Istituzioni

Daniel Gros (1955) è un economista tedesco, attualmente Distinguished Fellow presso il Centre for European Policy Studies (CEPS). È entrato nel CEPS nel 1986 ed è stato direttore del CEPS dal 2000 al 2020. Prima di entrare al CEPS, Daniel ha lavorato al FMI e alla Commissione europea come consigliere economico del Comitato Delors che ha sviluppato i piani per l'euro. Negli ultimi decenni, è stato membro di organi consultivi di alto livello per i governi francese e belga e ha fornito consulenza a numerose banche centrali e governi, tra cui Grecia, Regno Unito e Stati Uniti, al più alto livello politico. Daniel si è laureato all’Università di Roma e ha conseguito il Ph.D. in Economia presso l'Università di Chicago nel 1984. Le sue ricerche si sono concentrate sull’economia internazionale, in particolare sulle questioni relative alla politica monetaria e fiscale, i tassi di cambio, le banche. È autore di diversi libri e redattore di Economie Internationale e International Finance. Ha insegnato in diverse importanti università europee e contribuisce con una rubrica su questioni economiche europee su Project Syndicate.

L'intervista è a cura di Lorenzo Mesini e della Sezione Istituzioni del Magazine Agenda.

L’euro ha compiuto ormai 20 anni. Lei in quanto membro della commissione Delors che preparò i piani per la moneta unica, come valuta retrospettivamente quel progetto e i presupposti dell’epoca? Oggi l’eurozona è più ampia, l’inflazione più contenuta rispetto agli anni precedenti l’introduzione dell’euro, e i mercati finanziari sono cambiati. Su quali elementi richiamerebbe l’attenzione ora per promuovere il ruolo internazionale dell’euro e rafforzare l’architettura istituzionale della moneta unica?

Il mondo è cambiato così tanto che non si può giudicare il successo dell’euro sulla base delle aspettative di allora. Il progetto della moneta unica è nato a partire dalla consapevolezza che l’inflazione alla lunga non paga e che occorre una banca centrale indipendente per raggiungere un basso tasso d’inflazione. Nel sistema precedente gli stati dell’Europa occidentale fissavano il proprio tasso di cambio rispetto al marco e la Bundesbank definiva la politica monetaria per tutta l’Europa. Questo era lo scenario generale, a cui si aggiungeva una progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale. Economisti come Tommaso Padoa Schioppa hanno segnalato in anticipo questa tendenza. Questa era sostanzialmente la base del piano Delors.

Quello precedente l’introduzione della moneta unica era un mondo in cui l’inflazione era alta o potenzialmente alta e molti paesi non disponevano della struttura politica e istituzionale per combatterla o tenerla bassa. A questo si aggiungevano problemi di bilancio pubblico che all’epoca non erano legati alla stabilità finanziaria in sé ma alla stabilità dei prezzi. Inflazione e instabilità coincidevano. Non c’era rischio di fallimenti bancari ma di un’inflazione elevata. Questo era il mondo fino ai primi anni ’90. Poi il mondo è cambiato: sono esplosi i movimenti di capitale internazionali (soprattutto all’interno della zona euro) ed è cresciuto lo stock del debito privato all’interno dei singoli stati. Il settore finanziario è cresciuto. È sorto un mondo completamente diverso caratterizzato da prezzi stabili e da un sistema finanziario gonfiato e molto fragile perché basato sul debito, con il rischio di fallimenti a catena in caso di impossibilità di onorare i debiti. Occorre specificare inoltre, che all’epoca del piano Delors il mondo era ancora diviso in due: da un lato la parte che non contava, incluse URSS e Cina, dall’altro il resto del mondo (i paesi OCSE) in cui vigeva una specie di duopolio globale USA e UE. All’epoca le aspettative sulla moneta unica erano maggiormente rivolte alla facilitazione del commercio internazionale che non alla promozione del settore finanziario.

I politici dichiarano sempre di voler rafforzare il ruolo internazionale dell’euro. Io invece sono stato sempre scettico. All’epoca anche la Bundesbank non guardava con favore a un maggiore ruolo internazionale del marco. Il ragionamento della Bundesbank era molto semplice: se la nostra moneta - il marco all’epoca e l’euro oggi - ha un ruolo internazionale forte, perdiamo il controllo sul tasso di cambio (la varianza sul tasso di cambio aumenta). Questo va bene per un’economia tendenzialmente chiusa come quella degli USA ma è molto più sconveniente per una economia più aperta come la Germania dell’epoca e come è l’eurozona oggi. Oggi la zona euro è un’anomalia tra le grandi potenze economiche: considerata la sua taglia è molto aperta, il rapporto esportazioni/PIL della zona euro oggi, pari al 26,8%, è comparabile a quello della Germania negli anni ‘80/’90, più del doppio degli USA (10,2%), più alto anche della Cina (18,4%). Direi che l’eurozona è quasi una piccola economia aperta. Per questo sono ancora scettico sul ruolo internazionale dell’euro.

Ultimamente la FED ha mostrato maggiore decisione nel contenere l’inflazione rispetto alla BCE. Quali sono secondo lei le differenze tra Europa e Stati Uniti? Fino a che punto la BCE potrà proseguire con l’attuale linea accomodante?

La mia impressione è che oggi l’inflazione è molto diversa tra Europa e Stati Uniti. Negli USA rappresenta un problema serio, per diverse ragioni. La più importante è che negli Stati Uniti il mercato del lavoro è più flessibile e più reattivo in termini di richieste di salari più alti quando cresce la domanda di lavoro, mentre in Europa i salari sono più vischiosi, mutano più lentamente rispetto alle condizioni del mercato del lavoro. Tutto questo unito allo stimolo fiscale straordinario messo in campo dagli Stati Uniti, ha provocato un surriscaldamento della domanda, con una caduta leggera dell’offerta di lavoro. Questo rappresenta un serio pericolo di inflazione. Non sono così convinto che si stia verificando lo stesso processo anche in Europa. Abbiamo avuto una fiammata dei prezzi energetici, ma i salari non stanno crescendo. Magari lo faranno, ma per il momento non vedo pericoli. Da qui a dire che attualmente la BCE si stia comportando bene è altra cosa: l’inflazione al momento non ci spaventa ma è sempre al limite superiore del nostro obiettivo. In questa situazione non si può continuare con le misure emergenziali rivolte a scongiurare un rischio di  deflazione che non c’è più. In Europa non c’è più bisogno di premere l’acceleratore come negli anni precedenti, anche se non è ancora giunto il momento di tirare il freno. A mio avviso la BCE sbaglia nell’uscire troppo lentamente dalle misure prese all’apice della recessione Covid.

L’attuale dibattito sull’inflazione incrocia la questione del prezzo delle materie prime e della politica energetica, tra Stati membri e Unione europea. Fino a che punto secondo lei l’attuale inflazione è dovuta all’incremento del prezzo dell’energia? Per tutelare in futuro la stabilità dei prezzi dell’eurozona da shock esogeni dovuti ai prezzi dell’energia, non sarebbe auspicabile una maggiore integrazione del mercato dell’energia e il trasferimento di maggiori competenze al livello sovranazionale?

I prezzi energetici hanno un impatto inevitabile sull’inflazione a breve termine. Tuttavia, a medio termine non dovrebbe esserci una relazione tra prezzi dell’energia e inflazione. È interessante notare che il dibattito sembra tornare all’esperienza da cui è nato l’euro, agli anni ’70. All’epoca Italia e Francia sostenevano che l’inflazione fosse esogena, dovuta all’aumento del prezzo dell’energia, mentre la Bundesbank era favorevole a una politica restrittiva per assicurare la stabilità complessiva del livello dei prezzi. Oggi la lezione della Bundesbank secondo me è ancora valida, non vale su un orizzonte limitato di qualche mese, ma su un orizzonte di medio termine.

I prezzi energetici sono determinati a livello mondiale. Avere o meno una politica energetica comune cambia poco, dato che siamo paesi importatori e dipendiamo dall’andamento del mercato mondiale. Contando che presentiamo una quota limitata di consumo rispetto resto del mondo e un ammontare costante, rispetto ad altri paesi con una quota maggiore o in crescita, come l’India. Il problema è che con i prezzi bassi degli ultimi anni non ci sono stati adeguati investimenti per incrementare la produzione.

Il dibattito sulla riforma del patto di stabilità è in corso. Le proposte in gioco sono tante. Lei crede che sarà possibile realizzare una capacità di bilancio comune? A quali condizioni? Sulla base di quali modelli?

Il bilancio comune è una vecchia storia. Se pensato per perseguire obiettivi macroeconomici l’entità del bilancio comune dovrebbe per forza essere sufficientemente importante - qualche punto percentuale del PIL europeo, diverse centinaia di miliardi, magari mille miliardi di euro.

Io non vedo i promotori politici di questa idea accettarne la conseguenza logica “Diamo il 5% del nostro PIL a Bruxelles”. Io non sono contrario, ma non vedo nessun esponente politico disponibile a rinunciare a una quota significativa delle proprie entrate nazionali per rendere possibile una politica macroeconomica a livello europeo – che spesso non sarebbe ideale per il suo paese.

L’agenzia del debito è una proposta interessante, ma sconta una debolezza, perché se in alcuni paesi, tra cui l’Italia, è aumentato il livello del debito di una ventina di punti percentuali del PIL (partendo da uno stock già molto alto), in altri, come la Danimarca, i livelli sono molto più bassi e il debito negli ultimi mesi è addirittura calato. Perché si dovrebbero mettere insieme i debiti accumulati durante la pandemia, soprattutto alla luce del fatto che un aumento inferiore del debito potrebbe significare che lo stato in questione ha gestito meglio l’emergenza sanitaria? C’è quindi un problema di fattibilità, perché se alcuni stati vogliono mettere insieme il debito non ho niente in contrario, però non vedo la giustificazione né l’utilità di voler condividere il debito tra due stati di cui uno con un rapporto debito/PIL al 155,3% e l’altro al 39,5%.

L'Italia è in fase di attuazione del PNRR. È preoccupato da come sta andando? A livello internazionale c'è la percezione che il Paese ce la possa fare? Cosa pensa della proposta di rendere il NGEU permanente?

La domanda se rendere strutturale il NGEU o meno è importante ma si dovrà porre tra tre anni. Non ha politicamente senso chiederselo prima di avere maturato un’esperienza completa su quanto avvenuto. Le responsabilità dell’Italia sono enormi. Il punto centrale - nonostante la classe politica non se lo voglia sentire dire e stia parlando quasi solo di PNRR e non di politiche di bilancio nazionali in generale - è che il denaro è fungibile. A mio giudizio le domande importanti che dobbiamo porci sono queste: come ha usato l’Italia i fondi pubblici parallelamente a quelli del PNRR? È migliorata la qualità della spesa pubblica? Si vedrà l’impatto delle riforme strutturali che sono state promesse e un miglioramento della qualità della spesa? A quanto ammonterà la crescita del PIL e della produttività? Purtroppo, al momento non vedo né una spending review né un’attenzione a porre limiti alla spesa corrente strutturale.

Alla luce dell'esperienza maturata nell'ultimo decennio quali restano a suo avviso i principali ostacoli al completamento dell’unione bancaria? A suo avviso continua a rappresentare un obiettivo prioritario per l'UE e l'eurozona?

Secondo me questa battaglia appartiene al passato. Se mai l’Italia dovesse avere problemi con il bilancio pubblico troverà le proprie banche in difficoltà. Che ci piaccia o no i singoli sistemi bancari in Europa rimangono ancora nazionali, i governi pongono veti incrociati e le classi politiche nazionali si oppongono a creare un unico sistema europeo, salvaguardando i rispettivi sistemi nazionali. La questione va anche oltre quella del debito pubblico: l’economia entra in recessione se lo stato è in difficoltà. Le difficoltà saranno minori se le banche detengono una quota non troppo elevata del debito pubblico nazionale. Questo non farà tuttavia svanire le difficoltà. Sicuramente sarebbe meglio avere una assicurazione comune sui depositi. Ma il problema di fondo resta il medesimo: gli stati vogliono mantenere la propria sovranità bancaria, come moltissimi casi, anche recenti, testimoniano.

Immagine: Daniel Gros, summit on the global agenda 2011, Crediti: Norbert Schiller - WEF (commons.wikimedia.org) CC-BY-SA.

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