Titoli di credito

Diritto on line (2016)

Nicola de Luca

Abstract

Viene esaminata la fattispecie e la disciplina dei titoli di credito in generale, quali documenti rappresentativi di un diritto, non aventi solo funzione di legittimare al suo esercizio, né di farlo circolare con gli effetti della cessione ordinaria, ma idonei ad attrarre la disciplina della circolazione dei beni mobili e il peculiare regime delle eccezioni opponibili al possessore legittimato.

Alla ricerca di una fattispecie generale. Premessa

Il codice civile italiano detta, agli artt. 1992-2002, la disciplina dei titoli di credito in generale, in ciò connotandosi nel panorama comparatistico, ove viceversa sono di norma disciplinati solo i singoli titoli di credito (la cambiale, l’assegno, la polizza di carico, e così via). I tre seguenti Capi dettano la disciplina dei titoli al portatore (artt. 2003-2007 c.c.), dei titoli all’ordine (artt. 2008-2020 c.c.) e dei titoli nominativi (artt. 2021-2027 c.c.): questi ultimi pure costituiscono peculiarità dell’ordinamento italiano nel panorama comparatistico. La disciplina dei titoli di credito in generale, notoriamente, manca dell’enunciazione della fattispecie.

Sebbene alla ricognizione della fattispecie del titolo di credito in generale siano stati dedicati molti importanti studi, la materia risulta ancora fortemente controversa. È fondamentalmente incerto se la fattispecie del titolo di credito appartenga alla fenomenologia della realtà, che la legge si propone di disciplinare, ovvero se appartenga al mondo del diritto e se, dunque, la fattispecie cartolare sia da individuare anzitutto in base alla disciplina: si parla nel primo caso di approccio tipologico, nel secondo di approccio normativo (è nota al riguardo la disputa metodologica tra Ascarelli e Ferri, poi coltivata anche da Libertini, Chiomenti, Spada, Stagno d’Alcontres). È altresì discusso se la fattispecie cartolare sia unitaria o pluralista (nelle due varianti, dualista e antiunitaria), e perciò se a tutti i titoli di credito sia applicabile la stessa disciplina generale (e v., in senso contrapposto, da una parte, Pavone La Rosa, d’Alessandro, Spada, Campobasso, Lener; dall’altra, Pellizzi, Libertini, Chiomenti, Martorano, Stagno d’Alcontres, de Luca); se sia ammissibile distinguere tra titoli astratti e causali, in senso forte o debole, o tra titoli costitutivi e non costitutivi (e v. in particolare Ascarelli, Ferri, Pavone La Rosa, d’Alessandro, Libertini, Chiomenti, Martorano, Spada, Stagno d’Alcontres, Campobasso, de Luca); in che limiti e in che misura possa esprimersi la libertà di emissione di nuovi titoli di credito, soprattutto se di massa (e v. Libertini, Pavone La Rosa, Libonati, Martorano, Oppo, Stagno d’Alcontres, Spada), e così via.

La complessità delle argomentazioni e la sottigliezza delle distinzioni riguardo alle accennate questioni non solo non consente di coltivare l’ambizione della completezza, ma neppure il più modesto proposito di una adeguata sintesi critica. La brevità imposta dal genere letterario della voce enciclopedica impone perciò di limitarsi alla presentazione della tesi reputata preferibile, la quale peraltro, essendo la più recente in ordine di tempo, si confronta analiticamente con le altre nella sede in cui è stata formulata e alla quale si rinvia (de Luca). La tesi che si presenterà adotta un approccio normativo e marcatamente unitario, rifiutando la distinzione tra titoli di credito astratti e causali in senso forte o non-costitutivi.

L’‘antifattispecie’ cartolare. a) I documenti di sola legittimazione

Per individuare la fattispecie normativa del titolo di credito, in difetto di una sua enunciazione espressa, occorre muovere da ciò che, con certezza, titolo di credito non è. Per l’art. 2002 c.c., con il quale la disciplina generale dei titoli di credito si conclude, «le norme di questo titolo non si applicano ai documenti che servono solo a identificare l’avente diritto alla prestazione, o a consentire il trasferimento del diritto senza l’osservanza delle forme proprie della cessione». Si parla nel primo caso di documenti di sola legittimazione, nel secondo di titoli impropri.

Se la disciplina dei titoli di credito non è applicabile a tali documenti, evidentemente questi non sono titoli di credito in punto di fattispecie. Infatti, si può fondatamente presumere che, per poter ricevere disciplina diversa, i titoli di credito abbiano caratteristiche diverse o, quanto meno, ulteriori rispetto ai documenti di sola legittimazione e ai titoli impropri. Sicché l’individuazione della fattispecie dei documenti di sola legittimazione e dei titoli impropri dovrebbe essere idonea, quanto meno, ad escludere che un determinato documento, astrattamente suscettibile di essere sussunto nella fattispecie dei titoli di credito, sia tale.

Si vedrà poi se tutti i documenti rappresentativi di un diritto di credito insuscettibili di qualificarsi documenti di sola legittimazione o titoli impropri debbano automaticamente reputarsi titoli di credito. Al riguardo, si anticipa che l’alternativa è tra titoli di credito e cartevalori, con la precisazione che le cartevalori fuoriescono dall’ambito delle fattispecie che possono essere integrate dall’autonomia privata (e v. ultra § 7).

L’art. 2002 c.c. definisce documenti di legittimazione quelli la cui funzione è solo di identificare l’avente diritto alla prestazione. Alla riconoscibilità dell’avente diritto alla prestazione si riconnette, dalla prevalente dottrina (Libonati, Pellizzi, Martorano, Fiorentino, Campobasso, Valentino, Pérez Millàn, de Luca), funzione di legittimazione attiva e passiva: il documento, cioè, dà diritto alla prestazione, da un lato, e libera dall’obbligazione, dall’altro, se questa è eseguita in buona fede (e v. Libonati, Martorano, Fiorentino). Se ne può dedurre agevolmente che il possesso di tali documenti dà legittimazione sufficiente all’esercizio del diritto ‑ nel senso che non obbliga il portatore a fornire altra prova ‑ nella misura in cui il difetto di titolarità non sia manifesto, nel qual caso il debitore ha il diritto di non eseguire la prestazione. Correlativamente, non si riconosce funzione legittimante necessaria: non si impedisce cioè che sia fornita altrimenti la prova della legittimazione all’esercizio del diritto – se è possibile fornirla – e che la prestazione possa e debba essere eseguita anche in mancanza del documento. È logico infatti che se il titolo individua l’avente diritto alla prestazione solo in colui che ha assunto la titolarità dello stesso nel momento dell’emissione del titolo, questi debba sempre conservare la possibilità almeno teorica di farsi riconoscere quale titolare del diritto e, pertanto, come tale, di legittimato alla prestazione. I documenti di legittimazione, quindi, servono solo per razionalizzare il momento esecutivo delle contrattazioni di massa, e non sono destinati alla circolazione (e v. Libonati, Martorano, Spada, Pérez Millàn). Poiché non sono fatti per circolare, ma per semplificare l’esecuzione, conferiscono legittimazione normalmente sufficiente, ma non anche necessaria alla prestazione indicata nel titolo (così, Martorano, Spada, Valentino, Campobasso, Pérez Millàn, Spatazza).

Ciò rilevato, tuttavia, non viene meno la regola generale (art. 1260 c.c.) che permette al creditore di cedere a terzi il proprio diritto di credito anche senza il consenso del debitore e ad entrambi il potere di vietare pattiziamente la circolazione del credito. I documenti di legittimazione, quindi, potrebbero astrattamente circolare nelle forme e con gli effetti propri della cessione ordinaria (Campobasso).

Ne risulta altresì che non sono documenti di sola legittimazione quelli che servono non solo a legittimare, ma anche a consentire il trasferimento del diritto senza l’osservanza delle forme della cessione ordinaria. Si può trattare di titoli di credito, di titoli impropri o di cartevalori.

Segue. b) I titoli impropri

Sempre l’art. 2002 c.c. definisce titoli impropri quelli che permettono al creditore di cedere il diritto alla cui prestazione il documento legittima, mediante la consegna del documento ad un terzo (con o senza ulteriori formalità ad legitimationem). La documentazione in questi titoli è preordinata non solo a conferire la legittimazione attiva e passiva, ma anche a consentire la circolazione del diritto sorto a favore di colui al quale il titolo è stato rilasciato (Asquini, Libonati, Pellizzi, Martorano, Campobasso, Valentino, Pérez Millàn, Spatazza). Poiché, in generale, la cedibilità del diritto di credito non dipende da un accordo specifico tra creditore e debitore, ciò significa che, rispetto a questi titoli, gli stessi (o, in alcuni casi, la legge) ritengono di attribuire un particolare valore all’accordo sulla circolazione: precisamente quello di sottrarla alle regole di pubblicità previste per la cessione ordinaria. Se può quindi plausibilmente sostenersi che il titolo improprio è destinato alla circolazione o, almeno, ad una certa circolazione non del tutto ordinaria (Asquini, Pellizzi, Martorano, Oppo, Pérez Millàn; ma, diversamente, Libonati), non può conseguentemente ammettersi l’esercizio del diritto in mancanza del titolo, provando aliunde la legittimazione: la prova della titolarità (o, meglio, della titolarità in un certo tempo avuta), sempre ammissibile, non può dare di per sé legittimazione all’esercizio del diritto (Asquini, Libonati, Pellizzi, Libertini, Martorano, Oppo, Pérez Millàn).

Infatti, se colui che ha ceduto il titolo od un terzo potessero dimostrarsi altrimenti legittimati – facendo ad esempio valere una cessione ordinaria debitamente notificata – frustrerebbero immeritatamente l’aspettativa del cessionario in buona fede del titolo improprio. Questi si è legittimamente affidato al fatto che, in base alle caratteristiche del titolo ricevuto, le formalità della cessione fossero state assolte già con la consegna o con la girata (magari piena e datata) ivi apposta, non dovendosi perciò provvedere anche alla notificazione, né dovendosi temere di altre cessioni secondo il diritto comune, i cui beneficiari possano invocare la priorità temporale (così, de Luca, nonché Ginevra). L’interpretazione proposta è necessitata dall’esigenza di tutela della pubblica fede, che risulta inevitabilmente chiamata in causa dalla particolare destinazione del documento (ancora, de Luca e Ginevra; diversamente, Martorano).

Del resto, il possesso del titolo è un elemento che bene ‑ ed anzi meglio ‑ assolve alla funzione di dirimere il conflitto tra più acquirenti disciplinato nell’art. 1265 c.c.; inoltre, è da ritenersi che il debitore, il quale paga al terzo privo del titolo improprio, che egli medesimo ha emesso, paga male (ex art. 1189 c.c.) perché, essendo senza dubbio a conoscenza dell’esistenza di un titolo che conferisce la legittimazione, non può considerare univoche le circostanze circa la legittimazione del creditore, o di un terzo, non in possesso del titolo (sul punto, v. Pérez Millàn).

Al riguardo si può osservare che il titolo improprio circola come bene mobile e genera, come il titolo di credito, legittimi affidamenti sul suo contenuto e sulla relativa esigibilità (e v. Campobasso); il credito su di esso menzionato circola invece come tale, e cioè derivativamente, per effetto del consenso manifestato tra le parti. È dunque possibile una dissociazione tra titolarità del diritto e legittimazione al suo esercizio alla quale l’ordinamento non offre una soluzione espressa.

Argomenti logici, confortati da univoci riferimenti comparatistici (spec. §§ 405 e 952 BGB), inducono a ritenere che al possessore di buona fede del titolo improprio, che abbia avuto regolare circolazione secondo la legge ad esso assegnata, debba attribuirsi la titolarità del diritto di credito in esso indicato anche se lo stesso, per qualunque ragione, non gli sia stato trasmesso derivativamente dal diretto dante causa (così, de Luca, ma diversamente Martorano).

Più esattamente, quando il possesso del documento è di buona fede, anche se consegue ad una vicenda derivativa viziata o addirittura a non domino, il titolo non può essere rivendicato, e nel conflitto sull’esercizio del diritto non potrà che prevalere il legittimato. La riconciliazione tra titolarità e legittimazione avviene dunque a vantaggio della legittimazione. Non sempre, peraltro, sarà necessario ricorrere alla figura dell’acquisto a non domino: infatti, al pari dei casi di plurime alienazioni di diritti di credito (art. 1265 c.c.), gli effetti di una cessione anteriore a domino che non ha potuto rendersi opponibile ad un secondo cessionario a non (iam) domino, giacché il diritto era già stato ceduto una prima volta, possono essere imputati per finzione al secondo cessionario derivativamente, per effetto dell’integrazione di una fattispecie secondaria – la notificazione o, appunto, il possesso del titolo – idonea a risolvere il conflitto attributivo (Mengoni). Viceversa, provando la mala fede del possessore, al titolare del diritto spogliato del documento basterà la rivendica per ricongiungere alla titolarità anche lo strumento di legittimazione.

Con la conseguenza, allora, che un documento legittimante al quale si applica il solo regime del possesso di buona fede delle cose mobili, con effetto anche sull’acquisto del diritto in esso menzionato, può e deve essere classificato titolo improprio: perciò esso non è titolo di credito.

La fattispecie cartolare come fattispecie residuale

Gli autori che hanno maggiormente colto la rilevanza sistematica dell’art. 2002 c.c. hanno sostenuto che la stessa norma fondi una presunzione d’incorporazione, tutte le volte che si abbia a qualificare un documento legittimante (Pellizzi). Si tratterebbe solo di una presunzione perché un documento legittimante può astrattamente valere anche da documento di sola legittimazione, o da titolo improprio, o, ancora, da cartavalore. Rispetto agli altri regimi, la presunzione gioca a favore della cartolarità sotto due profili: da un canto, l’art. 2002 c.c. indica, nei documenti di legittimazione e nei titoli impropri, documenti in cui vi è una limitazione di funzione e «implicitamente afferma che questa limitazione di funzione, considerata, dunque come derogatoria e particolare, deve, quando sussista, farsi in qualche modo riconoscere, ossia essere provata» (così, Pellizzi, G., Principî di diritto cartolare, Bologna, 1967, 140; ma, contra, Libertini). D’altro canto, un documento suscettibile di essere considerato titolo di credito non dovrebbe, nel dubbio, presumersi cartavalore, perché si tratterebbe di presumere «la presenza d’un plus, anziché di un minus, nella disciplina prevista per il documento di cui si discuta la natura» (Pellizzi, G., Principî di diritto cartolare, cit., 140).

Tale ultima considerazione è stata posta in discussione e, quindi, superata sul rilievo che cartavalore può essere solo un foglio di carta o altro supporto materiale cui l’ordinamento ricollega d’imperio, oggettivamente, in modo necessario e sufficiente un effetto giuridico sostanziale: perciò, le cartevalori non appartengono per definizione alla sfera di azione dell’autonomia privata (de Luca). Ne consegue che, per la circolazione dei diritti, in alternativa ai titoli impropri e alla cessione ordinaria – e per la legittimazione, in alternativa ai mezzi indicati nell’art. 2002 c.c. – i privati dispongono solo dei titoli di credito.

Non va dunque presunta la cartolarità, né questa va provata, quando sia evidente in un determinato documento la funzione legittimante, e sia provato, in senso inverso, che tale documento non serve solo a legittimare, né è solo un titolo improprio. Va perciò capovolto il criterio di residualità da altri proposto (Martorano), dovendosi dunque concludere che titoli di credito possono e devono essere considerati tutti i documenti che legittimano il portatore (semplice o qualificato) alla pretesa di un diritto in essi menzionato, se essi non siano destinati solo a circolare con gli effetti della cessione ordinaria, o non valgano solo da documenti di legittimazione (de Luca; ma v. le perplessità di Libertini, Mirone e Sanfilippo, e già quelle di Libertini).

A supporto logico della precedente conclusione valgano le seguenti sintetiche considerazioni. Come già ricordato, i crediti sono per natura cedibili, anche contro la volontà del debitore, salvo espresso patto contrario (art. 1260 c.c.), e non occorre certo dimostrare che la cessione del credito ad un terzo è favorita dalla emissione di un documento legittimante suscettibile di traditio. Peraltro, l’emissione di un titolo per favorire la circolazione di un credito pone problemi che la disciplina della cessione ordinaria non è in grado di risolvere. Vengono infatti in rilievo gli interessi dei terzi cessionari – ai quali in generale è dedicata solo una regola in materia di conflitto attributivo (art. 1265 c.c.) – che ripongono legittimo affidamento sull’esigibilità del diritto per come lo stesso è menzionato nel titolo di cui entrano in possesso. Con la disciplina dei titoli di credito, perciò, l’ordinamento predispone norme di tutela di tale affidamento, assenti o diversamente dettate nella disciplina della cessione ordinaria. Il debitore e il creditore (o talvolta la legge) possono impedire che tale complesso di regole trovi applicazione al documento che allestiscono: a tal fine, però, devono esigere – indicandolo nel titolo – che il credito documentato si trasferisce solo con la forma e/o con gli effetti della cessione ordinaria, e cioè che si tratta di un documento di sola legittimazione o di un titolo improprio.

Definizione della fattispecie in positivo: approccio normativo

Rispetto ai documenti di sola legittimazione e ai titoli impropri, le caratteristiche essenziali e distintive di un titolo di credito si ricavano da tre disposizioni poste nella disciplina generale dei titoli di credito, in materia di adempimento della prestazione (art. 1992 c.c.), di eccezioni opponibili (art. 1993 c.c.) e di effetti del possesso di buona fede (art. 1994 c.c.). È invece dubbio se costituisca nucleo essenziale della disciplina cartolare anche la previsione in materia di vincoli (art. 1997; e v. Briolini).

Per l’art. 1994 c.c., chi ha acquistato in buona fede il possesso di un titolo di credito, in conformità delle norme che ne disciplinano la circolazione, non è soggetto a rivendicazione. Ciò significa, in positivo, che chi acquista in buona fede il possesso di un documento cui è applicabile la disciplina dei titoli di credito ne diviene proprietario, anche a titolo originario, come per le cose mobili (art. 1153 c.c.), e allo stesso modo acquista la legittimazione all’esercizio del diritto in esso menzionato, anche se non ne abbia acquistato la titolarità per via derivativa.

Come abbiamo visto, ciò distingue i titoli di credito dai documenti di sola legittimazione, per i quali il possesso del titolo è condizione sufficiente ma non necessaria per l’esercizio del diritto, mentre non è in grado di distinguere i titoli di credito dai titoli impropri: il fatto che il trasferimento dei titoli impropri produca gli effetti della cessione ordinaria non giustifica la possibilità di esercizio del diritto in difetto del possesso del titolo, non risultando a tal fine sufficiente la prova della successione nella titolarità del diritto per via derivativa. Ne consegue che anche per i titoli impropri si impone, in caso di dissociazione tra titolarità e legittimazione, una soluzione consistente nella riconciliazione della titolarità del diritto a favore del possessore di buona fede del documento, ovvero del possesso del documento, acquistato in mala fede, a favore del titolare del diritto spogliato del titolo. Come meglio vedremo nel prossimo paragrafo, tuttavia, il possessore di buona fede del titolo improprio, anche se acquistato a non domino, esercita il diritto come se lo stesso gli fosse stato trasferito derivativamente dal titolare, e il debitore, perciò, gli può opporre tutte le eccezioni che poteva opporre al primo prenditore, titolare del rapporto fondamentale in relazione al quale il titolo è stato emesso.

La regola dell’acquisto del titolo di credito in base al possesso di buona fede (art. 1994 c.c.) è, perciò, all’evidenza strettamente connessa con quella che disciplina la legittimazione attiva e passiva all’adempimento della prestazione, ricollegandola in modo sufficiente e necessario al possesso del titolo e all’osservanza delle regole formali di investitura secondo la legge di circolazione.

L’art. 1992, comma 1, c.c. afferma che il possessore di un titolo di credito ha diritto alla prestazione in esso indicata verso presentazione del titolo, purché sia legittimato nelle forme prescritte dalla legge (questa norma è da alcuni ritenuta applicabile anche a titoli impropri e documenti di legittimazione, e v. Libertini, nonché Libonati e Campobasso; parzialmente difformi, Fiorentino e de Luca). In altri termini, il possessore del titolo di credito non solo non deve provare il titolo dell’acquisto del diritto in esso menzionato, ma sarebbe legittimato alla pretesa documentata sul titolo anche se del diritto non fosse titolare. Ed infatti, a norma dell’art. 1992, comma 2, c.c., il debitore, che senza dolo o colpa grave adempie la prestazione nei confronti del possessore, è liberato anche se questi non è il titolare del diritto. Per altro versante, perciò, questa regola permette al debitore cartolare di liberarsi dell’obbligazione anche nei confronti del non titolare, purché consti la circostanza univoca della legittimazione cartolare, cioè il possesso del titolo e l’osservanza delle regole formali di investitura secondo la legge di circolazione: a differenza della disciplina del pagamento al creditore apparente (art. 1189 c.c.), peraltro, il pagamento nelle mani del legittimato cartolare è liberatorio anche se effettuato non in buona fede, purché senza dolo o colpa grave del debitore (e v. Stagno d’Alcontres). Al debitore resta peraltro la facoltà di opporre al legittimato cartolare, sotto forma di eccezione personale, il difetto di titolarità tutte le volte in cui il pagamento potrebbe risultare non liberatorio (sul punto, anche in relazione alla posizione del fiduciario, v. le meditate considerazioni di Ginevra).

Raccordando i due principi, rispettivamente espressi all’art. 1994 e all’art. 1992, comma 2, c.c., si desume che, quando il possessore possa invocare un acquisto di buona fede del titolo di credito, allo stesso non potrà essere opposta alcuna eccezione di difetto di titolarità, poiché questa si acquista insieme alla proprietà del documento. Come abbiamo visto, a risultati analoghi, sebbene non identici, si giunge anche in materia di circolazione non derivativa dei titoli impropri. Con la conseguenza che la distinzione tra titoli di credito e titoli impropri deve essere ricercata altrove, ed in specie analizzando il regime delle eccezioni che il debitore può opporre al possessore del titolo di credito o, rispettivamente, del titolo improprio.

Segue. Il regime delle eccezioni cartolari

L’art. 1993, co. 1, c.c. afferma che il debitore può opporre al possessore del titolo soltanto le eccezioni a questo personali, le eccezioni di forma, quelle che sono fondate sul contesto letterale del titolo, nonché quelle che dipendono da falsità della propria firma, da difetto di capacità o di rappresentanza al momento dell'emissione, o dalla mancanza delle condizioni necessarie per l'esercizio dell'azione.

Si distinguono in questo modo le eccezioni reali, opponibili a qualunque possessore del titolo di credito, da quelle personali, opponibili solo a determinati presentatori del titolo, tra le quali si annoverano anche quella di difetto di titolarità (di cui si è fatto accenno nel paragrafo precedente) e quella di dolo, descritta dal secondo comma: a mente dell’art. 1993, co. 2, c.c., il debitore può opporre al possessore del titolo le eccezioni fondate sui rapporti personali con i precedenti possessori, soltanto se, nell'acquistare il titolo, il possessore ha agito intenzionalmente a danno del debitore medesimo.

Il regime delle eccezioni cartolari è quello che più significativamente connota la disciplina dei titoli di credito rispetto a quella dei titoli impropri. Infatti, sul rilievo che il trasferimento dei titoli impropri produce gli effetti della cessione ordinaria, pur permettendo di prescindere dalle relative forme (art. 2002 c.c.), va escluso che il possessore del titolo improprio, anche se di buona fede, possa esercitare un diritto diverso, più ampio o più ristretto, rispetto a quello che è sorto – e sempre che sia validamente sorto – con il negozio fondamentale che il titolo improprio documenta e consente di far circolare. Ad esempio, nelle polizze di assicurazione all’ordine o al portatore (che sono comunemente considerate l’esempio antonomastico dei titoli impropri) il possessore della polizza potrà esercitare solo il diritto che spettava al sottoscrittore e al possessore medesimo saranno opponibili tutte le eccezioni che potevano essere opposte al contraente, inclusa l’invalidità dell’assicurazione.

Nei titoli di credito, invece, a ragione del numero chiuso delle eccezioni opponibili al possessore di buona fede, la prestazione cui è obbligato il debitore non necessariamente coincide con quella sorta per effetto del negozio fondamentale, né la validità di quest’ultima è idonea a condizionare quella fondata dalla chartula. Ad esempio, nel caso di adempimento a terzi possessori di buona fede di una cambiale regolarmente girata, emessa in occasione della vendita di un bene, il debitore cambiario è obbligato all’adempimento della prestazione indicata nel titolo, a nulla rilevando che nei confronti del venditore, primo prenditore della cambiale, potrebbero opporsi eccezioni fondate sul rapporto fondamentale (quali vizi del contratto o del consenso, vizi o evizione della cosa, e così via).

Si parla in questo senso di letteralità e di astrattezza del diritto cartolare (Ascarelli, Ferri, Asquini, Pellizzi, Martorano, Stagno d’Alcontres) o, con altra prospettiva, di autonomia in sede di emissione (o di esercizio del diritto, nelle parole di Campobasso): caratteristiche, queste, che sono proprie dei titoli di credito e non dei titoli impropri. Che nei titoli di credito si dia per davvero luogo ad una duplicazione delle obbligazioni e dei diritti, è questione dibattuta (e v., per la teoria unitaria, Asquini, Pellizzi, Martorano; per la teoria mista, Libertini, Pavone La Rosa, Oppo, Spada, Libonati, de Luca, nonché in posizione autonoma Ferri). Il punto di maggiore incertezza è peraltro costituito dalla possibilità di ammettere titoli di credito a letteralità incompleta (o indiretta) e titoli causali, soprattutto se intesi in senso forte (nella dottrina tedesca detti Grundgeschäftbestimmtewertpapiere). A tratteggiare questi complessi temi è dedicato il prossimo paragrafo.

Titoli astratti e causali, costitutivi e non costitutivi

L’esistenza di un regime delle eccezioni opponibili al possessore del titolo di credito segna la linea di demarcazione con la disciplina dei beni, contribuendo in modo significativo anche a definire il concetto di titolo di credito, soprattutto rispetto a quello di cartavalore. L’esistenza di un regime di eccezioni opponibili, infatti, pone un limite all’idea, che comunque permea storicamente la formazione della disciplina dei titoli di credito, secondo cui il titolo di credito realizzerebbe la “incorporazione” di un diritto di credito in una cosa mobile o, in ancor più forti termini, la trasformazione di un diritto relativo in diritto assoluto (v., tra altri, Pellizzi, Martorano, Spada, Stagno d’Alcontres).

Mentre il possesso dei beni mobili soddisfa in via diretta ed immediata l’utilità che essi rivestono per il possessore, la titolarità di un diritto di credito non è di per sé satisfattiva dell’utilità del creditore, se non con la cooperazione del debitore nell’adempimento dell’obbligazione. La documentazione di un diritto di credito su un titolo di credito, e ancor più su una cartavalore, costituisce perciò una finzione tesa a far sì che il possesso del documento assicuri la soddisfazione dell’utilità del possessore, al pari di come la stessa sarebbe soddisfatta dal possesso di un bene mobile. La finzione si realizza assicurando al creditore che la prestazione a cui il debitore si è obbligato sarà senz’altro adempiuta, senza eccezioni.

Sotto questo profilo possono distinguersi le cartevalori, ove la finzione è assoluta non essendo ammesso alcun tipo di eccezione, e i titoli di credito, ove, invece, la finzione trova limite nell’esistenza di un catalogo di eccezioni opponibili al possessore, cioè di circostanze sì eccezionali, ma pur sempre idonee ad impedire la soddisfazione della utilità del creditore (così, de Luca).

Sotto il profilo delle eccezioni opponibili al possessore del titolo di credito, si è tentato di distinguere in dottrina i titoli di credito astratti da quelli causali, o più modernamente i titoli costitutivi da quelli non costitutivi (Spada).

Astratti o costitutivi sarebbero i titoli di credito idonei a creare un’obbligazione cartolare indipendentemente dalla valida creazione di un’obbligazione fondamentale: esempio antonomastico di titoli di questo tipo è la cambiale, alla cui storica affermazione si deve peraltro la nascita del regime delle eccezioni (Pavone La Rosa, Spada, Callegari e Cottino). Causali in senso forte o non costitutivi sarebbero i titoli di credito incapaci di creare un’obbligazione cartolare diversa ed autonoma da quella che sorge con il negozio fondamentale: esempi di titoli di questo tipo sarebbero i titoli di partecipazione (titoli azionari, obbligazionari, rappresentativi di strumenti finanziari partecipativi, e così via: v. oltre d’Alessandro, anche Pettiti, Campobasso, de Luca e Stagno d’Alcontres, de Luca). Causali in senso debole sarebbero infine i titoli di credito che consentono al debitore di opporre oltre alle eccezioni di cui al catalogo dell’art. 1993 c.c. anche quelle che derivano dalla disciplina legale del tipo di contratto che è a fondamento dell’emissione del titolo: esempio antonomastico di titoli di questo tipo sono i titoli rappresentativi di merci (art. 1996 c.c.), in cui la menzione al negozio fondamentale si interpreta come espressiva del richiamo al tipo negoziale che sorregge l’emissione (v. oltre a Pavone La Rosa; Martorano; Spatazza; Stagno d’Alcontres; v. anche la voce Titoli rappresentativi di merci).

La distinzione tra titoli astratti e causali in senso forte, o tra titoli costitutivi e non costitutivi, non può essere accolta, ponendosi in contrasto con la stessa nozione di titolo improprio, che la legge, seppur per indizi, tuttavia, offre. Infatti, quando un documento legittimante, circolante nelle forme dei titoli di credito trasferisce il diritto con gli effetti della cessione ordinaria, e cioè nei limiti e nella misura in cui lo stesso era esercitabile dal dante causa, consentendo al debitore di opporre al possessore del titolo tutte le eccezioni fondate sul rapporto fondamentale, tale documento appartiene alla fattispecie dei titoli impropri, e non può considerarsi titolo di credito (causale in senso forte o non costitutivo) idoneo ad attrarre solo una parte della disciplina cartolare (così, de Luca replicando a Spada; nonché ampiamente Ginevra).

Ne discende che, viceversa, quando un documento legittimante, circolante nelle forme dei titoli di credito trasferisce il diritto in esso menzionato senza che, per legge o per volontà dell’emittente, la circolazione debba limitarsi a produrre gli effetti della cessione ordinaria, a tale documento sarà applicabile l’intera disciplina cartolare, e all’interprete non potrà essere permesso di selezionare gli effetti di disciplina che si possono ritenere appropriati alla fattispecie, e cioè, in particolare, di escludere l’applicazione del regime delle eccezioni.

Questa conclusione non esclude la possibilità di concepire titoli di credito a letteralità incompleta o per relationem (e v. Pellizzi, Martorano, nonché di recente Libertini, Mirone e Sanfilippo), là dove in particolare il titolo sia destinato a documentare non singoli diritti già sorti a favore del possessore, ma rapporti obbligatori dai quali possono sorgere una pluralità di diritti esercitabili nel tempo: in questo senso, la lettera del titolo può limitarsi a rinviare alla fonte del rapporto, senza tuttavia con ciò necessariamente attrarre la disciplina dei titoli impropri. Resta fermo, anche per i titoli di credito a letteralità incompleta, che le indicazioni contenute nella lettera del titolo (o quelle di esse aventi valenza individuale) e l’esistenza stessa del rapporto che il titolo documenta non potranno essere contraddette od escluse dalla diversità o dall’eventuale invalidità o inesistenza del rapporto fondamentale.

Il ragionamento appena condotto assume particolare rilevanza per i titoli di partecipazione, tra cui soprattutto i titoli azionari.

I titoli azionari come titoli di credito

I titoli azionari sono documenti nominati dalla legge (art. 2354 c.c.; r.d. 29.03.1942, n. 239) e che, sempre per legge, circolano nelle forme dei titoli di credito (nominativa o al portatore). Gli stessi possono dunque essere astrattamente inquadrati nei titoli impropri o nei titoli di credito, difficilmente potendosi riconoscere funzione di sola legittimazione (ma, diversamente, Guizzi e, pur in una autonoma ricostruzione, Libertini, Mirone e Sanfilippo) o funzione solo probatoria, se non nei casi – eccezionali – in cui la circolazione sia vietata per volontà dell’emittente per un determinato periodo di tempo (art. 2355 bis, co. 1, c.c.) e purché tale volontà sia adeguatamente riconoscibile dal titolo stesso (art. 2355 bis, co. 4, c.c.). Non occorre perciò alcuna indicazione, sulla chartula o nello statuto, di trasmissibilità del titolo a mezzo di girata o transfert, essendo questa una caratteristica che discende dalla legge (art. 2355 c.c.) e che non appare disponibile, se non appunto nei limiti di legge (diversamente, tuttavia, Libertini, Mirone e Sanfilippo)

Per sciogliere l’alternativa, se i titoli azionari rappresentino titoli di credito a letteralità incompleta, o titoli impropri, è necessario verificare se nella disciplina delle società per azioni siano poste regole incompatibili con la qualificazione cartolare, e cioè norme dalle quali possa desumersi che la circolazione delle partecipazioni, attuata per mezzo di titoli azionari, produce i soli effetti della cessione ordinaria. In questo caso, i titoli azionari si dovranno inquadrare tra i titoli impropri.

Tale verifica consente di escludere che le azioni possano circolare solo con gli effetti della cessione ordinaria (così de Luca e Ginevra; v. però criticamente – forse, però, equivocandone il pensiero – Libertini, Mirone e Sanfilippo).

Anzitutto, né la nullità della società (art. 2332 c.c.), né quella dell’operazione straordinaria – trasformazione, fusione o scissione - che le conferisce l’attuale assetto (artt. 2500 bis, 2504 quater, 2506 ter, co. 5, c.c.), né il fatto che l’emittente sia società in formazione, dunque non ancora esistente al momento dell’emissione dei titoli (art. 2331 c.c.), sono ipotesi suscettibili di fondare un’eccezione di difetto di capacità opponibile al possessore.

In secondo luogo, similmente, non è in grado di compromettere la validità del titolo azionario neppure l’incapacità del sottoscrittore, che potrà farla valere – a condizione che non abbia ceduto il titolo – solo quale causa di recesso, con conseguente liquidazione della partecipazione. In terzo luogo, l’inattuazione dei conferimenti da parte del sottoscrittore può essere opposta al terzo possessore dei titoli azionari solo se fondata nel contesto letterale del titolo (art. 2354, n. 4, e 2356 c.c.), dunque quale eccezione reale; altrimenti – secondo l’opinione preferibile – non è opponibile ai successivi acquirenti del titolo azionario (e v. App. Milano, 11.09.2012, in Banca, borsa ecc., 2013, II, 645, con nota adesiva di de Luca, N., Fiducia «trasparente» e debito d’apporto non apparente, secondo atto; nonché Ginevra, e Portale e Ginevra, ove ulteriori richiami).

In quarto luogo, se l’interpretazione è rispettosa della lettera della legge, nessuna limitazione circolatoria è opponibile al terzo acquirente di un titolo azionario se non è espressamente richiamata nel contesto letterale del titolo, per fondare un’eccezione reale (art. 2355 bis, co. 4, c.c.).

Infine, e soprattutto, non conduce a diverse conclusioni il rilievo che al possessore di un titolo azionario siano opponibili le modificazioni del rapporto sociale, anche se contrastanti con alcune delle indicazioni riportate nel titolo azionario: ad es., quelle sul valore nominale o sul numero complessivo delle azioni. La peculiarità dei titoli a letteralità incompleta, tra cui le azioni, consiste proprio nella possibilità che l’emittente opponga a ciascun possessore dei titoli le eccezioni comuni a tutti gli azionisti della stessa serie (l’espressione è mutuata dalla disciplina degli strumenti finanziari dematerializzati: art. 83 septies t.u.f.), e cioè fatti estintivi, impeditivi o modificativi del rapporto sociale (tra cui, soprattutto, le modificazioni statutarie) che siano stati determinati nei modi previsti dalla legge e dallo statuto, e che il possessore del titolo azionario – dato il rinvio del titolo azionario alla fonte di integrazione del rapporto – necessariamente conosce e accetta, sapendo che è nell’ambito di quell’organizzazione e delle sue vicende che saranno esercitabili i diritti sociali (di voto, agli utili, e così via).

Un dubbio residua solo per l’ipotesi di dichiarata invalidità dell’aumento di capitale a presupposto dell’emissione di titoli azionari. Infatti, sebbene si tratti di ipotesi che l’ordinamento considera eccezionale (art. 2379 ter c.c.), quella di invalidità del titolo emesso in forza di un aumento annullato non può considerarsi eccezione comune a tutti gli azionisti, ma è eccezione sicuramente opponibile anche ai possessori che non siano stati sottoscrittori diretti. Le alternative allora sono le seguenti: i) o si tratta di eccezione ex causa che impedisce la riconduzione delle azioni ai titoli di credito, trattandosi di titoli impropri; ii) o si tratta di eccezione che può essere ricondotta al catalogo di cui all’art. 1993 c.c. (ad es., eccezione di difetto di autenticità della firma o di capacità: e v. Martorano), oppure iii) si tratta di eccezione fondata per legge (artt. 2377 e 2379 c.c.), perciò opponibile erga omnes a chiunque sia o aspiri a divenire socio, che si aggiunge a quelle indicate nel catalogo dell’art. 1993 c.c. (de Luca), e che non esclude perciò la riconduzione delle azioni ai titoli di credito.

Titoli atipici e libertà di emissione. Cenni

Sebbene si tratti di norma collocata nell’ambito della disciplina dei titoli di credito al portatore, e non nella parte generale, è tuttavia opportuno accennare al tema della libertà di emissione di titoli atipici. L’art. 2004 c.c. pone un limite espresso alla libertà di emissione, vietando di creare titoli recanti l’obbligazione di pagare una somma di danaro al portatore se non nei casi stabiliti dalla legge.

Si è dubitato e lungamente dibattuto in dottrina se l’autonomia dei privati conosca altri limiti alla possibilità di rendere applicabile la disciplina cartolare a titoli non riconducibili ai tipi già conosciuti e disciplinati dall’ordinamento, come la cambiale, l’assegno o la polizza di carico. In particolare, si dividono i sostenitori della tesi oggettivistica, secondo cui il regime cartolare può essere applicato solo ai documenti aventi una conoscibilità sociale quali titoli di credito (Libonati, Spada), dai sostenitori della tesi volontaristica, secondo cui l’assoggettamento alla disciplina cartolare potrebbe dipendere dalla volontà dell’emittente, con una dichiarazione espressa, o comunque con indici documentali – quali la legge di circolazione al portatore o all’ordine – che consentano di presumere la volontà di incorporazione (Ferri, Pellizzi, Martorano, Stagno d’Alcontres, Guizzi).

La nozione di titolo di credito qui accolta, sulla base di un criterio di residualità per il quale sono titoli di credito tutti i documenti legittimanti, non destinati per legge o per volontà dell’emittente a rivestire solo funzione di legittimazione o a circolare con gli effetti della cessione ordinaria, consente di offrire un contributo anche a questa controversia. Non occorre, infatti, esigere una espressa volontà dell’emittente di assoggettamento del titolo alla disciplina cartolare, né occorre una diffusa percezione oggettiva della cartolarità di un certo documento perché gli sia applicabile la disciplina dei titoli di credito. Anche per i documenti di tipo nuovo, infatti, l’assoggettamento alla disciplina dei titoli di credito dipenderà dall’integrazione di una fattispecie che ha una componente positiva, consistente nell’allestimento di un documento legittimante suscettibile di traditio, e una componente negativa, consistente nell’assenza sul titolo di dichiarazioni dell’emittente che subordinino all’osservanza delle forme e/o degli effetti della cessione ordinaria il suo adempimento ad un terzo diverso dal creditore originario. È perciò onere dell’emittente (sulla base degli accordi intercorsi con il creditore) di prescrivere che il titolo circoli producendo i soli effetti della cessione ordinaria (qualificandosi titolo improprio) o che circoli solo con le forme e gli effetti della cessione ordinaria, o che non circoli affatto (qualificandosi documento di sola legittimazione).

Fonti normative

Artt. 1992-2002 c.c.

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