Storia, teorie della

Enciclopedia delle scienze sociali (1998)

Storia, teorie della

Pietro Rossi

La scoperta della storia come processo unitario

La nozione di 'storia' come processo unitario, comprensivo delle vicende degli uomini in tempi e luoghi diversi, e quindi coestensivo con lo sviluppo stesso dell'umanità, è sorta in epoca successiva non soltanto al concetto di storiografia, ma alla storiografia stessa. Essa è infatti una nozione tipicamente moderna, che si è venuta formando nel corso del Settecento, soprattutto nella sua seconda metà, in concomitanza con la nascita di quella che Voltaire ha per primo designato (nel titolo di un saggio del 1765) come "filosofia della storia". A partire da Erodoto la storiografia si è occupata di avvenimenti e di azioni umane, di avvenimenti collegati da rapporti di successione temporale e - in qualche misura - da rapporti causali, di ciò che gli uomini hanno fatto in determinate circostanze, senza ritenere che essi siano elementi di un tutto chiamato 'storia'. La storiografia antica conosce tà genómena, le res gestae, ne indaga i rapporti, ne ricerca le cause prossime o anche remote; la stessa cosa vale per la storiografia medievale o per quella dei primi secoli dell'età moderna. Anche quando Polibio si è proposto di offrire un quadro unitario delle vicende politiche dell'antichità, alla luce dell'ascesa della potenza romana, lo ha concepito come un semplice aggregato, come una 'somma' di avvenimenti.

Il sorgere della nozione di 'storia' presuppone infatti due condizioni strettamente legate tra loro: per un verso il passaggio dalla storia di determinate vicende, circoscritte nel tempo e nello spazio, per esempio dalla storia di una città o di una nazione, alla 'storia' tout court, dal plurale al singolare, o più precisamente al singolare collettivo; per l'altro lo svincolamento delle res gestae dalla historia, la loro assolutizzazione. È in questo periodo, infatti, che nell'ambito linguistico tedesco si comincia a parlare non più soltanto di Geschichten ma anche della Geschichte, e questa viene concepita come indipendente dalla Historie. Lungi dall'essere il puro e semplice oggetto della ricerca storica, la 'storia' diventa così un oggetto a sé stante, una realtà sui generis che dev'essere colta nella sua unità e nella sua articolazione. Ma a questo scopo la storiografia risulta inadeguata; ed ecco sorgere allora l'esigenza di una 'storia universale' e, al limite, di una filosofia della storia che si colloca su un piano ulteriore rispetto a essa. Ovviamente, questo trapasso non costituisce soltanto una svolta concettuale; alla sua base vi è l'allargamento dell'orizzonte storico che si compie in virtù delle esplorazioni oceaniche, della scoperta del Nuovo Mondo, dei nuovi rapporti con l'Oriente, e quindi la conoscenza di società e culture estranee a quella europea.

E proprio dalla consapevolezza che queste società sono passate attraverso vicende diverse, che la loro storia è indipendente e irriducibile al processo che dall'antichità greco-romana ha condotto all'Europa moderna, sorge l'esigenza di una 'storia universale' in grado di abbracciare anch'esse. Il saggio voltairiano sulla Philosophie de l'histoire fornisce appunto un quadro della storia dell'umanità dallo stato selvaggio alla civiltà non limitato all'ambito europeo, e i primi capitoli dell'Essai sur les moeurs et l'esprit des nations sono dedicati alla Cina e alle Indie, alla Persia e agli Arabi. L'unità della storia si presenta quindi, in primo luogo, come unità di processo, come un processo che abbraccia le vicende dei singoli popoli e li mette in rapporto tra loro. Come gli avvenimenti che compongono la vita di un popolo, così i diversi popoli diventano elementi di un insieme più vasto: le singole nazioni hanno i loro costumi e il loro 'spirito' peculiare, ma s'incontrano e si scontrano in un teatro comune. La nozione di 'storia' risponde quindi, in primo luogo, a un'esigenza di collegamento di processi distinti e differenziati. Questa esigenza può essere soddisfatta attraverso la comparazione dei modi di vita, delle strutture politiche, dei sistemi di credenza - una comparazione rivolta a determinare le condizioni del sorgere e della permanenza delle diverse forme di governo, come in Montesquieu, oppure a distinguere ciò che deriva dalla 'natura' degli uomini, non soggetta a mutamento, e ciò che è invece prodotto della coutume, della consuetudine, come in Voltaire. Oppure può essere soddisfatta considerando i singoli popoli come momenti successivi di un unico processo, come anelli di una 'catena', e magari vedendo nella loro vicenda individuale il ripetersi di un ciclo comune, come nel giovanile saggio di Herder Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit (1774). L'unità del processo non esclude però un'articolazione interna, sia essa costituita da una pluralità di percorsi o di direzioni di sviluppo oppure anche da 'unità' in esso comprese.

Soprattutto nelle formulazioni novecentesche della nozione di 'storia' il momento della pluralità appare sempre più marcato: ad esempio, per Wilhelm Dilthey il mondo storico è una 'connessione dinamica' che comprende in sé una molteplicità di connessioni dinamiche rappresentate dai sistemi di cultura e dai sistemi di organizzazione sociale, ma anche dalle epoche che in esso si succedono, ognuna contrassegnata da propri valori e dalla tendenza a realizzare determinati scopi.L'unità della storia è però suscettibile di un'interpretazione più forte, cioè come unità non soltanto di processo ma anche di soggetto. Il suo modello classico è costituito, com'è noto, dalla filosofia della storia di Hegel, per la quale la Weltgeschichte è la realizzazione progressiva del Weltgeist, dello 'spirito del mondo', attraverso il succedersi dei diversi 'spiriti dei popoli'. Essa comporta una duplice riduzione all'unità: delle manifestazioni di vita di un popolo nel suo corso storico a un soggetto costituito appunto dal particolare 'spirito' di quel popolo, e dei diversi 'spiriti dei popoli' a un soggetto di cui essi sono momenti. Ma comporta pure, per altro verso, una considerazione degli individui come strumenti dello 'spirito del mondo', sia che essi contribuiscano alla vita di un determinato popolo, assolvendo così una funzione 'conservatrice', sia che svolgano invece un'azione trasformatrice nel passaggio dall'uno all'altro 'spirito del popolo'.

Ma la filosofia della storia hegeliana non è l'unica concezione del processo storico che faccia appello a un soggetto unitario. Analogo è, per esempio, il ruolo dell'umanità in Auguste Comte, o dell'evoluzione nella vulgata positivistica di ispirazione spenceriana. In tutti questi casi l'unità del processo storico trova il proprio fondamento nell'unità del soggetto che si realizza nel suo corso.Ma l'unità della storia può essere concepita anche come unità di fine. Il processo storico può cioè essere inteso come un succedersi di momenti orientati verso la realizzazione di uno scopo, poco importa che gli individui ne siano consapevoli oppure no, e il suo significato esser riposto in questa realizzazione. Ancora una volta Hegel offre un modello di questa concezione: la considerazione degli individui come strumenti dello 'spirito del mondo' non si riduce infatti alla constatazione, di per sé ovvia, che il risultato dell'agire individuale è di solito diverso dall'intento che i singoli individui si propongono; essa comporta che i loro bisogni e i loro interessi diventino il mezzo con il quale si compie lo sviluppo dell'autocoscienza. Il fine della storia può però essere concepito in modi differenti: può cioè esser concepito come intrinseco al processo storico, oppure come assegnato a esso dal di fuori, dalla natura, o ancora come stabilito da un essere superiore che lo dirige così come governa, con le sue leggi, la natura stessa. Nel primo caso la storia viene considerata come un processo teleologicamente orientato in forma autonoma, contrassegnato dal trapasso da un originario stato 'selvaggio' di esistenza dell'uomo a uno stato di barbarie e quindi di 'civiltà', o finalizzato al conseguimento della libertà o alla soppressione dello stato di alienazione prodotto dalla proprietà dei mezzi di produzione e dalla conseguente riduzione del lavoro umano a merce. Nel secondo caso la storia viene invece considerata come 'parte' integrante della natura, sottoposta alle medesime sue leggi oppure a leggi che ne costituiscono una specificazione, e più precisamente come una fase - di solito come l'ultima fase - di un processo evolutivo che dal mondo inorganico conduce a quello organico, e dalla vita alla coscienza. Nel terzo caso la storia viene a configurarsi come l'attuazione di un piano provvidenziale che ha come fine il regno di Dio, sia esso realizzabile sulla terra o in un mondo ultraterreno.Queste diverse forme di unità si presentano variamente combinate nella cultura moderna; né esse hanno trovato diritto di cittadinanza soltanto in ambito filosofico. Al contrario, concezione della storia e concezione della società sono strettamente intrecciate, e il loro rapporto condiziona in origine l'impostazione e le direzioni di ricerca delle scienze sociali, o almeno di alcune di esse. Se la sociologia ottocentesca ha largamente impiegato un modello interpretativo di carattere dicotomico, fondato sulla contrapposizione tra il vecchio e il nuovo sistema sociale, l'antropologia ha ripreso lo schema della successione di stato selvaggio, barbarie e civiltà che era stato elaborato nei secoli precedenti. In entrambi i casi la storia si presenta come un processo unitario, anche se articolato in 'sistemi' o tipi di società strutturalmente diversi a cui i fenomeni sociali possono venir ricondotti.

Concezioni cicliche e concezioni lineari

Se la nozione di storia è relativamente recente, la presenza di una concezione della storia più o meno esplicitamente elaborata è un fenomeno ricorrente, se non in tutte, certamente in gran parte delle società e delle culture a noi note. Basterà fare qui un paio di esempi, volutamente tratti da ambiti geografici lontani. In molte società africane il tempo è segnato dalla morte del sovrano, che comporta l'interruzione delle strutture del potere politico e anche il trasferimento fisico della capitale: ogni sovrano fissa la sede del potere in un luogo diverso da quello dei suoi predecessori. Lo spazio reca l'impronta del susseguirsi dei sovrani, e conserva quindi, attraverso i segni umani sulle cose, il ricordo del passato, o almeno del passato prossimo. Analoga è la funzione della distribuzione territoriale dei lignaggi o dell'edificazione di tumuli funerari, e via dicendo. Siamo così di fronte a una specie di spazializzazione del tempo storico, l'unica specie di memoria possibile in una società priva di scrittura. Nella società maya, invece, i libri profetici ci presentano una suddivisione del tempo in periodi di duecentocinquantadue anni, che comportano ognuno l'inizio di un nuovo ciclo.Siamo qui di fronte a una concezione della storia largamente diffusa, che vede nelle vicende umane il ripetersi di un medesimo processo. A essa si contrappone la concezione lineare della storia, la quale considera le vicende umane come una successione caratterizzata dalla relativa novità di quanto accade. Le due immagini che esse presuppongono, quella del tempo come 'cerchio' e quella del tempo come linea o come 'freccia', costituiscono i modelli più generali di interpretazione della storia. E tra questi il modello ciclico, che riflette per un verso il ritmo del giorno e della notte, per l'altro verso l'alternarsi delle stagioni e dei raccolti, è certamente il più antico; esso comporta l'assimilazione delle vicende umane a quelle naturali o, in altri termini, l'indistinzione tra 'natura' e 'cultura'. Le sue radici affondano nel pensiero mitico, nelle cosmologie che esso ha elaborato, come appare chiaro nel caso della cultura greca.

Sarebbe però un errore mettere la concezione ciclica e la concezione lineare in un rigido rapporto di successione, come se l'affermarsi della seconda significasse l'abbandono o, peggio ancora, il superamento della prima. E altrettanto erroneo sarebbe attribuirle in maniera esclusiva all'una o all'altra società, all'una o all'altra cultura, quando esse piuttosto coesistono, pur prevalendo di volta in volta e dando così la loro diversa impronta al modo di concepire la storia di un'intera epoca.Di queste due opposte concezioni si è spesso indicata l'origine da un lato nella cultura antica, dall'altro nella tradizione ebraico-cristiana e, in particolare, nella visione teologica di matrice agostiniana; si è cioè ritenuta propria dell'antichità una visione ciclica del tempo, mentre si è attribuito al giudaismo e al cristianesimo l'elaborazione di una visione lineare. Anche a prescindere dalla diffusione assai più ampia della concezione ciclica, che travalica largamente i confini del mondo europeo, un'interpretazione del genere appare però il frutto di una semplificazione arbitraria. Non c'è dubbio che il pensiero greco abbia elaborato teorie cicliche sia a livello cosmologico, come nel caso della dottrina stoica (ma già presente in Empedocle o anche in Platone) del 'grande anno' che, dopo aver ripetuto in maniera sempre identica un determinato processo, si conclude in una deflagrazione universale, sia in ambito più propriamente politico, come nella dottrina che istituisce un rapporto di successione tra le diverse forme di governo. Ma in esso si possono rintracciare anche teorie che concepiscono lo sviluppo dell'umanità come un processo di decadenza a partire da un'originaria età dell'oro, come in Esiodo, o da una costituzione perfetta, come in Platone, oppure come un cammino progressivo dallo stato ferino alla civiltà, come in Lucrezio. In generale, poi, la storiografia greca e quella romana non si ispirano a una concezione generale della storia: l'orizzonte di Polibio è costituito - se si prescinde dalla ripresa della teoria ciclica delle costituzioni che compare nel libro VI - non dalla storia dell'umanità ma dal processo di espansione di Roma a spese delle città greche, dei regni ellenistici e della potenza cartaginese.

Né, d'altra parte, la concezione lineare della storia costituisce la caratteristica distintiva della visione ebraica della storia, e neppure di quella cristiana. A base della prima vi è piuttosto la nozione di un 'patto' con Dio, il dio degli eserciti che accompagna il popolo ebreo nelle sue vicende ora portandolo alla vittoria sui nemici, ora invece punendolo per le sue colpe, e che adempirà con l'invio di un messia la promessa del riscatto dall'oppressione - dove l'idea dell''elezione' si combina con l'aspettativa dell'avvento del 'regno di Dio' sulla terra. La continuità del racconto biblico riflette appunto la convinzione dell'intervento costante della divinità a sostegno del proprio popolo. E alla base della visione cristiana vi è l'assunzione di un evento straordinario, l'incarnazione di Dio in Cristo e il suo sacrificio, come evento centrale della storia, come spartiacque tra l'umanità da redimere e l'umanità redenta, al di là del quale si apre il tempo della speranza in un regno non più terreno ma ultraterreno. Più che il carattere lineare, è il rapporto con la salvezza che costituisce la base della visione cristiana della storia, qual è stata elaborata a partire da Agostino e da Orosio. Ciò comporta una finalizzazione della storia intera alla storia della salvezza, la quale consente di recuperare la teoria della successione degli imperi - che compare, per esempio, nel sogno di Daniele, ma che era largamente diffusa nella cultura ellenistica - e di considerare l'unificazione politica del mondo civile sotto l'impero di Roma come condizione della diffusione del messaggio cristiano. E, per quanto riguarda non il passato ma il futuro, comporta una prospettiva escatologica la quale può dar luogo all'attesa di una imminente fine del mondo, e quindi del giudizio finale, oppure - come in Gioacchino da Fiore - all'attesa di una età, il 'regno dello spirito', che deve seguire al secondo regno, quello inaugurato dall'avvento di Cristo.

Sarà l'età moderna a segnare l'affermazione della concezione lineare, il più delle volte declinata nei termini di un processo positivo, di un graduale avanzamento dell'umanità verso un livello di vita superiore. Anche qui, però, occorre guardarsi dal vedere nel mondo moderno la presenza esclusiva della concezione lineare. Concezione ciclica e concezione lineare continuano a sussistere entrambe, sebbene in misura diversa; e trovano entrambe alimento anche nello sviluppo del sapere scientifico. L'astronomia ha offerto un sostegno sia alla concezione ciclica, con la visione della rivoluzione dei pianeti intorno al sole, sia alla concezione lineare, con la teoria laplaciana della genesi del sistema solare da una nebulosa originaria. E se la geologia ha contribuito anch'essa, determinando le epoche successive della terra e la comparsa delle diverse specie animali, all'affermarsi della concezione lineare, lo studio dei minerali ha rimandato piuttosto a leggi immanenti che sembrano in contrasto con essa. Più di recente, la nozione di ciclo è stata impiegata dalla teoria economica per designare l'alternarsi di periodi più o meno lunghi di espansione e di periodi di stagnazione nell'economia capitalistica, ed è stata collegata - con Schumpeter - al processo di innovazione.La maggior parte delle teorie della storia formulate a partire dal Settecento mira, a ogni modo, a determinare una linea di sviluppo dell'umanità a cui ricondurre le vicende particolari dei singoli popoli. Ciò comporta per un verso l'integrazione in un quadro unitario anche delle società extraeuropee, per l'altro verso la considerazione dell'Europa moderna come culmine di un processo del quale queste altre società diventano - in una prospettiva universale - momenti preparatori. Non mancano, è vero, tentativi di declinare al plurale la nozione di 'civiltà'; ma essi rimangono allo stato di semplici enunciazioni.

Ancora nel corso dell'Ottocento l'evoluzionismo, applicato al mondo storico, mette capo all'individuazione di una linea di sviluppo comune sia alle società storiche, sia (in ambito antropologico) alle culture 'primitive'. Soltanto nel XX secolo si avrà un parziale ritorno alla concezione ciclica, sulla base dell'assunzione di un modello organicistico; ma ciò avverrà - come vedremo - lasciando cadere, e anzi respingendo apertamente, il presupposto dell'unità del processo storico.Sovente, poi, nelle teorie della storia concezione ciclica e concezione lineare si combinano, e sono compresenti in uno stesso autore. Se la visione del processo storico come cammino verso la civiltà è indubbiamente una concezione lineare, ancora nella prima metà del Settecento s'incontra una teoria come quella vichiana dei 'corsi' e dei 'ricorsi', che prevede il ritorno dell'umanità - una volta pervenuta alla 'ragione spiegata' - al primitivo stato di barbarie, la sua caduta in una 'barbarie seconda'. Poco importa se questa barbarie sia differente da quella originaria, in quanto l'umanità è stata nel frattempo illuminata dalla 'verità' della religione cristiana; e poco importa se tale nozione sia stata formulata allo scopo di spiegare una particolare epoca storica, cioè il Medioevo. Resta il fatto che la 'storia ideale eterna' che costituisce il modello di sviluppo di tutte le nazioni prevede un ritorno all'indietro, il quale segna l'inizio di un nuovo ciclo.

Né il modello ciclico è assente nelle filosofie della storia che si affermano nella cultura tedesca alla fine del XVIII secolo. La posizione del giovane Herder è, ancora una volta, emblematica. Al ciclo storico prodotto dalla 'corrente meridionale', che ha avuto inizio nell'Oriente e si è concluso con il crollo dell'Impero romano, ha fatto seguito secondo Herder un nuovo ciclo, prodotto dalla 'corrente settentrionale', che ha i suoi protagonisti nei popoli nordici e, in particolare, in quelli germanici. La stessa vicenda di ogni singolo popolo è concepita come un processo di sviluppo e poi di decadenza, nel corso del quale esso realizza le proprie potenzialità - in maniera completa il popolo greco, in maniera incompleta gli altri. Il ciclo diventa così un elemento interno a un processo che presenta, nel suo insieme, un carattere lineare.

Progresso e decadenza

L'età moderna, al pari delle teorie della storia da essa prodotte, è però contrassegnata non tanto da una concezione lineare quanto da una sua variante specifica: quella che concepisce il processo storico come uno sviluppo positivo, come graduale accrescimento e miglioramento dell'umanità, e quindi come 'progresso'. Progresso e decadenza costituiscono infatti i due poli opposti della concezione lineare della storia. Soprattutto nell'antichità si incontrano numerose teorie che vedono invece nella storia dell'umanità un processo negativo, il distacco sempre più marcato da uno stato originario di perfezione. Queste teorie hanno la loro base nell'immagine di un''età dell'oro' che sta all'inizio della storia dell'umanità: un'immagine che ha origine nel pensiero mitico e che ha trovato la sua prima espressione letteraria in Esiodo. Anche Platone, però, pone la costituzione ideale, delineata nella Repubblica, all'inizio di un processo di degenerazione che attraverso l'aristocrazia, la timocrazia, l'oligarchia, la democrazia, mette capo alla tirannide, la quale costituisce la forma peggiore di governo. A queste teorie si contrappongono quelle che - all'inizio dell'età moderna - collocano la perfezione dell'umanità al termine del suo sviluppo, come risultato di quello che Bacone chiama l'"avanzamento del sapere" e di un corrispondente perfezionamento anche morale della natura umana.

Le teorie del progresso fanno spesso ricorso all'analogia tra sviluppo dell'individuo e sviluppo del genere umano, e concepiscono perciò quest'ultimo come una sequenza di periodi o di fasi corrispondenti alle diverse età dell'uomo. Per Bacone, e dopo di lui per molti 'moderni', l'antichità rappresenta l'infanzia dell'umanità, mentre il mondo moderno ne rappresenta la maturità. La prova della superiorità dei moderni rispetto agli antichi è indicata nella possibilità di avvalersi dell'esperienza di questi ultimi, di accrescere il patrimonio di sapere da essi acquisito e tramandato nel corso dei secoli. Il 'tempo' stesso diventa così fattore di progresso, o per lo meno il suo metro; e il futuro si presenta quindi, ad esempio in Condorcet, come un terreno aperto al progresso indefinito dell'uomo, a un miglioramento destinato a modificare la sua stessa natura fisica e morale. In seguito il posto che un popolo occupa nel tempo verrà fatto coincidere con il grado di sviluppo che esso rappresenta nel cammino ascendente dell'umanità. Per Hegel ogni popolo è un momento nel processo di realizzazione dello 'spirito del mondo', e quindi nel cammino verso la libertà - dalla libertà di uno solo contrapposta alla schiavitù degli altri negli imperi dispotici dell'Oriente alla libertà di pochi nel mondo antico, e infine alla libertà di tutti nel mondo germanico. E la linea ascendente del tempo viene a coincidere con la direzione del cammino dello 'spirito del mondo' da Oriente a Occidente, dagli altopiani asiatici in cui si svolge l'esistenza sempre eguale di popolazioni nomadi alle pianure fluviali che vedono il sorgere dell'agricoltura e la nascita delle città, fino alle zone costiere del Mediterraneo, centro della storia universale. La coincidenza delle coordinate temporali e di quelle spaziali contraddistingue così una visione del processo storico in cui non c'è posto, né può esserci, per arresti o per un ritorno all'indietro del cammino dell'umanità. Anche Marx ricorre a variabili geografiche nel determinare, almeno nella fase iniziale, le formazioni economiche della società; e nel passaggio dall'una all'altra vede all'opera un processo cumulativo, rappresentato dallo sviluppo della divisione del lavoro che contrassegna il processo produttivo.

Ma l'analogia tra sviluppo dell'individuo e sviluppo del genere umano si prestava a essere utilizzata anche in senso opposto, in funzione non di una teoria del progresso ma di una teoria della decadenza. Dopo la maturità l'individuo invecchia e giunge a morte, attraverso un declino più o meno lungo. Mentre le teorie del progresso mettono da parte questa fase terminale, le teorie della decadenza fanno leva su di essa per affermare il necessario declino di ogni popolo, una volta pervenuto al suo pieno sviluppo. È il caso, per esempio, di Vico, ma anche di altri autori che, riflettendo soprattutto sulla storia dell'antichità e sulla caduta dell'Impero romano, ne traggono la conseguenza dell'inevitabilità della decadenza, o quanto meno vedono all'opera nella storia dell'umanità un intreccio costante di progresso e decadenza. Pur essendo concetti 'polari', infatti, non sempre progresso e decadenza si escludono. Teoricamente si può pensare a un progresso che comprende periodi di decadenza, e viceversa. Se questa seconda possibilità è forse soltanto ipotetica, la prima è tutt'altro che rara. Il progresso tende a rovesciarsi nel suo opposto: questa tesi è fatta valere da Montesquieu allorché considera la decadenza romana come il risultato naturale della potenza e della grandezza di Roma. Sulla stessa linea anche Gibbon istituisce un rapporto tra prosperità e caduta, tra ascesa e declino. Prima di Condorcet le teorie settecentesche del progresso riconoscono dunque l'esistenza di periodi di stasi o di declino: anche l'Europa, dopo la caduta dell'Impero romano, è andata incontro a un lungo declino da cui è uscita faticosamente e di recente, da un lato con la nascita della scienza moderna e lo sviluppo di nuove tecniche rivolte al dominio della natura, dall'altro con il nuovo assetto politico fondato sulle monarchie nazionali. Al pari che nel passato, anche in futuro l'umanità potrà conoscere arresti nel suo sviluppo, periodi di declino. David Hume considera naturale la decadenza dei popoli una volta che abbiano raggiunto uno stato di perfezione, mentre Adam Ferguson propone meccanismi istituzionali che facciano fronte al pericolo di una decadenza simile a quella del mondo antico. Così l'alternarsi di progresso e di decadenza consente anche il recupero di una visione ciclica: solo che questa non si riferisce più all'umanità nel suo complesso, ma ai singoli popoli. Il progresso dell'umanità si realizza pertanto attraverso il ciclo ascendente e discendente dei popoli che, in modo analogo agli individui, sono destinati a decadere dopo aver raggiunto la loro maturità.

Il 'senso' della storia

Alle diverse teorie fin qui delineate, sia a quelle che scorgono nella storia il ripetersi di un medesimo ciclo sia a quelle che la concepiscono come un movimento lineare in senso positivo o negativo, come progresso o come decadenza o come un intreccio dell'uno e dell'altra, è essenziale la ricerca del 'senso' della storia. Anche questa ricerca precede il sorgere della nozione di 'storia' come processo unitario. Alla base di essa stanno lo spettacolo della transitorietà delle cose, delle alterne fortune degli uomini, delle città e degli imperi, oppure il problema del significato dell'esistenza individuale e della possibilità di 'salvezza': l'interrogativo sul significato del rapporto tra l'uomo e la storia può scaturire infatti dalle motivazioni più diverse, di carattere politico o religioso o di altro genere, oppure essere oggetto di elaborazione filosofica.

Una prima impostazione del problema consiste nel ricondurre la storia dell'umanità al corso naturale delle cose, nel concepirla cioè come parte integrante della natura. In questa prospettiva le vicende umane vengono considerate omogenee alle vicende di qualsiasi altro elemento naturale; in particolare, l'essere umano viene considerato analogo, nella sua struttura fondamentale, a qualsiasi altro essere vivente. Questa impostazione è nettamente prevalente nella concezione ciclica della storia, ma non è affatto esclusiva di questa. L'evoluzionismo ottocentesco, ad esempio, ha visto nella storia dell'umanità la fase ultima di un processo che ha avuto inizio con l'evoluzione inorganica e con quella organica: essa presenta rispetto a entrambe caratteristiche nuove, ma è in ogni caso sottoposta a leggi evolutive, sia alle leggi generali dell'evoluzione sia alle leggi specifiche dell'evoluzione superorganica. Questa impostazione mette capo alla negazione del 'senso' della storia, o per lo meno alla negazione di un suo senso specifico, che possa distinguersi da quello del processo generale dell'evoluzione.

La ricerca del 'senso' della storia richiede infatti il riconoscimento di una differenza tra esistenza umana e natura, tra la collocazione dell'uomo nel mondo e il posto che vi occupano altri esseri. Ma qui si apre una duplice possibilità, in quanto il significato delle vicende storiche dell'umanità può essere determinato nello sviluppo stesso oppure nel rapporto tra lo sviluppo e un elemento esterno, trascendente il corso della storia. Nel primo caso il 'senso' della storia coincide con la sua direzione di sviluppo, solitamente intesa in termini positivi, come miglioramento delle condizioni di vita o anche come perfezionamento intellettuale o morale. Nel secondo caso il 'senso' della storia viene individuato nella realizzazione di un 'piano' generale che non è opera degli uomini ma che è stabilito dalla volontà di un essere superiore, e alla cui realizzazione gli uomini possono, al massimo, cooperare. La prima concezione si ritrova di solito nelle teorie della storia come progresso; la seconda è indifferente all'alternativa tra progresso e decadenza, in quanto li considera entrambi in funzione di un piano provvidenziale.

La visione della storia come realizzazione di un piano a essa esterno ha sempre, è chiaro, un fondamento religioso. Non però tutte le religioni, e neppure tutte le 'religioni della redenzione' (per avvalerci della categoria weberiana), attribuiscono un 'senso' alla storia, né tanto meno le attribuiscono un significato provvidenziale. Questa prospettiva è propria delle religioni monoteistiche sorte sul tronco della tradizione ebraica che vedono nella storia il teatro dell'agire divino, poco importa che questo agire abbia la sua base nel patto stipulato con il 'popolo eletto' oppure nell'esigenza di una redenzione dell'umanità dal peccato o ancora nel comando di convertire gli altri popoli alla vera fede. È stato soprattutto il cristianesimo a dar vita a una teologia della storia incentrata sull'azione redentrice di Dio fattosi uomo, e sulla subordinazione delle vicende umane allo scopo della salvezza sia dei singoli sia dell'umanità nel suo complesso. Ne è nata una visione del processo storico come scontro tra 'città del diavolo' e 'città di Dio', tra il peso del peccato originale e la grazia divina che permette la salvezza, qual è quella delineata da Agostino; e ne è derivato anche lo sforzo di ricondurre a questo disegno le vicende degli imperi, considerati anch'essi strumenti dell'agire divino.

La concezione della storia come realizzazione di un piano provvidenziale mette infatti capo a una considerazione del processo storico come 'storia sacra'. Ma la storia sacra può essere contrapposta alla storia profana, oppure inglobarla in sé, senza possibilità di distinzione. Nel primo caso la storia sacra costituisce una sezione verticale del processo storico, essa sola fornita di 'senso': è la storia della 'città di Dio', costruita muovendo dal racconto biblico della creazione del mondo al momento centrale dell'incarnazione, per proseguire quindi nella storia della Chiesa ritenuta istituzione sui generis di origine divina. In questa maniera storia sacra e storia profana obbediscono a due logiche diverse, in quanto la storia profana risulta irrilevante per la realizzazione del piano provvidenziale, e quindi priva di significato, oppure le viene attribuito un significato subordinato. Nel secondo caso l'intero processo storico acquista 'senso', in quanto ogni suo momento viene visto in collegamento con il piano provvidenziale. Quando Herder indica nella storia dell'umanità "il corso di Dio attraverso le nazioni", o Hegel concepisce la storia universale come lo sviluppo dello "spirito del mondo", la storia intera ne risulta sacralizzata - anche se, in quest'ultimo caso, siamo piuttosto di fronte a una versione secolarizzata della provvidenza. Provvidenza e progresso vengono infatti a coincidere; lo sviluppo dell'umanità verso un livello di vita superiore rientra anch'esso nel disegno divino.L'alternativa che vede il 'senso' della storia nella direzione del processo storico si è fatta valere soprattutto in seno alle teorie del progresso, che hanno accompagnato il sorgere della nozione di 'storia' come processo unitario. All'antitesi tra progresso e decadenza l'età moderna ha sostituito quella tra progresso e provvidenza, facendo della decadenza un momento interno di uno sviluppo progressivo.

Più che come risultato di un processo di secolarizzazione della visione ebraico-cristiana della storia, come ebbe a presentarle Karl Löwith, le teorie della storia come progresso costituiscono un'alternativa radicale a essa, in quanto trasferiscono da Dio all'umanità la capacità di organizzare le vicende umane in base a un piano. Esse lasciano cadere non soltanto la distinzione tra storia sacra e storia profana, ma la possibilità stessa di una storia sacra. La storia diventa il cammino, più o meno continuo, attraverso cui l'umanità si solleva dallo stato selvaggio, ancora visibile nelle condizioni di esistenza delle popolazioni indigene del continente americano, alla civiltà. E questo cammino non è governato da alcun disegno provvidenziale; è il risultato dell'opera degli uomini nel corso di innumerevoli generazioni, di un'opera dapprima inconsapevole e poi sempre più consapevole. I fini che gli uomini perseguono sono posti da essi stessi; le società si sono organizzate sulla base di progetti umani, e la religione stessa è un prodotto dell'uomo che ha contribuito all'incivilimento dell'umanità, così come, quando si è associata al fanatismo e all'intolleranza, è stata invece fattore di barbarie.

Entrambe queste alternative, però, fanno riferimento alla storia considerata come processo unitario; presuppongono cioè un 'senso' immanente o trascendente, che in qualche maniera sovrasta l'agire del singolo individuo. Per questo motivo il declino delle teorie del progresso, che si è compiuto a partire da metà Ottocento, ha messo in crisi anche la ricerca del 'senso'. Se nel processo storico non si può ravvisare una direzione più di quanto vi si possa scorgere la realizzazione della volontà divina, allora esso non ha neppur più un 'senso' immanente, intrinseco al processo stesso; i suoi momenti non hanno altro significato al di fuori di quello attribuito dagli attori del processo, dai singoli uomini (o gruppi sociali). La storia riceve il proprio 'senso' dall'agire degli uomini che la producono, o dal sapere storico che ne interpreta, ricostruendole, le vicende. La ricerca del 'senso' si risolve così nello sforzo umano di dare significato agli avvenimenti, sia che questo sforzo venga compiuto all'atto di produrli sia che ci si rivolga a essi assumendoli come oggetto di indagine da parte della storiografia (e delle scienze sociali).

La storia e le 'storie'

L'abbandono della ricerca del 'senso' della storia va di pari passo con la crisi della nozione di storia come processo unitario. Se la scoperta di questa nozione ha costituito, dal Settecento in poi, la base della filosofia della storia, il rifiuto di questa ha condotto anche all'abbandono, o per lo meno a una riformulazione radicale, di tale nozione. Decisivo è stato, al riguardo, lo storicismo contemporaneo, a partire da Dilthey. Il problema della storia si è trasformato infatti nel problema della storicità dell'uomo, della sua capacità di proporsi scopi e di produrre valori diversi da epoca a epoca, da società a società. È così venuta meno la possibilità di concepire la storia come unità, come totalità onnicomprensiva. A ciò si affiancava un'altra svolta, non meno decisiva. La determinazione di una linea unitaria di sviluppo comportava, come si è visto, l'integrazione delle società extraeuropee in un quadro storico-geografico che aveva il proprio centro di riferimento nella società europea, considerata in una prospettiva fondata sul postulato della continuità tra antichità e mondo moderno. Questa integrazione era quindi, in realtà, un'assimilazione, che conduceva a presentare quelle società come una specie di premessa alla marcia avanzante della civiltà europea, oppure come direzioni di sviluppo 'bloccate' o quanto meno in ritardo rispetto a essa. E poco importa che questa impostazione si accompagnasse talvolta al vagheggiamento dell'Oriente biblico, come in Herder, o al mito di un'origine comune dei popoli indoeuropei, come in Friedrich Schlegel. Se le teorie della storia come provvidenza privilegiavano la tradizione ebraico-cristiana, ed ereditavano quindi dall'Antico Testamento la fede nella centralità del popolo ebreo, le teorie della storia come progresso adottavano invece inevitabilmente una prospettiva eurocentrica.

Il distacco da questa è cominciato con lo studio non tanto delle società extraeuropee che avevano prodotto forme di civiltà diverse da quella europea, quanto delle culture che venivano considerate 'primitive'. Se l'antropologia ottocentesca aveva delineato un processo evolutivo articolato in stadi successivi, instaurando un parallelo tra le tribù del continente americano e l'organizzazione gentilizia vigente in Grecia e a Roma, e aveva indicato nella fase arcaica della storia antica il momento di passaggio dalla barbarie alla civiltà, la ricerca antropologica dei primi decenni del XX secolo ha invece posto in luce l'individualità di ogni cultura, la peculiarità dei modi di vita dei gruppi sociali che ne sono portatori e dei sistemi di valori da essi riconosciuti. Il principio storicistico dell'individualità veniva così applicato a ogni società, con il risultato di mettere in crisi la riduzione a una linea unitaria di sviluppo proprio là dove essa sarebbe stata forse meno difficile.

La vera svolta avveniva però su un altro terreno, non scientifico ma filosofico, ed era legata al venir meno della fiducia nella sopravvivenza stessa della civiltà europea all'indomani di una guerra fratricida come quella del 1914-1918. Il "tramonto dell'Occidente" proclamato da Oswald Spengler si presentava come caso particolare di un destino di morte comune a tutte le civiltà, passate e presenti. E ciò presupponeva non solo la ripresa della concezione ciclica, ma anche l'abbandono della nozione della storia come processo unitario. L'umanità non è altro che un concetto zoologico, e quindi non possiede una 'storia'; ciò che storicamente esiste sono le singole culture, le quali nascono, si sviluppano e decadono in modo uniforme, ma rimanendo irriducibili l'una all'altra. L'unità del processo storico si risolve così nella pluralità delle culture.Questa pluralità è però suscettibile di una duplice interpretazione. Quella di Spengler era un'interpretazione radicale, la quale comportava, al limite, l'assenza di qualsiasi rapporto che non si riduca a un contatto estrinseco, e quindi l'impossibilità di comunicazione e di comprensione reciproca tra le culture. Tutte le culture, indipendentemente dall'epoca in cui sono sorte, sono tra loro contemporanee; soltanto più tardi, nelle opere apparse postume, Spengler parlerà in maniera sempre più fantasiosa di 'catene' tra le culture, di rapporti di successione.

Diversa, e in polemica esplicita con quella spengleriana, è l'interpretazione di Arnold J. Toynbee, per il quale la storia è sì storia di civiltà, ma è anche il luogo in cui queste si incontrano e si scontrano, e in cui le civiltà posteriori ereditano il patrimonio culturale di quelle che le hanno precedute. Anzi, Toynbee recuperava l'unità della storia, anche se in una prospettiva religiosa. Se Spengler riprende il concetto di ciclo applicandolo alle singole culture, Toynbee finisce per postulare un progresso religioso dell'umanità, considerando le varie civiltà come le 'ruote' che consentono all'umanità di progredire verso un livello di esistenza superiore. Entrambe queste teorie della storia sono state, e con fondati motivi, sottoposte a critica, ed è stata contestata l'attendibilità di molte delle loro ricostruzioni; tuttavia esse hanno contribuito a modificare in profondità il modo d'intendere il processo storico. Il vecchio schema tripartito che vedeva la storia suddivisa in antichità, Medioevo ed età moderna è stato relativizzato, rivelandosi valido soltanto in riferimento all'ambito europeo. La stessa continuità tra civiltà antica e civiltà moderna appare problematica; né d'altra parte la cultura europeo-occidentale può più esser considerata, se si tien conto dell'importanza dell'Impero bizantino e della sua influenza nel mondo slavo, l'erede esclusiva di quella greco-romana.

Che, al di fuori dell'ambito geografico europeo, si siano sviluppate società e culture fornite di una fisionomia specifica, e che queste abbiano percorso cammini differenti, è oggi una tesi unanimemente riconosciuta. Del resto, anche un'interpretazione del processo storico in chiave di progressiva razionalizzazione, qual è quella di Max Weber, sottolinea la pluralità delle forme e delle direzioni di tale processo, e il carattere unico dello sviluppo occidentale e del suo esito. Se la concezione magica del mondo, legata alla struttura del gruppo parentale, presenta una relativa omogeneità, il sorgere delle religioni della redenzione e la diversità delle vie di salvezza da esse indicate ha aperto la strada a un processo sempre più divergente.La pluralità delle culture e del loro processo storico non comporta però necessariamente l'abbandono della nozione di 'storia', ma piuttosto la sua articolazione in diverse 'storie' che sono in parte indipendenti, e in parte invece s'intrecciano. E proprio l'unificazione economica del globo - quella che Marx indicava come la nascita di un 'mercato mondiale', e che va oggi sotto il nome di 'globalizzazione' - rende impossibile mantenere il postulato spengleriano di una molteplicità irriducibile di culture.

La visione che si impone è piuttosto quella di un complesso rapporto tra l'Occidente e il mondo, la visione di un processo che ha condotto la società europea, nel corso dell'età moderna, a svilupparsi in una maniera che le ha poi consentito di espandersi sull'intera superficie della terra, e che ha costretto le altre società a recepirne le acquisizioni e a reagire a essa. In questa prospettiva Immanuel Wallerstein ha delineato la costruzione di un'economia-mondo, a partire dalla metà del XV secolo, che tende a inglobare progressivamente tutte le regioni riducendole a periferie o a semiperiferie del 'centro' capitalistico del sistema economico internazionale. Se le teorie storiche del primo Novecento hanno posto in luce l'autonomia delle società e delle culture, la loro irriducibilità a un medesimo processo di sviluppo, le vicende posteriori - soprattutto quelle della seconda metà del secolo - hanno portato in primo piano l'esigenza di coglierne i rapporti, di determinare come questi siano venuti configurandosi diversamente nel corso dei secoli.

All'unità del processo storico si sostituisce così l'unità di un quadro che permetta di render conto della diversità dei percorsi seguiti dalle diverse società, ma anche del loro incontro nel passato come nel presente. La nozione di 'storia' elaborata nel corso del Settecento non viene quindi a cadere, ma sembra piuttosto richiedere una profonda riformulazione. In questa visione di un processo 'plurale' ma interrelato concetti come quelli di ciclo, di progresso e di decadenza, a cui le tradizionali teorie della storia facevano riferimento, risultano ormai di scarsa utilità, o quanto meno richiedono di essere riformulati: la storia non costituisce un ciclo, ma conosce cicli, soprattutto cicli economici; non è né progresso né decadenza, ma conosce momenti di sviluppo e di declino che riguardano il più delle volte non tanto le società nel loro insieme, quanto aspetti e settori della loro vita. L'intero apparato concettuale della nostra comprensione della storia esige di venir adeguato non soltanto ai risultati della ricerca storiografica e delle scienze sociali, ma anche alle trasformazioni del mondo in cui viviamo.

(V. anche Civiltà; Cultura; Decadenza; Progresso; Storiografia e società).

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