MONTECASSINO, Abbazia di

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1997)

MONTECASSINO, Abbazia di

F. Aceto

Abbazia benedettina del Lazio meridionale (prov. Frosinone), ubicata sulla sommità dell'omonimo monte, sulle cui pendici in età romana sorgeva il municipium di Casinum, a ridosso della via consolare Casilina, che durante il Medioevo costituiva l'asse viario più importante lungo il versante tirrenico da Roma verso il Meridione.Secondo la tradizione, M. venne fondata intorno al 529 da s. Benedetto da Norcia all'interno di un recinto sacro dedicato ad Apollo (Gregorio Magno, Dialoghi, II, 7; Pantoni, 1940). Strutture di età romana, pertinenti forse al vetustissimum fanum ricordato da Gregorio Magno (ivi) nella vita di s. Benedetto, sono in effetti emerse a seguito degli scavi archeologici condotti nell'area degli edifici monastici dopo la seconda guerra mondiale (Pantoni, 1973), che provocò danni ingentissimi all'abbazia, peraltro già largamente rifatta in epoca barocca.

Alto Medioevo

La prima cellula di quella che assunse in seguito la fisionomia di una delle più spettacolari cittadelle monastiche del Medioevo era costituita da pochi ambienti per i monaci, raccolti attorno a due chiese dedicate a s. Giovanni Battista e a s. Martino. Della prima, destinata a essere più volte rinnovata nel corso dei secoli, è stato possibile accertare anche l'impianto primitivo; di modeste dimensioni, essa aveva la forma di un edificio monoabsidato, scandito lungo il muro d'invaso da lesene (Pantoni, 1973, p. 145).Il complesso monastico fu abbandonato verso la fine del sec. 6° per i gravi danni arrecati alle strutture da un'incursione dei Longobardi di Benevento guidati dal duca Zottone. I monaci trovarono riparo a Roma presso il complesso lateranense. Nel 717 o 718 il cenobio ritornò a nuova vita per opera dell'abate bresciano Petronace, che, su sollecitazione di s. Gregorio II papa (715-731), vi si ritirò con alcuni compagni, provvedendo al restauro delle fabbriche. Con la ricostruzione crebbe anche il prestigio dell'abbazia, destinataria di privilegi da parte di Gregorio III (731-741), confermati e ampliati nel secolo seguente da Giovanni VIII (872-882), ma anche di cospicue donazioni fondiarie, specie a opera di Gisulfo II, duca di Benevento (m. nel 751). Tali beni costituirono il primo nucleo di un vasto patrimonio sul quale l'abate esercitava ampi poteri giurisdizionali, la Terra Sancti Benedicti (Fabiani, 1968-1980; Bloch, 1986).Durante il sec. 8° M. divenne luogo d'incontro di personaggi di rilievo per livello intellettuale o per rango sociale (Falco, 1929; Pantoni, 1958). Nel 729 vi giunse l'anglosassone Villibaldo, che vi rimase fino al 739, allorché fu inviato in missione evangelizzatrice in Germania, quale compagno di s. Bonifacio. Qualche anno dopo vi soggiornarono s. Sturmio e s. Anselmo, rispettivamente fondatori di Fulda e di Nonantola, mentre vi trovò ospitalità, profugo da Corbie, Adalardo, zio di Carlo Magno. S. Ludgero, poi vescovo di Münster e apostolo della Vestfalia, vi si fermò per due anni. Tra le sue mura cercarono la pace dello spirito persino due sovrani, Carlomanno, figlio di Carlo Martello, e Ratchis, re dei Longobardi, mentre nel suo scriptorium ferveva un'intensa vita culturale, dedita soprattutto alla raccolta e alla trascrizione di testi sacri e classici (Bloch, 1972; Cavallo, 1975). Con certezza nel 781-782 vi diresse una celebre scuola Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, trasferitosi forse già dal 758 alla corte longobarda di Benevento - dove è comunque documentato dal 763 - al seguito del re Desiderio (756-774), sceso da Pavia per le nozze della figlia Adelperga con Arechi II (758-787), della quale Paolo Diacono divenne poi precettore.Al culmine della fase di rinascita l'abate Gisulfo (797-817) procedette, secondo il racconto di Leone Marsicano (m. nel 1115), a un radicale rinnovamento della chiesa che custodiva il corpo del fondatore, "quoniam parva erat", e "diversis illam ornamentis, tam aureis quam argenteis decoravit" (Chronica monasterii Casinensis, I, 18). L'intervento comportò la trasformazione dell'antico oratorio in un edificio a tre navate divise da colonne e terminanti con tre absidi, che si aprivano, a quanto pare, su un transetto continuo (Pantoni, 1973; Carbonara, 1979). La chiesa era larga sopra terra, al netto delle pareti, m 17 ca.; la sua lunghezza, oscillante tra m 28 e m 39, è rimasta indeterminata per l'impossibilità di effettuare sondaggi. Con piccoli scarti, le dimensioni e la forma corrispondevano a quelle della chiesa del Salvatore, fatta costruire dallo stesso Gisulfo ai piedi del monte, in località San Germano (od. Cassino), sotto la guida del preposito Carioaldo (Chronica monasterii Casinensis, I, 17), nota grazie a un disegno seicentesco dell'architetto Arcangelo Guglielmelli (Gattola, 1734). Le scelte architettoniche fatte proprie da Gisulfo, coincidenti con quelle di cui si era fatto promotore qualche decennio prima l'abate Giosuè a San Vincenzo al Volturno con la costruzione di una grandiosa basilica - il cui impianto vanno rivelando scavi non ancora completati -, appaiono in sintonia con le esperienze che proprio in quel torno di tempo avevano corso sia a Roma sia nell'Europa carolingia. Del recupero di tematiche antichizzanti, implicite in un tale programma, si colgono palesi e numerosi sintomi nella Longobardia Minore anche in altri settori di produzione artistica.Il 4 settembre 883 una nuova sciagura si abbatté sul cenobio nel pieno della sua crescita. Bande di saraceni misero a ferro e fuoco l'abbazia; un mese dopo trucidarono lo stesso abate Bertario (856-883) e i monaci che con lui si erano rifugiati nel cenobio del Salvatore. La comunità fu costretta a lasciare per la seconda volta la sua sede, trovando rifugio prima (883-915) in S. Benedetto a Teano (prov. Caserta) e poi a Capua, in una condizione, però, di progressiva soggezione al principe longobardo, il quale riuscì difatti a imporre come abate un suo parente, l'arcidiacono Giovanni. L'esilio forzato durò fino al 949-950, allorché l'abate Aligerno, discepolo di Oddone di Cluny, con l'aiuto del pontefice Agapito II (946-955) poté coronare finalmente il sogno di ritornare nella primitiva sede, dopo che si era provveduto a ripristinare almeno nell'essenziale le fabbriche monastiche e la chiesa, il cui altare era stato consacrato nel 931 dal vescovo di Parma, Sigefredo. Da questo momento in poi, nel clima di generale ripresa economica favorito dallo sviluppo delle attività artigianali e commerciali e dalla messa a coltura di estesi appezzamenti di terreno, l'abbazia di M., per merito anche dell'opera di riorganizzazione del suo patrimonio fondiario svolta da abati energici, recuperò via via prosperità, continuando a muoversi nell'orbita dei principi capuani, fautori da tempo di un indirizzo politico decisamente filobizantino, destinato a consolidarsi nei primi decenni del sec. 11° (Bloch, 1986; Falkenhausen, 1992), con conseguenze di non poco conto anche sugli orientamenti artistici.Le rinnovate disponibilità economiche sollecitarono interventi volti a conferire alle fabbriche un aspetto più sontuoso. L'abate Aligerno restaurò il soffitto della basilica, ne fece affrescare le pareti e rifare in marmi policromi una parte del pavimento; Giovanni III (997-1010) provvide a rinforzare il recinto delle mura a difesa dell'abbazia. Di particolare significato per il suo accento nordico fu l'intervento architettonico promosso dall'abate Atenolfo (1011-1022), il quale, oltre a rivestire di pitture l'abside maggiore, aggiunse alla basilica, dal lato occidentale, un campanile fiancheggiato da due oratori (Chronica monasterii Casinensis, II, 32): una soluzione, a quanto pare, ispirata al tema del massif occidental, così comune nell'architettura carolingia e ottoniana (Carbonara, 1979). Il successore Teobaldo (1022-1035) aggiunse alla fronte occidentale della basilica un atrio terminante con due torri, che l'abate Richerio (1038-1055) dotò di portici, facendo costruire "deambulatorios arcus cum columnellis lapideis" (Chronica monasterii Casinensis, II, 89), nel ricordo di modelli paleocristiani. Di lì a qualche anno, dopo la breve parentesi di Federico di Lorena, eletto nel 1057 al soglio pontificio con il nome di Stefano X (1057-1058), fu l'abate Desiderio (1058-1087), anch'egli poi papa con il nome di Vittore III, a promuovere per esigenze di apparato un radicale rinnovamento delle fabbriche abbaziali adeguato al ruolo politico di primo piano che l'abbazia, schierata con i papi della riforma, intendeva giocare nelle vicende politiche del Mezzogiorno, sfruttando abilmente l'alleanza con i Normanni (Bloch, 1986; Houben, 1992).La distruzione saracena e le trasformazioni del sec. 11° cancellarono ogni traccia degli interventi architettonici e decorativi condotti nei primi secoli di vita del cenobio, affidati ormai soltanto al ricordo delle fonti letterarie. Quanto del periodo altomedievale sopravvive in altri centri della Longobardia Minore, per la stretta omogeneità politico-culturale che contrassegna l'intero territorio del principato, autorizza a ritenere che il livello delle iniziative artistiche condotte a M. durante l'Alto Medioevo non fosse inferiore a quello attestato dalla chiesa di Santa Sofia a Benevento o dalla badia di San Vincenzo al Volturno. È plausibile ritenere che con gli straordinari affreschi documentati in queste due località presentassero convergenze le pitture insigni con le quali allo scorcio del sec. 8° gli abati Potone e Teodemaro decorarono le chiese di S. Michele Arcangelo e di S. Maria delle Cinque Torri ai piedi del sacro monte (Chronica monasterii Casinensis, I, 10-11).Un pallido ricordo del vivace clima intellettuale che animò l'abbazia (Lo Monaco, 1987), dove l'esistenza di una biblioteca è stata ipotizzata già nel terzo quarto del sec. 8° (Bloch, 1972), è fornito solo da pochi superstiti codici miniati datati allo scorcio del secolo (Orofino, 1994a). Tra questi, accanto a opere nelle quali l'illustrazione, limitata alle sole iniziali e ispirata a criteri di pura funzionalità, appare caratterizzata da una sostanziale continuità con la tradizione tardoantica, si segnalano per impegno stilistico un manoscritto contenente, con altri testi, una copia delle Institutiones di Cassiodoro (Bamberga, Staatsbibl., Patr. 61 HJ.IV.15), una miscellanea grammaticale (Parigi, BN, lat. 7530) e le Etymologiae di Isidoro di Siviglia (Cava de' Tirreni, Bibl. dell'abbazia, 2). Mentre il manoscritto con le Institutiones resta un episodio isolato nella sua ibrida miscelazione di apporti celtici e di componenti tardoantiche riproposte con originalità, ad avere seguito sono i modi degli altri due codici, soprattutto quello delle Etymologiae (Rotili, 1978), considerato il vero punto di partenza per la storia dell'iniziale nei due più importanti centri miniatori della Longobardia Minore, Benevento e M., tra le cui scuole è documentato lo scambio "di indirizzi didattici, di testi, di esperienze scrittorie" (Cavallo, 1975). Le iniziali, delineate a penna e ornate da intrecci e motivi geometrici, talvolta desinenti in protomi animali, acquistarono un nuovo risalto sulla pagina.Per il sec. 9°, i pochi codici superstiti annoverano, oltre a un modesto manoscritto di controversa datazione e collocazione (Montecassino, Bibl., 299; Adacher, 1983; Orofino, 1994a), due testimoni di spicco: un manoscritto miscellaneo, contente fra l'altro opere di Alcuino e dello pseudo-Beda (Montecassino, Bibl., 3), e una raccolta medica (Firenze, Laur., Plut. 73.41), collegabili all'abbaziato di Bertario (850-883), il quale ornò di oro e gemme un evangeliario e inoltre raccolse "aliquot etiam de arte grammatica libri, necnon et duo codices medicinales" (Chronica monasterii Casinensis, I, 33). Nel manoscritto miscellaneo, la cui attribuzione al cenobio benedettino, messa in discussione in tempi recenti, appare confermata da indizi di diversa natura (Pantoni, 1977; Orofino, 1987), fa per la prima volta la sua comparsa la raffigurazione del cane, destinata a divenire nei secoli, nelle combinazioni più varie, il marchio distintivo dello scriptorium di Montecassino. La parte più significativa del manoscritto è costituita però dai quaranta disegni di costellazioni illustranti il De signis coeli dello pseudo-Beda, echi protratti dei grandi cicli pittorici di Santa Sofia a Benevento e della badia di San Vincenzo al Volturno. Dello stesso livello qualitativo sono i disegni che corredano la raccolta medica, come i precedenti ideati con precise finalità tecnico-pratiche (Belting, 1968; Adacher, 1987). Gli uni e gli altri danno conto della vitalità della tradizione figurativa sbocciata tra sec. 8° e 9° nella Longobardia Minore, destinata a fruttificare ancora per buona parte del 10° secolo. Una tale continuità, di chiaro sapore conservatore, mentre sottolinea la specificità e la forza del movimento, che la maggioranza della critica ha convenuto di mandare sotto l'etichetta beneventano-cassinese con riferimento ai due centri propulsori (v. Beneventano-cassinese, Arte), non del tutto a torto è stata avvertita come il segnale di un progressivo restringimento degli orizzonti culturali del Mezzogiorno longobardo (Leonardi, 1987), nella fase iniziale del movimento capace invece di stabilire un fruttuoso dialogo con le cerchie carolinge (Bologna, 1962; 1992).La distruzione dell'abbazia nell'883 e l'esilio interruppero solo per breve tempo l'attività culturale dei monaci, anche in ragione del particolare valore che la regola riconosceva al lavoro intellettuale. L'opera di trascrizione e illustrazione dei codici riprese con nuovo slancio dopo il trasferimento dei monaci nella nuova casa di Capua (915), approntata dall'abate Giovanni I, il quale si preoccupò di dotare il nuovo cenobio del necessario apparato di libri per gli usi liturgici. A parte altri codici di vario contenuto, corredati di iniziali decorate riecheggianti esperienze del sec. 8° e di schematici disegni zoomorfi ispirati al formulario medio-orientale da tempo acclimatato in Campania, il risultato di maggiore livello delle iniziative di Giovanni è rappresentato dalle illustrazioni di un manoscritto miscellaneo (Montecassino, Bibl., 175; Orofino, 1994a), concepito in origine per contenere forse solo il Commentarius in Regulam sancti Benedicti attribuito a Paolo Diacono. Accanto a molte iniziali decorate, il codice è illustrato con una miniatura a piena pagina raffigurante la Dedica e con una lettera istoriata grande con l'incipit. Nel linguaggio dell'anonimo miniatore, sensibile allo stile della pittura monumentale, sono stati rilevati dalla critica lontani ascendenti carolingi, sia nella composizione sia nell'uso di una gamma cromatica accesa e disgregata, ma anche apporti bizantini, ritenuti un riflesso della missione diplomatica a Costantinopoli dell'abate Giovanni nella primavera del 915 per conto dei principi capuani (Bertelli, 1991).Lo schema iconografico del frontespizio e dell'incipit di quest'ultimo manoscritto miscellaneo ebbe vita nello scriptorium fino all'epoca desideriana, a conferma del prestigio del codice. Alla fondazione di una specifica tradizione figurativa cassinese nell'illustrazione libraria, un notevole contributo è dato da un codice miniato a Capua da Giaquinto (Montecassino, Bibl., 269) su incarico dell'abate Aligerno tra il 949 e il 951. L'aspetto di maggiore novità dell'opera di Giaquinto, destinato a riverberarsi a lungo a M. ma anche negli altri centri di produzione libraria del Mezzogiorno, è rappresentato dall'interpretazione in chiave dinamica dell'elemento zoomorfo, sotto la rinnovata suggestione di modelli insulari. Tra i continuatori più diretti del codice va segnalato un manoscritto (Montecassino, Bibl., 402), referente diretto della Initialornamentik barese. Ad apertura del nuovo secolo si colloca un arrivo esterno importante, l'evangeliario (Roma, BAV, Ottob. lat. 74) miniato a Ratisbona per l'imperatore Enrico II (1002-1024), che ne fece dono all'abbazia nel 1022. Malgrado il livello altissimo dell'opera, preannunziata nelle scelte stilistiche da un più modesto codice (Montecassino, Bibl., 82) - un inserto isolato collegato ad ambiente romano-laziale (Orofino, 1994b) -, la sua presenza nell'immediato non ebbe riflessi sullo svolgimento della miniatura cassinese. Ad avere seguito, con adattamenti vari, furono invece i modelli praticati da tempo nello scriptorium dell'abbazia, i quali negli anni dell'abate Teobaldo (1022-1035) subirono, al pari della scrittura, un processo di canonizzazione. Negli splendidi codici di apparato, legati al nome di Grimoaldo (Montecassino, Bibl., 104; 106; 109), lussuose iniziali dalla ricca tavolozza occupano ora l'intera altezza della pagina, tracciando il solco lungo il quale si mossero almeno due generazioni successive di miniatori. L'età teobaldiana rappresenta una fase cruciale anche per quel che concerne la nuova caratterizzazione dei cicli illustrativi. Il vecchio sistema di formule stilistiche legato alla tradizione 'beneventana', nel quale appare ancora invischiato un codice illustratissimo e per certi versi eccezionale come il De originibus rerum di Rabano Mauro (Montecassino, Bibl., 132; Reuter, 1984), lascia il posto ad apporti di chiara marca bizantina, particolarmente evidenti nelle due scene a piena pagina dei Moralia in Iob di Gregorio Magno (Montecassino, Bibl., 73; Belting, 1962).

Età normanna

Il lungo periodo di governo dell'abate Desiderio, nobile beneventano, rappresentò per M. la fase di massimo splendore delle arti, ma anche di più attiva e incidente presenza nelle vicende politico-religiose dell'Italia meridionale. Nella situazione di aspro conflitto prodotto dall'insediamento dei Normanni (Houben, 1992), egli si segnalò come uno dei più attivi fautori di un accordo, reciprocamente vantaggioso, tra il pontefice e i Normanni. A tale linea di condotta, ispirata a principi di saggio compromesso, Desiderio restò in seguito sempre fedele per profonda convinzione, oltre che per la contingente necessità di salvaguardare gli interessi dell'abbazia, mettendo a profitto la protezione e la generosità dei nuovi signori del Mezzogiorno.Subito dopo la sua nomina, Desiderio provvide per prima cosa a riorganizzare i possedimenti del cenobio, in modo da ricostituire una solida base economica. All'inizio il suo impegno edilizio si limitò a interventi funzionali di restauro e di completamento delle parti più malandate del complesso monastico, "angustas ambitu et forma deformes, et tum vetustate tum inertia ruinosas" (Chronica monasterii Casinensis, III, 10). Condusse a termine la residenza dell'abate, cominciata dall'abate Richerio, ricostruì in forme più ampie e più belle il dormitorio, la biblioteca e la sala del Capitolo, quest'ultima decorata con vetrate, cornici di stucco, dipinti e con un pavimento policromo; infine commissionò ad artefici costantinopolitani per l'ingresso della vecchia basilica gisulfiana due valve di bronzo, a imitazione di quelle che nel 1065 aveva ammirato nella cattedrale di Amalfi. Nel 1066 concepì il progetto di ricostruire dalle fondamenta "pulchrius et augustius" l'abbaziale, "tam parvitate quam deformitate [...] incongruam" (Chronica monasterii Casinensis, III, 26) rispetto al crescente prestigio morale e politico di Montecassino. Fece spianare la cima del monte per impiantarvi con maggiore regolarità la fabbrica e, dopo aver provveduto ad acquistare a Roma "columnas, bases ac lilia nec non et diversorum colorum marmora" (Chronica monasterii Casinensis, III, 26), diede inizio alla nuova fondazione, le cui fasi costruttive e aspetto finale sono noti grazie soprattutto al resoconto di Leone Marsicano, tanto dettagliato da aver consentito la restituzione grafica dell'edificio sia in pianta sia in alzato, con l'ausilio anche di alcuni rilievi planimetrici dell'intero complesso redatti nella prima metà del Cinquecento dai Sangallo (Giovannoni, 1929), l'uno e gli altri sostanzialmente confermati dai risultati degli scavi archeologici condotti negli anni 1947-1952 (Pantoni, 1973).La chiesa (internamente m 46,6219,09) era articolata in tre navate divise da due file di dieci colonne, con un transetto continuo contenuto nel perimetro esterno, sul quale si aprivano direttamente tre absidi. Al presbiterio si accedeva mediante otto scalini. L'intenzione di Desiderio di portarlo allo stesso livello delle navate abortì di fronte alla necessità di non manomettere l'area dove erano custodite le spoglie del santo fondatore. L'asse longitudinale, rettificato rispetto a quello della precedente basilica gisulfiana, era rivolto verso l'oriente primaverile, coincidente con il 21 aprile, festività di s. Benedetto, a conferma del progressivo imporsi del suo titolo su quello più antico di Giovanni Battista, al quale era comunque consacrato l'altare nell'abside maggiore. Lo slittamento d'intitolazione, dettato certamente anche da ragioni devozionali, nella circostanza era destinato a conferire maggiore autorevolezza al ruolo di vicario papale per la riforma dei monasteri dell'Italia meridionale, accordato a Desiderio dal pontefice Niccolò II (1058-1061), il quale aveva definito il cenobio cassinese "monasticae normae [...] principale gymnasium" (Chronica monasterii Casinensis, III, 12). La ritmata spazialità dell'interno era esaltata dall'omogenea distribuzione della luce, assicurata dalla presenza di finestre lungo l'intero perimetro della basilica (ventuno ne erano aperte nella navata principale, venti complessivamente nelle due navatelle, sei lunghe e quattro rotonde nel transetto, due nell'abside principale). La chiesa era preceduta da un quadriportico con quattro colonne sui lati brevi e otto su quelli lunghi. Sul lato sinistro del prospetto principale si elevava un campanile "de quadratis et maximis saxis" (Chronica monasterii Casinensis, III, 26). Una torre di analoga tessitura muraria e con quattro colonne angolari fu posta a guardia della porta d'ingresso alla cittadella monastica. Il nartece e l'ingresso dell'atrio, preceduto da una scalea di ventiquattro gradini, avevano ciascuno "quinque desuper fornices, quos vulgo spiculos dicimus" (Chronica monasterii Casinensis, III, 26), interpretati di solito come archi acuti, nel genere di quelli presenti nel nartece di Sant'Angelo in Formis (prov. Caserta), un'altra fondazione desideriana (Willard, 1971). Nelle torri che fiancheggiavano il vestibolo dell'atrio vennero ricavati due oratori, uno dedicato a s. Michele Arcangelo, l'altro a s. Pietro, mentre altre due chiesette monoabsidate trovarono posto all'esterno della navatella sinistra.L'esecuzione del piano architettonico descritto venne affidato da Desiderio a maestranze amalfitane e lombarde. Risultano tuttora indefinite, malgrado le ipotesi più o meno ingegnose formulate dalla critica, sia le ragioni di una tale scelta sia la specificità del loro contributo alla definizione formale di un edificio pensato, per ragioni politico-religiose, anche nella misurata e regolare distribuzione degli spazi di sapore 'antico', in continuità con le grandi basiliche romane, in particolare con quelle di S. Pietro in Vaticano e di S. Giovanni in Laterano (Kitzinger, 1972b), sui cui tituli erano esemplati quelli dettati dall'arcivescovo Alfano di Salerno (1058-1085; Acocella, 1966; Bloch, 1986). Per altro verso, nemmeno è facilmente quantificabile la parte giocata nel recupero di tematiche paleocristiane dalla basilica 'longobarda' di Gisulfo, depurata di tutte le aggiunzioni di matrice nordica risalenti al sec. 11° (Carbonara, 1979).L'aspetto di più forte spettacolarità della costruzione desideriana, destinato a esercitare viva impressione e spirito di emulazione nei contemporanei, dovette essere il sontuoso apparato decorativo: il rivestimento pittorico della basilica e del quadriportico condotto a mosaico e ad affresco; il pavimento a tessellato marmoreo; la quantità stupefacente di accessori e suppellettili per gli usi liturgici eseguiti nelle tecniche artigianali più fini e nei materiali più preziosi, in maggioranza acquistati a Costantinopoli o ricevuti in dono, in parte realizzati sul posto da monaci istruiti dai maestri bizantini. Per l'esecuzione del litostroto e dei mosaici furono arruolati artefici costantinopolitani e saraceni d'Alessandria, come testimonia Amato di M., i più addestrati del tempo in siffatto genere di opere. Dopo appena cinque anni di febbrili lavori, il 1° ottobre 1071 si procedette alla solenne consacrazione della basilica, alla presenza del pontefice Alessandro II (1061-1073) e con uno straordinario concorso di dignitari laici ed ecclesiastici, indicativo del significato politico che l'evento rivestì nelle intenzioni dei suoi promotori.Dopo la consacrazione Desiderio rivolse le sue cure agli altri ambienti dell'abbazia (dormitorio, refettorio, ospedale, capitolo, chiostro, palazzo abbaziale, xenodochium, con i loro annessi di servizio), provvedendo a ricostruirli in forma più ampia e più splendida. L'ultimo importante intervento edilizio fu la riedificazione dell'oratorio di S. Martino: un edificio a tre navate con una sola abside senza transetto, consacrato nel 1090 dall'abate Oderisio I (1087-1105). Alla pari della basilica maggiore, l'oratorio presentava mosaici nell'abside, un pavimento incrostato di marmi e valve di bronzo all'ingresso.Di tutto questo complesso di opere, che qualche studioso ritiene aver ispirato persino alcune scelte dell'abate Suger di Saint Denis (m. nel 1151; Brenk, 1987), quasi nulla è sopravvissuto: qualche brandello insignificante di pittura ad affresco e brani del pavimento musivo, amorevolmente recuperati tra le macerie (Pantoni, 1973); le ante di bronzo, pervenute nell'adattamento operato dall'abate Oderisio II tra il 1122 e il 1125 (Bloch, 1986); le frammentarie incorniciature dei portali della basilica, di chiara impronta antichizzante, il cui disegno architettonico conobbe nei decenni seguenti ripetute imitazioni specie nell'area campano-abruzzese (Pace, 1982; Glass, 1991); un discreto numero di capitelli e rilievi, nei quali sono state colte tematiche e tendenze formali legate alla presenza dei 'quadraturisti' costantinopolitani ingaggiati da Desiderio (Aceto, 1984); forse appena qualche pezzo di oreficeria dello straordinario tesoro accumulato nell'abbazia tra acquisti e donativi (Lipinsky, 1967; Galasso, 1969). La perdita più grave è stata senza dubbio quella della decorazione pittorica, per il livello delle maestranze coinvolte ma anche per la corretta valutazione delle sue risonanze, che è da credere dovettero essere particolarmente incisive - come del resto confermano le ripercussioni della pianta della basilica desideriana nell'architettura del Mezzogiorno tra sec. 11° e 12° (Alle sorgenti del romanico, 1975; Carbonara, 1979; D'Onofrio, Pace, 1981) - nelle regioni dove più forte era stata la penetrazione politica dell'abbazia per il tramite delle celle dipendenti. Tale perdita è solo in parte surrogata dalla serie di splendidi manoscritti illustrati del tempo di Desiderio (Orofino, 1989; 1994b; Adacher, 1989; Pace, 1989), il quale sin dal momento della sua elezione mostrò di tenere in particolare conto l'attività dello scriptorium e della biblioteca, di cui arricchì enormemente la consistenza (Newton, 1977). I codici di lusso dall'abate destinati al corredo liturgico della basilica, dal lezionario (Roma, BAV, Vat. lat. 1202; Brenk, 1989) agli omiliari (Montecassino, Bibl., 98; 99; Orofino, 1989; Adacher, 1989; Speciale, 1993), al foglio staccato del martirologio (Napoli, Bibl. Naz., VIII C. 4), al gruppo degli Exultet 'riformati' (Roma, BAV, Vat. lat. 3784; Londra, BL, Add. Ms 30337; Roma, BAV, Barb. lat. 592: Speciale, 1991; Zanardi, 1993), testimoniano la centralità delle esperienze pittoriche bizantine nel processo formativo delle maestranze cassinesi, esperienze attivamente operanti ancora al tempo dell'abate Oderisio, come conferma il breviario conservato a Parigi (Maz., 364; Toubert, 1971).Ricondotta finalmente alla sua giusta dimensione storica la tanto dibattuta 'questione benedettino-cassinese', precisati meglio i meriti di Desiderio quale promotore di cultura (Cavallo, 1989), sussistono invece tra gli studiosi contrapposte valutazioni al riguardo del debito contratto dai pittori campani, e del Mezzogiorno in genere, nei confronti delle testimonianze pittoriche bizantine trapiantate a M., a cominciare dal celebre ciclo di Sant'Angelo in Formis legato al patrocinio dello stesso Desiderio (Wettstein, 1960; Bologna, 1962; de' Maffei, 1977; Bertelli, 1983), così come è oggetto di difformi pareri l'incidenza che, nella condivisione di comuni finalità politico-ideologiche da parte dell'abbazia e della sede papale, i fatti d'arte promossi dalla stretta cerchia desideriana avrebbero avuto sulle vicende della pittura romana tra i secc. 11° e 12° (Bologna, 1962; Kitzinger, 1972a; Toubert, 1976; Bertelli, 1982; 1989; Brenk, 1985), tra l'altro assai più articolata al suo interno (Gandolfo, 1989). Il paradigma costantinopolitano rappresenta senza dubbio l'elemento catalizzatore, ma non esclusivo, delle esperienze artistiche desideriane; accanto a esso agirono componenti di altra matrice: in primo luogo quella ottoniana, rappresentata al più alto livello dall'evangeliario donato da Enrico II, fatto oggetto dai miniatori cassinesi di attento recupero formale, con risonanze ampie in tutti i più importanti centri scrittorî del Mezzogiorno; ma anche quella anglonormanna, le cui tracce sono state ravvisate in alcuni dei codici già ricordati (Orofino, 1989). A parte gli arrivi continui di monaci stranieri, portatori di tradizioni calligrafiche e artistiche diverse, occorre ricordare la presenza nell'abbazia di un orafo inglese (Chronica monasterii Casinensis, III, 20), mentre sarebbe di un certo interesse stabilire il momento dell'ingresso nell'abbazia di un evangeliario (Montecassino, Bibl., 437) eseguito in uno scriptorium inglese intorno alla metà del sec. 11° per la contessa Giuditta di Fiandra, dalla quale, si ipotizza, sarebbe stato donato alla nuora Matilde di Canossa in occasione delle nozze con il figlio Guelfo V di Baviera, celebrate nel 1089 (Toesca, 1927).La nascita del regno normanno, con il trasferimento del centro del potere a Palermo, segnò il lento declino politico dell'abbazia, costretta a destreggiarsi tra scismi, partiti contrapposti e lotte, che più di una volta si risolsero in spoliazioni dei suoi beni e del suo tesoro. Negli ultimi tempi del dominio svevo si arrivò addirittura all'espulsione di gran parte dei monaci dal sacro monte, mentre l'abate, privato della sua giurisdizione civile, risiedeva a San Germano. La mutata situazione ebbe riflessi negativi anche sull'attività artistica e culturale dell'abbazia, destinata a perdere in breve tempo il ruolo di centro propulsivo svolto nella prima età normanna. Agli ultimi bagliori legati alle iniziative di Oderisio I, che completò l'opera di ristrutturazione delle fabbriche monastiche avviata da Desiderio, fece seguito così per più di un secolo e mezzo una fase di stagnazione. Nello scriptorium i monaci continuarono l'opera di trascrizione e di decorazione dei codici, riproponendo però stancamente, in forme sempre meno sorvegliate, i modelli della Initialornamentik cassinese fissati tra i secc. 11° e 12° (Caravita, 1869-1870; Piscicelli Taeggi, 1887; Bertaux, 1903). Rari diventarono anche i codici con illustrazioni figurate. Il prodotto più impegnativo è il Registrum Sancti Angeli ad Formam (Il Regesto, 1925), decorato con miniature a piena pagina intrise di formule stilistiche bizantineggianti risolte con un secco grafismo.

Età angioina

La condizione di M. migliorò solo con la nomina ad abate del colto francese Bernardo Ayglerio (1263-1282), schierato con il partito angioino, che restaurò la vita monastica e ripristinò i diritti giurisdizionali dell'abbazia. La ripresa della vita culturale è testimoniata anche dalla documentata presenza alla corte angioina di Napoli di un miniatore cassinese, il monaco Giovanni, che nel 1281-1282 collaborò con Minardo teutonicus alla illustrazione di due esemplari della enciclopedia medica al-Ḥāwī (Roma, BAV, Vat. lat. 2398-2399; Parigi, BN, lat. 6912), un testo arabo che Carlo I d'Angiò (1263-1285) si procurò in copia dall'emiro di Tunisi, facendolo poi tradurre in latino (Bologna, 1969; 1992; Daneu Lattanzi, 1978). In ogni modo, dalla fine del sec. 13° penetrarono a M. i modelli gotici d'importazione francese (Montecassino, Bibl., 440; 246; 254) e con essi progressivamente venne accolta anche la scrittura gotica in sostituzione della lictera beneventana.La concessione all'abbazia della dignità vescovile nel 1322 da parte del pontefice Giovanni XXII (1316-1334) fu causa di nuovi problemi (i presuli, eletti spesso ad Avignone, restarono infatti del tutto indifferenti alle sorti dell'abbazia, che amministravano per mezzo di vicari), cui si aggiunse il 9 settembre 1349 la sciagura di un violento terremoto che danneggiò la basilica desideriana e le fabbriche monastiche. La ripresa, lenta all'inizio, prese slancio per l'intervento del pontefice Urbano V (1362-1370) - che abolì la sede vescovile assumendo in prima persona il controllo dell'abbazia -, e proseguì intensa con l'abate Pietro de Tartaris (1374-1395), con il quale per la seconda volta nella sua storia M. assunse la fisionomia di un cantiere internazionale. Maestri di Alatri e Priverno, affiancati da due maestri aretini, vennero incaricati di scolpire lapides et columpnas (Caravita, 1869-1870) per il chiostro, nelle quali sono forse da riconoscere i pochi resti conservati nel museo dell'abbazia. Giovanni Moregia da Milano, 'maestro principale', Giovanni da Reims, i fratelli 'fiamminghi' Ugolino e Giovanni, Giovanni de Comes, assistiti dal maestro Bartolomeo da Firenze con i suoi discepoli, furono invece ingaggiati per l'esecuzione del coro ligneo, a doppio ordine di stalli, per la sistemazione della copertura e per la decorazione pittorica del soffitto a carena della basilica desideriana, condotta secondo il modello della basilica lateranense (Caravita, 1869-1870). L'intervento pittorico si estese anche alla facciata della chiesa, come testimoniano alcuni frammenti e un disegno tardo-ottocentesco con motivi a finte architetture di gusto già gotico internazionale (Pantoni, 1942; 1973).Agli inizi del Quattrocento pertiene un notevole crocifisso dipinto sagomato con ai lati due tavole raffiguranti i ss. Pietro e Paolo, collegati con la cultura pittorica del Maestro di S. Ladislao operoso nella Napoli durazzesca (Bologna, 1969). All'autore del crocifisso è stato riferito di recente un breviario oggi a Oxford (Keble College Lib., 30), miniato a Napoli nel 1404 per l'abate di M., Enrico Tomacelli (1396-1413), che vi si fece raffigurare (c. 9r; Navarro, 1993).

Bibl.:

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