Le immagini di folle in giubilo provenienti da Philadelphia a scrutinio per l’assegnazione del – decisivo – pacchetto di grandi elettori appena concluso della Pennsylvania hanno suggerito a più di un commentatore che (almeno in parte) gli Stati Uniti si fossero svegliati da un brutto sogno e che si apprestassero, smaltiti i postumi del quadriennio nazionalpopulista, a tornare grandi (per restarci), sebbene in un senso, almeno in linea di principio, sostanzialmente diverso rispetto a quello inteso dall’inquilino uscente della Casa Bianca.

Una posizione di questo tipo, che tradisce soprattutto il disagio nei confronti di un fare politica che ha pochi (e poco lusinghieri) precedenti nella storia delle democrazie liberali occidentali, è tuttavia piuttosto miope, e ciò per diverse ragioni. Primo: ignora, o sottovaluta colpevolmente, il peso di quattro anni di opposizione senza quartiere da parte di un partito (quello repubblicano), che il quadriennio 2016-20 ha trasformato in maniera radicale, nonché lo stesso periodo di governo da parte di un altro partito (quello democratico), che l’ultima amministrazione ha cambiato in maniera non meno evidente (il primo confronto televisivo tra i due candidati parla da sé).

Secondo: come si può ambire a (ri)occupare una posizione egemonica sullo scacchiere mondiale quando in politica interna ci si confronta con una società spaccata – come minimo – in due e attraversata da dissidi che proprio le dinamiche regolatrici di quello scacchiere al cui controllo si ambisce non fanno che esacerbare?

Terzo: nell’era del piccolissimo cabotaggio di impronta personalistica, è ancora possibile per il massimo rappresentante di una superpotenza mondiale investire su progetti di lungo periodo, i cui risultati pagheranno (probabilmente), ma non adesso?

Quarto, e forse più importante: Right or wrong; my country. Al netto delle – rilevantissime – differenze, democratici e repubblicani sono sempre stati accomunati da un presupposto: il diritto acquisito dell’America al proprio posto nel mondo, no matter what (per il bene collettivo, s’intende). Se tuttavia questo presupposto non fosse più valido? Se il quadriennio trumpiano non rappresentasse che un’avvisaglia di questo smottamento? Ancora una volta, studiare la genesi degli imperi (i quali non sono mai, nonostante tutto, sine fine), solitamente aiuta – benché non di rado a cose fatte – a comprenderne il tramonto.

Un simile taglio archeologico – sensu Foucault – è alla base de L’impero irresistibile di Victoria de Grazia. Suddiviso in nove capitoli, ciascuno dedicato a una diversa tappa del lungo percorso (che l’autrice fa iniziare ufficialmente nel 1916, con l’appello rivolto dal presidente Wilson a una congrega di imprenditori a esportare nel mondo il modello di impresa americano, formula antesignana del più celebre «esportare la democrazia) di ascesa del «capitalismo populista» statunitense ‒ così chiamato perché, a differenza dell’omologo borghese europeo, esso poneva al centro del proprio discorso, se non dei propri effettivi interessi, i desideri e le ambizioni (di costruzione identitaria, di ascesa sociale, di puro e semplice svago) dell’individuo e non di un determinato gruppo sociale ‒, il saggio racconta in buona sostanza l’avventura, a tratti eroica, a tratti picaresca, di un incontro tra due mondi, quello della società americana in piena industrializzazione e quello dell’Europa fin de siècle, opulenta, decadente e attraversata da tensioni che, deflagrate nel 1914, ne avrebbero segnato il definitivo tramonto, spalancando i cancelli di una strada, che, a ben guardare, era già stata tracciata nei decenni precedenti, verso il denaro, i prodotti e l’immaginario americani. Due mondi i quali, pur provenendo da una medesima radice, all’alba di quello che con Michael Dietler (The archaeology of colonialism, 2010) potremmo definire l’incontro coloniale, apparivano distanti anni luce.

Dall’ideale di «uno standard di vita decoroso» (cap. 2) promosso – in maniera tutt’altro che disinteressata ‒ dal fordismo e contrastato, da prospettive diametralmente opposte ma accomunate, paradossalmente, dallo stesso retaggio ascetico di una lunga tradizione europea, tanto dal socialismo realizzato quanto dalla politica nazionalsocialista passando per le catene di negozi a prezzo fisso (cap. 3) fino al mondo dello star system (cap. 6), passando attraverso la costruzione ad arte del «cittadino consumatore» (cap. 7) e l’assalto alla casalinga («una signora consumatrice modello», cap. 9, considerata l’ultima roccaforte della morigerata, tradizionalista, e piuttosto retriva mentalità europea), Victoria de Grazia racconta con dovizia di particolari, solidità di documentazione e notevole brio,f come la campagna per l’apertura di nuovi mercati per i prodotti (e i capitali) statunitensi, prima di conquistare il mondo, abbia dovuto farsi strada sul campo di battaglia europeo, conquistando le città, le case, le abitudini e le mentalità di un continente che, da almeno un secolo e mezzo dominava di fatto (e si illudeva di farlo di diritto) i rapporti di forza del mondo intero.

Scritta 15 anni dopo la prima pubblicazione, una penetrante postfazione individua nel 2003, anno dell’invasione di Baghdad, la prima, all’epoca probabilmente invisibile persino ai diretti interessati, crepa nell’egemonia apparentemente incontrastata di una potenza che, per la prima volta dalla dissoluzione dello «spettro del comunismo», si vedeva costretta a intervenire con la forza al fine di mantenere in essere quegli squilibri economici vitali per la perpetuazione delle dinamiche alla base della supremazia dell’Impero del Mercato. Nel 1917, un intellettuale fino a quel momento pressoché sconosciuto (e ritenuto non di rado uno squinternato persino dai suoi) originario della provincia russa – era nato a Simbirsk, oggi Ul′janovsk ‒, aveva sostenuto che, terminate le zone d’ombra sulla mappa, divenuto il gioco a somma zero, i governi dei Paesi capitalisti sarebbero passati a sfruttare i propri cittadini come prima sfruttavano i popoli coloniali, e nel tentativo di placare l’inevitabile malcontento sociale dilagante sarebbero passati a farsi la guerra a vicenda, aprendo la strada alla rivoluzione comunista mondiale.

A distanza di un secolo, le sperequazioni sociali rampanti in tutto il mondo – un diretto prodotto del Capitalism. Alone studiato da Branko Milanovič (2019) – e in particolare negli Stati Uniti pongono la nuova classe dirigente americana di fronte a una sfida di portata tutt’altro che trascurabile. È ancora possibile per L’impero irresistibile «cambiare tutto perché nulla cambi» e riproporre sotto nuove forme il proprio predominio non solo geopolitico, ma anche culturale, in un mondo sul quale si allungano le ombre, da un lato, delle democrature di ogni genere e specie, dall’altro, del capitalismo di Stato cinese? C’è ancora spazio, invece, volendo evitare uno scenario à la russe, o peggio, dati gli strumenti di cui oggi si dispone, per cambiare davvero tutto e lanciarsi nell’esperimento, ad oggi veramente radicale, di una socialdemocrazia? Potrebbe essere questa la soluzione, veramente efficace, per make America great? A quanto pare abbiamo, almeno, quattro anni per scoprirlo.

Victoria de Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Torino, Einaudi, 20203, pp. 621

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