CARLYLE, Thomas

Enciclopedia Italiana (1931)

CARLYLE, Thomas

Giuseppe Gabetti

Scrittore inglese, nato il 4 dicembre 1795 a Ecclefechan (Dumfriesshire), morto a Londra il 4 febbraio 1881: personalità complessa, internamente agitata e discorde, ma di elementare potenza, tale che nemmeno oggi i contrasti delle passioni si sono placati intorno a lui, e la sua opera continua, a intervalli, ad agire come forza viva nella cultura europea.

Era figlio di un muratore scozzese e si aperse con rude fatica la sua via nel mondo: prima studente povero che dimentica la fame sui libri; poi insegnante di matematica, nel 1814 ad Annan, nel 1816 a Kirkcaldy, con l'anima sconvolta da una giovanile, rapidamente troncata relazione d'amore (con Margaret Gordon, forse la Blumine del Sartor Resartus) e con la mente tutta presa dal pensiero del nuovo romantico mondo spirituale che gli si era dischiuso nella Allemagne di Madama di Staël; poi, dal 1818, per riprendere gli studî, a Edimburgo, insegnante privato in miseria nera, traduttore di libri di geometria, collaboratore della Encyclopaedia del Brewster; infine, nel 1822, istitutore presso la famiglia Buller. Malato di disturbi dispeptici e d'insonnia, irritabile in estremo grado, insofferente, violento, collerico, gli servì quella sua stessa indole chiusa, caparbia ed egocentrica per trovare la forza di non cedere. Certo gli si venne così anche accentuando quel che d'aspro e difficile già aveva in sé, nella sua natura. Vedeva gli altri esclusivamente in funzione di sé stesso: anche quelli che pure sinceramente ammirava: come il Goethe. L'epistolario col Goethe, che s'inizia con una sua celebre lettera nell'aprile 1827, è tutto intessuto di due soliloquî: il vecchio poeta e il giovane profeta parlano su piani diversi che non s'incontrano coincidendo mai: per Goethe il C. è un'estrema potenza da mettere a servigio delle proprie idee; e per C. il Goethe è una decisiva esperienza, con la quale egli si giustifica e si esalta dinnanzi a sé medesimo: la stessa figura del Goethe tracciata nei saggi critici appare violentemente unilaterale, ridotta dal C. a propria immagine e somiglianza. Dominato imperiosamente dai proprî stati d'animo, era fatale che scambiasse i proprî impulsi con la propria fede; e fu spesso invadente, prepotente, anche ingiusto, ingrato: Darwin era "un brav'uomo e di buone intenzioni, ma di poca intelligenza"; Dickens "un piccolo novelliere al quale i buoni anglosassoni fanno omaggio di banchetti e di fiaccolate perché, anche se piccolo, è pur sempre qualcosa". Ma alla virulenza della polemica, corrispondeva, nonostante le querimonie di momentanei accasciamenti, un'implacabile rigidità di esigenze verso sé stesso. Aveva, al disopra di tutte le debolezze, una delle grandi qualità degli uomini superiori: l'obbedienza assoluta al proprio destino, oltre ogni fatica e ogni personale sacrificio: il vivere secondo necessità, non per la propria felicità, ma per la propria opera.

Nel 1821 l'amico Edward Irving lo presentò a Jane Welsh di Haddington, anch'essa, come il C., personalità decisa e in sé conchiusa, assoluta, esclusiva, volontaria. L'ammirazione reciproca li avvicinò. E nel 1826 si sposarono. Ma, abituata a brillare nella società, ella aveva bisogno di sentirsene intorno l'atmosfera eccitante; egli invece aveva bisogno di solitudine, nel momento del più grande travaglio della sua formazione. Sotto il peso di ragioni economiche urgenti, nel 1828, si ritirarono nel Dumfriesshire, in una fattoria sperduta, a Craigenputtock, e in quel silenzio e in quello squallore di campagne deserte - potevano passare sei mesi senza che si vedesse un volto amico - si produssero attriti, che, ingigantendosi nelle anime, assunsero talora forme penose; e nelle lettere e nelle memorie di lei ne è rimasto documento. La vita non aveva altra sostanza che la quotidiana felicità e infelicità di quella loro convivenza, e gli studî, la meditazione. Finalmente, nel 1833, si decisero a trasferirsi a Londra. E i primi tempi furono ancora difficili; Sartor Resartus, sotto forma di libro, uscì prima a New York (1836), per interessamento di Emerson, che a Londra (1838); poi, con la History of the French Revolution (1838) il C. si impose. Divenne rapidamente l'uomo che tutti discutono, seguono, combattono: accanto a Stuart Mill, il Dickens, il Thackeray, il Ruskin, e specialmente il Mazzini furono tra i frequentatori abituali della sua casa. Ma i rapporti fra i coniugi non migliorarono. Eppure le due esistenze erano e si sentivano l'una all'altra necessarie; e quando nel 1861 una lunga e grave crisi nervosa parve minacciare lei di follia, egli la circondò per mesi e mesi di cure attente, affettuose. E che cosa ella significasse per lui si vide quando improvvisamente, nel 1866, egli la perdette, mentre, nominato rettore dell'università di Edimburgo, si era recato a assumere, fra grandi onoranze, tale carica: da quel giorno, fu, quasi, un uomo finito.

Gli ultimi anni furono di raccoglimento. Nel 1867 incominciò a scrivere le sue memorie (Reminiscences, ed. Froude, 1881): riunì e riordinò le carte della moglie; attese a preparare l'edizione completa delle sue opere. Solo, mandò ancora qualche lettera aperta ai giornali su questioni di attualità; e nel 1870, mentre tutti deliravano per la Francia, prese le difese della "nobile, paziente, profonda, pia, onesta Germania". Quando "il giudeo al timone dello stato", Disraeli, gli offrì un'alta onorificenza, la rifiutò; accettò invece da Bismarck il prussiano Ordre pour le mérite. Non volle la sepoltura a Westminster. La salma fu portata, come egli volle, a Ecclefechan, nella semplice tomba accanto a quella del padre.

Il modo spicciativo con cui egli si sbarazza dei principî dell'89 nel far la storia della rivoluzione, la sua ostilità agl'ideali democratici, il suo disprezzo per le masse nonostante la personale ammirazione per Augusto Comte, hanno indotto taluni critici ad aspri giudizî sulla sua opera di storico; movendo dalla spietata analisi che egli stesso fa delle proprie contraddizioni, è stato affermato che egli fu in sostanza uno scettico, il quale gridava forte per nascondere il proprio vuoto interiore. Ma lo scettico debole, che nei toni falsati della retorica cerca una fuga e un rifugio, non trova quegli accenti di appassionata poesia, non sprigiona da sé quell'atmosfera di forza morale, che ancora oggi, quasi a distanza di un secolo, s'irradiano dai suoi scritti. È grosso di taglio nello stile, ed è naturale che spiaccia agli esteti; com'è naturale che spiacesse a qualche critico dell'età vittoriana, e anche all'acuto ma compassato Arnold. È un antirazionalista; ed è naturale che a una mentalità intellettualistica i suoi atteggiamenti ripugnino. Tolse in parte ad altri le sue idee: in filosofia s'ispirò all'idealismo postkantiano; in sociologia e politica al reazionarismo del Haller; in letteratura all'estetica dei romantici tedeschi. Come poeta non seppe sempre salvarsi dall'enfasi oratoria; e come oratore amò spesso deviare, "con estrosi slanci", verso la pura contemplazione del poeta. Come storico fu un lirico. E come lirico ebbe sempre bisogno di pezze d'appoggio nella storia. E non raggiunse mai dentro di sé l'equilibrio. Ma in quel suo impeto verso un potenziamento estremo delle forze della vita trovò pure un'interna coesione e saldezza.

La sua forza fu, soprattutto, d'essere rimasto sempre, in fondo, un duro contadino scozzese, moralista, puritano, com'era stato suo padre. Il tagliar corto, il risolvere una questione d'autorità o ricorrendo a parole grosse, il giudicare e condannare con un'aria di giudizio universale, e, al tempo stesso, l'istinto della semplificazione, l'andar dritto allo scopo, un non so che di manuale che è nella stessa tecnica dell'arte, nel procedere sommario, per cui non c'è via di mezzo, tutto rivela una forza intatta di primitivo. Anche l'iniziale profonda crisi descritta nel Sartor Resartus non ne fu che una conseguenza. Il mondo con cui quel suo spirito di primitivo venne a contatto era già un mondo di civiltà tarda e matura e in crisi di trasformazione; mentre il razionalistico, elegante e saggio scetticismo del sec. XVIII stava tramontando nel fastoso pathos romantico: e l'Inghilterra a uno svolto della sua storia, fra il precedente periodo delle conquiste coloniali e il periodo nuovo a orientamento imperiale, fra la precedente politica essenzialmente agricola e la politica nuova prevalentemente industriale, era impegnata in un radicale travaglio di rinnovamento, con tutte le torbide agitazioni e vicende che accompagnarono il passaggio del potere dalle mani dei tories a quelle dei whigs. Le idealità del passato sembravano essersi dissolte; la semplicità della fede era venuta meno; e intanto la nuova realtà economica e il movimento sociale nato con la rivoluzione ponevano ogni giorno problemi nuovi, di portata difficilmente prevedibile. Era inevitabile che il C. vi si smarrisse, in un turbamento che parve senza fondo. Ma quando, nello studio della filosofia e poesia tedesca - Life of Schiller, 1823-24; Wilhelm Meister's Apprenticeship, traduzione, 1824; German Romance, traduzioni da Musäus, Fouqué, Tieck, Hoffmann, Jean Paul Richter, Goethe, 4 voll., 1827; saggi critici su Goethe, Jean Paul Richter, Novalis, Werner, ecc., pubblicati sulla Edinburgh Review e sulla Foreign Review, dal 1822 in poi, ed altri raccolti più tardi, insieme con saggi varî, nei Critical and Miscellaneous Essays, 4 voll., 1839 - in quel mondo spirituale sostanzialmente immanentista, gli si affacciarono valori morali e religiosi in cui egli di nuovo poteva credere, la sua originaria natura riprese con immutata energia il sopravvento: e istintivamente, nella sua teologizzante mentalità di puritano, quei valori si proiettano nelle sfere dell'assoluto, diventarono certezze elementari: verità fisse, immobili come astri.

Certo gli fu necessario riperderli ancora per ritrovarli di nuovo entro nuove esperienze, riconquistarli ogni volta a contatto d'una materia sempre più complessa e più vasta; ma il jeanpauliano, realistico-romantico, ironico-lirico Sartor Resartus (prima pubblicazione nel Fraser's Magazine, 1833-34), con la storia del professore Teufelsdröckh, che, giunto al fondo dello scetticismo in una specie di cupa atonia morale, trova, per fulminea illuminazione interiore, la via per ascendere dall'Everlasting No del "regno della tenebra" all'Everlasting Yea dell'"impero della luce", è già il libro della liberazione; e la "philosophy of clothes" che vi si espone, l'interpretazione romantico-simbolica del mondo "dove tutto ciò che esiste è veste d'Iddio", si presenta con un carattere definitivo di atto di fede.

L'ansioso, ostinato, drammatico sforzo del C. fu, d'allora in poi. di portare quella sua fede nella pienezza della realtà, affrontando nel nome di essa tutti i problemi del proprio tempo. Egli divenne così l'interprete delle forze ed esigenze che l'evoluzione del secolo aveva preteso di soffocare o aveva lasciato ancora confuse, oscure, latenti. All'intellettualismo ereditato dalle generazioni precedenti oppose una romantica concezione della vita intesa come perenne spirituale creazione; alla dominante morale utilitaria una austera morale individualistica in cui l'individuo raggiunge veramente sé stesso nella dedizione alla propria idea, spima fino al sacrificio; alla critica tradizionale "che guarda dal disopra delle spalle dell'autore e gli prescrive ciò che deve fare" una critica che avvicina con simpatia l'anima dell'autore, cerca di riviverne la passione e di comprenderla. Contro la voluttuosa e morbida sensibilità, in cui il romanticismo sembrava volersi chiudere, gettò il richiamo verso la vita che è, sì, spiritualità, ma attività concreta, lavoro, produzione, "grande salute": - "Basta con Byron! Aprite Goethe!" -. In mezzo all'avanzare del signorile ma borghesemente placido e limitato ideale di vita vittoriano, fu l'uomo dei colpi di gomito, delle nudi invettive, dell'incontrollato abbandono, della lirica esaltazione. Di fronte all'evolversi del pensiero verso principî positivistici, di giorno in giorno sempre più universalmente accettati, fu l'irreducibile affermatore delle ragioni eterne dell'idealismo. Combatté con tutte le sue forze il livellamento degli uomini nell'uguaglianza delle funzioni sociali e l'avvento delle masse al potere, lanciando l'allarme per il fallimento della civiltà, sommersa nella marea uniforme delle plebi "le quali sono avviate a servire, destinate a servire". Negò il liberalismo, il parlamentarismo, la democrazia, il concetto di liberta, la teoria del lasciar fare: la società è ordine, gerarchia, instaurata dall'alto, imposta dall'alto: "Might is Right". E fu violento in questi suoi atteggiamenti: tanto più violento quanto più ardita era la tesi. E ognuno ricorda la brutalità ostentata di certe sue espressioni. Non già che non avvertisse le obbiezioni che si potevano muovere alle sue tesi: molte volte si sentono presenti dietro le sue parole; ma egli non era uomo da arrendersi a discutere: la "sua" natura gli imponeva la "sua" verità; e nulla lo arrestava: nemmeno l'amicizia. Nella stessa generosa lettera con cui difendeva nel Times il Mazzini a proposito dell'agitazione provocata dal tradimento di sir Graham, fa le riserve sulla sua capacità politica.

Ogni suo libro fu perciò una battaglia. La History of the French Revolution (3 voll., 1837) è la storia della rivoluzione come giustizia di Dio: ciò che di vitale essa generò è in gran parte annientato: molte delle forze sociali che vi operarono sono violentate o deformate o taciute; al nesso storico fra gli eventi sono sostituite mistiche prospettive in profondità: la realtà storica è trasportata nell'atmosfera della passione dello scrittore, rivissuta e intuita artisticamente fin negli ultimi particolari, in realistica analisi, con psicologica genialità creatrice: l'interpretazione è unilaterale e l'accertamento critico dei fatti è trascurato; ma la grandiosità dell'avvenimento non è stata espressa da nessuno con uguale potenza. Fraterno al popolo, per origine e per sentimento, di fronte alle classi dirigenti che accusava d'incomprensione e d'ignavia; aristocratico e apparentemente reazionario di fronte al popolo che giudicava sviato da "demagogiche ciarlatanerie" verso miraggi ingannevoli; discorde con tutto e con tutti, il C., tenuto fermo lo sguardo al presente, investì subito dopo il problema del movimento operaio, che si andava allora allargando, per la conquista della cosiddetta carta proletaria (Chartism, 1839): "il servo della gleba nel regime medievale era più invidiabile dell'operaio moderno con la sua libertà, nella sua fabbrica"! Il C. ne era così convinto che le pagine di più pura poesia che egli abbia mai scritte, sono forse quelle dell'idillio di vita medievale all'abbazia di Saint Edmund, che, con delizioso indugio contemplativo, inserì tre anni dopo nella rinnovata polemica di Past and Present (1843; scritto in due mesi), togliendone la materia alla Cronaca di Jocelyn de Brakelond. Si comprende perciò come il fallimento delle rivoluzioni liberali nel '48 dovesse sembrargli "un segno di Dio" e stimolarlo a nuovi attacchi (Latter-Day Pamphlets, 1850). Il problema del presente non era di natura fondamentalmente economica, ma spirituale: la creazione d'un ordine sociale, in cui ciascuno avesse il suo posto e la sua naturale sfera d'attività e tale creazione non poteva essere opera delle plebi, ma soltanto del genio. In tutti i tempi erano stati uomini superiori che avevano plasmato lo spirito dei popoli e "la storia non era nient'altro che la biografia dei grandi uomini". "Come se fosse espresso dal centro della terra" il grande uomo, l'"eroe", sorge e i popoli e i secoli vivono di ciò che egli ha creato (On Heroes, Hero-worship and the heroic in history, 1841: corso di lezioni tenute nel 1840, dopo tre altri corsi tenuti negli anni precedenti: On German Literature, 1837; On the History of Literature, 1838; Ou European Revolutions, 1839). È ricordato dal C., fra gli altri, anche l'esempio dell'Italia "scissa, divisa, eppure veramente una", perché "una nazione che ha avuto il suo Dante è unificata come non può essere nessuna Russia, grande mostro muto". E insieme con le figure degli eroi fondatori di religioni (Odino, Maometto), poeti e vati (Dante, Shakespeare), sacerdoti (Lutero, John Knox), uomini di lettere (Johnson, Rousseau, Burns), è evocato, accanto a Napoleone, più grande di Napoleone, come eroe re, Cromwell. Per rivendicarne integralmente la grandezza, il C. lo fece rivivere nelle sue proprie parole, illuminando nel commento sullo sfondo dei suoi tempi le sue gesta (Oliver Cromwell's Letters and Speeches, 2 voll., 1845). A più riluttante materia si trovò invece dinnanzi quando, reso un commosso omaggio alla memoria del giovane amico e discepolo John Sterling precocemente morto (Life of John Sterling, 1851), intraprese a scrivere la storia di Federico il Grande (The History of Frederick II of Prussia called Frederick the Great, 6 voll., 1858-65): non risparmiò fatica; per due volte si recò in Germania, nel 1852 e nel 1858, per vedere personalmente i luoghi della grande guerra e per raccogliere materiali: e quando l'opera uscì, Emerson la dichiarò "the wittiest ever written"; e innegabilmente contiene pagine ricche di colore, vaste visioni ancor sempre disegnate con sicura potenza: la forza derivata allo stato prussiano dall'instaurato militarismo è rappresentata con decisiva chiarezza; la descrizione delle battaglie è segnata con una tale lucidità che poté diventare testo di studio in Prussia, nelle scuole militari; ma alle romantiche interpretazioni con cui il C. si sforzò di plasmare la sua "figura d'eroe", molto spesso il grande re prussiano sfugge: al di là delle righe par talora di veder apparire, beffardo, il suo celebre sorriso. Dopo anni di silenzio una sola opera del C. ancora seguì; e fu come un ricongiungersi della sua vecchiaia stanca con la sua giovinezza: The Early Kings of Norway (1875): il congedo alla vita in un omaggio estremo alla congenita germanicità del suo spirito.

Opere: Ediz. ordinata dal C. stesso: voll. 37, Londra 1871-74; ediz. del Centenario, curata da D. H. Traill, voll. 31, Londra 1897-1901. Per l'epistolario v.: Correspondence between C. and Emerson, ed. C. E. Norton, Londra 1883; Early Letters of C., ed. Norton, Londra 1887; Letters 1826-36, ed. Norton, voll. 2, Londra 1888; Briefwechsel mit Varnhagen von Ense, ed. R. Preuss, Berlino 1892; Letters of C. to his youngest sister, con pref. di T. C. Copeland, Londra 1899; New Letters of C., ed. A. Carlyle, voll. 2, Londra 1904; C. intime, Lettres de C. à sa mère, ed. A. Carlyle, trad. di E. Masson, Parigi 1907; Letters of C. to Mill, Sterling and Browning, ed. A. C., Londra 1923. L'epistolario con la moglie è stato edito sui mss. da A. Carlyle: Love Letters of C., and Jane Welsh, voll. 2, Londra 1909, riaccendendo una polemica che la pubblicazione parziale e l'uso, in realtà alquanto arbitrario, fattone dal Froude nella sua biografia carlyliana e nell'ediz. dei Letters and Memorials di lei (voll. 3, Londra 1883) aveva provocato. Per la corrispondenza della moglie v. inoltre: Early Letters of Jane Welsh C., ed. Ritchie, Londra 1899; New Letters and Memorials of Jane C., ed. A. Carlyle, con introd. di J. CrichtonBrowne, voll. 2, Londra 1903; Letters of Jane C. to her Kinsfolk, ed. L. Huxley, Londra 1924; e, infine, la biografia di A. E. Ireland, Life of Jane Welsh C., Londra 1892. Utile materiale si trova pure in Last Words of C., Londra 1892; C. G. Duffy, Conversations with C., Londra 1892; F. Espinasse, Literary recollections and sketches, Londra 1893, pp. 55-272.

Versioni italiane: Brani scelti, trad. O. Morali, Torino 1910, 3ª ed. 1927; Pagine scelte, trad. G. Valori, Milano 1920; Gli eroi, trad. M. Pezzè-Pascolato, Firenze 1899; Passato e presente, con prefaz. di L. Einaudi, Torino 1905; Sartor Resartus, trad. F. e G. Chimenti, Bari 1910; La rivoluzione francese, trad. E. Ciccotti D'Errico, Milano 1916; Segni dei tempi, trad. A. de Stefani, Milano 1917. Vedi anche l'ediz. italiana di On heroes, a cura e con prefaz. di G. Ferrando, Firenze 1927; e la trad. dell'epistolario con la moglie, a cura di A. Tomei, Bari 1929.

Bibl.: I. A. Froude, C.: History of the first forty years of his life, voll. 2, Londra 1882, e C.: History of his Life in London, voll. 2, 1884. (Il Froude era stato designato dal C. stesso come suo futuro biografo e editore delle sue carte; ma già il Norton, in base all'esame dei mss., lo aveva accusato di aver fatto torto al C. La difesa del Froude è in My relations with C., Londra 1903. Fra gli scritti polemici contro di lui, cfr. specialmente J. Crichton-Browne, Froude and C., Londra 1903, e, in collaborazione con A. Carlyle, The Nemesis of Froude, Londra 1903; nonché D. A. Wilson, Froude and C., Londra 1898, e The truth about C., Londra 1913. V. inoltre: D. Masson, C. personally and in his writings, Edimburgo 1885; R. Garnett, Life of Th. C., Londra 1887, nuova ed. riveduta, Londra 1911; J. Nichol, Carlyle, Londra 1892; G. K. Chesterton, C., Londra 1902; R. S. Craig, The making of C.: an experiment in biographical explication, Londra 1908; A. W. Evans, C., Londra 1909; W. Johnson, Th. C.: a study on his literary apprenticeship (1814-1831), New-Haven 1911; Mac Cunn, Six radical thinkers: Bentham, Mazzini, Carlyle, ecc., Londra 1907, 2ª ed., 1910; A. Ralli, Guide to C., voll. 2, Londra 1920. Una ricchissima raccolta di materiali è ora radunata nella vasta, sebbene troppo uniformemente encomiastica, opera di D. A. Wilson: Life of C., in 6 voll., Londra 1923 e segg. Per ricerche particolari sul C. e la Germania, cfr. W Streuli, Th. C. als Vermittler deutscher Literatur und deutschen Geistes, Zurigo 1895; H. Kraeger, C.s stellung zur deutschen Sprache und Literatur, in Anglia, XXII (1899); C. E. Vaughan, C. and his German Masters, in Essais and studies of members of the English Association, I (1910). Sul C. e il Goethe: H. Grimm, C. und G., in Deutsche Rundschau, IV (1887); H.H. Boyesen, in Essays on German literature, Londra 1892; O. Baumgarten, Carlyle and Goethe, nella collez. Lebensfragen, XIII, Tubinga 1906. Sul C. e Stuart Mill: E. Neff, C. and Mill, New York 1924. Sul C. e Jean Paul: H. Pape, Jean Paul als Quelle von C.s Anschauungen und Stil, Rostock 1904. Sul C. come critico vedi F. W. Rowe, C. as a critic of literature, New York 1910. Sul C. come storico: F. Harrison, The Meaning of History, Londra 1894. Sul C. come pensatore: J. M. Robertson, Modern humanists, Londra 1891; P. Hensel, Th. C., nella collez. Klassiker der Philosophie, XI, Stoccarda 1901; E. Flügel, C.s religiöse und sittliche Entwicklung und Weltanschauung, Lipsia 1887; G. v. Schulze-Gävernitz, Th. C.'s Welt- und Gesellschaftsanschauung, 2ª ed., Berlino 1897. Sempre da ricordare sono, oltre il volume del Taine, L'idéalisme anglais, Parigi 1863, i noti saggi del Mazzini e dell'Emerson, ristampati in tutte le edizioni delle loro opere. In Italia ha dedicato al C. un profilo G. Fornelli, T.C., Roma 1924; e studî sul C. sono stati scritti, fra altri, dal Chiarini (in Nuova Antologia, 1889). La prefazione agli Eroi nella traduzione della Pezzè-Pascolato (v. sopra), è stato l'ultimo scritto di Enrico Nencioni.

TAG

Rivoluzione francese

Giudizio universale

Federico il grande

Servo della gleba

Enrico nencioni