TRIGONA DI CANICARAO, Emanuele

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 96 (2019)

TRIGONA DI CANICARAO, Emanuele

Michele Lungonelli

– Nacque a Firenze il 16 luglio 1878 da Giuseppe e da Carolina de Grasset.

Apparteneva a una famiglia di antica nobiltà siciliana, quella dei marchesi di Canicarao e Dainammare, originaria di Piazza Armerina, ma stabilitasi a Noto verso la fine del XVIII secolo. L’ascesa e la riconoscibilità sociale della famiglia nel nuovo insediamento si identificarono fin dall’inizio con il palazzo adiacente alla cattedrale, sull’attuale corso Vittorio Emanuele, che mantiene ancora oggi il suo fascino di dimora signorile. Per antica consuetudine il titolo di marchese di Dainammare fu a lungo assegnato al figlio primogenito, in questo caso il fratello Vincenzo (1877-1937), che sarebbe divenuto marchese di Canicarao alla morte del padre, assumendo anche l’investitura completa dei titoli nobiliari spettanti alla famiglia. Sia il figlio cadetto Emanuele sia il fratello primogenito Vincenzo nacquero a Firenze a seguito del trasferimento nel capoluogo toscano del nonno Vincenzo (1829-1912), negli anni nei quali la città divenne capitale del Regno. Quest’ultimo fu infatti eletto più volte deputato dell’isola negli anni della Destra storica.

Emanuele si laureò in ingegneria industriale al Politecnico di Torino. Tra i suoi compagni di corso vi fu Arturo Bocciardo, destinato a divenire un esponente di punta dell’industria siderurgica italiana negli anni tra le due guerre mondiali, con il quale strinse una solida e duratura amicizia sfociata più tardi in diversi rapporti di collaborazione imprenditoriale.

La sua prima esperienza di lavoro fu a San Giovanni Valdarno, nello stabilimento delle Ferriere Italiane, che tuttavia lasciò nel giugno del 1907 per assumere la direzione amministrativa de La Magona d’Italia, impresa alla quale rimase legato, con crescenti responsabilità, per tutto il corso della sua vita lavorativa.

L’azienda era sorta quindici anni prima a Piombino, mantenendo però la direzione a Firenze, per iniziativa di un gruppo di anglo-fiorentini (Robert William Spranger, John Hamilton Ramsay, Edward Strachnaf Morgan), affiancati da alcuni aristocratici trapiantati nel capoluogo toscano, come il ravennate Giuseppe Rasponi dalle Teste e i marchigiani Giovanni e Mario Gigliucci. L’attività ebbe inizio con la sola produzione di banda stagnata, meglio nota come latta, destinata prevalentemente all’industria conserviera, utilizzando impianti e know-how provenienti dalla Gran Bretagna. Nel 1896, grazie al favore incontrato da un prodotto sino a quel momento pressoché totalmente importato, l’azienda si emancipò dall’approvvigionamento esterno di barre d’acciaio tramite la costruzione di un impianto destinato allo scopo, dotato di due forni Martin-Siemens e di un treno laminatoio. Nei primi anni del Novecento l’impresa crebbe rapidamente grazie agli elevati utili assicurati dalla protezione doganale, stabilita dalla tariffa del 1887, e da una posizione quasi monopolistica sul mercato nazionale. Alla produzione di latta si affiancarono quelle di laminati zincati e piombati e quella di lamierino magnetico (Lungonelli, 1991, pp. 37-68).

Dall’iniziale posizione di direttore amministrativo, nel 1909 Trigona venne cooptato nel consiglio di amministrazione. Nel settembre del 1917 partecipò con altre figure di primo piano dell’imprenditoria regionale (Brunetto Calamai, Piero Ginori Conti, Luigi Orlando) al Comitato toscano di mobilitazione industriale. Nel 1918 Spranger lo designò come suo successore nella carica di amministratore delegato. In questa veste si trovò ad affrontare il travagliato dopoguerra italiano, in particolare la non facile convivenza nell’area piombinese con la neonata Ilva altiforni e acciaierie d’Italia (luglio del 1918), guidata da Max Bondi con il suo sfrenato attivismo tanto negli ambienti economici quanto nella sfera politica. Trigona si adoperò per contenerne le iniziative e, in sede locale, attraverso il direttore dello stabilimento Magona Arturo Piccioli, favorì la nascita del movimento fascista (Nello, 1989, p. 419).

Una volta superata la crisi del primo dopoguerra, il suo ruolo si rafforzò ulteriormente combinandosi con importanti responsabilità politiche. Nel maggio del 1924 venne eletto deputato in una lista nazionale bis per la Toscana, il cui ispiratore e stratega fu il leader della Montecatini Guido Donegani (Snowden, 1989, pp. 125 s.). Il suo mandato politico non si esaurì comunque con la XXVII legislatura: fu infatti confermato nei due plebisciti indetti dal regime fascista nel 1929 e nel 1934, mentre nel 1939 venne nominato senatore del Regno. Ai mandati parlamentari aggiunse l’esperienza di governo nella veste di sottosegretario al ministero delle Corporazioni negli anni nei quali il dicastero fu retto da Giuseppe Bottai (1929-32).

La sua ascesa politica procedette di pari passo con l’assunzione di altre responsabilità in campo economico e industriale. Nel 1927 entrò nel consiglio di amministrazione di Fondiaria vita, in un contesto fortemente segnato dalle ambizioni fasciste tese a piegare il settore assicurativo al progetto dell’ordinamento economico corporativo (Baglioni, 1997, pp. 461 s.). L’anno dopo ne divenne presidente, ricoprendo la carica fino al 1935 e poi di nuovo dal 1939 al 1944. Nel decennio 1934-44 fu anche presidente di Fondiaria incendi.

La prima edizione della Biografia finanziaria italiana (Roma 1929) lo ricorda come componente dei consigli di amministrazione delle società elettriche Maremmana e Alta Merse, della Terni Società per l’industria e l’elettricità, della Esercizio miniere del Valdarno e dello Stabilimento industriale toscano per la lavorazione della carta. Se a questo si aggiungono le cariche ricoperte negli organismi associativi imprenditoriali regionali e nazionali – presidente dell’Unione industriale fascista della provincia di Firenze e del Consiglio superiore delle miniere, membro del direttivo della Confederazione fascista degli industriali meccanici e metallurgici, nonché esponente della Corporazione metallurgica e meccanica – non si fa fatica a comprendere come un attento conoscitore della struttura socioeconomica del capoluogo toscano in quegli anni lo abbia ricordato come «personaggio influentissimo del mondo industriale fiorentino» (Palla, 1978, p. 81). Alla fine del 1933 anche il neonato Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) trovò il modo di utilizzarne esperienza e competenze affidandogli la presidenza dell’Alfa Romeo, un’azienda di grande prestigio, ma in preoccupante declino industriale. In questo caso assunse la veste del garante per l’opera di risanamento e di rilancio avviata, nella seconda metà degli anni Trenta, dal nuovo direttore generale Ugo Gobbato, un ruolo che l’IRI non mancò di apprezzare visto che fu uno dei due presentatori (l’altro fu il prefetto di Firenze Ruggiero Palmeri di Villalba) della sua candidatura alla nomina a senatore.

Nonostante i numerosi incarichi assolti in ambiti diversi, la siderurgia rimase il settore al quale si sentì più legato e La Magona d’Italia l’impresa nella quale profuse le sue migliori energie. Di quest’ultima divenne vicepresidente nel 1926 e presidente nel 1937, mantenendo in entrambi i casi la carica di amministratore delegato.

Fu quella una stagione nella quale la siderurgia italiana visse un momento di profonda modificazione del mercato interno, in un contesto internazionale caratterizzato da un eccesso di capacità produttiva e da una forte instabilità dei prezzi. Si ridusse sensibilmente in quegli anni la domanda delle amministrazioni statali (in particolare quella delle ferrovie) e dei cantieri navali, mentre aumentò la richiesta di profilati per l’edilizia, di laminati di largo uso commerciale, di acciai di qualità e speciali, nonché di getti per la meccanica leggera e per la produzione di beni strumentali. Era un tipo di domanda che un’impresa come l’Ilva, dotata di grandi impianti a ciclo integrale, o comunque basati sulla produzione di ghisa d’altoforno (Piombino, Bagnoli, Portoferraio) come materia prima per la realizzazione dell’acciaio, fronteggiò con crescente difficoltà, mentre da una situazione del genere trassero vantaggio sia una serie di acciaierie dell’area padana (prima fra tutte la Falck), basate sui rottami di ferro come materia prima, sia grandi aziende meccaniche come FIAT e Breda, divenute autoproduttrici di acciaio. All’origine del loro successo, in aggiunta a una più stretta aderenza alle nuove caratteristiche del mercato, vi fu la larga disponibilità di rottami determinata dalla doppia congiuntura bellica e della riconversione, con la conseguente forte caduta del prezzo di questa materia prima che per tutto il periodo tra le due guerre si mantenne sensibilmente inferiore a quello della ghisa. Per fronteggiare questa situazione all’Ilva non rimase che la strada incentrata sulla stipula di patti consortili per la spartizione delle quote di mercato, un percorso fortemente incoraggiato dal regime fascista, lasciato in un primo momento alla contrattazione tra le imprese interessate, ma destinato a divenire obbligatorio nel corso degli anni Trenta (Carparelli, 1982, pp. 42-68).

L’ingresso della Magona nella politica consortile fu preceduto da un’intesa con la Terni per la vendita in comune delle lamiere sottili, accordo che non ebbe carattere episodico, ma, al contrario, segnò l’avvio di una politica solidaristica tra le due aziende, favorita dalla presenza di Trigona e di Bocciardo in entrambi i consigli di amministrazione. Alla nascita di un vero e proprio consorzio tra i produttori di banda stagnata si arrivò nel marzo del 1928. La Magona trovò modo comunque di compensare le ristrettezze della politica consortile con l’avvio dell’esportazione sia in Europa (Austria, Spagna e Portogallo) sia verso i mercati del Medio e dell’Estremo Oriente e dell’America Latina (Argentina).

La combinazione di più fattori (economici, politici e giuridici) nella gestione dell’impresa si tradusse in ottimi risultati economici che consentirono alla Magona di ampliare nella realtà piombinese quegli interventi di natura sociale e assistenziale (abitazioni per i dipendenti, salari mediamente più elevati, tutela antinfortunistica prima ancora che la legge lo prevedesse) che l’avevano caratterizzata praticamente fin dalla fase di avvio. Nel 1933, per ricordare Spranger, il suo fondatore appena scomparso, l’azienda decise la costruzione di un asilo destinato ai figli del proprio personale, ma fu soprattutto con il pieno coinvolgimento dell’impresa nel progetto dell’Opera nazionale dopolavoro che la politica sociale si ampliò ulteriormente. Nel 1937, momento culminante di un complesso di iniziative incentrate soprattutto in ambito sportivo e ricreativo, l’azienda decise di contribuire al rilancio del calcio cittadino mediante la costruzione di uno stadio.

In una città-fabbrica come Piombino, peraltro non isolata nel contesto toscano dove altre imprese ebbero comportamenti analoghi – Solvay a Rosignano, Monte Amiata ad Abbadia San Salvatore, Società metallurgica italiana a Campo Tizzoro (Lungonelli, 2002, pp. 189 ss.) – queste provvidenze, come è stato opportunamente ricordato, sopperirono alla mancanza di politiche pubbliche in materia di welfare, sostenendo «un settore bisognoso della popolazione [contribuendo a] redistribuire verso il basso i vantaggi di una società consumistica di massa» (De Grazia, 1981, p. X).

Numerose furono le onorificenze e i riconoscimenti che Trigona ricevette nel corso della sua vita: cavaliere (1919), grande ufficiale (1922) e commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia (1932); il 19 aprile 1934 fu nominato cavaliere del lavoro.

Alla fine della guerra lasciò tutti gli incarichi nelle imprese che, a vario titolo, lo avevano visto presente nei loro consigli di amministrazione. Nel luglio del 1948 una sentenza della Corte di cassazione confermò la sua decadenza dalla carica di senatore.

Morì a Firenze il 1° gennaio 1953 senza lasciare eredi diretti.

Fonti e Bibl.: Notizie sulla sua attività sono rintracciabili presso: Roma, Archivio centrale dello Stato, Divisione di Polizia politica. Fascicoli personali, 1934, f. 1418 e Presidenza del Consiglio dei ministri, 1937-1939, f. 1, 5, b. 2223, sottofascicolo 614; Archivio storico della federazione dei cavalieri del lavoro, anno 1934, brevetto 972. Per l’attività parlamentare e di governo si vedano, rispettivamente, i portali storici della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica e il lavoro di M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia, Roma 1989, p. 474.

Per l’ambito economico: La Fondiaria nei suoi cento anni 1879-1979, Firenze 1979, pp. 214, 227; V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del Dopolavoro, Roma-Bari 1981, passim; A. Carparelli, I perché di una ‘mezza siderurgia’. La società Ilva, l’industria della ghisa e il ciclo integrale negli anni Venti, in Acciaio per l’industrializzazione. Contributi allo studio del problema siderurgico italiano, a cura di F. Bonelli, Roma 1982, pp. 5-158; M. Lungonelli, La Magona d’Italia. Impresa, lavoro e tecnologie in un secolo di siderurgia toscana (1865-1975), Bologna 1991, pp. 65, 68, 74 s., 78, 81-93, 105; R. Baglioni, L’affermazione delle società assicurative nel capitalismo italiano (1919-1940), in Studi storici, XXXVIII (1997), 2, pp. 431-468; M. Lungonelli, Piombino: una città fabbrica nella prima metà del Novecento, in Annali di storia dell’impresa, 2002, vol. 13, pp. 189-205. Sull’attivo protagonismo negli anni del fascismo si rinvia a M. Palla, Firenze nel regime fascista (1929-1934), Firenze 1978, pp. 76 s., 274; P. Nello, La vocazione totalitaria del fascismo e l’equivoco del filofascismo liberale e democratico. Il caso di Pisa 1919-1925, in Storia contemporanea, XX (1989), 3, pp. 393-446 e 4, pp. 601-664; F.M. Snowden, The fascist revolution in Tuscany 1919-1922, Cambridge 1989, pp. 121-156.

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