Filosofia, teologia e potere in Eusebio di Cesarea

Enciclopedia Costantiniana (2013)

Filosofia, teologia e potere in Eusebio di Cesarea

Marco Rizzi

I tre elementi indicati nel titolo costituiscono i termini entro cui è stata pronunciata la più celebre ed efficace sentenza di condanna nei confronti di Eusebio di Cesarea1. Indubbiamente, vi erano stati gli altrettanto significativi precedenti di Jacob Burckhardt («una disonestà e una voluta ignoranza dei fatti unica nel loro genere»2) o di Franz Overbeck («l’arricciatore di corte della parrucca imperiale»3), solo per citare i più noti, ma è con Erik Peterson4 che il nesso eusebiano tra filosofia, teologia e potere viene sintetizzato nella formula ‘teologia politica’ e liquidato come un’aberrazione dalla dottrina trinitaria ortodossa, causata dalla volontà di fornire una legittimazione religiosa al potere assoluto dell’imperatore. Agli occhi di Peterson, assumendo acriticamente il concetto di ‘monarchia divina’ dalla tradizione filosofica greca, in specie aristotelica, Eusebio avrebbe utilizzato un concetto di unità incompatibile con la dinamica trinitaria del Dio unico cristiano, irriducibile al concetto ebraico o greco di ‘monoteismo’. Nel far ciò, il vescovo di Cesarea avrebbe del resto confermato la matrice ariana ed eterodossa della sua cristologia, per cui il Logos risulterebbe subordinato a Dio, così come l’imperatore al Logos medesimo5.

Peterson utilizzava il termine ‘teologia politica’ in polemica con Carl Schmitt6, che l’aveva coniato per indicare il processo con cui alcuni concetti erano stati trasferiti dall’ambito teologico a quello delle dottrine politiche e giuridiche fondative dello Stato moderno (ad esempio l’idea di sovranità in quanto potere assoluto). In realtà, anche se i due studiosi sembravano ignorarlo, il concetto di teologia politica non era affatto sconosciuto agli antichi; lo stesso Agostino, campione dell’ortodossia teologico-politica cristiana secondo Peterson, ne fornisce una serrata critica. Come leggiamo in alcuni autori greci7 e latini8, si danno tre forme di discorso sul dio: quello mitico, espresso nei poemi e nelle rappresentazioni teatrali (da cui la denominazione latina di theologia fabulosa); quello razionale-filosofico, che dall’osservazione della natura risale alla struttura dell’universo e al concetto del divino (theologia physica o naturalis); e infine quello politico, ovvero l’insieme dei riti e delle tradizioni che regolano la vita religiosa della città (da cui la denominazione greca di politike theologia e quella latina di theologia civilis). Eusebio, quindi, non avrebbe mai accettato la definizione di ‘teologia politica’ per le proprie riflessioni sull’argomento; piuttosto, le avrebbe collocate nell’ambito della teologia filosofica in senso stretto (physica); e qualsiasi considerazione sul rapporto tra cristianesimo e potere avrebbe però avuto senso ai suoi occhi in quanto derivata deduttivamente dalla più generale comprensione del rapporto tra Dio e il mondo rivelato dalle Scritture cristiane, non certo induttivamente a partire dall’indagine sulla natura o sui costumi religiosi delle città, come invece era proprio della teologia antica.

Il confronto tra i due studiosi tedeschi, un tempo amici, si svolgeva nel clima arroventato successivo alla presa del potere da parte di Hitler; la battaglia apparentemente erudita su Eusebio celava in realtà un duro conflitto sul tema del rapporto tra cristianesimo e autorità politica, tra fede religiosa e potere, tra libertà di coscienza e totalitarismo. A motivo di ciò, la condanna petersoniana di Eusebio restò a lungo un dogma storiografico, almeno nel campo degli studi storico-religiosi, a partire già dalla pubblicazione di quello che in fondo resta più un geniale pamphlet che non una vera e propria indagine storica e teologica sull’argomento. È stato merito di Raffaele Farina9, nella seconda metà degli anni Sessanta del Novecento, l’aver condotto per primo una simile indagine in maniera compiuta, collocando gli aspetti e le implicazioni politiche del pensiero di Eusebio, indubbiamente presenti e operanti, nel contesto più generale della sua teologia come pure delle tradizioni cristiane e filosofiche precedenti. In questo modo, si è venuta sempre più sfumando anche la semplicistica identificazione della cristologia eusebiana con l’arianesimo, che – come si è visto – avrebbe costituito la prova della subalternità della sua speculazione a interessi di parte. Così, dopo le indicazioni di Manlio Simonetti10, si è giunti alla ricostruzione di un profilo teologico più complessivo ed equilibrato del vescovo di Cesarea a opera di Holger Strutwolf11, che mostra compiutamente non solo la persistente matrice origeniana del suo pensiero, in specie della cristologia, e più in generale la sua dipendenza dagli schemi filosofici del platonismo medio, ma ne illustra anche la parziale originalità e soprattutto l’influsso esercitato dalla sua teologia nel corso del IV secolo e oltre. La monografia di Jon Robertson12 può così puntualmente collocare Eusebio nell’insieme degli sviluppi e dei conflitti cristologici del IV secolo.

Tuttavia, come si evince da questa sintetica rassegna, se si istituisce un paragone con gli altri settori della ricerca eusebiana si può facilmente cogliere come la dimensione strettamente filosofica e teologica del suo pensiero non abbia ricevuto e non riceva tuttora un’attenzione paragonabile a quella riservata alla sua produzione apologetica ed esegetica, che ovviamente riassorbono al proprio interno aspetti filosofici e teologici, o ancor più alla storiografia. Pure la cosiddetta teologia politica non occupa ormai più quel ruolo decisivo che le assegnavano Overbeck e Peterson, ma è stata ricondotta a momento, per quanto importante, del costituirsi del pensiero politico cristiano o più specificamente bizantino13.

In realtà, l’intuizione di Peterson relativa alla centralità del concetto di ‘monarchia’ divina per la teologia e la cristologia di Eusebio, documentata e adeguatamente interpretata da Farina e Simonetti, può ancora costituire il punto focale di una ricostruzione complessiva del profilo intellettuale di Eusebio, che coinvolga anche aspetti apparentemente laterali rispetto al nesso di teologia, filosofia e politica qui preso direttamente in esame. A questo fine, si presenteranno, nell’ordine, i contenuti principali della filosofia eusebiana, quelli della sua teologia e quelli teologico-politici, per giungere infine alla proposta di una chiave ermeneutica unificante per l’intera opera del vescovo di Cesarea, pur nella complessità e diversità delle sue articolazioni e dei suoi ambiti. Del resto, l’oscillazione della storiografia nel definire il tratto specifico di Eusebio (uno storico? un apologeta? un esegeta? un teologo politico?) mostra come rimanga necessario, al di là delle battute e dei pregiudizi, uno sforzo aggiuntivo di chiarificazione.

La filosofia di Eusebio

Eusebio non espone in modo diretto le proprie concezioni di natura strettamente filosofica; come nel caso di ogni altro autore cristiano, esse risultano funzionalizzate alla costruzione di una propria teologia e quindi ricostruibili solo a partire da quest’ultima. Tuttavia, nel suo specifico caso va tenuta presente un’altra circostanza: dopo la svolta segnata da Origene e Plotino, la ‘teologia’ in senso stretto ha ormai cessato di essere una parte, sia pure importante, del discorso filosofico sui principi primi (ovvero su quanto la terminologia moderna riconduce grosso modo all’ambito della metafisica), per diventare il culmine e il fine stesso del filosofare, sino a sfociare nella mistica plotiniana e nella teurgia di autori come Proclo, Giamblico o Numenio. Così, se in precedenza era l’impostazione filosofica di base a determinare i caratteri propri del discorso teologico, ora sono i presupposti di natura teologica a condizionare di fatto l’utilizzo della strumentazione messa a disposizione dalla riflessione filosofica. Questa osservazione aiuta a comprendere i due tratti più caratteristici della filosofia di Eusebio: anzitutto il modo del suo procedere argomentativo, e poi la peculiare posizione assunta nei confronti degli sviluppi più recenti di quella che considerava la filosofia per eccellenza, ovvero il platonismo.

È caratteristico delle diverse opere di Eusebio, persino della Storia ecclesiastica, premettere alla vera e propria trattazione un breve sunto delle dottrine o di aspetti caratteristici della fede cristiana. Ciò è il prodotto della sua convinzione secondo cui la rivelazione portata da Gesù rappresenterebbe la verità nella sua forma più piena. Tale verità è stata anticipata dalla rivelazione veterotestamentaria, non adeguatamente compresa dagli ebrei, e dalla filosofia greca, che da quella sapienza ‘barbara’ in qualche modo deriva, sia che Platone l’abbia appresa durante il suo soggiorno in Egitto, sia che vi sia giunto solo grazie alle proprie risorse intellettuali, sia – infine – che sia stato oggetto di una qualche ispirazione proveniente dall’unico e vero Dio, quasi Platone fosse assimilabile ai profeti biblici. Ne consegue che il filosofare consiste, per Eusebio, nel commentare e interpretare il pensiero di Platone; in questo modo, egli si allinea alla prassi divenuta comune nell’insegnamento filosofico nel corso del II e III secolo e fortemente acceleratasi con Plotino e lo stesso Origene; alla scuola di quest’ultimo, come testimoniato dallo pseudo-Gregorio il Taumaturgo14, le dottrine cristiane erano poste a confronto con «tutti i discorsi su Dio» sviluppati dalle diverse scuole, con esclusione soltanto di quelle esplicitamente «atee» (ovvero, con tutta probabilità, l’epicureismo). Così l’esposizione di Eusebio è strutturata per tematiche (come l’insegnamento di Plotino nelle Enneadi in seguito alla sistematizzazione porfiriana) e si sviluppa per mezzo di continue citazioni, spesso anche di lunga estensione, di brani di autori pagani che confermano o quantomeno espongono posizioni affini ai contenuti della fede cristiana. In questo procedimento, che su scala comparabile a quella eusebiana era stato condotto da Clemente Alessandrino o anche dallo stesso Origene, Eusebio cita non solo Platone, bensì anche autori della sua scuola (Plutarco, Numenio, Attico, Porfirio, Amelio e ovviamente Plotino) e altri ancora, benché in posizione subordinata e stante che gli aspetti delle altre scuole filosofiche più compatibili con il platonismo erano già stati riassorbiti dai medio e neoplatonici. Tutti costoro, però, non vengono considerati in una prospettiva diacronica, di sviluppo dell’originario pensiero di Platone, bensì sono introdotti come ulteriori testimonianze dell’accostamento alle verità cristiane possibile a partire dall’attento studio dei suoi scritti.

L’eclettismo delle letture eusebiane non deve però celare il fatto che nella sua interpretazione di Platone egli si mantiene sostanzialmente fedele alle posizioni dei suoi predecessori alessandrini, Clemente e Origene, e con ciò stesso alla visione fortemente schematizzata, e deprivata degli aspetti aporetici e zetetici, del pensiero platonico propria del cosiddetto medioplatonismo del II e III secolo.

I capisaldi della trattazione condotta nell’undicesimo libro della Preparazione evangelica, che costituisce la più diretta esposizione dei presupposti filosofici di Eusebio, non si allontanano infatti dalla peculiare sintesi di cristianesimo e medioplatonismo già propria di Clemente e soprattutto di Origene: Dio è l’essere in sé, come testimonia il Timeo di Platone e conferma Plutarco; egli contiene in sé, sulla scorta dell’Epinomide e della sesta Lettera sempre di Platone, una causa seconda, identificata con il Logos-Figlio-Cristo, per mezzo del quale vengono create tutte le altre realtà, tanto intelligibili quanto sensibili; Dio risulta così assolutamente trascendente e dissimile da ogni altro esistente, come indicano il Timeo, la Repubblica e il trattato di Numenio Sul bene. Anche la distinzione tra mondo sensibile e realtà intelligibile, fondamento dell’esegesi allegorica cristiana e alessandrina in specie, viene ricondotta alle Leggi di Platone, come pure la compresenza di due dynameis spirituali tra loro contrapposte, che già aveva strutturato la spiegazione origeniana del problema del male. Sempre tradizionali risultano la dimostrazione dell’immortalità dell’anima sulla base del Fedone e la fondazione dell’idea di creazione ex nihilo a partire da una peculiare forzatura interpretativa del Timeo, per cui l’attività ordinatrice del demiurgo platonico viene fatta coincidere con la volontà creatrice del Dio cristiano, attuatasi per mezzo del Logos.

Particolarmente significativa per comprendere la posizione di Eusebio nei confronti del neoplatonismo a lui contemporaneo risulta, sempre nel libro undicesimo della Preparazione evangelica, la presentazione della Trinità cristiana, svolta in evidente contrappunto al trattato plotiniano Sulle tre ipostasi prime (Enneadi V 1). La difficile collocazione dello Spirito Santo rispetto allo schema duale evidenziato in precedenza, tale da fare dubitare la critica sulla sua effettiva natura divina, sarà analizzata nel paragrafo successivo; qui va sottolineato come Eusebio affermi che coloro che si sforzano di interpretare Platone riferiscono tali parole [una citazione della seconda Lettera di Platone] al primo dio, alla seconda causa e in terzo luogo all’anima del mondo, che considerano il terzo dio; ma, secondo la nostra tradizione [cristiana] le espressioni divine hanno per principi la santa e benedetta Trinità, composta da Padre, Figlio e Spirito santo.

In Platone, dunque, era già contenuta l’idea trinitaria, di cui le tre ipostasi plotiniane costituiscono solo un’interpretazione di valore comunque inferiore alla rivelazione cristiana, in grado di spiegarla con maggior precisione.

A differenza di ciò che farà la successiva tradizione cristiana culminante in Agostino, Eusebio non assume il neoplatonismo – e in particolare il suo sistema ipostatico ternario – a strumento filosofico privilegiato per sostenere la razionalità del credo cristiano. È forse possibile trovare una spiegazione di questa scelta non solo nella volontà di mantenersi fedele all’insegnamento teologico origeniano, e quindi all’impostazione filosofica medioplatonica che lo strutturava, bensì nella necessità di difendere proprio quell’insegnamento e la persona del maestro dalle accuse che gli erano montate contro nel mezzo secolo e poco più trascorso dalla sua morte. Nel primo libro dell’Apologia per Origene, composta da Panfilo con l’aiuto di Eusebio, ma rimastaci solo nella traduzione latina di Rufino, si vuole mostrare come Origene ritenesse di natura divina le tre distinte persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; in particolare si nega che egli avesse mai sostenuto la concezione valentiniana secondo cui il Figlio sarebbe un’emanazione (probole) del Padre; probabilmente, agli occhi di Eusebio, anche la concezione neoplatonica della processione (perilampsis o proodos) della seconda e terza ipostasi dall’Uno poteva risultare passibile della medesima critica. Se si tiene presente che Porfirio, autore del poderoso trattato Contro i cristiani altrettanto poderosamente confutato da Eusebio15, aveva sostenuto che Origene, in fondo, non era che un filosofo greco travestito da cristiano, è facile vedere come l’opzione conservatrice di Eusebio per una impostazione filosofica di tipo medioplatonico e la riduzione del neoplatonismo a una tra le molte interpretazioni possibili di Platone debba essere compresa alla luce dei dibattiti e delle accuse mosse a Origene in ambito cristiano. Tuttavia, il mantenimento dello schema diadico Dio trascendente-Logos immanente permetterà a Eusebio una serie di sviluppi originali nel campo dell’ecclesiologia e soprattutto della teoria (o teologia) politica, come si vedrà in seguito.

La teologia di Eusebio

Gli aspetti principali della teologia eusebiana sono strettamente coerenti con l’impostazione filosofica sopra schematicamente delineata. Gli studi di Simonetti hanno chiarito la sostanziale continuità della teologia trinitaria di Eusebio prima, durante e dopo la crisi ariana, mettendo a confronto i contenuti teologici della Preparazione evangelica e della Dimostrazione evangelica, che precedono il concilio di Nicea, con quelli del Contro Marcello e della Teologia ecclesiastica, che sono ad esso posteriori; in questo modo, risulterebbe smentito qualsiasi condizionamento proveniente da Ario e dall’arianesimo.

In realtà, Eusebio appare del tutto in linea con il subordinazionismo cristologico implicito nel pensiero di Origene, che mantiene comunque ben ferma l’eternità e la non creaturalità del Logos-Figlio; in entrambi gli autori, si trattava di una posizione resa necessaria dal ruolo centrale svolto dal concetto di ‘monarchia divina’, che, è bene ricordarlo, costituiva il punto centrale della visione teologica cristiana – ed ebraica in precedenza –, essendo quello di ‘monoteismo’ una creazione affatto moderna. L’idea di monarchia divina implica l’assoluta trascendenza, eternità, immutabilità e autosussistenza di Dio, che diviene così necessariamente il solo principio (arche) di ogni altra realtà. Si deve altresì ricordare che l’attributo Padre assegnatogli dai cristiani a questa altezza di tempo serve ad indicare anzitutto il suo ruolo di creatore. Nelle varie illustrazioni di questo concetto chiave, Eusebio pare oscillare tra la più lontana concezione origeniana (e medioplatonica), secondo cui Dio coincide con l’essere e il bene, e quella più recente e innovativa sviluppata da Plotino e dai suoi seguaci, secondo cui invece si colloca al di là dell’essere e del bene stessi, rendendo così incongrua la tradizionale definizione medioplatonica di ‘principio primo’.

Strettamente connessa all’impostazione medioplatonica risulta invece la collocazione e la funzione del Figlio-Logos rispetto al Dio-Padre monarca: l’Unigenito Figlio è il solo capace di ricevere e contenere appieno l’abbondanza dei beni provenienti dal Padre e per questo svolge l’imprescindibile ruolo di mediatore tra quest’ultimo e le restanti creature razionali e materiali, che sono poste in essere per mezzo suo. Eusebio non fuoriesce dall’impostazione diadica propria del medioplatonismo, cosa che comporta una certa oscillazione e imprecisione nella collocazione delle idee archetipe e nell’attribuzione della qualifica di demiurgo. Quest’ultima appare a volte più coerentemente applicabile al Padre che agisce per mezzo del Logos, altre volte invece direttamente a quest’ultimo; ancora, in alcuni passi le idee sembrano essere contenute direttamente nel Dio primo, al contrario di quanto pensava Origene, mentre in altri nel Logos, in relazione alla sua qualifica di unica immagine sostanziale del Padre, concetto di derivazione biblica e particolarmente rilevante per la teologia eusebiana: il Figlio costituisce un’immagine del Padre ontologicamente differente dall’immagine secondo cui è stato creato l’uomo, perché, utilizzando una terminologia aristotelica, Eusebio afferma che il Figlio stesso «è forma e assimilato al Padre dal punto di vista della sostanza»16.

In un simile contesto, risulta evidente la difficoltà di una precisa collocazione dello Spirito Santo, che comunque viene considerato dotato di una propria specifica identità contro ogni possibile deviazione modalista. Nel già ricordato passo della Preparazione evangelica, Eusebio si esprime così al proposito:

Gli oracoli giudaici, dopo aver parlato del Padre e del Figlio, collocano lo Spirito Santo in una terza posizione, e hanno questa idea della santa e benedetta Trinità: la terza potenza [dynamis] supera ogni natura soggetta alla nascita; è il primo tra gli esseri razionali che hanno ricevuto esistenza per mezzo del Figlio, ma il terzo dopo la prima causa17.

Non è certo facile stabilire se in questo caso si possa parlare di una partecipazione anche dello Spirito Santo alla medesima natura dei primi due componenti, Padre e Figlio, o se invece resti escluso da una condizione di piena divinità. Così, nonostante Eusebio in ogni occasione ribadisca la dimensione trinitaria della fede cristiana, la sua dipendenza dalla diade medioplatonica gliene impedisce una coerente declinazione in termini filosofici, che diverrà possibile solo con l’accettazione di una teologia fondata sulle tre ipostasi di matrice neoplatonica, riveduta e corretta alla luce del dogma niceno dell’unità e unicità della sostanza divina. Ma si è già visto per quali motivi ciò gli risultasse impossibile.

Del resto, da buon discepolo di Origene, Eusebio concentra il suo interesse sul rapporto tra Dio – Padre e il Figlio – Logos e tra quest’ultimo e il mondo e l’uomo. Il Logos è altrettanto divino del Padre, in quanto da quest’ultimo generato in modo inconoscibile all’uomo prima della creazione del tempo; non si tratta infatti di una creazione ex nihilo analoga a quella del mondo, né si può in alcun modo sostenere, come volevano gli ariani, che ci sia stato un inizio cronologico in questo processo di generazione, che resta comunque un atto libero e volontario della dynamis divina, non necessitato in alcun modo. In questo senso, tutte le metafore utilizzate da Eusebio scontano una certa imprecisione, come quella celebre della luce e del raggio che da essa promana. Ovviamente, una tale generazione non comporta alcun mutamento né tantomeno diminuzione della natura divina del Padre, così come la funzione mediatrice del Logos rispetto alla creazione non ne inficia il particolare rapporto con quello.

La mediazione tra Dio e le creature viene esercitata dal Logos su tre piani, che possono essere ricondotti alla più generale categoria filosofica di attività provvidenziale: anzitutto al momento della creazione, poi nel reggimento e nel governo del mondo, infine nell’azione redentrice culminata con l’incarnazione; solo per quest’ultimo aspetto la speculazione di Eusebio assume un tratto specificamente cristiano, irriducibile alla tradizione filosofica greca.

Il Logos è strumento e cooperatore del Padre al momento della creazione, strumento necessario perché l’assoluta trascendenza del Dio primo gli inibisce ogni forma di contatto e di comunicazione con la realtà creata. Illustrativa della funzione organizzatrice e razionalizzatrice del Logos è la lunga descrizione della struttura della creazione sensibile inserita nel capitolo ottavo delle Laudes Constantini, condotta sulla successione numerica individuata dai pitagorici e derivata, tra gli altri, da Filone di Alessandria, che Eusebio conosceva grazie alla sua presenza nella biblioteca origeniana di Cesarea; dopo aver specificato che il tempo della creazione (chronos) risulta da una suddivisione del tempo eterno di Dio (aion), Eusebio prosegue:

In primo luogo collocò la sostanza unica e senza forma, come qualcosa che comprende il tutto; in secondo luogo da questa qualità fece una forma nella materia con la potenza duale, conducendola a perfezione dall’immateriale; dal numero della triade triplicandolo in larghezza, lunghezza e profondità, modellò un corpo da materia e forma. Raddoppiando il due rese il quadruplo degli elementi, la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco e li pose come fonti perenni per la fornitura del tutto. Il numero quaternario produce la decade: infatti, uno, due, tre e quattro producono il numero dieci. Tre moltiplicato per dieci genera la natura di un mese e il mese in dodici modi completa il periodo del sole, quindi i cicli degli anni e i cambiamenti delle stagioni formano il tempo senza forma e indefinito18.

Va qui osservato il ruolo decisivo svolto dal principio diadico: è la «potenza duale» (ovvero il Dio secondo, il Logos) che permette di dare forma compiuta alla materia, che si organizza così a partire dalla successione di uno, tre e dieci, come Eusebio afferma poco dopo; tuttavia, anche in questo caso il tre è producibile solo dall’unione del «numero pari [il due] aggiunto alla monade». In questo modo, Eusebio trova il modo di ribadire, all’interno della tradizionale dialettica platonica di uno e molteplice, eternità e tempo, Dio e mondo, il ruolo decisivo e complementare a quello del Padre del dio secondo medioplatonico, il Logos, dando così un’impronta personale e coerente con gli sviluppi del suo sistema all’insieme delle considerazioni numerologiche che poteva sviluppare a partire tanto dalla Bibbia, quanto dalle speculazioni filosofiche a lui precedenti o contemporanee.

Direttamente derivante dalla funzione svolta al momento della creazione risulta, quindi, l’attività di governo e mantenimento del cosmo attribuita da Eusebio al Logos; anche in questo caso, si tratta di un’idea riconducibile al concetto di provvidenza (pronoia) elaborato dagli stoici, che nel loro sistema sostituiva quello platonico di anima mundi quale prodotto immesso dal demiurgo nella creazione per il suo mantenimento successivo; va comunque ricordato come il termine ‘provvidenza’ nel contesto filosofico antico abbia il significato di principio immanente che provvede al ben ordinato e regolare funzionamento del cosmo e, al suo interno, dell’esistenza degli esseri viventi; in nessun modo, quindi, esso va inteso come una qualche forma di intervento divino nella storia, accezione che diverrà possibile solo con il cristianesimo, che però a questo proposito ricorreva al più specifico termine di ‘economia’ (oikonomia), già in uso nel II secolo. Tuttavia, era stato ancora una volta il medioplatonismo ad attenuare il carattere immanente alla natura della provvidenza stoica, per ricondurla a un diretto ancoraggio al Logos, mediatore tra il primo dio e la materia. Una simile collocazione trascendente dell’azione provvidenziale, oltre a eliminare ogni forma di panteismo, poneva la creazione, in tutto il suo funzionamento e non solo nell’atto iniziale, in una posizione di netta subordinazione al soggetto esercente la pronoia, come chi è guidato rispetto a colui che guida, chi è governato rispetto a colui che governa, aprendo una possibilità che Eusebio non esiterà a sfruttare appieno nella costruzione della sua teologia politica.

Così, il Logos costituisce la presenza vivente che mantiene in unità armonica i diversi elementi costitutivi del mondo, che altrimenti sarebbero destinati al caos e alla disgregazione; utilizzando una metafora ancora una volta di ascendenza stoica, Eusebio afferma che il Logos svolge nella creazione una funzione paragonabile a quella dell’anima nel corpo materiale, garantendo così la forma e la tenuta razionale della creazione, in virtù della propria dynamis divina. È in questo senso che va anzitutto intesa la denominazione del Logos come ‘salvatore’ (soter), sulla scorta dell’uso politico del termine che veniva applicato ai sovrani (a partire dai Tolomei), in quanto reggitori e garanti della convivenza dei sudditi.

A differenza della tradizione filosofica, però, la funzione di mediazione del Logos non si limita solo alla creazione e al mantenimento dell’universo, ma su mandato del Padre assolve pure il compito di ricondurre gli uomini alla notizia del Dio primo, dopo che essi avevano perduto l’accesso alla verità con la caduta genesiaca. Per questo compito, il Logos può avvalersi dell’aiuto degli angeli posti a guida di ciascuna nazione, riservando direttamente a sé la tutela del popolo ebraico; in questo modo, diviene protagonista di una serie di manifestazioni divine (teophaniai), registrate nella Bibbia, di cui la massima è ovviamente costituita dall’incarnazione di Cristo, resasi necessaria perché gli ebrei avevano tralignato dalla vera religione, riducendola a formalismo esteriore (e in questo senso Eusebio usa il termine ‘giudaismo’ in opposizione a ‘ebraismo’), così come le acquisizioni della filosofia greca, ispirate dagli angeli, erano degenerate nel culto politeistico per l’azione dei demoni malvagi. Si tratta di temi tradizionali dell’apologetica cristiana sin dal II secolo, che Eusebio inserisce però in una teologia della storia che, a differenza del primo abbozzo di Ireneo nel II secolo e degli sviluppi successivi, prevede una serie di interventi diretti del Logos in apparenza umana anche prima dell’incarnazione vera e propria, per depotenziare le obiezioni di parte pagana a questo riguardo e per sottolineare, al contrario, la capacità pedagogica del mediatore:

Lo stesso Logos preesistente, per eccesso d’amore verso gli uomini, si manifestò agli esseri inferiori, ora con apparizioni di angeli, ora apparendo egli stesso in forma umana – altra forma non sarebbe stata possibile allo scopo – come potenza salvifica di Dio, solo all’uno o all’altro degli uomini di un tempo [cioè del tempo precedente l’incarnazione] cari a Dio19.

L’incarnazione di Cristo si è dunque resa necessaria perché solo in questo modo la rivelazione sarebbe risultata appieno comprensibile agli uomini e dotata di una forza cogente in grado di ricondurli tutti sul cammino della verità. È questo un punto decisivo per comprendere la motivazione stessa della teologia politica eusebiana; prima di passare a essa, è però necessario chiarire come Eusebio ritenga che si sia concretamente realizzata l’incarnazione del Logos in Cristo, dato che proprio su questo punto pare allontanarsi decisamente dalle posizioni di Origene. Questi, infatti, aveva assegnato grande rilievo al ruolo giocato dall’anima umana di Cristo, quale realtà mediatrice dell’incontro tra il Logos e la carne (sarx), quest’ultima intesa come la componente schiettamente caduca e terrena del composto da cui è costituita la soggettività umana, e non semplicemente come il suo involucro esteriore. Eusebio, invece, considera l’uomo assunto dal Logos un mero strumento, come indica il lessico utilizzato per definirlo (tempio, abitazione, vestito, veicolo); l’incarnazione, pur restando la più importante, viene accostata alle precedenti teofanie in cui il Logos era apparso comunque sotto un aspetto umano. In questo modo, Eusebio può più facilmente distinguere quegli aspetti dell’incarnazione del Logos che ne indicano la natura divina (nascita virginale, miracoli, resurrezione) da quelli relativi alla dimensione umana (passione e morte), salvaguardandone così il carattere comunque trascendente in quanto dio secondo, in piena coerenza con i suoi presupposti filosofici. Se si vuole utilizzare la schematizzazione manualistica messa a punto da Alois Grillmeier, si deve dunque ricondurre la cristologia di Eusebio al modello logos-sarx, mentre Origene si atterrebbe a quello di logos-anthropos, in cui la dimensione umana e l’anima in particolare giocano un ruolo più complesso.

La teologia politica di Eusebio

I temi fondamentali della teologia politica di Eusebio derivano direttamente dal quadro teologico e filosofico sin qui descritto, e sono illustrati nel modo più compiuto nelle Laudes Constantini, nella Vita di Costantino, e negli ultimi due libri della Storia ecclesiastica; questi ultimi in particolare permettono alcune importanti precisazioni rispetto al sostanziale consenso degli studiosi sull’argomento.

La riflessione politica eusebiana si colloca esattamente nel punto di incrocio tra metafisica e storia costituito dall’ultima teofania del Logos, l’incarnazione. Essa ha rivelato in modo incontrovertibile la struttura del cosmo e la funzione esercitata dal Logos in esso, da un lato, e, dall’altro, ha affermato in maniera definitiva la sua signoria non solo sul piano metafisico, bensì anche su quello storico tra gli uomini. Eusebio rilancia la tradizionale idea apologetica della coincidenza cronologica tra la nascita dell’Impero e quella di Cristo (il cosiddetto sincronismo augusteo), che era stata ampiamente dibattuta tra i cristiani nei secoli precedenti. Se l’autore degli Atti degli apostoli e Melitone di Sardi20 inclinavano a valutarla in termini positivi, quando anche non entusiastici, e Ireneo21 e Origene22 si erano limitati a constatare come la pace augustea avesse determinato le condizioni per la diffusione del Vangelo in tutti i territori dell’Impero, il più attrezzato politologo cristiano prima di Eusebio, Ippolito, nel Commento a Daniele (IV 9) aveva invece opposto alla vera universalità del messaggio cristiano il falso universalismo imperialista dei romani, che risultavano in questo del tutto affini ai precedenti imperi universali profeticamente rappresentati dal libro biblico. Ora, le mutate condizioni storiche determinatesi con la protezione offerta da Costantino alla Chiesa permettono di sciogliere definitivamente il dubbio: la resurrezione di Cristo ne ha determinato l’intronizzazione a Signore del cosmo, come afferma Paolo, sconfiggendo senza appello i demoni; in questo modo, il Logos-Cristo ha riassunto la guida diretta non più solo del popolo d’Israele, come nell’economia veterotestamentaria, bensì dell’umanità intera.

Si tratta di temi che erano già stati sviluppati nell’apologetica di Origene; questi, però, confinava l’esercizio della signoria presente di Cristo alla sola dimensione spirituale, rappresentata imperfettamente dalla Chiesa sul piano storico. Eusebio, invece, ritiene che gli avvenimenti a lui contemporanei mostrino come pure la realtà storica si stia progressivamente allineando alla dimensione metafisica; lo dimostrano la pace e l’unità politica del genere umano che si sta realizzando, sulla scorta della pace e dell’unità propri di Dio stesso, come pure l’abbandono del politeismo e delle false religioni e la progressiva conversione di tutte le genti al Vangelo. In questo nuovo quadro, il Logos, a cui il Padre ha delegato il governo del suo regno cosmico, a sua volta sceglie l’imperatore e gli concede il potere, in pace come in guerra. Tuttavia, è ovviamente impossibile che si instauri tra l’imperatore e il Logos il medesimo rapporto che esiste tra quest’ultimo e il Dio sovrano; la natura umana dell’imperatore gli consente solo di esercitare nell’ambito dell’impero terreno un’imitazione (mimesis) dell’azione di reggimento e governo cosmico del Logos.

Sta qui la chiave specificamente cristiana della teologia politica eusebiana, che si allontana tanto dalla tradizione della politologia ellenistica, che considerava il sovrano una «incarnazione della legge» (nomos empsychos) medesima che reggeva il cosmo, quanto da quella romana, che vedeva nella divinizzazione dell’imperatore la dimostrazione della sua condizione «libera dalla legge» (a legibus solutus). L’imperatore cristiano, invece, è chiamato non solo a ricostituire in sé l’immagine di Dio, concessa a tutti gli uomini e corrottasi a seguito della caduta genesiaca, bensì anche a riprodurre sulla terra un’immagine (eikon) del regno cosmico di Dio: un compito possibile, ovviamente, solo grazie all’assistenza del Logos, che il sovrano, pur sempre un uomo, può guadagnarsi grazie alla sua personale pietà (eusebeia) e alle preghiere della Chiesa, che lo rendono «amico di Dio» (philos theou) e garantiscono la prosperità e la pace del suo regno. Così, da un lato, in qualche modo l’azione dell’imperatore prolunga l’incarnazione di Cristo, estendendola alla dimensione storica e politica del presente e, dall’altro, riporta in vita e restaura, aggiornandola, la monarchia davidica dell’Antico Testamento, realizzandone compiutamente le profezie relative a un regno di pace e di giustizia, che gli ebrei erano stati incapaci di realizzare; sulla scorta della Vita di Mosè di Filone di Alessandria, Eusebio ripropone in Costantino la coincidenza delle figure di sovrano, legislatore e sacerdote; non solo: nel nuovo orizzonte cristiano, l’imperatore è anche isapostolos, «eguale agli apostoli» o addirittura il tredicesimo tra essi, come vorrà indicare la sua sepoltura al centro di dodici cenotafi.

Risulta evidente l’impatto destrutturante che una simile concezione dovette esercitare sulla tradizionale escatologia cristiana: non è più in questione l’attesa della venuta del regno di Dio, bensì la progressiva realizzazione delle profezie veterotestamentarie di un regno di pace e di giustizia nella realtà storica dell’Impero romano e cristiano, che viene a rappresentare così l’immagine dell’invisibile sovranità cosmica del Logos; risulta impossibile conoscere, nella visione di Eusebio, quando l’Impero terreno conoscerà la fine e si compirà il destino dell’universo, anche se il Commento a Isaia dipinge gli avvenimenti finali della storia umana, il ritorno di Cristo e il giudizio finale con tratti del tutto tradizionali, sebbene privi di qualsiasi accenno millenarista. Diversamente da quanto comunemente ritenuto dalla critica, va però precisato che questa indeterminatezza escatologica non è motivata solo dalla visione metafisico-politica di Eusebio, bensì anche da precise motivazioni di ordine storico e ancor più storiografico. Sin dai Chronici canones, infatti, egli ritiene che non esista alcuna indicazione che permetta di computare cronologicamente gli avvenimenti che precedono quelli relativi ad Abramo; resta così del tutto indefinito lo spazio di tempo compreso tra quest’ultimo e la creazione; simmetricamente, non è quindi possibile formulare su solide basi alcuna proiezione per il futuro dell’umanità e della creazione a partire dal momento presente. In questo modo, risulta priva di ogni fondamento la pretesa di individuare in sei millenni la durata della creazione (e la data dell’incarnazione alla metà del quinto), idea che i cristiani avevano ereditato dal millenarismo ebraico, che era stata potentemente rilanciata da Ippolito all’inizio del III secolo e che ancora Lattanzio, pressoché contemporaneo di Eusebio e come lui cantore del neonato Impero cristiano, si rivelava incapace di abbandonare del tutto, pur ormai riconoscendo a Roma il compito di garantire la tenuta e il buon governo della realtà mondana. Tuttavia, mentre in Occidente ciò aveva portato a una versione cristianizzata dell’ideologia dell’aeternitas di Roma entro cui si colloca l’azione e la persona dell’imperatore, come mostrerà più di ogni altra l’opera di Ambrogio, Eusebio dispiega una prospettiva opposta, per la quale la persona del sovrano costituisce lo snodo attorno a cui si costruisce tutta l’interpretazione teologico-politica della realtà.

Così, a questa prima, importante precisazione per una corretta valutazione della teologia politica eusebiana se ne deve aggiungere una seconda, altrettanto significativa. Decisivo risulta infatti osservare come il rapporto mimetico tra Logos e imperatore sopra delineato venga declinato anche sul piano ecclesiale, nell’elogio del vescovo Paolino in occasione della edificazione e consacrazione della basilica di Tiro, che si legge nella Storia ecclesiastica (X 4); a lui si riconosce, all’interno dell’ordinamento episcopale, un posto secondo solo a quello di Cristo, anche se si ribadisce il merito storico degli imperatori di aver reso possibile l’affermazione del cristianesimo. Imperatori e vescovi, però, sono esplicitamente accostati quali coautori dell’opera di purificazione del mondo dalle macerie del paganesimo; decisivo, nel caso di Paolino, risulta il fatto che egli abbia assunto l’iniziativa di dare visibilità all’invisibile e all’intelligibile, grazie alla costruzione dell’edificio terreno di una chiesa, portatore di un profondo e intrinseco significato simbolico che riassume e assorbe in sé i tratti della Chiesa spirituale che nei cieli già celebra la gloria di Dio:

Chi avrebbe l’ardire di osservare e descrivere questo tempio vivente del Dio vivente, tempio formato da noi stessi – dico il santuario più grande e veramente venerabile – i cui inviolabili recessi sono vietati alla vista degli uomini, realmente santi e santi tra i santi? A chi è lecito guardare dentro i sacri recinti, se non al sommo sacerdote dell’universo [il Logos], il solo a cui è permesso scrutare i misteri di ogni anima razionale? Forse anche ad un altro [il vescovo Paolino], a lui solo tra gli uomini, è concesso occupare il secondo posto dopo di Lui. Egli è il comandante che guida questo esercito, egli è stato onorato dal primo e sommo sacerdote del secondo posto tra i sacerdoti di questo luogo, cioè il pastore del vostro gregge divino. Egli ha ricevuto in affidamento, per giudizio del Padre, il vostro popolo, come se Egli stesso lo avesse istituito quale suo servitore e interprete, nuovo Aronne o Melchisedec, reso simile al Figlio di Dio, affinché restasse tra noi, da Lui a lungo custodito, grazie alle preghiere di tutti noi. Solo a lui, quindi, dopo il primo e grandissimo sommo sacerdote sia concesso, se non per primo, almeno per secondo di vedere e scrutare i più reconditi recessi delle vostre anime. […] Il nostro primo grande sommo sacerdote dice che tutto ciò che vede fare al Padre, il Figlio lo compie similmente. Anche costui, mirando con gli occhi puri della mente al Primo come a un maestro, guarda quel che egli compie e lo prende a modello, e ne riproduce l’immagine nel modo più somigliante possibile. […] Anche costui, portando nella sua anima l’effigie del Cristo intero, Logos, Sapienza e Luce, ha innalzato questo tempio di esimia bellezza del Dio altissimo, corrispondente nella sua natura al modello di quello migliore, per quanto il visibile possa essere accostato all’invisibile23.

Come e più dell’imperatore, anche il vescovo sta in un rapporto privilegiato con il Logos, e suo compito specifico è quello di dare rappresentazione visibile, per quanto possibile, agli invisibili misteri della religione cristiana e di scrutare nell’intimo stesso dei suoi fedeli; anche in questo caso, Eusebio corregge la posizione del suo maestro Origene, che riteneva ciascuna Chiesa affidata a un angelo preposto al suo governo spirituale e circoscriveva drasticamente il ruolo del vescovo terreno. Ora invece il Logos ha direttamente delegato il governo di ogni Chiesa presente sulla terra al vescovo, che, così come dispone l’architettura dell’edificio basilicale sul modello del tempio celeste, organizza l’articolazione gerarchica del popolo cristiano: «In questo tempio vi sono anche troni, innumerevoli panche e sedie quante sono le anime in cui risiedono i doni dello Spirito santo […]. Nel capo di tutti siede, come è giusto, integro lo stesso Cristo; nei secondi dopo di lui, invece, egli siede proporzionatamente, secondo quanto ognuno è in grado di contenerlo»24.

Il rispecchiamento mimetico del Logos non è dunque demandato da Eusebio al solo imperatore; il dualismo tra imperatore (unico) e vescovi (molteplici, ciascuno però ‘monarca’ nella propria chiesa) riflette invece la funzione stessa del Logos che articola unità e pluralità nella sua funzione di mediazione tra il Padre e gli elementi del mondo, altrimenti destinati, come si è visto, alla dispersione. Il regno escatologico di Dio si rende direttamente presente sulla terra nella struttura al tempo stesso spirituale e storica della Chiesa, piuttosto che in quella dell’Impero, che costituisce solo un’immagine riflessa della basileia cosmica retta dal Logos. Il legame inscindibile così stabilitosi tra imperatore e vescovi (l’uno «vescovo di quelli di fuori» secondo l’autodefinizione che Eusebio attribuisce a Costantino, gli altri «amici dell’imperatore», ovvero suoi strettissimi collaboratori nel lessico politico tardoantico) rende poco pertinente la categoria stessa di ‘cesaropapismo’25 per definire la filosofia politica eusebiana: imperatore e vescovo costituiscono due modalità di imitazione e rappresentazione del Logos, entrambe convergenti al fine di rendere sempre più presente ed efficace la sua signoria sull’uomo e sulla storia. Si tratta dunque di un dualismo collaborativo, in cui le due forme del potere, politico ed ecclesiale, entrambe di natura ‘monarchica’, concorrono alla realizzazione del disegno divino, di cui sono diretta emanazione, su di un piano di (teorica) parità.

Per questo motivo l’unità della Chiesa risulta altrettanto importante di quella del potere politico; a differenza di quest’ultima, quella ecclesiale si realizza solo sul piano teologico dell’unità della fede, dato il carattere intrinsecamente plurale dell’articolazione territoriale delle chiese. Da qui l’enfasi eusebiana sul pericolo rappresentato dalle eresie e da ogni altra forma di lacerazione del tessuto cristiano della società, tali da comportare ogni sorta di disgrazie a segno della disapprovazione divina, e addirittura da compromettere la tenuta stessa dell’Impero: un’accentuazione che sembra avere condizionato anche alcune tra le moderne ricostruzioni storiche26 che vorrebbero attribuire a Costantino più di un qualche generico interesse per le questioni dogmatiche, mentre, più prosaicamente, la sua attenzione era volta a mantenere nella propria orbita di potere l’insieme dei vescovi, che si erano rivelati collaboratori utili e ben incardinati nelle città a sostegno della sua azione di governo – a condizione che non litigassero troppo tra di loro.

Unità e pluralità nel pensiero di Eusebio

La teologia politica di Eusebio costituisce così una tra le molteplici sfaccettature del suo pensiero, la cui articolazione risulta sostanzialmente governata da uno degli interrogativi classici del platonismo, quello relativo al rapporto tra uno e molteplice, che egli risolve restando saldamente ancorato allo schema diadico medioplatonico di Dio (monarchico) e Logos, nella peculiare declinazione che ne aveva dato Origene. Si è già visto come sia stata proprio la preoccupazione di tutelarne la memoria dall’accusa di emanazionismo cristologico a determinare l’attitudine conservatrice dell’impostazione filosofica di Eusebio. Altrettanto importate appare una seconda accusa formulata contro il maestro, che sempre l’Apologia di Panfilo intendeva controbattere, ovvero quella secondo cui Origene avrebbe negato la realtà storica degli avvenimenti narrati nelle Scritture. Anche in questo caso, una simile notazione permette di comprendere le ragioni dell’allegorismo moderato che governa l’esegesi eusebiana; soprattutto, però, deve avere rappresentato una poderosa spinta perché Eusebio concentrasse sugli avvenimenti storici, passati e presenti, il proprio interesse sin dagli esordi della sua attività intellettuale; e, per quello che si riesce a sapere, pure la potente sfida mossa da Porfirio al cristianesimo doveva risultare centrata sull’assurdità e l’irrazionalità della fede cristiana, fondata sulle mistificazioni contenute negli scritti biblici, e nei Vangeli in specie, pieni di contraddizioni che i cristiani avrebbero voluto mascherare dietro le loro allegorie.

La storia, non più solo l’esperienza sensibile, si presenta come il regno del molteplice, in opposizione al Dio uno, principio del tutto. Eusebio per primo comprese lucidamente come una religione che fondava la propria pretesa di verità su di un avvenimento storico, l’incarnazione, e la propria scaturigine da un popolo, quello ebraico, ormai politicamente estinto, dovesse inevitabilmente misurarsi con la sfida di trovare una chiave unificante dell’esperienza umana non solo sul piano atemporale della cosmologia e dell’antropologia, bensì anche su quello diacronico della storia e del potere. L’esito, ovviamente, non poteva essere altro dall’individuazione e dalla riaffermazione anche in questi ambiti del principio di unità, la monarchia divina, che governa l’intera realtà creata. La funzione del Logos, presente e attivo nella vicenda umana con le sue teofanie all’indomani della caduta genesiaca, è quella di rappresentare il punto di snodo tra unità del disegno divino e pluralità delle sue manifestazioni in questo mondo. La teologia politica eusebiana è volta a mostrare come gli avvenimenti a lui contemporanei rendano finalmente attingibile da tutti gli uomini questa profonda verità e soprattutto come essa stia finalmente emergendo quale effettiva realtà, disvelando la propria intrinseca razionalità e, insieme a essa, quella della fede cristiana.

Erik Peterson pose a esergo del suo Monoteismo una frase tratta dal De vera religione di Agostino: «Anche la superbia ha dunque brama di unità [appetitum unitatis] e di onnipotenza, ma nel predominio sulle cose terrene, che tutte passano come ombra»27. La polemica era trasparentemente diretta contro lo slogan nazista Una terra, un popolo, un Führer, ma finì per travolgere soprattutto quella che appare come la sincera, forse un po’ ingenua ricerca eusebiana della presenza del Dio uno non solo nella filosofia e nella teologia, bensì pure nella politica e nella storia che più direttamente sperimentano gli uomini.

1 Si indicano qui i principali studi relativi a ciascuno dei tre ambiti presi in considerazione, che verranno successivamente citati in forma abbreviata. Sulla filosofia di Eusebio vanno ricordate le monografie di H. Berkhof, Die Theologie des Eusebius von Caesarea, Amsterdam 1939; e di E. des Places, Eusèbe de Césarée commentateur. Platonisme et écriture sainte, Paris 1982, che risentono ancora di un giudizio fortemente limitativo, come pure gli articoli di F. Ricken, Die Logoslehre des Eusebios von Caesarea und der Mittelplatonismus, in Theologie und Philosophie, 42 (1967), pp. 341-358; Id., Zur Rezeption der platonischen Ontologie bei Eusebios von Kaisareia, Areios und Athanasios, in Theologie und Philosophie, 53 (1978), pp. 321-352. Per una presentazione sintetica ma equlibrata del profilo filosofico di Eusebio si veda C. Moreschini, Storia della filosofia patristica, Brescia 2004, pp. 319-328. Sulla teologia, ovviamente in connessione con la dimensione filosofica: G. Ruhbach, Apologetik und Geschichte. Untersuchungen zur Theologie Eusebs von Caesarea, Diss. Heidelberg 1962, che non riconosce alcuna originalità alla teologia eusebiana, appiattendola sul concetto di ‘origenismo’; in specie sulla cristologia di Eusebio: W. Weber, ARXH. Ein Beitrag zur Christologie des Eusebius von Caesarea, München 1965; decisivi, come si dirà, gli studi di M. Simonetti, Teologia alessandrina e teologia asiatica al concilio di Nicea, in Augustinianum, 13 (1973), pp. 369-398; Id., La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975, pp. 60-66; Id., Il problema dell’unità di Dio in Oriente dopo Origene, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 25 (1989), pp. 193-233; ora il riferimento è H. Strutwolf, Die Trinitätstheologie und Christologie des Euseb von Caesarea. Eine dogmengeschichtliche Untersuchung seiner Platonismusrezeption und Wirkungsgeschichte, Göttingen 1999; la teologia eusebiana è studiata in una chiave comparativa da J.R. Lyman, Christology and cosmology. Models of divine activity in Origen, Eusebius and Athanasius, Oxford 1993; e da J. Robertson, Christ as mediator. A study of the theologies of Eusebius of Caesarea, Marcellus of Ancyra and Athanasius of Alexandria, Oxford 2007. Infine, sulla teologia politica fondamentale resta R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea. La prima teologia politica del cristianesimo, Zurigo 1966; dopo questo studio vanno ricordati J.M. Sansterre, Eusèbe de Césarée et la naissance de la théorie cesaropapiste, in Byzantion, 42 (1972), pp. 533-594; e T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge 1981; aspetti importanti della teologia politica eusebiana sono trattati inoltre in M.J. Hollerich, Eusebius of Caesarea’s “Commentary on Isaiah”. Christian exegesis in the age of Constantine, Oxford 1999, pp. 103-201.

2 J. Burckhardt, L’età di Costantino il Grande, Roma 1970 (ed. or. Leipzig 1880), p. 380.

3 F.C. Overbeck, Über die Anfänge der Kirchengeschichtsschreibung. Programm zur Rektoratsfeier der Universität Basel, Basel 1892, p. 28.

4 E. Peterson, Il monoteismo come problema politico, Brescia 1983 (ed. or. Leipzig 1935).

5 Il nesso tra subordinazionismo cristologico e subalternità politica della Chiesa è stato enfatizzato, dopo Erik Peterson, soprattutto da G.H. Williams, Christology and Church-State relations in the fourth century, in Church History, 20/3 (1951), pp. 3-33.

6 C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio, P. Schiera, Bologna 1972 (ed. or. Leipzig 1922), pp. 27-86.

7 Ad esempio D.Chr., 12.

8 Ad esempio Varrone, riportato e criticato da Agostino nel sesto libro nel De civitate Dei.

9 R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano, cit.

10 M. Simonetti, Teologia alessandrina e teologia asiatica, cit.; Id., La crisi ariana nel IV secolo, cit., pp. 60-66; Id., Il problema dell’unità, cit.

11 H. Strutwolf, Die Trinitätstheologie und Christologie, cit.

12 J.M. Robertson, Christ as mediator, cit.

13 Così G. Dagron, Empereur et prêtre. Étude sur le “césaropapisme” byzantin, Paris 1996, pp. 141-154; sul tema però si veda almeno E. Patlagean, Théologie politique de Byzance. L’empereur, le Christ, le patriarche, in Teologie politiche. Modelli a confronto, a cura di G. Filoramo, Brescia 2005, pp. 149-161.

14 Sul problema dell’attribuzione del Discorso di ringraziamento, che riporta la diretta testimonianza di un discepolo sulle modalità e i contenuti dell’insegnamento di Origene a Cesarea, si veda Gregorio il Taumaturgo (?), Encomio di Origene, a cura di M. Rizzi, Milano 2002; da ultimo, sullo status quaestionis, cfr. Il giusto che fiorisce come palma. Gregorio il Taumaturgo fra storia e agiografia, Atti del Convegno (Staletti 9-10 novembre 2002), a cura di B. Clausi, V. Milazzo, Roma 2007.

15 Di entrambi i trattati, però, sono giunti solo frammenti.

16 Eus., d.e. V 1,21.

17 Eus., p.e. XI 21,20.

18 Eus., l.C. 8,5, trad. M. Amerise.

19 Eus., h.e. I 2,21, trad. F. Migliore.

20 Citato dallo stesso Eusebio, h.e. IV 26,7-8; tranne questo frammento, l’Apologia di Melitone è andata perduta.

21 Iren., 4,30,3.

22 Or., Cels. II 30.

23 Eus., h.e. X 4,22-26.

24 Eus., h.e. X 4,67.

25 Ovvero di un sistema in cui il sovrano terreno è contemporaneamente capo riconosciuto e ammesso della gerarchia ecclesiastica, condizione che si riterrebbe propria e caratteristica dell’impero bizantino; su questa linea G. Dagron, Empereur et prêtre, cit.

26 Esemplare in questo senso, anche per l’influenza esercitata, A.H.M. Jones, Constantine and the Conversion of Europe, London 1948.

27 Aug., vera relig. 45,84.

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