Giustizia, teorie della

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Giustizia, teorie della

OOtfried Höffe

sommario: 1. Introduzione. 2. La concezione della giustizia. a) La giustizia come retaggio dell'umanità. b) La giustizia formale. c) La semantica della giustizia. d) La giustizia personale e politica. 3. L'esito scettico delle moderne teorie della giustizia. a) Il giuspositivismo. b) La teoria dei sistemi. c) L'utilitarismo. 4. Giustizia naturale e giustizia procedurale. 5. Giustizia politica e teorie contrattualistiche. a) L'idea fondamentale. b) La giustizia come equità: J. Rawls. c) La teoria del titolo valido: R. Nozick. d) La giustizia come scambio: O. Höffe. e) La giustizia politica internazionale. 6. Giustizia sociale e intergenerazionale. a) La giustizia sociale e correttiva. b) La giustizia internazionale. □ Bibliografia.

1. Introduzione

È un fine condiviso dall'umanità intera fin dai suoi albori che nel mondo debba regnare la giustizia. Ma nel momento in cui si tenta di definire in che cosa essa consista - e quindi in base a quale criterio si debba giudicare qualcosa come giusto o ingiusto - allora emerge un profondo disaccordo, che possiamo osservare tanto nei dibattiti quotidiani, quanto nella politica, nella scienza e nella filosofia. Già il più antico ‛trattato' dell'Occidente sulla giustizia, il dialogo di Platone la Repubblica o Περὶ δικαίου (Sopra il giusto) (v. Höffe, Platon..., 1997), dedica l'ampio primo libro a una discussione che vede contrapporsi le differenti opinioni che circolavano a quel tempo tra i cittadini e gli ‛intellettuali', i sofisti.

Questa situazione di disaccordo potrebbe indurre allo scetticismo: se dopo un dibattito durato secoli non si è ancora arrivati a definire in modo univoco i principî della giustizia, sembrerebbe infatti imporsi quel relativismo che reputa inutile la ricerca di principî validi in generale e che rinuncia, almeno nella discussione scientifica, al concetto di giustizia. Di fatto nella teoria del diritto e dello Stato il concetto di giustizia è tramontato. A ciò si aggiunge poi, segnatamente in ambito politico, il sospetto che chi si appella ancora alla giustizia favorisca un'illegittima ‛moralizzazione' della politica.

Da circa tre decenni, tuttavia, lo scenario è mutato. Sulla base soprattutto dell'influente opera di John Rawls A theory of justice (1971) è sorto un vasto dibattito internazionale sul tema della giustizia. Il ‛nuovo discorso sulla giustizia' - di cui sono protagonisti filosofi, giuristi, economisti e sociologi - è interdisciplinare. Esso si avvale di moderni strumenti argomentativi come la teoria della decisione e la teoria dei giochi, e grazie a questi rimane completamente libero da toni moralistici. Ciò non significa che il modo di concepire la giustizia sia del tutto libero da controversie. Anzitutto, ci sono ancora posizioni scettiche (v. cap. 3); per giudicare la loro rilevanza e passare poi a una forma di giustizia non controversa, la giustizia procedurale (v. cap. 4), si deve chiarire preliminarmente il punto di vista della giustizia, ovvero il suo concetto (v. cap. 2). Nell'ambito del dominante paradigma contrattualistico della giustizia politica ci sono diverse posizioni (v. cap. 5), tra le quali un caso speciale è costituito dalla giustizia sociale, comprendente quella intergenerazionale (v. cap. 6).

2. La concezione della giustizia

a) La giustizia come retaggio dell'umanità

Il relativismo etico-giuridico pone in dubbio la possibilità di una fondazione della giustizia non condizionata storicamente e culturalmente. Questa posizione, diffusa soprattutto tra sociologi e giuristi (ad esempio, R. V. Jhering e M. Weber), è stata sostenuta in modo eminente da Hans Kelsen (v., 19602), successivamente dal teorico della giustizia Chaim Perelman (v., 1945) e di recente dal filosofo morale Alasdair MacIntyre. Come è suggerito da una delle domande che compongono il titolo di una sua opera - Whose justice? -, MacIntyre (v., 1988) non riconosce alla giustizia alcun principio universale e arriva addirittura a contestare la validità metastorica dei diritti umani (v. MacIntyre, 19852; sulla stessa linea v. anche Rorty, 1989, mentre su posizioni contrapposte, pur dopo un primo approccio, anch'esso, di tipo scettico, v. Lyotard, 1983). In una prospettiva neocomunitaria (v. neocomunitarismo, vol. XI), MacIntyre difende gli stili di vita e le consuetudini, prodottisi nel tempo, di una data comunità (community). Altri neocomunitari (v. Sandel, 1982; v. Taylor, 1991) parlano di shared values o shared convictions, ossia di valori e convinzioni condivisi.

Secondo Höffe (v., ‟Sed auctoritas..., 1996) i sostenitori del neocomunitarismo compiono un errore di prospettiva: nella misura in cui essi non distinguono in modo sufficientemente chiaro le rappresentazioni della giustizia - che vengono tramandate, così come i diversi principî distributivi - da un nucleo (non controverso), sfugge loro la possibilità di partecipare della giustizia, partecipazione che viene condivisa da tutte le culture a noi conosciute. Anche M. Walzer in Spheres of justice (v., 1983) presta troppo poca attenzione al fatto che ci siano oltre a principî di giustizia specifici a seconda delle sfere (che egli giustamente prende in considerazione, anche se non per primo: v., in proposito, Tönnies, 1887), anche principî validi indipendentemente da tali sfere. Essi sono un retaggio dell'umanità intera, una ‟shared justice", una giustizia che già empiricamente è valida, non solo in un territorio e in un'epoca determinati. Questa giustizia che travalica culture ed epoche - e che in questo senso può essere definita universale - permette di parlare dell'umanità intera come di una comunità morale, meglio ancora come di una comunità di giustizia. I fondamenti della comunanza sono antropologici. Da un lato, cioè dal lato della sfida (challenge), essi sono costituiti dalla limitatezza del territorio e dalla scarsità dei beni disponibili, i quali, insieme alla libertà d'azione degli uomini, portano alla concorrenza e al conflitto; dall'altro lato, cioè dal lato della risposta (response), essi sono costituiti dalle comuni capacità linguistiche e razionali.

La nostra epoca, in particolare, proprio perché è l'epoca della globalizzazione, richiede un discorso interculturale sulla giustizia e una giustizia condivisibile dall'umanità intera, ovvero universale. Quest'ultima prende le mosse dall'imperativo dell'uguaglianza (‛casi uguali devono essere trattati in modo uguale'), che viene formulato anche come divieto di arbitrio e imperativo di imparzialità e al quale sono d'ausilio i principî della giustizia procedurale (v. cap. 4). Per evidenziarne l'imparzialità, l'arte figurativa (v. Kissel, 1984) rappresenta la giustizia con gli occhi bendati e con una bilancia. Sono riconosciute universalmente anche l'idea di reciprocità, come viene espressa nella regola aurea, e l'esigenza di equità nel prendere e nel dare (giustizia commutativa), la cui applicazione non si limita certamente ai rapporti economici (v. cap. 5).

Alla giustizia universale appartiene inoltre il riconoscimento di beni giuridici come il corpo e la vita, la proprietà e il buon nome (l'onore), riconoscimento che si avvicina all'idea dei diritti umani, specialmente dei diritti di libertà, e che trova testimonianza già nel diritto penale dell'antico Oriente. Al retaggio comune dell'umanità appartiene anche quell'idea di giustizia correttiva - sviluppata nella trattazione aristotelica della giustizia, contenuta nel V libro dell'Etica Nicomachea (v. Bien, 1995) - che esige una compensazione per il torto subito (v. cap. 6). Tale compensazione non va intesa nel senso letterale di uno ius talionis (‛occhio per occhio, dente per dente'), bensì nel senso che un torto maggiore esige una compensazione maggiore e un torto minore una minore. In età arcaica l'umanità si aspettava che in generale convenisse fare il bene e costasse caro fare il male, in parte già nella vita terrena (si pensi alla vicenda biblica di Giobbe; v. anche Platone, Repubblica, IX, 576b ss.), in parte per il prolungamento delle conseguenze delle proprie azioni nella vita ultraterrena. E questa aspettativa non riguardava solo l'ambito religioso (per il periodo pregiudaico, per l'Egitto e la sua idea di Maat, di giustizia connettiva, v. Assmann, 19952), ma anche quello filosofico (Repubblica, X, 608c ss.).

b) La giustizia formale

Un precedente nella definizione del retaggio della giustizia comune all'umanità è rappresentato dalla giustizia formale o astratta di Perelman. In De la justice Perelman (v., 1945) cerca il nucleo comune ai diversi e contrastanti principî distributivi e lo rintraccia nell'imperativo dell'uguaglianza: ciascuno deve essere trattato secondo lo stesso criterio. L'imperativo viene soddisfatto dall'applicazione imparziale delle regole. Perelman, tuttavia, non tenta di completare tale imparzialità di primo livello - relativa all'applicazione delle regole - con un'imparzialità di secondo livello, concernente la determinazione stessa delle regole, in virtù della quale il criterio che guida la distribuzione dei beni e degli oneri sarebbe definibile senza prendere in considerazione la persona specifica: non ci si deve aspettare un'unica regola per tutti gli ambiti dell'esistenza. Nei diritti umani e fondamentali conta l'uguaglianza (‛a ciascuno secondo il proprio valore esclusivamente in quanto uomo'), per la sicurezza primaria dell'esistenza si impone invece l'aspetto della necessità (‛a ciascuno secondo i propri bisogni'); infine, nel mondo del lavoro e degli affari conta il principio del profitto, così come nella procedura penale è decisiva la gravità della lesione del diritto, connessa alla capacità di intendere e di volere.

c) La semantica della giustizia

Nonostante la svolta generale verso approcci di tipo filosofico-linguistico (linguistic turn) le ricerche semantiche attorno al concetto di giustizia sono sorprendentemente rare. Alcuni accenni possono essere rinvenuti in Hayek (v., 1976) e in Lucas (v., 1980) e, più dettagliatamente, in Höffe (v., 1987). La domanda di giustizia - nella sua originaria semplicità - sorge dalla constatazione che la prassi umana può essere così, ma anche altrimenti, e che essa, nel suo configurarsi di volta in volta in modo diverso, dipende da soggetti capaci di intendere e di volere. Più specificamente si tratta della prassi sociale e, al suo interno, delle situazioni conflittuali che emergono nelle relazioni personali, nei rapporti d'affari, nelle istituzioni sociali - in modo particolare nel diritto e nello Stato -, nelle relazioni tra gli Stati, e non da ultimo nei rapporti tra i contemporanei e le future generazioni. Nella sfera dei giudizi od obblighi sociali, la giustizia non fa parte di quelli che vigono concretamente, ossia di quelli meramente positivi, bensì di quelli puramente normativi e sovrapositivi. Questi si possono disporre secondo tre livelli gerarchicamente ordinati, ai quali corrispondono altrettanti significati di ‛buono'. La giustizia si colloca al terzo e supremo livello, quello morale in senso stretto.

Al primo livello di giudizio (o di obbligo), mezzi, vie e procedure vengono valutati a partire da un qualunque fine o scopo, che di volta in volta si sia presupposto. Gli obblighi corrispondenti - strumentali, funzionali, tecnici o strategici - significano ‛buono per qualcosa (qualsiasi cosa)'. Al secondo livello i fini o gli scopi, che al primo livello non vengono tematizzati in senso normativo, sono giudicati in base all'interesse o al benessere di coloro che sono coinvolti; ‛buono' significa qui ‛buono per qualcuno'. A causa dell'orientamento al benessere che lo caratterizza, questo livello è stato definito ‛pragmatico' a partire da Kant (Kritik der reinen Vernunft, A 800/B 828). Se si tratta del bene di un singolo si ha un giudizio pragmatico individuale, mentre se si tratta del bene di un gruppo si ha un giudizio pragmatico sociale, che, essendo conforme a un criterio utilitaristico, vincola ogni agire al benessere degli individui coinvolti. Secondo una concezione collettiva del bene comune (di tutti), il diritto, lo Stato e la politica vengono orientati in base a fini quali la stabilità, la sicurezza e il benessere generale.

Chi ritiene di avere già raggiunto in tal modo il livello più alto, non prende in considerazione la possibilità di giudizi del tipo ‛astuto, ma ingiusto' o ‛forse sciocco, ma onesto' o, con riferimento a una prospettiva utilitaristica, ‛favorevole al bene comune, ma ingiusto'. Il secondo livello è infatti indifferente rispetto alla distribuzione del bene comune. Il terzo livello, puramente morale, va oltre tale indifferenza. Il bene comune viene inteso in senso distributivo e, secondo un presupposto più stringente, ‛buono' non significa solamente ‛buono per un gruppo', bensì ‛buono per ciascuno singolarmente'. Interviene così un obbligo che non si lascia annullare da altri obblighi e rispetto al quale non si può negoziare; in quanto esigenza morale, la giustizia è valida incondizionatamente (categoricamente). La giustizia, tuttavia, non esaurisce l'intero ambito della morale. Non solo non vengono ricompresi, al suo interno, eventuali doveri umani, ma anche nell'ambito della morale sociale la giustizia riguarda soltanto una piccola parte. Mentre di fronte alla mancanza di compassione, di carità e di generosità - e forse anche di gratitudine e di disponibilità al perdono - si prova delusione, di fronte alla mancanza di giustizia si alza l'indignazione e la protesta (v. Honneth, 1990; v. Shklar, 1990; per indagini storiche v., ad esempio, Moore, 1978). Nel primo caso ci troviamo di fronte a obblighi il cui riconoscimento è meritorio - la tradizione filosofica parla di doveri della virtù (Tugendpflichten); nel secondo caso, invece, intervengono, in materia di giustizia, i cosiddetti ‛doveri del diritto' (Rechtpflichten), la cui caratteristica è quella di essere reciproci. La giustizia si distingue anche dalle forme secolarizzate di amore per il prossimo, di fratellanza o solidarietà: un agire solidale possiamo chiederlo agli altri o sperarlo; la giustizia invece possiamo pretenderla. A un'analisi più ravvicinata, ciò che sembra un dovere di solidarietà può tuttavia rivelarsi istanza di giustizia: aiutare qualcuno in una situazione di emergenza per la quale non si hanno responsabilità, testimonia compassione o solidarietà; ma se abbiamo contribuito a determinare quell'emergenza, allora offrire aiuto è compito della giustizia.

d) La giustizia personale e politica

Secondo i due aspetti della prassi sociale vi sono, da un punto di vista tematico, due concetti di giustizia. Il concetto istituzionale (‛oggettivo') riguarda le istituzioni e i sistemi sociali, come il matrimonio e la famiglia, l'economia, le scuole, le università e - in quanto giustizia politica - lo Stato, il diritto e la politica. Il concetto personale (‛soggettivo') intende, al contrario, la giustizia come caratteristica delle persone, e tale giustizia tradizionalmente viene annoverata - accanto alla prudenza, alla temperanza e al coraggio - tra le quattro virtù cardinali.

Mentre l'antichità discute entrambi gli aspetti, il Medioevo (cristiano) si interessa soprattutto della giustizia personale. Nel corso dell'età moderna quest'ultima perde di rilevanza rispetto alla giustizia istituzionale, e in particolare politica, perché le esigenze dell'etica personale vengono ritenute sempre meno conformi ai problemi delle società moderne. Il diffuso assunto, secondo il quale la giustizia personale avrebbe dunque perso di significato, è tuttavia falso. Da un lato, essa è presente là dove, per dirla con Nietzsche (v., 1887; tr. it., p. 273), ‟l'alta, chiara, tanto profonda quanto mite di sguardo, obiettività di un occhio imparziale, di un occhio giudicante non si turba". Dall'altro lato, la giustizia personale fa parte delle condizioni funzionali della società moderna. Anche se non proprio integralmente, essa rientra, in una certa misura - dal lato dei cittadini e dei funzionari -, tra i principî morali, senza i quali lo Stato democratico di diritto e costituzionale non sopravviverebbe. La giustizia personale (Rechtschaffenheit, ‛onestà') soddisfa le esigenze della giustizia istituzionale in modo volontario e per di più costante - in modo, per così dire, abituale -, non solo, quindi, occasionalmente e per timore delle sanzioni; essa rappresenta, pertanto, un baluardo contro l'incremento del potere statale, che altrimenti assumerebbe dimensioni preoccupanti. Essa contribuisce, inoltre, ad affermare la giustizia anche là dove le norme vigenti risultino insufficienti o di incerta applicazione. Della giustizia personale hanno bisogno anche i funzionari, ad esempio, i membri degli organi legislativi e costituzionali. Solo chi dispone di giustizia personale in misura adeguata si impegna, anche contro il proprio interesse, per una maggiore giustizia nei rapporti economici, sociali e politici. Dove manca una siffatta giustizia civile, la legislazione e le leggi costituzionali seguono solo gli interessi della maggioranza del momento, e pertanto la democrazia rischia di trasformarsi in ciò che avevano preconizzato tanto Platone (Repubblica, VIII, 555b ss.), quanto Aristotele (Politica, IV, 4, 1290b1 s.): una tirannia dei molti. Non da ultimo, la giustizia personale costituisce un'importante barriera contro la possibilità che i cittadini facciano scivolare il loro ordinamento giuridico in uno ‛Stato non di diritto' (Unrechtsstaat). E nel caso di alcune professioni (cosa che Luhmann ha mancato di rilevare), come per i giudici, i politici, e forse anche per gli operatori dei media, essa fa parte delle condizioni senza le quali il relativo sistema - quello giudiziario, quello della politica e quello dei media, il cosiddetto ‛quarto potere' - non funzionerebbe.

Tre elementi della semantica meritano particolare attenzione: la giustizia - intesa come massimo traguardo della vita umana e come fondamento ultimo della legittimazione di una collettività - esprime un obbligo di tipo morale (categorico); più nello specifico, essa fa parte degli obblighi che non si basano sulla libera inclinazione, né vanno al di là di ciò che è dovuto; suo criterio è un vantaggio distributivo (‛vantaggioso per ciascuno singolarmente'). Rawls (v., 1971; tr. it., p. 21) ritiene, a ragione, che la giustizia sia ‟il primo requisito delle istituzioni sociali così come la verità lo è dei sistemi di pensiero".

3. L'esito scettico delle moderne teorie della giustizia

Ciascuno dei tre elementi suddetti può condurre allo scetticismo: l'obbligo generale, ad esempio, conduce a un tale esito nel relativismo comunitarista (v. cap. 2, § a) e nella teoria dei sistemi, il momento del dovere nel giuspositivismo e il vantaggio distributivo nell'utilitarismo. In questo ambito l'efficace teoria della giustizia di Rawls si confronta con l'utilitarismo, mentre l'analisi di Höffe (v., 1987) affronta anche il giuspositivismo e la teoria dei sistemi di Luhmann (a tal proposito, v. anche Höffe, 1990).

a) Il giuspositivismo

Il giuspositivismo non è una teoria omogenea, bensì una famiglia assai ramificata di posizioni teoriche - con pretese ora maggiori, ora minori - sul diritto e sullo Stato. In quanto teoria di una scienza giuridica autonoma - da Of laws in general di Bentham, fino al Concept of law di H. L. A. Hart, attraverso The province of jurisprudence determined e la Reine Rechtslehre di H. Kelsen -, esso può essere definito come una scienza libera il più possibile da elementi tanto politici (‛ideologici'), quanto morali. In tal senso il giuspositivismo sostiene la tesi, spesso male interpretata, della separazione tra diritto e morale; la quale - se intesa rettamente - vuole semplicemente affermare che il diritto positivo vigente è concettualmente diverso dal diritto moralmente desiderabile o giusto. Anche se secondo Kelsen (v., 19602; tr. it., p. 8) ‟il problema della giustizia in quanto problema collegato a valori sta al di fuori di una teoria giuridica che si limiti a un'analisi del diritto positivo, inteso come realtà del diritto", il giuspositivismo non nega che la giustizia sia di importanza capitale per la politica del diritto; esso afferma piuttosto che la differenza essenziale tra dottrina del diritto naturale e giuspositivismo risiede nella ‟indipendenza della validità del diritto positivo rispetto a una norma della giustizia" (ibid., p. 360).

Più radicale è quel positivismo giuridico che vuole definire il diritto positivo - complessivamente e in modo esaustivo - senza ricorrere a elementi di giustizia. L'ambito di discussione è individuato dalla nota frase di Hobbes (Leviatano, cap. 26): ‟non veritas, sed auctoritas facit legem" (v. Höffe, ‟Sed auctoritas..., 1996). Secondo la teoria imperativistica in essa implicata - sostenuta anche da Bentham e da Austin - e caratterizzabile come ‛positivismo ingenuo', il diritto risulta essere un ordinamento di potere privo di autorizzazioni. Secondo il ‛positivismo riflessivo' di Kelsen, invece, il diritto necessita di autorizzazione, tanto da apparire come una gerarchia di autorizzazioni che poi, secondo il ‛giuspositivismo' di Hart, dipenderebbe da un riconoscimento di natura empirica da parte dei soggetti coinvolti. In tutte e tre le posizioni non si può ancora distinguere sufficientemente il diritto dal potere criminale. Fa parte, dunque, di un concetto selettivo (v. Höffe, 1987) la giustizia che si pone come fonte di definizione del diritto. Tale tipo di giustizia trova il proprio riscontro nel fatto che la coercizione sociale - detta, appunto, ‛diritto' - torna a vantaggio non di altri (ad es., dei ‛capimafia'), bensì degli stessi soggetti coinvolti. L'insieme dei soggetti che soggiacciono alla coercizione coincide con quello dei soggetti avvantaggiati dalla coercizione stessa. A ciò si aggiunge la giustizia procedurale dei procedimenti giudiziari, momento fondamentale della giustizia, senza il quale l'ordinamento giuridico e l'ordinamento statale sarebbero del tutto indistinguibili dalle regole e dall'organizzazione delle associazioni malavitose.

b) La teoria dei sistemi

Il sociologo e teorico dei sistemi Niklas Luhmann contesta il concetto di giustizia con tre diversi argomenti.

1. In Legitimation durch Verfahren (v. Luhmann, 1969) egli sviluppa una teoria sociale del moderno in cui viene sostenuto un giuspositivismo di impronta storico-sociale, ovvero proprio di una teoria della modernità. Secondo Luhmann, il diritto nell'età moderna si è reso normativamente autonomo, acquisendo in tal modo una capacità di mutamento in precedenza sconosciuta. Luhmann (v., 1990) si inserisce, così, nella tradizione segnata dalla tesi della progressiva neutralizzazione sostenuta da Carl Schmitt (v., 1940), secondo la quale le società moderne sarebbero diventate ‛neutrali' innanzitutto nei confronti della metafisica, poi della religione e infine della morale (e con essa anche della giustizia). In questo senso Luhmann (v., 1981; tr. it., p. 136) afferma che nell'età moderna si è giunti alla ‟istituzionalizzazione della piena discrezionalità delle trasformazioni del diritto". Si tratta tuttavia di un errore di prospettiva: Luhmann trascura, infatti, il concetto di giustizia come fonte di definizione del diritto, concetto vero in generale, anche nell'età moderna, e che egli stesso riconosce nel momento in cui lega la validità del diritto al consenso, e quindi, almeno indirettamente, a un vantaggio distributivo. Inoltre, in contrapposizione al mero esercizio del potere, egli ritiene legittima la soluzione pacifica dei conflitti. A ciò si aggiunga la circostanza che proprio lo sviluppo del diritto, nell'età moderna, è caratterizzato dal crescente riconoscimento dei principî di giustizia, come la democrazia, i diritti di libertà, la dimensione sociale dello Stato e la difesa dell'ambiente. La capacità di trasformazione, riconosciuta al diritto - in termini che non hanno precedenti -, non è assoluta, ma va a collocarsi entro l'ambito circoscritto dai suddetti principî di giustizia.

2. Alcuni anni più tardi Luhmann ha riconosciuto che nei sistemi giuridici della società moderna esiste uno spazio per la giustizia. Nella sua monografia Ausdifferenzierung des Rechts (1981) se, da un lato, egli congeda il concetto tradizionale di giustizia, dall'altro, però, lo sostituisce con una concezione teorico-sistemica. Di fronte all'estrema complessità della società moderna, il sistema giuridico, per essere ancora efficiente, dovrebbe aumentare anche la propria complessità, ad esempio la sua articolazione interna e la capacità di elaborare informazioni; l'aumento della complessità troverebbe, tuttavia, il proprio limite nelle esigenze di funzionalità interne al diritto. Luhmann definisce la giustizia come quella ‟complessità adeguata" che riflette dal suo interno la complessità della società e dell'ambiente, fino al punto in cui ciò sia compatibile con le condizioni di funzionalità proprie del diritto. Nei confronti di tale definizione sorgono, tuttavia, due obiezioni: la prima è che essa non tiene conto né delle peculiarità di un sistema giuridico, né della semantica della giustizia, quale risulta da ‟una teoria della giustizia senza giustizia" (v. Höffe, 1987; tr. it., p. 90); la seconda obiezione, analoga alla prima, riguarda la teoria dei diritti soggettivi (dei diritti fondamentali e umani) di Luhmann, la quale, interpretando questi ultimi come tecniche giuridiche, aventi il compito di ridurre i rischi insiti nell'elevata capacità di mutamento del diritto moderno, non ne riconosce la funzione specifica. Luhmann capovolge qui causa ed effetto. I diritti fondamentali e umani non possono essere introdotti come un meccanismo difensivo nei confronti dei rischi derivanti dalla positività del diritto moderno, in quanto sono proprio tali diritti, grazie al loro significato sovrapositivo, ad avere posto, sin dall'inizio, un limite alla positivizzazione del diritto (che a sua volta va positivizzato), e questo limite è necessariamente indipendente dalla capacità di mutamento del sistema giuridico. Anche sistemi giuridici con inferiori capacità di mutamento sono infatti sottoposti all'esigenza di giustizia rispetto ai diritti fondamentali e umani.

3. L'argomento di Luhmann contro la morale, contenuto in Paradigm Lost (1990), appare sostenibile in relazione alla concezione della giustizia. La morale, caratterizzata da una normatività funzionalmente non specifica, perderebbe di validità poiché la società moderna - nei suoi sistemi relativamente indipendenti, come l'economia, la scienza e il diritto - è sottoposta a una normatività che è di volta in volta particolare e funzionalmente specifica. Incapace di integrare la società nelle sue parti o nella sua totalità, la morale sarebbe, pertanto, diventata inutile. Al contrario Höffe (v., 1990) sostiene una posizione più complessa: alla normatività funzionalmente non specifica della morale viene richiesta specificità funzionale e insieme un livello logico superiore. Nel caso del diritto, la morale competente - ossia la giustizia - è la condizione affinché la normatività di primo livello possa funzionare. In un processo penale, ad esempio, la collaborazione tra accusatori, difensori e giudici serve a trovare una sentenza oggettivamente giusta, soltanto se le parti coinvolte sono a questo riguardo soggettivamente giuste, ossia se non sono corrotte e non si lasciano coinvolgere in un ‛complotto', come avviene in alcune dittature. La legislazione, poi, serve unicamente al bene generale, se i parlamentari agiscono davvero ancora come rappresentanti del popolo e non solamente come portatori dei loro interessi clientelari.

c) L'utilitarismo

Fin dai suoi esordi l'utilitarismo, con la sua etica della massimizzazione del bene collettivo, si pone in un difficile rapporto con l'idea della giustizia. Secondo la tesi della differenza, a) l'utilitarismo entra in conflitto, almeno parzialmente, con la concezione della giustizia (il bene collettivo può, infatti, essere in contrasto con le legittime pretese dei singoli, così come con i loro diritti fondamentali e umani); secondo la tesi della priorità, b) in caso di conflitto la giustizia ha tuttavia il primato. Anche se Mill (v., 18673) ha cercato di conciliare l'utilitarismo con la giustizia, il tentativo può considerarsi fallito (v. Höffe, 1990). Da un lato, il filosofo inglese non prova a limitare gli eventuali conflitti; egli preferisce, invece, distinguere tre livelli - quello dei criteri di giustizia ‛primari', che si differenzia da quello delle regole dell'azione e da quello dei casi particolari - cercando poi di sottoporre solo il livello più alto, il primo, al principio utilitaristico e gli altri due livelli a criteri di giustizia secondari - le regole dell'azione sono soggette all'uguaglianza e i casi particolari all'imparzialità - che, a loro volta, non vengono identificati come utilitaristici. Dall'altro lato, quando si arriva al momento decisivo rappresentato dal senso di giustizia, quando si tratta cioè di stabilire il grado di punibilità di un reato, egli dimostra come il criterio debba scaturire dal bene comune (‛prevenzione generale') e non dal fatto che la persona coinvolta meriti una sanzione (‛risarcimento generico'), o la meriti in misura particolare (‛risarcimento specifico'). In questo modo, però, viene trascurato il lato più prettamente giuridico della punibilità. Anche la formulazione più articolata dell'utilitarismo classico, contenuta nell'opera Methods of ethics di Henry Sidgwick (v., 19077), sottovaluta le difficoltà - in relazione all'idea della giustizia - insite in tale posizione. A causa di tali difficoltà l'utilitarismo venne criticato a ragione già da W. D. Ross (v., 1930). Successivamente sarà Rawls (v., 1971) a vedere nell'utilitarismo una posizione certamente molto evoluta e capace di risolvere questioni concrete, ma caratterizzata dal grave limite di essere indifferente al problema della distribuzione del bene ai singoli, ragion per cui essa potrebbe anche permettere la costituzione di una società di schiavi o di caste, se questa si rivelasse l'unica capace di conseguire il massimo bene collettivo. Rispondendo alle controargomentazioni utilitaristiche, Fogel (v., 1989) dimostra che solo in condizioni empiricamente assai improbabili la schiavitù nordamericana avrebbe potuto rivelarsi vantaggiosa dal punto di vista del bene collettivo e, al tempo stesso, dal punto di vista degli schiavi. L'utilitarismo presupporrebbe, inoltre, una quantità di altruismo troppo elevata, addirittura un altruismo totale, che si annullerebbe da solo. Esso considera solo ‛persone minime', ossia persone senza fini ultimi, senza un carattere definito. Non da ultimo, l'utilitarismo classico - poiché si adopera per il massimo utile comune - sosterrebbe l'incremento della popolazione. L'errore fondamentale dell'utilitarismo risiederebbe nello scambiare l'imparzialità con l'impersonalità, ovvero nella mancata separazione tra filantropia e senso di giustizia. Di recente anche alcuni utilitaristi si sono cimentati con una teoria della giustizia (v., ad esempio, Trapp, 1988): la differenza resta tuttavia nell'assunto di fondo, che vede ancora una volta il vantaggio collettivo separato da quello distributivo e sovraordinato a esso.

4. Giustizia naturale e giustizia procedurale

Le procedure sono un elemento necessario per la formazione delle decisioni vincolanti. Per esse non sono primari né il contenuto né il risultato, bensì competenze, percorsi e forme. Esse non hanno alcuno scopo proprio, ma si pongono a servizio dei contenuti e dei risultati. A differenza di quanto affermato nel programma luhmanniano di Legitimation durch Verfahren, le procedure sono irrinunciabili per ogni agire sociale, giuridico e politico. Esse attuano - ma solo se sono aperte, e dunque capaci di apprendimento, nei confronti dei bisogni e degli interessi dei soggetti coinvolti, e se soddisfano i principî della giustizia procedurale - una disponibilità generalizzata ‟ad accettare, entro certi limiti di tolleranza, decisioni contenutisticamente ancora indeterminate" (v. Luhmann, 1969). Esse non producono però - per due dei tre tipi possibili di giustizia procedurale - nessuna legittimazione originaria, bensì solo una legittimazione di tipo sussidiario.

Nella giustizia procedurale perfetta esiste un criterio indipendente per definire un risultato giusto e una procedura che conduce con certezza a tale risultato. La ripartizione di una torta, ad esempio, è giusta di regola se ognuno ottiene la stessa porzione, e ciò si attua secondo il principio: l'uno divide, l'altro sceglie. Nella giustizia procedurale imperfetta, come quella di un processo penale, per via del criterio indipendente (è giusto punire i colpevoli soltanto in proporzione alla loro colpa), non vi è alcuna procedura certa che sia in grado di escludere errori giudiziari. L'idea guida di tutte le giustizie procedurali, l'imparzialità, se non può essere garantita, può tuttavia essere favorita attraverso principî sintetizzabili nel concetto di ‛giustizia naturale'. Si tratta di imperativi non controversi come audiatur et altera pars: in casi di contesa si deve prestare ascolto anche alla controparte, e nemo est iudex in causa sui, ossia nessuno può essere giudice in una controversia in cui sia coinvolto come parte. Inoltre l'equità nei rapporti tra gli interessati e nei provvedimenti obbliga a dare il massimo valore a tutti i punti di vista significativi per la sentenza; dal momento che nulla più del pregiudizio e dell'unilateralità contrasta con la giustizia procedurale. Solo nel terzo tipo - là dove non si conosce con certezza alcun criterio indipendente per giungere a un risultato giusto, bensì esclusivamente una procedura equa che porti a un risultato altrettanto equo -, ovvero nella giustizia procedurale pura, le procedure producono qualcosa di superiore a una semplice legittimazione sussidiaria. In un gioco d'azzardo si tratterebbe del ruolo svolto dal dado, il cui esito è ‛originariamente legittimo'. Se si presuppone, a differenza di quanto fa Luhmann, che si dia una struttura sociale giusta - comprendente una costituzione giusta, nonché istituzioni sociali ed economiche giuste -, allora si può abbandonare, insieme a Rawls, la distribuzione di vantaggi e benessere, propria di una giustizia procedurale pura (del resto, attraverso siffatte classificazioni della giustizia procedurale la concezione democratica proceduralistica di Habermas - v., 1992 - avrebbe guadagnato in capacità persuasiva).

5. Giustizia politica e teorie contrattualistiche

a) L'idea fondamentale

Lo Stato è un'istituzione di ‛second'ordine' la quale può essere definita come un'associazione transgenerazionale di individui che si compone di istituzioni sociali di ‛prim'ordine', quali, ad esempio, le famiglie - costituite a loro volta di individui - e le comunità rurali o urbane. Nello svolgere la sua funzione di regolamentazione del comportamento, lo Stato si serve di vincoli coercitivi - la cui essenza è da rintracciare nel diritto - per i quali viene richiesta piena autorizzazione. Sulla base delle adeguate autorizzazioni, ossia dei poteri pubblici - l'amministrazione della giustizia, la determinazione e l'applicazione del diritto -, lo Stato si costituisce come un ordinamento sovrano il cui criterio morale è la giustizia politica. La giustizia corrente, dalla quale scaturisce il sistema normativo dello Stato, definisce le condizioni e i principî in base ai quali lo Stato può dirsi legittimo, anche se la vera legittimazione inizia in una fase precedente, nella quale la giustizia esercita una funzione puramente legittimante. In contrapposizione all'idea di libertà dall'autorità che ispira l'anarchismo filosofico, si può dimostrare che il potere di alcuni uomini sopra altri uomini è del tutto legittimo.

In conformità al principio giuridico volenti non fit iniuria si definisce legittima una coercizione accettata volontariamente. Poiché il modello di un'autobbligazione volontaria è il contratto, le corrispondenti teorie della legittimazione si dicono teorie contrattualiste. I prodromi risalgono ai dialoghi di Platone Critone (50a-52d) e Leggi (III, 684a-b, X, 889d-890a). Ma solo nella filosofia del XVII e XVIII secolo - rappresentata soprattutto da Althusius, Hobbes, Spinoza, Pufendorf, Locke, Wolff, Rousseau e Kant - l'idea viene sviluppata fino in fondo. Una volta allontanate le critiche mosse a tali teorie da Hume, Adam Smith, Burke, Schlegel e Hegel, e poi da Bentham, Austin e dai darwinisti sociali, il contrattualismo venne rivalutato alla fine del XIX secolo da Otto von Gierke (v., 1880), il quale si richiamava esplicitamente ad Althusius. Rielaborata a partire dagli anni settanta del XX secolo da importanti economisti (v. Buchanan, 1975 e 1977; v. Buchanan e Tullock, 1962) e filosofi (v. Rawls, 1971; v. Nozick, 1974; v. Höffe,1987), la teoria contrattualista gode da allora di una attenzione crescente (per la sua storia, v. Kersting, 1994).

Il contratto sociale - nella sua corretta accezione - non coincide con un particolare contratto storico o, in generale, con un accordo, sia esso tacito o esplicito; esso rappresenta piuttosto un esperimento concettuale che si prefigge un fine di legittimazione. Quattro aspetti della metafora ‛contratto' si rivelano essenziali: 1) gli interessati sono liberi di stipulare il contratto; per questo motivo le teorie contrattualiste partono tutte dallo stato di natura, ossia da una condizione di assoluta libertà d'azione e dal potere. Poiché è necessario che tutti sottoscrivano il contratto, 2) l'abbandono di tale stato viene giustificato con l'acquisizione di un vantaggio distributivo, ossia valido per ciascuno, e ciò permette di raggiungere il piano della giustizia. Hanno luogo, quindi, 3) un trasferimento reciproco di diritti e doveri e una reciproca rinuncia e assicurazione di libertà; 4) i principî di giustizia, che sorgono dal trasferimento reciproco, sono coercitivamente vincolanti, proprio perché in base al contratto si è legati giuridicamente.

b) La giustizia come equità: J. Rawls

La teoria della giustizia al momento più ampiamente dibattuta è quella di John Rawls (v., 1971, e Political liberalism, 1993; al riguardo v. Höffe, John Rawls..., 1997). Contro l'utilitarismo un tempo dominante in ambito angloamericano, essa afferma che a ogni uomo viene conferita dalla giustizia una inviolabilità tale che non può essere messa in discussione neanche in nome del bene dell'intera società. Per dimostrare questo assunto, Rawls tenta una generalizzazione delle teorie classiche di Locke, di Rousseau e, in particolare, di Kant, per sintetizzarle poi - con l'apporto delle più recenti acquisizioni della scienza economica - in una teoria che si presenta capillarmente strutturata. Egli formula, dapprima, due principî di giustizia e sviluppa per la loro attuazione una sequenza a quattro stadi; abbozza poi una teoria della disobbedienza civile e traccia lo sviluppo in tre fasi di un senso di giustizia e, infine, si occupa del bene della giustizia (‟the good of justice"). Tale teoria, che ha suscitato un ampio dibattito interdisciplinare, pretende di avvicinarsi il più possibile ai nostri giudizi di giustizia ponderati, e dunque di esprimere i migliori fondamenti morali per una società democratica.

Rawls parte da un'ipotetica posizione originaria (‟original position"), nella quale persone libere e razionali si riuniscono per scegliere un sistema di principî che regoli in modo definitivo la distribuzione dei vantaggi e degli svantaggi di una data società. A dover essere distribuiti sono i beni sociali principali (‟social primary goods"), beni dei quali si ha bisogno per ogni progetto di vita, ossia beni che si rivelano necessari per ogni tipo di cooperazione all'interno di una società e dei quali presumibilmente ciascuno vuole disporre nella misura più ampia possibile. Si tratta di diritti e di libertà, di opportunità e di potere, di guadagni e di benessere, nonché del rispetto di sé. In questa fase iniziale un velo d'ignoranza (‟veil of ignorance") fa sì che nessuno venga avvantaggiato o svantaggiato dalle contingenze naturali o dalle circostanze sociali. Attraverso questo artificio è possibile dedurre i principî di giustizia con la logica di una scelta razionale prudenziale e, contemporaneamente, con gli strumenti propri della teoria della decisione e dei giochi. Poiché tali principî contengono il presupposto che tutti debbano ricevere parità di trattamento, Rawls parla di giustizia come equità. I due principî sono:

1) ‟Ogni persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti."

2) ‟Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere: a) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il principio del giusto risparmio, e b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità" (v. Rawls, 1971; tr. it., p. 255). Entrambi i principî giustificano uno Stato di diritto liberale e sociale e, allo stesso tempo, una democrazia costituzionale legata a un'economia competitiva.

Mentre i principî 1) e 2b) non sono controversi, il principio 2a), il cosiddetto ‛principio di indifferenza', può essere contestato, sia a partire dalle stesse premesse di Rawls, sia da un punto di vista politico. Più precisamente, la critica può essere rivolta non tanto al principio del risparmio, che investe il problema della giustizia nei confronti delle generazioni future - da integrare però con la dimensione ecologica -, quanto all'assunto che le ineguaglianze economiche debbano tornare a beneficio dei meno avvantaggiati. Problematico è anche l'assunto secondo cui i diritti e le libertà sarebbero uno dei temi della distribuzione. Infine, manca la dimensione della giustizia internazionale.

c) La teoria del titolo valido: R. Nozick

Mentre Rawls dà valore alla dimensione sociale dello Stato, Nozick, richiamandosi a Locke, difende il liberalismo classico. La sua teoria della legittimazione politica, contenuta nell'opera Anarchy, State, and utopia (1974) ritiene illegittima ogni dimensione sociale dello Stato che non rappresenti un risarcimento per coloro che sono ingiustamente svantaggiati. La sua teoria del titolo valido, enunciata in modo più assertorio che argomentativo, afferma: ‟la materia della giustizia nella proprietà [giustizia distributiva] consiste in tre argomenti principali. Il primo è l'acquisizione iniziale della proprietà, l'appropriazione di cose non ancora possedute [...]. Si farà riferimento alla complicata verità concernente questo argomento, che non verrà formulata qui, come al principio di giustizia nell'acquisizione. Il secondo argomento riguarda il trasferimento della proprietà da una persona all'altra [...]. La complicata verità su questo argomento [...] verrà chiamata principio di giustizia nel trasferimento [...]. Se il mondo fosse del tutto giusto, la seguente definizione induttiva abbraccerebbe esaurientemente l'argomento della giustizia nella proprietà.

1. La persona che acquisisce una proprietà secondo il principio di giustizia nell'acquisizione ha diritto a quella proprietà.

2. La persona che acquisisce una proprietà secondo il principio della giustizia nel trasferimento, da qualcun altro avente diritto a quella proprietà, ha diritto a quella proprietà.

3. Nessuno ha diritto a una proprietà se non con applicazioni (ripetute) di 1 e di 2" (v. Nozick, 1974; tr. it., pp. 160 ss.).

Höffe obietta che chi interpreta l'acquisizione iniziale della proprietà come appropriazione di cose non ancora possedute, presuppone tacitamente che la natura intatta sia un bene non ancora posseduto, un bene che, con la sua acquisizione e trasformazione, diviene proprietà umana. È altrettanto plausibile tuttavia vedere nella natura una proprietà originaria dell'umanità intera e conferire a ogni acquisizione e trasformazione solo il rango di appropriazione secondaria e non primaria. Secondo questa concezione, all'umanità come totalità comprendente le future generazioni spetta una prerogativa (Vor-recht) collettiva nel possesso della terra, da cui segue per tutti gli individui e per tutti i gruppi un diritto a partecipare del possesso della terra e dei suoi frutti.

d) La giustizia come scambio: O. Höffe

Diversamente da Rawls, Höffe (v., 1987, 1990, 1991 e Vernunft und..., 1996; v. Kersting, 1997) si confronta sia con quel giuspositivismo radicale che esclude dalla sfera del diritto e dello Stato la concezione della giustizia, sia con l'anarchismo filosofico che - contro l'esigenza di un'autorità giusta - sostiene il principio della libertà dall'autorità. Solo superando le sfide rappresentate da queste due posizioni una teoria della giustizia può andare oltre un'ermeneutica della democrazia e tentare una fondazione universale del diritto e dello Stato.

Al paradigma finora dominante della giustizia distributiva Höffe sostituisce quello della reciprocità o - pars pro toto - dello scambio, che a sua volta trova nella giustizia correttiva un necessario completamento. Tale paradigma presenta un immediato vantaggio argomentativo: mentre i principî distributivi possono essere considerati controversi (v. Miller, 1976), il principio della giustizia come scambio - proprio perché implica l'equivalenza del prendere e del dare - non può essere contestato in alcun modo. Non si può, tuttavia, prendere in considerazione un concetto di scambio troppo ristretto, limitato, cioè, soltanto all'aspetto economico, e neppure uno troppo approssimativo, che non tenga conto, ad esempio, dell'avvicendarsi delle generazioni. Inteso come un concetto sufficientemente ampio, lo scambio si rivela come una forma di cooperazione di tipo fraterno - non certo, quindi, di tipo matriarcale o paternalistico - e quindi anche democratico. Höffe ricostruisce lo stato pregiuridico e prestatuale, lo stato di natura, come uno stato di inevitabili conflitti tra le libertà; egli - a differenza di quanto sostiene Hobbes - rinuncia totalmente a un concetto oggettivo di felicità e - diversamente da Rawls - dimostra come, dalla prospettiva di una teoria della giustizia, la cooperazione in condizioni di scarsità sia secondaria. Il superamento di questo stato, che si rivela controproducente per ognuno, avviene solo attraverso uno scambio tanto negativo quanto trascendentale. Esso è negativo, perché si scambia la rinuncia all'esercizio della forza, e trascendentale, perché ha luogo a un livello irrinunciabile per tutti gli uomini; analogamente, essendo distributivamente vantaggioso, esso soddisfa il criterio elementare di giustizia. La rinuncia reciproca è, infatti, la ‟condition of agency", la condizione perché si realizzi la libertà d'azione. Questo argomento legittima i diritti umani (tanto i diritti di libertà, quanto una dimensione sociale dello Stato funzionale alla libertà) in quanto diritti che le persone giuridiche si concedono reciprocamente. A causa dei deficit di realtà che si determinano in tale contesto (‟dilemma del riconoscimento") Höffe, in un secondo momento, legittima lo Stato come ‟spada della giustizia", come fulcro dei poteri pubblici sussidiari per la giustizia. Una siffatta legittimazione dello Stato si oppone a una procura in bianco e si dichiara fin dall'inizio a favore di una limitazione. Le strategie della giustizia politica rappresentano la conclusione teorica legittimante, dove la collaborazione tra scienza e politica anticipa l'idea di un diritto riflessivo (v. Teubner, 1982). Alle strategie spettano compiti di positivizzazione che si possono approntare sistematicamente tramite discorsi etico-politici.

e) La giustizia politica internazionale

Poiché i singoli Stati si comportano sotto certi aspetti come individui - anche se non rappresentano unità organiche, possono tuttavia essere considerati soggetti collettivi capaci di decisione e di azione, ovvero persone giuridiche -, gli stessi argomenti che parlano a favore di una relazione giuridica tra gli individui e il loro realizzarsi nello Stato sono validi anche per le relazioni tra i singoli Stati. Anche qui il diritto deve sostituirsi all'arbitrio privato: è necessario, cioè, un adeguato sistema di diritto internazionale e i poteri pubblici devono provvedere alla sua determinazione e alla sua applicazione. In altri termini, il diritto deve acquisire una sua statalità anche a livello mondiale. Secondo la prospettiva dei globalisti (ad esempio, v. Beitz, 1979) dovrebbe crearsi addirittura un unico Stato mondiale globale che, quale impero omogeneo, assorbirebbe in sé tutti i singoli Stati. Dal punto di vista dei neocomunitari, però, ciò comprometterebbe l'integrità sociale e culturale delle comunità esistenti le quali, al fine di ‟fare le società giuste" andrebbero difese con ‟buoni steccati" (v. Walzer, 1983). Contro uno Stato mondiale omogeneo militano anche altre ragioni, come la sua lontananza dai cittadini, il pericolo della iperburocratizzazione e della ingovernabilità (così già Kant, Rechtslehre, § 61), nonché quello, ancora più grave, di un ‟dispotismo senz'anima" (Kant, Per la pace perpetua, I suppl.; su Kant, v. Höffe, 1995). Non da ultimo, il controllo dell'opinione pubblica sulla vita politica - essenziale per il funzionamento di una società democratica - verrebbe a mancare.

Rawls (v., The law of..., 1993) sviluppa i principî della giustizia politica internazionale all'interno del ‛diritto internazionale' (law of peoples). Interessato a individuare un comune denominatore (l'‟overlapping consensus") che raccolga società liberali e non liberali - anche se, comunque, gerarchicamente bene ordinate - egli applica ai rapporti di convivenza che si creano tra tali società la teoria della posizione originaria e del ‛velo d'ignoranza'. Per questa via, secondo Rawls, si perviene a quegli stessi principî di giustizia che determinano la convivenza di Stati liberi e democratici, ossia gli Stati sono liberi e indipendenti e, in quanto tali, debbono riconoscersi reciprocamente: essi hanno diritto all'autodifesa, ma non alla guerra; non possono intervenire e debbono rispettare i trattati e i diritti umani. Rawls - richiamandosi allo scritto di Kant Per la pace perpetua - rigetta un regime politico omogeneo (‟unified political regime"); egli si pronuncia, inoltre, a favore di svariate organizzazioni internazionali e conferisce ad alcune di esse, come le Nazioni Unite, il diritto di comminare sanzioni economiche, e persino di intervenire militarmente. Egli non considera, tuttavia, il concetto di Stato mondiale e prevede che lo Stato in generale eserciti soltanto funzioni minime. Contro Rawls si può obiettare che egli non si occupa della distinzione - importante per il diritto internazionale - tra ‛società', ‛popolo' e ‛Stato'; inoltre, la sua costruzione teorica assume a priori che le società non liberali condividano i valori liberali contenuti nell'atto del riconoscimento delle altre società come libere ed eguali; infine, nella sua scelta in favore delle organizzazioni internazionali sembra non accorgersi di una contraddizione di fondo, vale a dire che gli organismi internazionali, se devono mantenersi entro i limiti delle funzioni esercitate da uno Stato minimo, dispongono di mezzi troppo deboli per realizzare la giustizia politica internazionale; viceversa, se a essi vengono attribuiti i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario non possono non assumere il carattere di Stato mondiale.

Tramite un principio di economia politica articolato in due punti, si può superare il conflitto tra globalisti, da una parte, e neocomunitari e Rawls, dall'altra (v. Höffe, Vernunft und..., 1996): secondo il primo punto non deve essere creata alcuna unità politica che non sia strettamente finalizzata alla realizzazione dello Stato mondiale; senza il quale non si può, infatti, attuare una riforma giuridica sul piano della coesistenza internazionale. In base al secondo punto, nuove unità politiche, se si dimostrano necessarie, non devono ottenere più competenze del necessario. Così, lo Stato globale viene meno; esso infatti condurrebbe a un eccesso di statalità mondiale. Necessaria per la giustizia è al contrario una repubblica mondiale ‛secondaria' e con una statalità minima. Come Stato ‛secondario', tale repubblica non si porrebbe al posto dei singoli Stati (che rimarrebbero ‛primari' dal punto di vista della legittimità), ma regolerebbe soltanto la loro coesistenza. Come Stato minimo, essa svolgerebbe essenzialmente due compiti - riassumibili sotto la categoria dei ‛diritti umani degli Stati': la difesa della libertà, dell'autodeterminazione politica e culturale degli Stati e la difesa della loro proprietà, cioè della loro integrità territoriale, compresa quella ecologica; vanno infatti prese in considerazione non soltanto le aggressioni militari, ma anche i danni all'ambiente.

Sotto un aspetto importante, però, gli Stati non si comportano come individui: essi sono formati da individui. Poiché l'uccisione di uno straniero infrange la giustizia, non può essere imposto alla repubblica mondiale di tollerare ogni massacro interno a uno Stato. Perlomeno contro i genocidi sussiste un diritto d'intervento; e si impone, quindi, una rigorosa parità di trattamento. Fanno parte dei compiti di una repubblica mondiale anche problemi di carattere puramente internazionale come la lotta al contrabbando di droga, al terrorismo e come la realizzazione del disarmo, in particolare delle armi atomiche, biologiche e chimiche.

6. Giustizia sociale e intergenerazionale

a) La giustizia sociale e correttiva

L'espressione ‛giustizia sociale', così ricorrente nei dibattiti politici, appare in filosofia molto tardi e, per di più, così di sfuggita che la sua prima comparsa può essere difficilmente individuata. Presumibilmente essa viene impiegata per la prima volta nell'etica sociale cristiana; W. Frankena (v., 1962) fa riferimento al teologo Emil Brunner. La prima grande opera filosofica dedicata a questo tema, dall'eloquente titolo The mirage of social justice, proviene dall'economista Friedrich von Hayek (v., 1976); sia pure in un contesto assai diverso da quello di Nozick (v., 1974), anche Hayek rigetta l'eccessiva dimensione sociale dello Stato e ritiene legittimo solo uno Stato minimo che svolga, per così dire, il ruolo di ‛guardiano notturno'.

La giustizia sociale - ritenuta da alcuni addirittura la regola più naturale dell'agire politico in democrazia - assume oggi due significati. In un senso non specifico, ‛sociale' è inteso in modo esclusivamente esplicativo, così che la giustizia sociale risponde all'interrogativo generale: ‟Che cos'è una società giusta?" (v. Rawls, 1971; v. Barry, 1989). In un senso specifico, invece, la giustizia sociale si occupa della ‛questione sociale' e, quindi, di fenomeni come la disoccupazione, la mancanza di assistenza in caso di malattia e anzianità, la formazione o l'educazione carente, la fame e la povertà. Se si reagisce a siffatti fenomeni non per amore della pace sociale o in virtù dell'amore cristiano per il prossimo - sia pure nelle sue forme secolarizzate di fraternità e solidarietà -, bensì in nome della giustizia, allora si tratta di obblighi dei soggetti interessati. Tali obblighi si possono, in gran parte, giustificare nella prospettiva della teoria dello scambio, a condizione però che si tenga conto anche dell'avvicendarsi delle generazioni. A partire dal dato di fatto antropologico che l'uomo è bisognoso di aiuto tanto all'inizio, quanto alla fine della sua vita, si possono ‛risarcire' le prestazioni d'aiuto, che si ricevono dopo la nascita e durante la crescita, più tardi nella forma di un aiuto prestato ai più anziani. Da un punto di vista storico-evolutivo questo scambio ha luogo innanzitutto all'interno della famiglia patriarcale, o della stirpe. Esso corrisponde al (tacito) contratto tra genitori e figli, che viene stipulato sulla base di un aiuto differito e reciproco.

Höffe (v., Vernunft und..., 1996) integra questa forma di legittimazione con l'idea della giustizia correttiva: poiché l'istituzione di second'ordine, lo Stato, non solo coordina le istituzioni primarie, ma delimita anche il loro proprio diritto, e si arricchisce, inoltre, attraverso le imposte sui loro costi, esso deve loro un risarcimento. Una gran parte dei compiti dello Stato sociale, che Forsthoff sintetizza con il concetto di ‛previdenza per l'esistenza', possono quindi essere intesi come doveri e responsabilità di compensazione. Ulteriori compiti di risarcimento emergono da ingiusti rapporti di scambio avvenuti nel passato. Si pensi ai torti nei confronti degli indigeni (Eschimesi, Indiani d'America, Indios, ecc.), degli schiavi e dei servi della gleba, come anche nei confronti dei popoli colonizzati. Che possa essere imposto un privilegio positivo come compenso, viene discusso volentieri come affirmative action and justice. Altre prestazioni si possono intendere come risarcimenti per rischi particolari. Ad esempio nel corso dell'industrializzazione, per ottenere il vantaggio collettivo di una produzione di beni a basso costo, i lavoratori assumono su di sé lo svantaggio particolare di essere, per mancanza di proprietà fondiaria o di capitali, estremamente indifesi in caso di disoccupazione.

Nella prospettiva della giustizia si può criticare l'esplosione della popolazione osservabile in alcuni paesi. Primo, le condizioni di vita dei figli e dei figli dei figli sono destinate a peggiorare; secondo, si crea una pressione, perlomeno latente, verso l'espansione, che nuoce certamente agli interessi degli altri paesi.

b) La giustizia internazionale

Per quanto riguarda la questione sociale di maggiore attualità in questi anni, la difesa dell'ambiente naturale, Birnbacher (v., 1988) e Wolf (v., 1993) sostengono una posizione utilitaristica. L'idea di fondo, la critica a una pura preferenza di tempo, è già stata formulata da Sidgwick (v., 19077). Essere nati in un momento successivo non è un motivo razionale per rispettare di meno il bene dei soggetti interessati.

La giustizia correttiva presta invece attenzione a un dato empirico, e cioè alla circostanza antropologica secondo cui l'uomo non viene al mondo da solo, bensì attraverso i genitori che, d'altro canto, sanno di mettere al mondo esseri bisognosi di aiuto. Così, essi creano uno stato di necessità e per motivi di giustizia sono responsabili della sua risoluzione. Il principio di giustizia corrispondente recita: ‟Chi mette al mondo dei bambini, assume su di sé ipso facto la responsabilità che crescano in condizioni degne di essere vissute". A ciò si aggiunge il suddetto diritto collettivo di partecipazione. In base a questo diritto, la terra con i suoi frutti è una proprietà comune che riguarda tutte le generazioni: dei suoi interessi può vivere ogni generazione, senza intaccare il capitale. Ad esempio, la giustizia permette certo di sfruttare fonti di energia fossile, ma solo nella misura in cui vengano messe a disposizione fonti di energia artificiale equivalenti, i cui pericoli siano poi controllabili.

La giustizia intergenerazionale non concerne solo problemi ecologici, ma anche politico-sociali e politico-finanziarii. Nella quota della giustizia sociale complessiva (Stato sociale e struttura sanitaria), essa pretende di non dimenticare una quota d'investimento in senso ampio: ad esempio, la formazione come investimento sulle future generazioni o la pianificazione urbanistica e la tutela del paesaggio.

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