Telescopio

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telescopio Qualsiasi strumento che consente di vedere oggetti distanti. In particolare, gli strumenti, in genere ottici, per l’osservazione (telescopia) dei corpi celesti.

Astronomia

Generalità

I t. si dividono in t. rifrattori, o diottrici (detti cannocchiali), se l’obiettivo è fatto con lenti, in t. riflettori, o catottrici, se la focalizzazione si ottiene con specchi, in t. catadiottrici, se si usano entrambi gli elementi ottici. I t. hanno la forma di un tubo, come il cannocchiale, o sono costituiti, come quelli di grandi dimensioni, da una rigida struttura meccanica, detta ragno (o spider), che mantiene gli specchi allineati. Di forma più complessa sono i t. per le regioni estreme dello spettro elettromagnetico (➔ radiotelescopio). Mediante il t. si aumenta la quantità raccolta di radiazione in arrivo dalla sorgente d’interesse (che, per una sorgente puntiforme quale è un corpo celeste, è proporzionale al quadrato del diametro dell’obiettivo usato), per rivelare sorgenti altrimenti non percepibili. Dai pochi millimetri di diametro della pupilla di un occhio abituato al buio, si passa alla decina di centimetri dei primi strumenti fino ai 10 m dei grandi t. attuali. I primi t. sono stati progettati per osservare sorgenti celesti nel visibile; l’aumento del potere risolutivo ha permesso di osservare le sorgenti celesti sempre più in dettaglio.

Un t. di diametro D, che raccoglie radiazione elettromagnetica di lunghezza d’onda λ proveniente da una sorgente puntiforme, produce una figura di diffrazione; la separazione angolare minima per distinguere due sorgenti è 2,52∙105 λ/D secondi d’arco; a parità di λ, maggiore è D migliore è la risoluzione spaziale. Nel visibile (luce gialla λ=5500 Å), mentre un occhio umano distingue oggetti distanti tra loro 23 secondi d’arco, un t. con D=30 cm ha una risoluzione di 0,5 secondi d’arco.

Progettazione di un telescopio

I parametri che caratterizzano un t. sono il diametro DP e la lunghezza focale FP dello specchio primario (quest’ultima uguale a Rcp/2 con Rcp pari al raggio di curvatura al vertice dello specchio), la lunghezza focale totale F e la posizione del piano focale rispetto agli specchi, per es. la sua distanza dal vertice del primario. Il rapporto tra lunghezza focale e diametro di un sistema ottico definisce il rapporto focale, detto anche f-number, f, pari all’inverso dell’apertura relativa. In un t. si hanno quindi un f-number per lo specchio primario, fP=FP/DP, e uno per lo strumento, f=F/DP. Il rapporto tra i due è la magnificazione, o ingrandimento, del sistema γ=fP/f. Un parametro che descrive le prestazioni di un t. è la sua scala focale, cioè la corrispondenza tra angolo in cielo e dimensione sul piano immagine, di norma espressa in secondi d’arco per millimetro (″/mm). La quantità di radiazione raccolta da un t. è proporzionale alla sua area e all’angolo solido osservato, Ω≅(DP/F)2. Una risoluzione angolare alta, cioè un piccolo Ω, è incompatibile con un’alta sensibilità. Definiti i parametri di partenza per dimensionare un t., in base a vincoli finanziari e scientifici, il resto della progettazione è legato a una prima analisi di ottica geometrica, fondata sull’approssimazione di Gauss. Considerando solo i raggi parassiali, molto prossimi all’asse ottico e con piccola vergenza, cioè con piccolo angolo di incidenza, si ricavano la separazione tra gli specchi d, la focale del secondario FS e quindi la curvatura cS e il diametro dello specchio secondario DS. La scelta dei profili degli specchi, cioè le costanti coniche delle superfici di rivoluzione che li definiscono, dipende dalla correzione delle aberrazioni. La qualità di un’immagine è comunque soggetta alla diffrazione; le altre cause di disturbo, come turbolenza atmosferica e limitazioni meccaniche, possono essere modificate.

Come parametro di merito per un t. si usa il parametro di Strehl, rapporto tra l’intensità del picco dell’immagine reale e quella prevista dalla diffrazione; esso deve essere maggiore di 0,8. Progettazione e realizzazione degli specchi sono semplificate da software per l’ottimizzazione ottica e da macchine a controllo numerico nei processi lavorativi. Nella progettazione di un t. vanno considerate l’ostruzione ε=DS/DP, (dovuta al secondario lungo l’asse ottico) che deve essere minore del 30%, e la radiazione non desiderata. In un t. non protetto con schermi, la luce proveniente da una direzione diversa dal campo osservato può raggiungere direttamente il piano immagine e ciò è più rilevante in caso di specchi con focali del primario corte; si tende perciò a ridurre fP per avere t. più compatti e diminuire i costi. In genere nei t. astronomici il campo osservato è capovolto: se è necessario il campo diritto si usano sistemi ottici correttori, come gli oculari per i cannocchiali terrestri.

Evoluzione del telescopio

Nel 1609, Galileo realizzò a Venezia un cannocchiale con il quale fece numerose scoperte astronomiche, compresa quella dei quattro maggiori satelliti di Giove. Al cannocchiale di Galilei, che egli chiamava occhiale, l’Accademia dei Lincei nel 1611 diede il nome di telescopium. Gli sviluppi successivi mirarono a ottenere una migliore luminosità, con la costruzione di lenti più grandi, e una migliore scala angolare, con l’aumento della lunghezza focale. A parte i seri problemi meccanici di flessione, il principale problema ottico sorse dagli effetti cromatici – la variazione dell’indice di rifrazione del materiale delle lenti in funzione della lunghezza d’onda – e fu parzialmente risolto dall’ottico C. Hall, nel 1729, con l’invenzione di lenti composite formate da vetri differenti. Al crescere delle dimensioni delle lenti, cominciarono a manifestarsi notevoli problemi di flessione meccanica causata dalla gravità, che limitarono a 1 m il diametro massimo dei telescopi a rifrazione (o diottrici).

fig. 1A
tab. 1

Questi due problemi principali furono risolti dai telescopi a riflessione (o catottrici), nei quali le lenti furono rimpiazzate da specchi. Lo schema ottico di un t. catottrico è quello di un cannocchiale, con l’obiettivo costituito da uno specchio concavo, detto anche primario, anziché da una lente, e con l’oculare anteriore all’obiettivo, poiché l’immagine si forma nel piano focale dello specchio; per evitare che l’osservatore, ponendosi all’oculare, limiti il campo dell’obiettivo, si hanno vari schemi per intercettare al minimo i raggi diretti all’obiettivo. Nel 1668 I. Newton realizzò il primo t. riflettore con specchio primario sferico concavo, specchio secondario piano, a 45° rispetto all’asse ottico e piano focale laterale di fig. 1A (t. newtoniano). Sostituendo lo specchio primario sferico con il parabolico, si annullò poi l’aberrazione sferica. Cinque anni prima J. Gregory descriveva nella sua opera Optica promota un t. riflettore con specchio primario parabolico e secondario ellittico, entrambi concavi, per cui il fuoco del primario coincide con un fuoco dell’ellisse (t. gregoriano). Il fuoco totale f, coincidente col secondo fuoco dell’ellisse, cade dietro lo specchio primario, in cui si pratica un foro (fig. 1B). Nel successivo t. gregoriano aplanatico, si correggevano le aberrazioni di sfericità e coma con uno specchio primario ellissoidico. Nel 1672 G. Cassegrain sostituì al secondario ellittico del t. gregoriano uno specchio iperbolico convesso (fig. 1C). I raggi provenienti dal primario sono riflessi dal secondario verso il secondo fuoco dell’iperbole. La focale di un t. di Cassegrain è molto lunga, anche se lo strumento è compatto. Esistono varianti del t. di Cassegrain (in generale un t. con 2 specchi), quali il t. Ritchey-Chrétien e il t. Dall-Kirkham. Nel primo, entrambe le superfici sono iperboloidi di rivoluzione, nel secondo il primario è ellittico, il secondario sferico. Nella tab. 1 sono elencate alcune soluzioni ottiche, e le loro proprietà salienti, con cui sono realizzati i t. riflettori. Grazie agli ottici J. Hadley e J. Short (1723) si ebbero specchi parabolici buoni, ma, poiché in metallo, pesanti e soggetti a calo della riflettività per l’ossidazione superficiale.

Quasi in contemporanea, grazie allo sviluppo di obiettivi per ridurre l’aberrazione cromatica, si considerarono di nuovo i t. rifrattori, come quelli di C. Moore Hall (1733) e di J. Dollond (1758). Con l’uso di due lenti (come nel diffuso doppietto acromatico), di cui una doppio-convessa di vetro crown e una piano-convessa di vetro flint, si poté correggere questa aberrazione. Verso la metà del 19° sec. il chimico J. von Liebig riuscì a depositare argento su superfici di vetro. Ciò consentì di aumentare le dimensioni dei t., essendo più facile lavorare una sola grande superficie da metallizzare anziché le due delle lenti. Dovendo poi essere omogenea solo la superficie, nella fusione dei grandi blocchi di vetro si poterono trascurare eventuali bolle d’aria nell’interno. Inoltre, invece di grandi lenti molto spesse, per cui l’assorbimento della luce era elevato come anche le deformazioni strutturali, si poterono montare specchi di pari diametro su strutture indeformabili, sfruttando la parte posteriore.

Altro problema dei t. rifrattori fu quello della limitata banda di osservazione, poiché il vetro assorbe la radiazione UV e quella nel lontano infrarosso (IR). Nel 1857 L. Foucault costruì un t. con specchi di vetro argentati. Grazie alla tecnologia dell’alto vuoto, dal 1930 si poté depositare alluminio sul vetro ed evitare l’ossidazione dell’argento. Il vantaggio degli specchi di vetro fu anche nell’avere un fuoco stabile nel tempo, per le ridotte deformazioni di origine termica. La stabilità termica migliorò ancora grazie a materiali come il quarzo (che ha basso coefficiente di dilatazione termica ma che è difficile lavorare in grandi blocchi), o il pyrex, il cervit e lo zerodur, molto usati nei grandi telescopi attuali.

Configurazioni e tipi di telescopi

La configurazione di un t. si può modificare per un uso specifico. Infatti, un t. può avere più punti focali; con l’aggiunta di pochi elementi ottici se ne ottengono altri, da dove osservare o dove installare strumentazione per la rivelazione. Per es. si può avere un fuoco primario, un fuoco Nasmyth e un fuoco Coudé. Nel fuoco primario si montano i rivelatori direttamente al fuoco dello specchio primario. Nel fuoco Nasmyth tra i due specchi se ne interpone un terzo, piano, che rimanda lateralmente il fuoco, come nella configurazione newtoniana; il fuoco Nasmyth si usa nei sistemi di rivelazione di grandi dimensioni e massa nei t. con montatura altazimutale (➔ montatura) senza gravare nella meccanica di puntamento. Il fuoco Coudé si ottiene mediante uno specchio secondario con un forte ingrandimento, in pratica in caso di lunghe distanze focali; più specchi riportano il fuoco lateralmente al t. e poi nel laboratorio dove si trova la strumentazione del piano focale (t. di Coudé). Si ha così l’immagine nella stessa posizione, durante tutto l’inseguimento di una sorgente in cielo, ma con lo svantaggio che il campo di vista, di norma piccolo, ruota durante l’inseguimento, essendo l’ottica di riporto solidale con il laboratorio. Nelle osservazioni spettroscopiche la rotazione non perturba la misura ma, dovendo evitarla, si ricorre a un sistema ottico (derotatore).

Una delle limitazioni dei t. descritti è il ristretto campo di vista corretto. Per porzioni del piano focale estese si manifestano forti aberrazioni, come coma e astigmatismo. Per osservare vaste regioni di cielo (dell’ordine di 5 gradi per 5 gradi) si usa un t. di Schmidt (fig. 1D). Al centro di curvatura c di uno specchio sferico è posta una lamina di vetro, detta lastra correttrice di Schmidt, sagomata per correggere aberrazione sferica dovuta al primario, coma e astigmatismo. Specchio sferico e lastra di Schmidt insieme equivalgono otticamente a uno specchio parabolico. L’aberrazione cromatica dovuta alla lamina si minimizza riducendone lo spessore. Il vantaggio di un grande campo di vista si paga con un t. lungo, almeno il doppio della distanza focale primaria e con un piano focale curvo. In fig. 1E è mostrato un t. catadiottrico con grande campo come lo Schmidt, il t. di Bouwers monocentrico. Ideato negli anni 1940, prevede al posto della lastra correttrice una lente biconcava con centro di curvatura delle superfici coincidente con quello del primario e della superficie focale; una sua variante è il t. Maksutov, a superfici sferiche non concentriche.

Mentre il diametro massimo dei t. rifrattori è circa 1 m, i riflettori sono più grandi. Il più grande t. ottico di proprietà dell’INAF è il telescopio nazionale Galileo (TNG), un t. riflettore di 3,58 m di diametro. T. Schmidt italiani sono quello di Campo Imperatore sul Gran Sasso e quello dell’Osservatorio di Asiago vicino a Padova. Nel caso dei t. riflettori, nella banda visibile si hanno diametri tra 5 e 10 m, nel lontano IR si è arrivati fino a 30 m; i radiotelescopi raggiungono i 100 m (e anche i 300).

Gli specchi per i t. di nuova generazione, nel visibile e nell’IR, sono a elementi multipli, a menisco sottile e a nido d’ape. Negli specchi a elementi multipli la grande area di raccolta della radiazione è composta da molti piccoli elementi riflettenti, di più facile lavorazione ma per i quali diviene critico il corretto posizionamento. Gli specchi a menisco sottile hanno un peso contenuto, grazie alla riduzione dello spessore, a spese però di un sistema di attuatori meccanici necessari per controllare il profilo nelle varie condizioni di lavoro. Negli specchi a nido d’ape, rigidità e leggerezza si hanno grazie a una struttura di vetro che sostiene una sottile superficie riflettente (specchio passivo).

I controlli

La tecnologia delle ottiche attive si è sviluppata per compensare le cause di disturbo che agiscono sull’immagine con tempi maggiori dell’ora. Tra queste vi sono le deformazioni strutturali del t. dovute alla gravitazione (variabili con la posizione del t. durante l’inseguimento di una sorgente), o al vento o agli stress termici. In presenza di un controllo attivo sono meno stringenti i requisiti su disegno e realizzazione delle ottiche, vista la possibilità di successiva modifica. Le correzioni si hanno mediante una schiera di attuatori meccanici agenti sul retro dello specchio primario per compensare la variazione sul fronte d’onda incidente indotta dal disturbo esterno. Lo specchio è a elementi multipli o a menisco sottile. Anche la posizione dello specchio secondario si può modificare in un t. con ottica attiva. Nel caso di specchi a elementi multipli si controlla la posizione del singolo pannello. Un analizzatore di fronte d’onda può minimizzare le aberrazioni (statiche, o lentamente variabili a seconda dell’orientamento del t. o delle condizioni ambientali) della configurazione, cioè sfocamento, aberrazione sferica, coma, astigmatismo, disallineamento. Quando i tempi dei disturbi sull’immagine sono brevi (dell’ordine del millesimo di secondo), si usa l’ottica adattiva.

La causa di disturbo maggiore è la turbolenza atmosferica (con un effetto di sfocamento dell’immagine detto seeing); la correzione è analoga a quella dell’ottica attiva, con elemento ottico deformabile, sensore del fronte d’onda ed elaboratore di controllo. Poiché la frequenza del disturbo è elevata, il sistema di correzione è a bassa inerzia meccanica (in pratica lo specchio che si deforma è piccolo): si interviene su un sistema di specchi di piccole dimensioni (tipicamente una decina di centimetri), movimentabili e deformabili a frequenze confrontabili con quelle della turbolenza stessa, cioè tra 10 e 1000 Hz. L’efficacia della correzione dipende da molti fattori, tra cui la lunghezza d’onda di osservazione. Nel vicino infrarosso la correzione può fornire, almeno in prossimità dell’asse ottico del t. (cioè sul cosiddetto campo isoplanatico, la cui estensione può arrivare al primo d’arco), immagini al limite della diffrazione ottica e confrontabili con quelle del t. spaziale Hubble.

Un altro modo di superare i limiti di turbolenza è quello di fare una serie di immagini di brevissima posa (qualche centesimo di secondo) attraverso filtri spettrali molto stretti e con t. di grande lunghezza focale. Questa tecnica è detta di interferometria speckle (➔), dato che sfrutta l’interferenza sul piano focale di raggi che arrivano da ciascuna cella di seeing sull’apertura dello specchio primario. La stella produce in tal modo in ogni immagine un gran numero di macchioline luminose il cui diametro è quello della figura di diffrazione.

T. spaziali e t. terrestri

fig. 2

Già alla fine degli anni 1970 era chiaro che l’osservazione nel visibile con t. classici da terra aveva raggiunto i suoi limiti. Il disturbo atmosferico impedisce a t. sempre più grandi di produrre immagini in proporzione più distinte. I t. spaziali hanno il vantaggio fondamentale di poter esplorare regioni dello spettro elettromagnetico altrimenti inaccessibili da terra, nel caso di HST, la banda UV e il vicino IR. Lo Hubble Space Telescope (HST; fig. 2), messo in orbita nel 1990, su un’orbita bassa (600 km di quota), e periodicamente sottoposto a manutenzione da astronauti per l’installazione di strumenti via via più avanzati, è un Ritchey-Chrétien con specchio primario c da 2,4 m di diametro e focale effettiva 57,6 m, alloggiato in un satellite di 13,3 m di lunghezza e 4,3 m di diametro, della massa di 11 tonnellate. HST si caratterizza per l’elevata qualità delle immagini, prossima al limite teorico della diffrazione grazie alla correzione dell’aberrazione sferica. Nel 2003 la NASA ha lanciato il t. spaziale Spitzer basato sull’utilizzo delle radiazioni infrarosse, che ha terminato la sua missione nel 2020, mentre nel dicembre 2021 l’agenzia spaziale in missione congiunta con la ASI ha lanciato il telescopio Ixpe-Imaging X-ray Polarimetry Explorer, in grado di fornire misure contemporanee di polarizzazione e di studiare, tra gli altri, pulsar, microquasar e nuclei galattici attivi; nel gennaio 2022 ha raggiunto il suo punto di osservazione, a un milione di miglia dalla Terra, il James Webb Space Telescope, t. spaziale infrarosso sviluppato come sostituto (parziale) di HST. Costruito e gestito in cooperazione da NASA e ESA, la sua missione è esaminare il residuo a infrarossi del big-bang per poter determinare le condizioni iniziali di formazione dell’Universo. Ciò richiede di schermare i sensori dalle interferenze infrarosse provenienti da Sole, Terra e Luna, per cui l’orbita prescelta è lagrangiana (altezza orbitale pari a 1,5 × 106 km dalla Terra), in modo da mantenere costante la posizione del Sole e della Terra rispetto al t. e quindi rendere efficace lo schermo.

L’elevatissimo costo dei t. spaziali rende necessario utilizzare i t. terrestri per la maggior parte delle osservazioni. I t. terrestri di 4-8 m hanno significativi vantaggi su HST nelle bande accessibili da Terra, per il maggior diametro D, che consente la raccolta di molti più fotoni, essenziale per scopi spettroscopici. Inoltre, soprattutto nel vicino IR, l’uso dell’ottica adattiva consente immagini di pari qualità ottica, dato che la dimensione angolare della figura di diffrazione è funzione di λ/D. Infine, i t. terrestri si usano anche in configurazione interferometrica, combinando i fasci luminosi provenienti da più aperture distinte in un’unica immagine. Ciò fornisce una risoluzione angolare determinata non dal diametro dello specchio ma dalla distanza tra le aperture (o tra i diversi specchi), purché si mantenga la coerenza dei vari fasci di luce.

tab. 2

Oltre che per la tecnica di costruzione degli specchi e l’adozione di ottiche attive e adattive, i t. moderni si distinguono per la cura nella scelta del sito e nel controllo dell’ambiente, entro la cupola e nello spazio adiacente, per non aggiungere turbolenza a quella naturale. Una scelta oculata è importante, per es., perché la correzione fornita dall’ottica adattiva è migliore se già il seeing naturale è buono. Essa si esegue confrontando il fronte d’onda proveniente dall’oggetto in esame con quello di una stella vicina. In una data area di cielo le stelle brillanti in grado di fornire un buon fronte di riferimento sono poche e una soluzione, nata per applicazioni militari, è creare una stella artificiale in moto assieme al puntamento del telescopio. In pratica, si illumina per mezzo dello stesso t., con un potente fascio laser alla lunghezza d’onda del doppietto giallo del sodio, lo strato di sodio atmosferico a quota di circa 90 km, producendo una stella artificiale gialla. Nella tab. 2 sono elencati alcuni dei t. della nuova generazione.

Un t. universale è un t. che assolve a tutte le varie funzioni richieste normalmente a un t. visuale e fotografico, di norma affidate a più strumenti, come l’operare con distanza focale variabile e come astrografo. Usando, per es., come riflettore principale uno specchio sferico del diametro di 2 m (la distanza focale di tale specchio, usato come obiettivo quando si voglia grande luminosità, è di 4 m, con apertura relativa 1:2), se si combina con esso un piccolo specchio iperboloidico secondo lo schema di Cassegrain, la distanza focale passa a 20 m (apertura relativa 1:10), utile in fotometria, mentre se si combina uno specchio iperboloidico e specchi piani secondo lo schema di Coudé, la focale sale a 92 m (apertura relativa 1:46); come quarta possibilità si ha poi un t. di Schmidt, ottenuto applicando allo specchio principale una lastra correttrice del diametro di 1,34 m: si ha così un obiettivo di apertura relativa circa 1:3 e focale 4 m, con un campo otticamente corretto di 24 cm × 24 cm nel piano focale. Un t. zenitale è uno strumento per la misurazione di distanze zenitali di astri, molto usato per studiare le variazioni della latitudine.

Fisica

fig. 3

T. di contatori Dispositivo per studiare radiazioni corpuscolari, in particolare quella cosmica. È costituito da alcuni contatori di particelle disposti e collegati in modo da selezionare, fra le particelle in arrivo, quelle provenienti da date direzioni. Per es., i due contatori a e b di fig. 3, collegati a un registratore ‘a coincidenza’ c (che conta cioè solo gli eventi che si producono in ambedue i contatori e che siano separati da un fissato intervallo temporale), forniscono un t. che registra solo le particelle provenienti da una direzione compresa in uno stabilito angolo solido (campo del t.), di cui una sezione è indicata in figura.

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