serva direttamente in beneficio della madre e quindi la morte del feto sia solo eventuale e la si eviti al possibile. Lu stesso principio è ritenuto applicabile per i casi di grave pericolo di morte per la madre, quando il pericolo non si può scongiurare altrimenti che con un intervento chirurgico.

A fronte di questa posizione v'è quella antitetica espressa sia dai vari movimenti femministi sia da alcuni partiti della sinistra. Essa si basa sul fatto che qualsiasi forma di legislazione sull'a., anche la più ampia, presuppone un controllo sulla donna, mentre è la donna l'unica in grado di decidere sulla opportunità o meno di portare a termine la gravidanza, poiché, si afferma: è lei che è soggetta a nove mesi di una particolare condizione fisica e mentale (resa diflicile soprattutto in una società che trasforma la maternità in un ruolo che la esclude da tutte le strutture sociali salvo quella della famiglia naturale); è lei che corre tutti i rischi del parto; è lei che è costretta ad assumere tutto il peso di anni di lavoro e di cura dei figli, in una società patriarcale-capitalista che privatizza il ruolo materno.

D'altra parte, quanti concordano sulla posizione in questione osservano ancora che il divieto dell'a. viene fatto scaturire dall'attribuzione all'embrione o al feto della personalità umana; ora - a loro parere - questa attribuzione non è giustificata se serve a mettere sullo stesso piano la vita di un essere umano avente una precisa identità e una vita sociale e affettiva con un organismo che la biologia più avanzata non sembrerebbe considerare persona umana.

La terza posizione è quella assunta da quanti ritengono ammissibile l'a. in certi casi e a certe condizioni, una volta constatato che in determinate circostanze esso può costituire il minore dei mali. Costoro tendono comunque in genere a precisare alcuni punti. In primo luogo, che la strada che l'umanità deve battere, impegnando nella ricerca il massimo possibile di risorse intellettuali e finanziarie, è la strada della prevenzione. In secondo luogo, che la liceità dell'a., pur legandosi alla problematica dell'autonomia e della libertà della donna, non può prescindere dalla fisionomia interpersonale del problema e dalla sua incidenza sulla comunità sociale. Particolare rilievo viene dato infine all'esigenza di chiarire le responsabilità che gravano sui modelli di organizzazione della società.

Prendendo le mosse proprio da questa terza posizione si può anzitutto osservare come nel dibattito sviluppatosi in Italia, al pari che negli altri paesi, in realtà ci sia un certo generale consenso sulla necessità di favorire come unica vera alternativa all'a. lo sviluppo dei metodi anticoncezionali.

Lo si può vedere nella legislazione della maggior parte dei paesi che consentono l'aborto. La stessa Chiesa cattolica, d'altronde, ha messo l'accento sulla questione della cosiddetta procreazione responsabile (Concilio vaticano II, costituzione Gaudium et spes), affermando che, pur restando "oggettivamente cattivo" il ricorso alla contraccezione, particolari circostanze - condizioni di vita della famiglia, problemi educativi, ecc. - "possono renderlo incolpevole o meno colpevole o soggettivamente difendibile" (così un documento del 1972 della Congregazione per il clero).

Per quanto attiene poi alla prospettiva in cui va inquadrato il problema della liceità dell'a. e ai connessi aspetti di natura umana e sociale, si può osservare che, in base a quanto si riscontra negli ordinamenti in cui l'a. è ammesso, le cause d'interruzione della gravidanza previste più frequentemente sono quelle di ordine medico, di ordine eugenico, di ordine sociale o medico-sociale e di ordine morale. Per le cause di ordine medico occorre distinguere tra le legislazioni che consentono l'a. solo in presenza di un grave pericolo di vita per la gestante (a. terapeutico in senso stretto) e quelle che lo ritengono praticabile anche nei casi di eventuali infermità di ordine fisico o psichico (in questo senso è la legislazione più recente di parecchi paesi come gli stati Uniti, che hanno ormai pressoché totalmente liberalizzato l'a., Francia, Rep. Fed. di Germania, Gran Bretagna, Svezia, Danimarca). La precisazione è importante giacché, dato il progresso della scienza medica, mentre i casi in cui l'a. terapeutico nel senso stretto si rende necessario sono estremamente ridotti, ben diversa è la situazione per quanto concerne la valutazione che, proprio in conseguenza di tali progressi, la scienza medica fa dei danni che possono derivare alla salute della donna dalla gravidanza. Così in molte legislazioni il danno alla salute fisica viene collegato all'impossibilità per la donna, in conseguenza del parto, di attendere alle necessità della famiglia (si veda per es. la legislazione giapponese). Appare dunque evidente come, sotto questo aspetto, nella valutazione dei danni che possono derivare per la salute della donna dal parto, entrino in giuoco anche elementi di natura psicologica e sociale. Di modo che risulta molto difficile distinguere tra i motivi di ordine strettamente medico e quelli di ordine sociale e medico-sociale che potrebbero eventualmente consigliare l'aborto.

Più pacifica in genere l'individuazione dei motivi di ordine morale in presenza dei quali consentire l'aborto. Mentre si esclude generalmente l'ammissibilità di motivazioni come quelle relative alla causa d'onore (che vengono al più, come nella legislazione italiana, considerate solo in funzione di attenuare la pena prevista per l'a.), v'è una certa concordanza per quel che riguarda l'ammissibilità dell'a. di donne che siano state oggetto di atti di violenza o che siano incapaci d'intendere e di volere.

Un motivo che ha assunto particolare importanza è poi quello in base al quale si prevede in molti ordinamenti l'a. cosiddetto eugenico. Le moderne tecniche diagnostiche praticabili ìn età prenatale permettono ormai d'individuare nei primissimi mesi di gravidanza le malattie fetali congenite malformative (sia ereditarie sia acquisite). Si è posto quindi il problema dell'intervento in questi casi in cui c'è una ragionevole previsione in ordine alla nascita d'individui minorati. Il che naturalmente ha aperto un grosso dibattito sugli aspetti morali di una simile soluzione.

Per quanto attiene l'individuazione dell'istanza cui spetta di decidere sull'ammissibilità o meno, ricorrendone i presupposti, dell'a., si può osservare come nella maggior parte delle legislazioni sia stato accolto il principio della necessità di un'autorizzazione da parte di almeno due medici.

L'intervento deve naturalmente essere eseguito da personale medico: è questo anzi uno degli obiettivi fondamentali con cui si giustifica il movimento per la legalizzazione dell'a., sostenendosi l'assoluta necessità di combattere il pericoloso fenomeno degli a. clandestini che, qualunque sia la sua effettiva consistenza (i dati esistenti in questo campo sono per naturali ragioni scarsamente attendibili), presenta a ogni modo gravissimi aspetti di ordine sociale, morale, economico e sanitario (si pensi ai primitivi metodi abortivi tanto spesso utilizzati e alle condizioni igieniche che li accompagnano).

Per quanto concerne inoltre l'individuazione del momento fino a cui si ammette l'interruzione della gravidanza, intuibili ragioni di ordine medico (la maggiore pericolosità dell'intervento col protrarsi della gestazione) e morale (momento di assunzione da parte del feto di un'autonoma capacità di sopravvivenza: momento collocato generalmente attorno al sesto mese), hanno indotto le legislazioni dei vari paesi a fissarlo - salvo casi di necessità - attorno al terzo mese.

Una svolta fondamentale nel dibattito sull'a. si è avuta in Italia con la sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 1975, con cui si è dichiarata l'illegittimità dell'art. 546 c. p. (a. procurato) nella parte in cui tale articolo, prevedendo la non punibilità dell'a. terapeutico solo per il caso di necessità (che riguarda esclusivamente un pericolo attuale di danno grave alla persona), non consentiva che la gravidanza potesse venir interrotta quando l'ulteriore gestazione implicasse danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile per la salute della madre.

Il ragionamento seguito al riguardo dalla Corte, la quale ha fatto richiamo agli artt. 31 e 32 Cost. (il primo dei quali prevede la tutela della maternità, dell'infanzia e della gioventù e il secondo la salute "come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività"), è stato il seguente: anzitutto essa ha espresso il convincimento che la tutela del concepito abbia senza dubbio fondamento costituzionale, giacché, fra i diritti inviolabili dell'uomo, "non può non collocarsi, sia pure con le caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito". Ciò non vuol dire - ha comunque precisato la Corte - che "l'interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito non possa venire in collisione con altri beni che godono, pur essi, di tutela costituzionale". E fra questi beni - secondo la Corte - vanno appunto considerati, con carattere di prevalenza, "il benessere fisico e l'equilibrio psichico della gestante", anche quando non ricorrono gli estremi dello stato di necessità (il pericolo immediato di un danno alla salute della madre). Tale prevalenza consiste nel fatto che non c'è "equivalenza fra il diritto non solo alla vita, ma anche alla salute proprio di chi è già persona come la madre, e la salvaguardia dell'embrione, che persona deve ancora diventare".

Nella sentenza si tiene comunque a precisare che "l'esenzione da ogni pena di chi, ricorrendo i predetti presupposti, abbia procurato l'aborto e della donna che vi abbia consentito non esclude affatto, già de iure condito, che l'intervento debba essere operato in modo che sia salvata, quando ciò sia possibile, la vita del feto. Ma ritiene anche la Corte che sia obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per impedire che l'aborto venga procurato senza serii accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire la gestazione: e perciò la liceità dell'aborto deve essere ancorata a una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla".

La sentenza ha costituito naturalmente un forte incentivo perché si avviasse un concreto discorso per la realizzazione di una nuova disciplina dell'a., tanto più che si era in presenza dell'indizione per il giugno 1976 di un referendum per l'abrogazione dell'intero titolo X del libro II del c. penale. La fine anticipata della VI legislatura, cui non sono stati estranei i contrasti - legati in vario modo alle posizioni esistenti in tale delicata materia a cui prima si è fatto cenno - tra i vari partiti ha importato la decadenza dei numerosi disegni di legge presentati al riguardo e ha quindi determinato il rinvio del referendum. Nel 1977 un disegno di legge che consentiva l'a. in determinate circostanze fu approvato dalla Camera dei deputati, ma respinto dal Senato. Peraltro, nel corso della VII legislatura il disegno di legge è stato ripresentato e la sua discussione è tuttora in corso.

Bibl.: Autori vari, Abortion in a changing world, New York 1970; Autori vari, Il problema dell'aborto, in Aggiornamenti sociali, suppl., dic. 1971; F. Introna, Aborto terapeutico ed aborto legalizzato: considerazioni medico-legali e medico-sociali, in Rivista penale, I, 1971; T. Carettoni, V. Gatto, L'aborto. Problemi e leggi, Palermo 1973; C. Moro, Una proposta sull'aborto, in Il Mulino, 1975.

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