Teatro

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Teatro

Ferdinando Taviani
Raimondo Guarino
Mirella Schino
Nicola Savarese
Raimondo Guarino
Franco Ruffini

(XXXIII, p. 353; App. II, ii, p. 948; III, ii, p. 902; IV, iii, p. 583; V, v, p. 480)

Parte introduttiva

di Ferdinando Taviani

Scorrendo le voci dedicate al t. nell'Enciclopedia Italiana (soprattutto le voci complessive teatro, e poi: attori, commedia, commedia dell'arte, dramma, dramma liturgico, farsa, giullari, mimo, scenografia, tragedia, varietà, e la voce regia introdotta nell'App. II, ii, p. 678, poi ripresa nella IV, iv, p.187) si possono ricostruire sia alcune linee di sviluppo delle arti sceniche, sia il mutare dei criteri per osservarle. È significativo che dal 1925 fino al 1948 (App. II) della redazione dell'Enciclopedia facesse parte, per sovrintendere alle voci d'argomento teatrale, Silvio D'Amico, che fu uno dei principali artefici del rinnovamento della cultura teatrale italiana, fondatore dell'Accademia d'arte drammatica e più tardi della grande impresa (senza eguali in altri paesi) dell'Enciclopedia dello spettacolo. Altrettanto significativo è il fatto che nel vol. XXXIII dell'Enciclopedia il lemma teatro sia suddiviso nei sottolemmi L'edificio del teatro e Vita teatrale, segno d'una perdurante difficoltà a circoscrivere un ambito specifico dell'arte scenica. Di grande interesse anche l'ampia voce attori (nel vol. V), firmata dallo stesso D'Amico, dove la scelta del plurale rappresenta l'impianto perlustrativo per ambienti e situazioni storiche, senza alcun tentativo di individuare uno specifico dell'attore. Diversa la scelta che D'Amico adotterà per l'Enciclopedia dello spettacolo, all'inizio degli anni Cinquanta, dove il lemma (affidato a G. Guerrieri) comparirà al singolare, assumendo, sia pure con cautela, un andamento misto, da un lato di ricapitolazione storica, dall'altro d'impostazione teorica, segno di un auspicio di scienza dei teatri. Con il passar del tempo, da un'Appendice all'altra dell'Enciclopedia, si assiste a uno sviluppo che, partendo da una visione basata sulla centralità del testo drammatico (appropriata alla cultura e alla pratica che ancora caratterizzavano la civiltà teatrale degli anni Trenta), conduce a una visione che dà sempre più spazio all'autonomia dell'arte scenica; un'autonomia che si manifesta anche attraverso il lemma regia, che viene inserito in maniera ancora guardinga da D'Amico nell'App. II e che nella IV si dilata a opera di Luigi Squarzina, uno degli studiosi e degli artisti che più hanno contribuito a mutare il volto del t. italiano nel secondo dopoguerra. La perdita della centralità della letteratura non vuol dire che nell'ordinamento delle voci d'argomento teatrale vengano trascurati gli apporti e le novità che caratterizzano la letteratura drammatica (i riferimenti andranno cercati non solo nelle voci specificamente teatrali, ma anche in quelle dedicate alle letterature nazionali e alle biografie degli scrittori), ma a essi si accostano sempre più numerosi i riferimenti all'arte dello spettacolo in senso stretto. La sezione dedicata al t. nella presente Appendice segue a una distanza di tempo relativamente breve gli aggiornamenti dell'App. V: il suo compito quindi non è tanto di fornire ulteriori notizie, quanto di delineare un quadro d'insieme che tenti di indicare le linee maestre dell'eredità teatrale che il Novecento consegna al Duemila. Le esperienze, le opere e le persone cui si fa riferimento in questa sezione, anche quando i rinvii saranno impliciti e ridotti, sono sempre facilmente reperibili nelle voci dei volumi precedenti. Già la voce teatro dell'App. V assumeva a tratti un andamento da ricapitolazione. Essa andrà quindi presupposta, soprattutto per quel che riguarda le vicende di quei t. o di quegli artisti e scrittori drammatici che nella propria avventura riassumono aspetti importanti del destino e delle profonde metamorfosi del t. nel 20° secolo.

Teatri, società e modi di produzione

di Ferdinando Taviani

I mutamenti avvenuti nel t. del Novecento sono radicali: all'inizio del secolo i t. erano ditte per il commercio degli spettacoli, alla sua fine sono beni culturali sovvenzionati; all'inizio, il t. era lo spettacolo per eccellenza, alla fine è divenuto un'eccezione; all'inizio si poteva parlare di t. al singolare, alla fine Teatro è diventato un singolare collettivo, e si può pensare solo in termini di Teatri. Il mercato teatrale non è più quello della produzione e distribuzione dei divertimenti: la sua economia dipende dal valore che viene attribuito, nei diversi paesi, ai beni culturali, al loro mantenimento e all'esercizio delle arti. Ciò che per il t. fu sempre semplicemente ovvio (il carattere effimero dello spettacolo), assume, alla fine del 20° secolo, il valore d'una rarità. Per la prima volta nella storia esistono spettacoli non legati alla dimensione effimera, ma filmati, registrati e teletrasmessi, immagini che, una volta fissate, perdurano relativamente immutate, oggetti d'arte o d'intrattenimento alla stessa stregua d'un libro o di un affresco: e i t. si distinguono come 'spettacolo vivente', o 'al vivo'. Il loro carattere effimero o è semplicemente arcaico oppure è la fonte di un particolare valore.

Il Novecento teatrale è stato un secolo di metamorfosi. Ma ciò che al suo termine emerge non è tanto una scena tumultuosa e mutante, quanto un luogo dei mutamenti, un laboratorio delle forme di relazione. Eppure, le metamorfosi teatrali profonde rischiano di scomparire dietro l'effervescenza delle cronache degli spettacoli. Nel pensare il t. e la sua storia (e il t. nella storia) agiscono spesso paradigmi non coscienti e quindi non padroneggiati, che sembrano coincidere con il senso comune, il buon senso, ciò che è naturale pensare. In realtà, una volta portati alla luce, rivelano il loro valore relativo. I criteri che agiscono nel modo usuale di pensare il t. e di selezionare quale tipo di avvenimenti, quali zone del lavoro teatrale siano interessanti, sono quelli che si formarono, storicamente, per le esigenze del giornalismo teatrale. La memoria degli spettacoli, per es., sembra coincidere con la memoria della 'prima', e si perde il senso e la portata della continuità che sta sotto le emergenze spettacolari. La storia del t. sembra coincidere con la collana delle 'prime' importanti, così come a lungo sembrò coincidere con la storia dei testi della letteratura drammatica. Eppure, la storia - anche per il t. - dovrebbe essere consapevolezza delle lunghe durate in attrito con le trasformazioni veloci; dovrebbe essere in grado di reperire e forse sciogliere il nodo di nessi apparenti e nessi profondi, di mode che fanno molto parlare e movimenti strutturali tanto più gravidi di conseguenze quanto meno sono visibili a occhio nudo. La storia del t. non funziona per collane (di spettacoli e di testi), così come spesso viene esposta nei libri che proiettano nel passato l'ottica che presiede alle 'pagine degli spettacoli' nei quotidiani e nei settimanali. Non funziona per spettacoli testa di serie o capolavori. Funziona per microsocietà, per ambienti, per grandi e piccole tradizioni che creano attorno alla produzione teatrale un contesto culturale e una rete di relazioni. Ma, in genere, non furono le reti che costituiscono la cultura teatrale a essere interessanti. Interessanti sembrarono solo i loro spettacolari prodotti. Nel corso del Novecento, quel che era nascosto, sotterraneo, è divenuto fonte di valore. Si potrebbe dire che il t. ha cominciato a 'farsi bello' delle sue radici. Per introdursi in questo paesaggio alla rovescia, converrà percorrere due vie esemplari.

Dalla 42nd Street a rue du Faubourg Saint-Denis

Nell'anno 1900, nella 42a Strada di New York vennero eretti i t. Victor e Republic (poi Victory); tre anni dopo vi sorse il New Amsterdam, che sarebbe divenuto, nel 1914, la sede del più imponente t. di rivista del mondo, le Follies di F. Ziegfeld (1868-1932). Egli fu, per il grande spettacolo musicale d'intrattenimento, quel che S. P. Djagilev (1872-1929) fu per lo spettacolo d'arte del balletto; o quel che D. Belasco (1852-1931) fu per il t. drammatico di grande impresa commerciale. Si potrebbe addirittura associarlo, per le sue doti di imprenditore, a quel che per l'industria del divertimento circense era stato, alla fine del 19° secolo, Ph. T. Barnum (1810-1891).

L'anno dopo la morte di Ziegfeld venne prodotto un film dal titolo 42nd Street (1933, regia di L. Bacon, 1889-1955), un capolavoro nel suo genere, la cui efficacia dipende, secondo la critica, dall'aver raccontato la storia di un'impresa spettacolare con i modi e i ritmi d'un film di guerra o d'una storia di gangster, dove la ricerca di capitali d'investimento, la musica, i testi, le maestranze, le folle di ballerine e di cantanti sono armi e truppe per la conquista d'un territorio: il pubblico come massa. Trascorsi sessant'anni, un nuovo film mostra la stessa 42ª Strada, la stessa inquadratura iniziale con l'insegna della strada (dal bianco e nero si è passati al colore). Fra i passanti, le riprese isolano ora un piccolo gruppo di persone che si recano ancora a un appuntamento al New Amsterdam Theatre, che oggi è vuoto e in rovina. Alcune di quelle persone - scopriamo - sono attori con il loro regista, gli altri sono spettatori personalmente invitati. Tutti insieme non superano di molto la decina. Il regista A. Gregory dirige una prova di Zio Vanja di Čechov. Ma l'intimità della prova è già lo spettacolo: a fare la differenza è la presenza o meno degli spettatori. Il piccolo gruppo degli attori e dei loro spettatori si sposta qua e là nella caverna del t. in disuso, dove il dramma viene recitato senza scenografia, senza giochi di luce, in abiti quotidiani, senza ribalta. E soprattutto senza che sia possibile discernere il punto preciso in cui la conversazione fra le persone convenute trapassa nel dialogo dei personaggi cecoviani. Il film, di L. Malle, prende a soggetto lo spettacolo in progress di Gregory sul dramma di Čechov (Vanya on 42nd Street, 1994). Ha il t. come soggetto, ma è anche un film nella strada di un altro film. I riferimenti all'opera di Bacon sono espliciti e significativi: nella stessa via dei t., nello stesso edificio teatrale, alla sontuosità si è sostituita la semplicità; alla folla si sono sostituiti i piccoli numeri; alla grande truppa, il gruppo ristrettissimo; alla massa di pubblico, i pochi spettatori-testimoni. Il grande edificio non è più il territorio di un tumultuoso guerreggiare di personalità rivali e imprenditori arditi, è una tana in cui ritagliarsi un'isola nel cuore della metropoli. Ma non vi sono segni che facciano pensare a un impoverimento. Vi è piuttosto il nitore d'una dimessa eleganza, il senso inconfessato di un'intensificazione della gioia e del valore. Il lavoro teatrale non ha più l'intensità, la fatica, il cinismo, l'allegra e vitale violenza della rivalità e della guerra di conquista. Al loro posto vi è il disincanto d'una sorta di sacralità irreligiosa, fondata sulla precisione professionale e sulle motivazioni personali. È ancora lotta per la conquista d'un territorio, ma il territorio è sottile, coincide con le relazioni fra esseri umani. Come è stato giustamente notato, il film racconta una "restaurazione del teatro, a partire dalla prima cosa che si è perduta, che è andata in rovina, ben prima di parterre e balconate: lo spettatore teatrale". Racconta, cioè, qualcosa di raro e quasi inusitato: "la relazione teatrale, quel contatto fisico e diretto fra attore e spettatore che proprio il cinema ha irrevocabilmente messo in crisi" (Giacchè 1995).

Alla fine del Novecento, in quasi tutte le città, alcuni t. - e non sempre quelli più marginali e meno noti - si sono insediati in fabbriche, magazzini, garage, chiese sconsacrate e vecchi edifici abbandonati. Infatti, in una fase culturale in cui non esiste più un modello unico di t., anche gli edifici teatrali si insediano in spazi diversi dai luoghi a essi deputati nel contesto urbano. È il caso del t. di P. Brook (aux Bouffes du Nord) in rue du Faubourg Saint-Denis a Parigi, che costeggia una serie di negozi e magazzini che espongono mercanzie indiane. Le vetrine di rue du Faubourg Saint-Denis sono la migliore introduzione al t. di Brook, che ha cancellato le impronte nazionali proprio per opporsi alla babele del nostro tempo.

Il t. di Brook sorge in un vecchio edificio teatrale costruito nel 1886, caduto in disuso a partire dal 1952. Brook vi si è installato con i suoi attori ventidue anni dopo, restaurandolo il minimo necessario. Il t. non è illuminato in modo tradizionale; quando vi si entra tutto appare pulito, efficiente, scarno. Sembra di entrare in un vecchio 'guscio' che manifesta in pieno il fascino del luogo teatrale; è il fascino d'uno scheletro architettonico che conserva l'energia d'un modello trasmesso da secoli e non la disperde nel facile lusso della solennità. Le grandi mura in materiali 'bruti', le balconate, la cavea, lo spazio per la platea e per gli attori senza l'elevazione e la barriera del palcoscenico, il colore superstite d'una decorazione non restaurata sono reliquie del passato e, al tempo stesso, scelte perfettamente attuali. L'ensemble che vi lavora è fra i più apprezzati, un ensemble d'eccezione, ma una paradossale eccezione, qualcosa di vivo rinato in una rovina, quasi il modello d'un gran t. venturo: una sorta di Comédie Française, o di Old Vic che si annida nella babele multiculturale.

La dimensione multiculturale del t. è endogena, prima d'essere una risposta ai grandi mutamenti della cosiddetta società multiculturale. Deriva dalla spinta a organizzare legami transnazionali e transculturali fra i professionisti della scena, come reazione alla perdita della centralità dello 'spettacolo vivente' nell'orizzonte complessivo degli spettacoli. Nel t. di Brook, attori inglesi, francesi, indiani, africani, giapponesi, polacchi, balinesi si distribuiscono le parti non tenendo in alcun conto il colore della pelle, la cultura, la tradizione teatrale o la lingua di provenienza. A seconda dei casi, parlano tutti la lingua francese o tutti la lingua inglese.

L'arte scenica, che per secoli è stata l'esposizione della bella dizione, qui ha parole nette e cristalline, ma colorate da cadenze e pronunce 'barbare'. L'ortoepia, che è ancora l'incubo di molti aspiranti attori, aux Bouffes du Nord è come se non fosse mai esistita. Si rappresentano storie che appartengono o potrebbero appartenere al patrimonio comune d'una società senza frontiere: Shakespeare; epopee asiatiche o africane; farse e storie sapienziali; la Carmen (che è un'opera-archetipo); certe storie, evidentemente prodotte da comprovate anomalie nel funzionamento del cervello, danno luogo a strambe vicende, eppure tali da suscitare sottili interrogativi in ciascun essere umano, capaci di aprire porte sull'ultramondo (dopo L'homme qui..., da L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello di O. Sacks, nel 1994, è la volta di Je suis un phénomène, da Una memoria prodigiosa di A.R. Lurija, in scena fra il 1997 e il 1999).

Ci si potrebbe chiedere cosa penserebbero coloro che nei primi anni del Novecento avevano tentato di spingere in avanti i loro sguardi, immaginando una palingenesi del t. adatta a resistere alle spinte della modernità, se potessero vedere la pièce di Čechov nel grande t. dismesso della 42ª Strada di New York, o il t. defilato in rue du Faubourg Saint-Denis a Parigi. Penserebbero a una scena che ha perso il suo baricentro culturale.

Perdita del centro

Nel pensiero comune, l'espressione perdita del centro si colora negativamente, quasi fosse sinonimo di decadenza o di perdita del senso. Per il t. invece è stata la salvezza. A partire dalla fine dell'Ottocento, molti avevano cominciato ad affermare che il t. era destinato a sparire, a meno che non si fosse rinnovato nel suo complesso, ridefinendo il proprio compito nella società alla luce delle profonde trasformazioni delle moderne masse. Quando gli uomini di t. e gli intellettuali si riunivano, finivano sempre con il parlare dell'imminente morte del teatro, molti con paura, alcuni con allegria: era un'arte borghese e antiquata, aveva fatto il suo tempo, lasciasse ora il posto ai grandi spettacoli di massa e al cinema. Ma il t. non è morto. Eppure, non si è riorganizzato complessivamente alla luce d'una sua rinnovata funzione; non ha scoperto, in termini generali, una sua nuova anima; non è affatto divenuto, nel suo insieme, quel luogo dell'autocoscienza e del dibattito sociale e spirituale, quello specchio dell'anima, della classe sociale, del popolo o della nazione che molti - sognando l'Atene dei tragici e d'Aristofane - continuavano a sognare. Non s'è trasformato in una rete di nuovi templi dell'arte o di tribunali morali, o di scuole della Ragione e della Storia. È restato, spesso, un'arte attardata e ansimante che, per continuare a essere praticata, ha bisogno di protezioni e sovvenzioni, una delle 'specie a rischio' della cultura. Ma non è sparito.

Poiché, però, sembrava che logicamente sarebbe proprio dovuto scomparire, i discorsi sulla morte del t., iniziati alla fine dell'Ottocento, continuano a ripetersi ancora oggi con le stesse parole e con punti di riferimento simili. Il cinema, gli spettacoli dello sport, la televisione, il rock, le discoteche, il miracolo della realtà virtuale sono alcuni dei fenomeni che di volta in volta sembrano decretare la morte del teatro. Sicché i discorsi sulla sua fine imminente sono entrati a far parte della routine teatrale esattamente come le stanche messinscene scolastiche dei classici o i progetti pretestuosi sorti all'unico scopo di attingere ai pubblici finanziamenti.

A differenza delle profezie ripetute a proposito di altre arti (morte della pittura, morte del romanzo ecc.), smentite anch'esse dai fatti, nel caso del t. la previsione sfavorevole dipendeva non solo dal sorgere di forme espressive concorrenti, dal mutare delle abitudini percettive e della mentalità, ma anche da cause materiali: l'impossibilità di sopravvivere economicamente in un mercato dominato dagli spettacoli nati dalla rivoluzione tecnologica. E infatti il mercato teatrale si è fortemente ridimensionato e, nel suo complesso, vive di sovvenzioni, non è più un vero mercato, come ai tempi in cui la maggior parte del t. drammatico e dello spettacolo leggero vivevano grazie al ricavato della vendita dei biglietti.

Le sovvenzioni diventano necessarie non solo per la concorrenza di altre forme di spettacolo, ma soprattutto per l'inarrestabile crescita dei costi di produzione dovuta a quella che gli economisti chiamano legge di Baumol. Soltanto in apparenza sarebbero i t. più deboli a essere i più bisognosi. In realtà avrebbero comunque bisogno di sovvenzioni innanzi tutto i t. che richiamano un maggior numero di spettatori, nei quali si pagano i prezzi più alti per il biglietto. La 'malattia dei costi', che la legge di Baumol interpreta, dipende dal crescere della forbice fra il costo unitario di produzione nel settore degli spettacoli dal vivo, confrontato con i costi nel settore manifatturiero. Poiché i salari dei settori con produttività stagnante seguono gli incrementi retributivi del resto dell'economia, nell'industria degli spettacoli il costo unitario finisce per essere sempre maggiore di quello dei settori a produttività crescente (Baumol, Bowen 1966; Favaro 1998). Il dilemma in cui si dibattono la vita e l'economia degli spettacoli in paesi dall'economia avanzata si fa evidente assai prima dell'insorgere degli spettacoli registrati, almeno a partire dal sec. 18° e dal t. d'opera: attività che arricchiscono spiritualmente e culturalmente una comunità sono però economicamente fallimentari e devono quindi essere considerate quali pubblici servizi, oppure scomparire. Questo dilemma, al quale rispondono i finanziamenti al t., siano essi pubblici o privati (fondazioni, sponsor ecc.), comincia a riguardare, nel corso del Novecento, anche il t. drammatico e leggero, fino a che tutta l'economia dello spettacolo vivente viene a dipendere, in maniera più o meno diretta, dai finanziamenti. Ma dovremmo chiederci se il t., almeno quello più povero, anche senza sovvenzioni sarebbe davvero morto. È difficile crederlo. Si osservi, infatti, quel che accade in America Latina, dove un'intensa vita di t. indipendenti si sviluppa senza alcun sussidio o con aiuti molto modesti.

Le voci profetiche non parlavano solo del mercato. Quel che dicevano di più definitivo era che il t. avrebbe perso di senso nella cultura moderna, nella società dei grandi numeri, e che per questa perdita si sarebbe estinto. Ci si deve quindi chiedere come abbia fatto a persistere, malgrado le condizioni avverse e pur non realizzandosi quella sua palingenesi, quella nuova progettazione complessiva della sua funzione sociale che appariva la condizione necessaria per la sua sopravvivenza. Invece di morire, o di mutare funzione nel suo complesso, si è disseminato, adattandosi così alle nuove condizioni. La sua persistenza è legata alla perdita del centro, al crollo di un modello normativo centrale, cui uniformarsi o al quale riferirsi per opposizione.

Osservando le tappe principali di questo processo, la perdita del centro è il risultato di una serie di terremoti disseminatori. Ci sono state due grandi scosse: una fra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento; una nella seconda metà del 20° secolo. E subito dopo, una disseminazione fuori dalle barriere, fuori dai confini e dai canali tradizionali.

La prima scossa si originò dall'esigenza di liberarsi dal soffocamento provocato dal commercio teatrale, realizzando dei teatri d'arte. Il commercio teatrale era per forza di cose tutto basato sul momento. Non permetteva incomprensioni lunghe. Nel t. attivo non c'è l'equivalente del libro che quasi nessuno legge, del quadro invenduto, della musica che quasi nessuno esegue, che invece permettono, alla lunga, anche le innovazioni artistiche più ardite e sul momento incomprese. Uno spettacolo che sul momento nessuno vuol vedere è semplicemente uno spettacolo inesistente. L'idea di fondare dei t. d'arte nacque dall'esigenza di creare un correttivo. Il t. d'arte non dipende dal grande pubblico, ma si rivolge a spettatori scelti, vivendo - almeno nei progetti - non solo della vendita dei biglietti, ma di sottoscrizioni e mecenatismo. È così che i diversi sistemi teatrali nazionali cominciarono a essere punteggiati da enclaves, piccoli t. indipendenti, studi, atelier che tendevano a ricostruire al loro interno il microcosmo teatrale, reinventandone ogni componente, dalla cultura dell'attore alla pratica drammaturgica, dai modi di produzione allo spazio scenico, dalla definizione della leadership ai rapporti con gli spettatori. Si presentavano come i prototipi del t. a venire. In realtà erano isole in sistemi teatrali che non ne erano scalfiti. Si stagliano a posteriori nel panorama storiografico, ma se li si va a vedere nella cronaca del loro tempo si constata quanto poco la loro differenza riuscisse a risaltare, quanto si confondesse con i numerosi casi dei successi e degli insuccessi delle diverse vedettes del momento. Non è solo l'ovvia incomprensione dei contemporanei. Sono i paradigmi stessi del modo di osservare il t. a occultare la loro eccezionalità. La complessa attività sotterranea messa in atto dai teatri-isola per la ricostruzione delle radici e della cultura professionale risultava invisibile alla visuale normale, fondata sull'ottica giornalistica, che della vita teatrale osserva esclusivamente le punte emergenti, le novità, le prime. Le isole più celebri possono essere considerate il Teatro d'Arte di Mosca (fondato da K.S. Stanislavskij e V.I. Nemirovič-Dančenko nel 1898) e il Vieux Colombier (fondato da J. Copeau a Parigi nel 1913), con gli ecosistemi teatrali che si formarono loro intorno, a partire dagli studi e dalla scuola. Come è stato acutamente affermato (Cruciani 1995), la 'scuola' apparentemente è una premessa o una dependence del t. d'arte, in realtà ne è la quintessenza: è t. al massimo grado di completezza, un t. globale dipendente dalle visioni di chi il t. lo fa, non da un pubblico. Basti pensare alle scuole e agli atelier di V.E. Mejerchol´d, di Ch. Dullin o di É.-M. Decroux. Un altro grande esempio di isola teatrale, alla metà del secolo, è costituito dal Berliner Ensemble, fondato a Berlino Est da B. Brecht e H. Weigel, nel 1949 (dal 1954 ebbe la sua sede stabile al Theater am Schiffbauerdamm). Ma non era più un vero e proprio t. d'arte, era un t. di Stato, come nel frattempo era diventato anche il Teatro d'Arte di Mosca. Qualcosa che dal punto di vista istituzionale partecipa d'una doppia natura, da un lato è paragonabile alla Scala o alla Comédie Française, dall'altro al Vieux Colombier o al primo Teatro d'Arte di Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko (Meldolesi 1989). Gli esempi più celebri hanno in qualche modo contribuito, proprio per la loro celebrità ed efficacia, calamitando l'attenzione, a distoglierla dal proliferare sempre più intenso delle enclaves. I grandi territori delle nazioni teatrali sono, a partire dall'inizio del Novecento, sempre più fittamente bucati da piccoli e piccolissimi territori indipendenti. I grandi territori delle nazioni teatrali non cessano d'esistere. Ma ora, nella maggior parte dei casi, sono le enclaves a fare storia. Alla metà del secolo, quando prese forma la grande eccezione del Berliner Ensemble, era ormai chiaro che l'idea dei t. d'arte era trapassata nell'organizzazione dei t. di Stato, all'interno del nuovo sistema di sovvenzioni che sostituisce il precedente sistema basato sulle ditte-compagnie. I t. di Stato dipendono dalla tutela burocratico-politica. Sono basati su un mecenatismo spersonalizzato, che può essere incompetente, e che quindi può dimostrarsi peggiore, alla lunga, della tirannia del commercio. Dai teatri-enclaves, pensati come avamposti di una trasformazione diffusa del sistema, si passa ai teatri stranieri, stranieri in patria, che fanno parte per se stessi, la cui identità consiste proprio nel non adeguarsi al sistema (su ciò v. teatro, App. V). Basterà ricordare alcuni punti di riferimento: il Living Theatre, il Teatr-Laboratorium di Grotowski, l'Odin Teatret, l'Open Theatre, il teatro di D. Fo, il Bread and Puppet Theatre e la nozione di Terzo Teatro (Barba 1976; Schino 1996).

Il rinnovamento del t. è avvenuto dunque per un processo di differenziazione che ha visto l'affiorare di uno sciame di forme indipendenti, non omologhe le une alle altre. Solo alcune di esse - spesso le più reclamizzate, le più finanziate, ma non le più diffuse - discendono o paiono discendere dalla tradizione del t. ottocentesco (detto anche teatro borghese). Ma accanto a esse sono sorti t. per pochissimi spettatori, t. dei più diversi tipi: t. di strada, politici, terapeutici, di massa o d'isolamento, d'agitazione e propaganda, d'autocoscienza e di confessione, happenings e performances - molte funzioni e molte forme, sicché è divenuto ben presto impossibile dire "questo è teatro e questo non lo è". In moltissimi casi è divenuto altrettanto difficile dividere il t. amatoriale da quello professionale. Il t., insomma, non ha affatto riscoperto una sua nuova funzione, ma le sue possibili funzioni si sono moltiplicate.

Ciò che si è estinto, per le ondate della rivoluzione tecnologica e della cultura di massa, non è stata la pratica teatrale, neppure la più passatista e la più vieta, ma l'orientamento su un modello centrale. Il parcellizzarsi delle scelte non è un impoverimento, un segno di dispersione; incrementa, al contrario, l'articolazione delle idee e delle pratiche teatrali. Fa salire il numero delle differenze che generano significati. In questa proliferazione di specie teatrali, distinguere fra t. regolari e t. alternativi, oppure fra tradizione e avanguardia (o ricerca), come pretende un vecchio paradigma storiografico e critico e come spesso pretendono i regolamenti delle politiche culturali, può facilitare il compito di coloro che amministrano il pubblico denaro, ma non serve all'intelligenza.

All'inizio del Novecento esisteva un modello centrale di t. dal quale le enclaves prendevano in maniera diversa le distanze. Nella seconda metà del secolo la consapevolezza dell'impossibilità di correggere il sistema teatrale attraverso riforme generali che si ispirassero ai teatri-prototipi si faceva sempre più diffusa. Non si può cambiare il gioco - pensavano gli innovatori apparentemente più bizzarri, in realtà più politicamente acuti -, bisogna dunque rifiutarsi di giocarlo. E il rifiuto della routine tese a manifestarsi non più attraverso la creazione di modelli riformati, ma come separazione dal sistema teatrale imperante. Un modello centrale di t., insomma, non esisteva più neppure come bersaglio polemico. In sintesi, perdita del centro ha voluto dire fine dell'egemonia del teatro di centro, del t. normale. E questo determinava l'entrata in crisi di quel modello, tanto comodo per pensare le differenze teatrali, che considerava semplicemente due emisferi: quello del t. tradizionale e quello dell'avanguardia.

Uno sperimentalismo 'di condizione'

Se le tensioni portanti del t. novecentesco vengono ricondotte sempre e solo a categorie estetiche, riassumibili nella polarità tradizione/avanguardia, molti importanti aspetti della scena del 20° secolo restano in una penombra confusa. La storia del t. novecentesco è infatti segnata da molte altre polarità, prima fra tutte quella fra ordinamenti generali del t. ed enclaves; cioè fra t. che si orientano sui caratteri e gli ordinamenti del sistema (magari auspicando rinnovati sistemi futuri) e t. che si orientano invece prevalentemente all'interno di un loro territorio indipendente.

La distinzione fra ordinamenti generali del t. e teatri-enclaves va vista alla luce di quel processo di disseminazione e di mutua differenziazione dei modelli teatrali che ha permesso la persistenza del t. nel Novecento, e che dà luogo a nuove forme di sperimentalismo come invenzione di modi sempre diversi di adattamento.

Il secondo Novecento vede il diffondersi di uno sperimentalismo teatrale diverso da quello direttamente legato a poetiche o a intenzioni d'autore: uno sperimentalismo per così dire di condizione, di situazione, frutto della marginalità e dell'eccezionalità del t., quindi della sua necessità di reinventarsi in un'epoca in cui lo spettacolo è prevalentemente cinematografico e televisivo. Nell'arcipelago dei t. diversi, lo sperimentalismo è spesso uno sbocco, un risultato, più che un'intenzione di partenza. Inoltre, mentre precedentemente lo spettacolo teatrale si riferiva a un contesto culturale sostanzialmente omogeneo, nel secondo Novecento esso deve fare i conti con forti dislivelli e forti differenze culturali anche all'interno del proprio contesto d'appartenenza.

Muta anche la condizione viaggiante del t.: alle tradizionali tournée, ai giri del teatro di giro presso pubblici sostanzialmente simili, tendono a sostituirsi, nei casi più significativi, veri e propri viaggi di t. che sono dappertutto 'stranieri'. Le vicende dell'Odin Teatret sono da questo punto di vista rappresentative d'una condizione storicamente diffusa (v. teatro, App. V). Altri fenomeni diffusi, benché di minore evidenza - come la trasmigrazione dei classici, gli incroci delle tradizioni performative o le piccole tradizioni che si identificano con i t. che sorgono fuori dai territori teatralmente organizzati - mettono in luce ulteriori aspetti dello sperimentalismo di condizione.

Trasmigrazioni dei 'classici': - Si pensi, per es., alle reinvenzioni sceniche delle tragedie greche, quasi tragedie che risorgono dall'antico nel contesto della multiculturalità (come nel caso delle reinvenzioni di opere tragiche greche da parte di R. Schechner, di T. Suzuki o di W. Soyinka). Si pensi anche, per limitarci a un ulteriore esempio, alla trilogia di Mozart-Da Ponte messa in scena da P. Sellars, con uno sperimentalismo registico che sembra l'espressione d'una scoperta, più che d'una rivisitazione. In generale, si può osservare il formarsi di una costellazione di classici che non corrispondono più alle emergenze di repertori consolidati, e che neppure pongono in primo piano la qualità letteraria delle opere, ma rispondono piuttosto all'esigenza di trovare un insieme di archetipi dell'esperienza teatrale e drammaturgica. Costituiscono un aspetto importante della tendenza al formarsi d'un paese del teatro virtualmente unificato a livello planetario, che controbilancia lo stato di minoranza d'ogni singolo t. nel proprio contesto.

Incroci delle tradizioni performative: non sono sempre sincretismo. Si è già detto come la progressiva marginalizzazione dello spettacolo vivente nell'orizzonte generale dello spettacolo in parte si compensi con forti legami fra coloro che, nelle diverse parti del pianeta, praticano professionalmente il teatro. Non solo aumentano l'interesse e la conoscenza reciproca, ma si creano forme stabili di contatto, di collaborazione e di produzione fra esponenti di tradizioni precedentemente vissute ciascuna nell'autosufficienza del proprio patrimonio artistico e culturale. In questo panorama virtualmente unificato delle arti performative diviene vicino ciò che prima era sentito come distante o addirittura estraneo. Nel mondo dello spettacolo occidentale si pensi alla distanza fra t. in musica, t. di prosa e danza. Questa nuova contiguità fra tradizioni diverse (che riguarda la cultura occidentale al suo interno e anche nei suoi rapporti con le culture asiatiche o afroamericane) permette interferenze e quindi moduli espressivi nuovi. A differenza di ciò che era accaduto in precedenza, tali interferenze non sono il risultato di un programma di rinnovamento, ma il dato di fatto dal quale partono il programma e il lavoro creativo, che non possono non tener conto d'un mutato contesto professionale. L'ISTA (International School of Theatre Anthropology), fondata da E. Barba, è la più lucida risposta a queste esigenze.

Teatri che sorgono fuori dai 'territori del teatro' questo fenomeno, che caratterizza fortemente il panorama teatrale soprattutto a partire dagli anni Sessanta e soprattutto in Europa e nell'America Latina, consiste spesso in una vera e propria reinvenzione del t., che solo in un secondo momento si confronta con le tradizioni teatrali consolidate. In alcuni casi si tratta di un cosciente mettersi fuori, in altri casi questo è puramente e semplicemente il punto di partenza obbligato. Assumono carattere sperimentale, in questo contesto, non solo i modi espressivi, ma la globalità della cultura teatrale: dall'organizzazione dell'ensemble alla drammaturgia; dall'economia alle modalità di rapporto con gli spettatori; dal modo di organizzare l'alternanza stanzialità/viaggio al modo di definirsi verso l'esterno e al proprio interno (identità culturale e artistica, ragione sociale, senso della propria 'necessità'). Particolarmente interessante è considerare in che modo certe forme nate dalla reinvenzione del t. interagiscano con altre e, a volte, con le grandi tradizioni, soprattutto quelle dei t. classici asiatici. Benché abbiano le dimensioni di una compagnia, la cultura e le visioni che si creano al loro interno le configurano come piccole tradizioni indipendenti.

Le principali fonti di energia per la disseminazione e la mutua differenziazione dei modelli sono, oltre alle teorie, i territori teatrali indipendenti (o enclaves teatrali). Mentre il valore propulsivo delle teorie della scena è facilmente compreso, non altrettanto avviene per le enclaves: l'atto di circoscrivere un territorio non viene capito come fondamento di un sapere. Eppure, a differenza di ciò che sembra accadere quando la storia viene pensata in termini esclusivamente libreschi, il t. muta in primo luogo entro quadri materiali, siano essi ordinamenti generalizzati o territori separati. Non sono i metodi di lavoro, presi di per sé, astrattamente intesi, che permettono i mutamenti. Un metodo è tale quando serve per aprirsi la strada attraverso un territorio, un campo materialmente circoscritto in cui lavorare.

Il fatto che alcune teorie sembrino restare sulla carta perché i loro autori non hanno potuto o voluto tradurle in una continuità di lavoro, il fatto che restino, per es., teatro-in-forma-di-libro (Taviani 1997²) non contraddice quanto appena detto. Esse nutrono altri. È quando sono calate in una continuità di lavoro e di ricerca all'interno d'un ben circoscritto territorio che divengono feconde. Ma l'indipendenza del territorio non è solo la condizione necessaria o lo strumento per la messa in pratica di nuovi valori. È in se stessa un valore. Quando si circoscrive un territorio e lo si separa dal continuum dell'organizzazione teatrale generale - dal sistema, nel senso corrente del termine - si realizzano le condizioni per una reinvenzione profonda della pratica scenica, anche in assenza di teorie di partenza, dato che il quadro d'un territorio autonomo diventa un luogo in cui (non a cui) è necessario ricominciare a orientarsi escogitando soluzioni che, in un secondo tempo, possono rivelare una portata estensibile ad altri e divenire teorie - purché l'indipendenza resista un tempo sufficientemente lungo.

Non si insisterà mai abbastanza sull'importanza che ha il separarsi per la crescita della vita artistica e culturale, e quindi per l'incremento della socializzazione e dell'integrazione tramite differenze significative. La separazione, infatti, non è mai assoluta. Le enclaves sono indipendenti, ma traggono le loro risorse materiali e spirituali dal territorio circostante. Solo che di esso non sono semplici porzioni e non ne assumono tutte le regole. Elaborano e conservano (quindi anche trasmettono) propri ordinamenti, una propria peculiare risistemazione del reale. Non propongono un'alternativa, ma sono alternativa. Le teorie offrono visioni a cui orientarsi. I territori indipendenti sono luoghi in cui orientarsi. Quel paradigma, o cliché del pensiero, che porta a pensare che ogni azione artistica innovativa sia il risultato di una poetica non tiene conto del fatto che per orientarsi a una nuova visione occorre un territorio sufficientemente separato dal t. ordinario, sufficientemente indipendente per permettere la pratica della differenza, che altrimenti si traduce solo nell'emergenza di qualche spettacolo dimostrativo e d'eccezione ma senza alcuna continuità, senza le condizioni necessarie per sperimentare i principi e le ipotesi, coglierne le conseguenze impreviste, avere il tempo di sbagliar strada e ricominciare da capo. Che l'opera nasca come realizzazione di una poetica, come messa in pratica d'una teoria o d'una visione, è vero raramente e soprattutto nell'ambito delle ricerche delle avanguardie storiche. In genere, si dà il caso esattamente contrario. Sono le pratiche che, a volte, vengono messe in teoria. Le poetiche, le teorie, i progetti possono essere visti come il seme dello sperimentalismo quando vige un paradigma formale stabile e riconosciuto, quando cioè la pratica teatrale si riferisce a un modello che definisce il teatro normale. Ma quando questo modello centrale non funziona più, il cambiamento, lo sperimentalismo non lo si progetta, non lo si pianifica: è frutto dell'esigenza di adattare i propri bisogni e le proprie possibilità alle circostanze, si realizza spesso per prove ed errori. Le poetiche quando vengono formulate lo seguono a fatica, spesso a grande distanza: non lo guidano e, in genere, non lo capiscono. Ciò è vero non soltanto per il t., tant'è che quel che qui si è applicato al t. ricalca volutamente quanto è stato detto in maniera particolarmente sintetica e precisa per la letteratura (Moretti 1994, p. 19).

La difficoltà a intendere lo sperimentalismo teatrale preponderante nel passaggio fra 20° e 21° secolo fa parte d'una più generale difficoltà a tradurre in nuovi paradigmi per l'osservazione le radicali metamorfosi del teatro. Tali difficoltà non soltanto rendono problematico pensare il teatro in maniera appropriata da un punto di vista critico, teorico o storico, ma hanno anche conseguenze pratiche immediate e importanti, in un'epoca in cui i t. traggono il proprio sostentamento dall'essere riconosciuti beni culturali da sovvenzionare.

Quando i t. non sono più ditte che vivono del proprio commercio, vendendo spettacoli che gli spettatori stessi pagano; quando i biglietti degli spettatori non bastano più e divengono una risorsa economicamente non essenziale; quando sono entità burocratiche, uffici o commissioni a sovvenire alle necessità di quel bene culturale che è lo 'spettacolo vivente', allora assumono importanza centrale i criteri adottati per selezionare le attività cui erogare denaro. Tali criteri in parte dipendono dalle emergenze che caratterizzano la pratica teatrale, ma in gran parte contribuiscono a modellarla.

Suddividere i t., per es., nei due emisferi d'un t. supposto normale (sia esso denominato di tradizione o primario) e un t. supposto diverso (sia esso di ricerca, d'avanguardia, nuovo, sperimentale, scolastico; oppure tale da manifestarsi attraverso progetti speciali) vuol dire spingere la multiforme realtà dei t. a plasmarsi più o meno sostanzialmente sui tracciati d'un panorama artificioso. È l'esempio macroscopico d'un meccanismo stretto nella contraddizione fra l'intento di provvedere e l'impossibilità di prevedere. È vero, infatti, che non si può provvedere a un complesso di attività se non prevedendone e auspicandone un determinato sviluppo. Ma è altresì vero che nel campo delle attività artistiche gli sviluppi che davvero contano, che hanno efficacia e valore, sono quelli imprevisti, sono quel tipo particolare di risposte efficaci che, per così dire, fanno emergere e danno fondamento a domande cui quasi a posteriori rispondono. Tale paradosso solo apparente normalmente caratterizza, invece, la vita delle arti, ma nel campo dell'arte teatrale diventa pietra di inciampo, perché il t. non è quasi mai possibile farlo con le proprie forze, e il sussidio economico non serve per finanziare la diffusione del risultato raggiunto, ma appunto per permettere un processo che miri a un risultato.

In genere, esiste una sorta di soggettività nell'erogazione dei finanziamenti ai teatri. I gusti delle commissioni, la loro maggiore o minore capacità di rendersi conto delle trasformazioni in atto, le loro scale di valori culturali, sociali, estetici finiscono per coincidere con le regole economiche che presiedono alla selezione naturale nell'ambiente teatrale. D'altra parte, il desiderio - o il sogno - di individuare dei criteri oggettivi di selezione si rivela deleterio o vano. Deleterio e contraddittorio in se stesso, quando crea scale di valori basate sull'idea della diffusione del consenso, valutando, per es., il numero degli spettatori o dei lavoratori delle compagini teatrali, e cioè trattando come ditte dedite al profitto quelle realtà e quegli insiemi che attingono a un'economia del mecenatismo proprio perché ditte non sono e non potrebbero essere. Poiché non producono beni o servizi di cui sia possibile valutare con sufficiente chiarezza, in tempi brevi, il beneficio, la portata, la rispondenza alle esigenze dei fruitori, i criteri di valutazione non potranno che essere soggettivi. È anche vero che il mecenate pubblico non può comportarsi come un vero e proprio mecenate o come un privato imprenditore: deve poter rendere pubblicamente conto delle proprie scelte, non può semplicemente seguire le proprie intuizioni, i propri gusti, la propria personale giustificazione a rischiare. Al posto degli impossibili criteri oggettivi si avranno quindi tentativi di mediazione fra interessi e giudizi più o meno disomogenei, alla ricerca ogni volta di un instabile equilibrio fra l'esigenza di non bloccare l'emergere del nuovo e dell'imprevedibile, e la necessità di operare un controllo che eviti l'eccesso di parassitismo e che permetta di regolamentare e giustificare le scelte. Non si può sperare che si assesti in un sistema di regole davvero soddisfacenti. Anche se - come alcuni auspicano - si sostituissero ai sussidi in denaro i cosiddetti sussidi in natura o input subsidies (sede teatrale, apparecchiature tecniche, servizi amministrativi, organizzazione di tournée ecc.), le contraddizioni fondamentali non cesserebbero di ripercuotersi sui risultati. L'insieme delle contraddizioni potrebbe infatti definirsi, in due parole, come esigenza di pensare correttamente le condizioni adatte all'emergere dell'impensato. Il sistema delle sovvenzioni non va certo considerato perverso. Quasi tutto quel che di importante è avvenuto nel t. del secondo Novecento, quasi tutto ciò che ne ha incrementato il valore e ha concorso ad aprirgli spazi e prospettive impensate e feconde, sia dal punto di vista della qualità estetica sia da quello della sua incidenza sociale, non avrebbe potuto realizzarsi fuori di tale sistema. Ciò non toglie che occorra dar conto anche della sua patologia.

Gli spettacoli sovvenzionati sono sempre esistiti (si pensi all'economia dell'opera lirica dal 18° sec. in poi). Per trovare una diagnosi lucida e precoce del tipo di censura che il sistema delle sovvenzioni comporta, basta leggere, per es., i resoconti del processo (in app. al 1° vol. di V. Hugo, Théâtre complet, Paris 1963) che oppose V. Hugo alla Comédie Française. Hugo individua nella censura che opera sulle forme piuttosto che sui contenuti, nella censura "di gusto" piuttosto che in quella politica o ideologica, la tendenza più deleteria del regime del t. sovvenzionato.

La patologia del sistema delle sovvenzioni diventa però particolarmente virulenta quand'esso regola la globalità dello spettacolo vivente. L'intera vita materiale del t. diventa così eterodiretta, innescando un tipo di competizione e una lotta per la sopravvivenza che dipendono da elementi estranei all'efficacia o alla qualità del lavoro. In questo modo, i criteri adottati per garantire la sopravvivenza del t., inteso come bene culturale, possono perfino ritorcersi contro le loro stesse finalità.

Poiché coloro che fanno t. traggono le proprie risorse non da coloro per i quali lo fanno, ma da una commissione lontana, che non è in grado di controllare direttamente le attività finanziate, il progetto in base al quale si ottengono i finanziamenti tende a essere più importante del risultato. Non solo la qualità del progetto è più redditizia della qualità del risultato, ma gli echi sui media (immediatamente rilevabili) possono divenire più importanti delle effettive reazioni degli spettatori (che sfuggono alla verifica veloce). Gli uffici stampa, cioè, producono più ricchezza degli spettatori appassionati e fedeli. Il sistema, insomma, tende a premiare più l'abilità nell'intessere relazioni con gli enti finanziatori che non l'efficacia artistica, determina cioè un equivalente della selezione naturale che può essere del tutto estraneo alla competizione artistica. Fra un uomo di t. politicamente abile nelle relazioni pubbliche ma artisticamente senza seguito, e un altro capace di aggregare spettatori ammirati ma inabile nei meandri burocratici, è infatti il primo a prevalere. Il fatto che la qualità del progetto diventi più redditizia della qualità del risultato non è soltanto causa di storture (parassitismo, attività esistenti solo sulla carta, clientelismo ecc.), ma incide su qualcosa di assai più essenziale. I finanziamenti, nel migliore dei casi, premiano una qualità pensata e realizzata all'ingrosso, per linee generali (l'organizzazione d'una stagione, un repertorio, un festival, un progetto speciale, gli intenti generali d'una messinscena), mentre l'efficacia d'una pratica artistica dipende in massima parte dalla qualità dei dettagli. Basta questo a indicare come siano le basi stesse dell'arte teatrale, le sue vene profonde, a essere di fatto svalutate da un regime generalizzato di sovvenzioni. Il quale, inoltre, non crea condizioni adatte all'equilibrio (vitale per l'esercizio d'ogni pratica artistica) fra produttori e fruitori competenti. Tende anzi ad alterarlo e a renderlo impossibile proprio per rispondere alle sue stesse ragioni sociali, che consistono nel provvedere alla sopravvivenza e alla diffusione d'un bene culturale pubblico (per quest'ultimo punto, cfr. Gay 1998). Si aggiunga, poi, che per il cosiddetto t. drammatico è assai debole e problematica quell'azione di controllo organico e informale esercitata dai fruitori competenti. Mancano, infatti, tradizioni precisamente codificate e quindi metri di giudizio fortemente condivisi (al contrario di quanto invece accade per l'opera, il balletto o le forme classiche dei t. e delle danze asiatiche). Si potrebbe dunque dire, per riassumere la questione in maniera un po' forte (ma solo perché in sintesi), che l'arte scenica non può essere protetta che degradandola.

Il sistema delle sovvenzioni tende a funzionare per vie parallele rispetto a quelle dell'effettiva crescita dei valori culturali e artistici. Fra l'economia dello spettacolo vivente e il suo valore tende a svanire ogni rapporto. Il che vuol dire che chi cerca nel t. un'alta qualità artistica, un valore intimo e sociale, una via per trascendere le circostanze, deve farlo malgrado il sistema materiale nel quale è inglobato, o indipendentemente da esso. E - per coloro che fanno t. in vista, oltre che del guadagno, anche della qualità artistica e umana - diventa parte dell'artigianato e dell'etica professionale la capacità di contrastare, attraverso il proprio lavoro, le inclinazioni indotte dal sistema che lo sostenta.

La storia 'dentro' il teatro

Rivolgendosi ai paesaggi teatrali così come appaiono nella quotidianità della cronaca, sembra che affiori un panorama del tutto diverso, una normalità che non è troppo lontana dal t. 'com'è sempre stato', spettacoli di successo, festival che fanno parlare di sé, messinscene di classici, persino - anche se assai raramente - il breve clamore suscitato da una novità, un testo di particolare richiamo e forse di grande qualità letteraria. Osservando il t. sempre alla vecchia maniera, è sempre il vecchio assetto che naturalmente appare. La documentazione offerta dai media, che deve per necessità enucleare ciò che sul momento fa notizia, erige cortine che in quest'ambito sono particolarmente difficili da penetrare. La difficoltà maggiore consiste nel riuscire a distinguere, al di là delle apparenze e dei 'chiassi', la storia dalle cronache: la storia che s'è mossa e si muove dentro il t. del 20° secolo, quella che in qualche modo ne costituisce lo scheletro e non lo fa crollare. Questa difficoltà dello sguardo riverbera una scissione ben concreta. Ciò che collegava i diversi innovatori della prima metà del secolo non erano elementi comuni di poetica, o somiglianze ideologiche. Era il rifiuto.

Copeau diceva che l'indignazione contro la falsità e la volgarità delle scene era il primo motore della sua avventura e delle sue creazioni. Tant'è che la sua storia può essere raccontata come un continuo "scappare dal centro" (Cruciani 1995, pp. 245-71). E. Duse, benché fosse erede del tradizionale sistema delle compagnie-ditte, fu anche l'antesignana d'una ricerca dell'arte scenica attraverso il rifiuto del t. presente. E per questo, pur appartenendo alla cultura e alla pratica dell'attore autosufficiente, poté trovarsi in profonda sintonia con gli inventori della regia, i riformatori del t., da Stanislavskij a Copeau (Schino 1992).

Poiché si è diffusa lungo il 20° secolo una nuova specie di t. - che cerca o reinventa visibilmente il proprio senso, numericamente ed economicamente minoritario, ma egemone sul piano delle idee -, fra gli spettacoli teatrali ordinari e gli avamposti che sembrano reinventare il t. veniva ad aprirsi una distanza che a poco a poco è divenuta incolmabile, sicché a un certo punto è parso che fra i due versanti non potesse esserci né paragone né rapporto. L'identità del t. novecentesco sembra quindi perdersi nel momento stesso in cui si cerca di cogliervi un profilo unitario.

Alla morte di Grotowski molti pensarono che per il t. si fosse conclusa un'epoca. Il Novecento teatrale non è stato, per usare l'espressione di E.J. Hobsbawm, un 'secolo breve'. Utilizzando estremi convenzionali, è durato proprio cent'anni, dal 1898, da quando cioè Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko fondarono il Teatro d'Arte di Mosca e aprirono la stagione della Grande riforma delle scene, fino alla morte dell'ultimo grande riformatore, polacco e apolide (Grotowski appunto), nel gennaio 1999.

I riformatori non furono utopisti. Hanno realizzato i modelli di isole teatrali ben concrete. Nei cent'anni del suo non-breve secolo, il t. ha mutato pelle. Accanto allo sperimentalismo estetico ne è comparso un altro, legato alle zone di frontiera, nato dalla necessità di rendere centrali i resti, cioè quel che i paradigmi dominanti considerano marginale nella società e nell'individuo. È fuoriuscito dai luoghi tradizionali. Ha spostato le sue funzioni sociali. Ha potuto assumere i contorni d'un laboratorio in cui sperimentare non solo le vie della scena, ma anche la qualità di nuove relazioni fra individui e all'interno dell'individuo. Mentre passava da un'economia di mercato all'economia delle sovvenzioni, mentre trasmigrava dall'etnocentrismo occidentale verso una dimensione multiculturale, e i t. classici asiatici entravano a far parte del normale bagaglio del sapere scenico, il t. è sfociato in ambiti che nella moderna civiltà europea gli erano stati di norma estranei: la militanza politica, l'utopia sociale, la ricerca spirituale e persino la disciplina iniziatica. È divenuto a volte il luogo del riscatto e della rivolta non distruttiva. In alcuni casi ha ripercorso le vie di antichi paradossi coniugando nichilismo e dedizione, anarchia e autodisciplina, ascetismo e sensualità. Quando le cronache ripercorrono i fasti del t. novecentesco occorre dunque saper vedere, dietro la fantasmagoria dei nomi e delle imprese, altri fili più ruvidi ma storicamente più significativi che tirano le vicende teatrali l'una lontana dalle altre e le pongono di volta in volta in relazione a punti sempre diversi del panorama generale della cultura del tempo. I fasti sono il riassunto di superficie di questa storia più complessa, che converrà ricapitolare come in una cavalcata fra le figure.

Un immaginario Walhalla dei teatri. - Se si immaginasse un ideale pantheon o Walhalla del t., giunti nelle sale del 20° secolo non vi troveremmo (come per i secoli precedenti) solo prosopopee d'autori e d'attori, titoli di pièces e qualche data di festa memorabile, ma esse sarebbero occupate soprattutto da figure d'un altro genere: autori di regie. 'Regie' e non semplicemente 'spettacoli', perché uno spettacolo è un avvenimento, mentre la regia è un'opera (un opus) che può persino mantenersi per decenni, mutando gli attori ma conservando il disegno della partitura spettacolare. I registi sono i nuovi autori teatrali, con tutti i crismi che hanno gli autori nelle altre arti.

Si troveranno, quindi, nel nostro scenico Walhalla novecentesco, registi-profeti come A. Appia, G. Craig, G. Fuchs; maestri e fondatori di teatri come A. Antoine e il capostipite Stanislavskij; Copeau e M. Reinhardt; A. Tairov, G. Pitoëff; E. Vachtangov e le sue messinscene di Dibbuk e Turandot; Mejerchol´d, circondato da uno sterminato ventaglio d'esperimenti e creazioni (il suo Revisore può essere considerato l'impresa teatrale più alta del secolo); i grandi spettacoli politici di E. Piscator e le messinscene di Brecht al Berliner Ensemble; gli spettacoli di L. Schiller al Teatro di Stato di Varsavia; l'Oreste e la Locandiera di L. Visconti; El nost Milan, il Galileo e le Baruffe chiozzotte di G. Strehler; Brook a Londra (le sue regie shakespeariane, il Marat-Sade o il civile US) e Brook a Parigi, con i grandi paesaggi senza angustie di patria e di tempo del suo Mahābhārata, composto assieme al drammaturgo J.-C. Carrière. E ancora altri grandi come J. Vilar, P. Grüdgens e O.Welles, K. Swinarski e O. Krejča, A. Mnouchkine e P. Stein, I. Bergman e A. Wajda, K.M. Grüber e P. Zadek, V. García, P. Chéreau, Ju. Ljubimov, A.Vitez, C. Peymann e L. Ronconi, esploratore dei drammi abnormi, dei palcoscenici tradizionali e delle loro macchine, inventore - come già Reinhardt - della teatralità di spazi non teatrali. Ma accanto alle regie, che sono messinscena di testi letterari drammatici, si troverà un genere d'opere e d'artisti ancor più estranei alle antiche configurazioni teatrali, spettacoli che non sono interpretazioni e messinscene di drammi preesistenti, ma frutti d'una 'scrittura scenica' ispirata ora a un testo, ora a una storia o a un'immagine. Si potrebbero definire spettacoli autoctoni. Quasi sempre richiedono, per comporsi, un gruppo stabile di compagni, una storia comune e condivisa, la capacità d'addentrarsi collettivamente nel labirinto d'un processo creativo.

Quest'insieme di drammaturgie-messinscene autoctone abita quasi esclusivamente la seconda metà del secolo: Oh, what a lovely war! di J. Littlewood e del suo Theatre Workshop; Akropolis, Il principe costante, Apocalypsis cum figuris di Grotowski e del suo Teatr Laboratorium di Wrocłav, in Polonia; La classe morta di T. Kantor, anch'egli polacco; Mysteries and smaller pieces, Antigone, Paradise now del Living Theatre, che fu l'antesignano; Ferai, Min Fars Hus, Ceneri di Brecht, Il Vangelo di Oxyrhinco di Barba col suo Odin Teatret; gli spettacoli del gruppo statunitense Bread and Puppet, quelli di J.Chaikin, di R. Wilson, Orghast di Brook e T. Hughes a Persepoli, in una lingua originaria inventata, Mistero buffo di Fo, e i molti altri che in ogni continente dimostrano l'indipendenza di principio della drammaturgia teatrale dalla letteratura drammatica (la dipendenza o addirittura la simbiosi era invece apparsa a lungo naturale). Mysteries (1964), Il principe costante (1965), Mistero buffo (1969), Min Fars Hus (1972), La classe morta (1975), il Mahābhārata (1985) possono essere considerati i punti salienti del t. autoctono del secondo Novecento. Non quelli che han sollevato più clamori, ma quelli che più profondamente l'hanno segnato come rivelazione d'un modo d'essere del t. che trascende i suoi limiti e assume inaspettate fattezze, inaspettata efficacia come profondo valore di vita. Fra gli spettacoli di messinscena e gli spettacoli autoctoni non sempre la differenza è netta (un esempio è il t. di Brook).

La sala dei libri. - Sarebbe davvero un errore limitare ai drammi la presenza attiva della letteratura nel t. del Novecento. Esistono libri come Il teatro e il suo doppio di A. Artaud (1938), o Per un teatro povero di Grotowski (1968), o anche opere che apparentemente seguono le convenzioni della critica letteraria o della storia delle arti, come Shakespeare nostro contemporaneo di J. Kott (1961) e Il trucco e l'anima di A.M. Ripellino (1965), che hanno fatto t. non meno di certi grandi spettacoli o certi grandi testi drammaturgici. I teatri-in-forma-di-libro, tra i caratteri originali della civiltà teatrale del Novecento, sono "teorie che hanno la consistenza di un'opera creativa non meno di un complesso di testi drammatici o di spettacoli. Alcune di queste teorie (si ricordi che tale parola originariamente significava 'visioni') non vanno considerate come discorsi sul teatro ma vere e proprie opere di teatro" (Taviani 1997², p.13). Il teatro e il suo doppio è l'esempio estremo della necessità di tradurre con gli strumenti della letteratura un rinnovamento talmente profondo da non poter far appello all'esperienza immediata del lettore. Artaud affida al suo libro l'esperienza d'un t. che rifiuta il predominio della letteratura, la pratica della verosimiglianza, il lusso culturale. Parla in nome di un'arte necessaria allo spirito come il pane al corpo, indica i sentieri dell'efficacia che può trasformare il t. in "poesia nello spazio", sortilegio capace di reintegrare l'individuo al di là della dicotomia corpo-spirito e intenzione-azione (Ruffini 1996).

Una parte importante del rinnovamento teatrale della prima metà del secolo si realizza attraverso teatri-in-forma-di-libro. Traducono le proprie visioni in pagine di efficace letteratura proprio alcuni dei principali nemici della letteratura a t.: Craig pubblicò The art of the theatre nel 1905 e Towards a new theatre nel 1913; Appia pubblicò Die Musik und die Inszenierung nel 1899 e L'Oeuvre d'art vivant nel 1921; Fuchs pubblicò nel 1909 Die Revolution des Theaters e nel 1911 Die Sezession in der dramatischen Kunst. Per costoro, come poi per Artaud, il teatro-in-forma-di-libro fu la realizzazione principale. Si deve sottolineare il termine realizzazione, per non cadere nell'illusione che la scrittura sia per loro un ripiego, o la forma dell'utopia. E infatti, per altri, realizzare t. in termini letterari è una via accanto a quella della realizzazione tramite spettacoli, scuole o testi drammatici. La ricca produzione di scritti di Stanislavskij, che si sviluppa negli anni Venti e Trenta con vicende editoriali rese ancora più complesse della fama di quegli scritti spesso tradotti e ridotti, o pubblicati in traduzione prima che in originale, costituisce un insieme di opere che per lungo tempo sono apparse d'interesse esclusivamente pratico, manuali a volte prolissi, ricchissimi di dettagli, per l'addestramento dell'attore. In realtà, l'autore li ha pensati come un'enorme architettura che con i suoi rinvii e le sue ripercussioni interne, con i suoi meandri e sdoppiamenti, tenta di coinvolgere il lettore all'interno di un'idea, di un'ombra, un equivalente per iscritto di un reale processo di iniziazione al t. (Ruffini 1991). Fu teatro-in-forma-di-libro, accanto alla composizione drammaturgica e prima delle regie al Berliner Ensemble, il t. di Brecht, che negli anni del nazismo e dell'esilio aveva affidato a pagine teoriche e a versi didascalici le proprie idee sulla messinscena, sul disincanto che dovrà dar sapore al rapporto fra attori e spettatori, sulla funzione dialettica del teatro. Anche negli anni Cinquanta e Sessanta, gli scritti teorici di Brecht, la sua idea di t. anti-aristotelico, furono un fatto teatrale d'influenza più vasta degli spettacoli messi in scena al Berliner Ensemble dallo stesso Brecht e dalla sua équipe. Persino i suoi drammi vennero visti sovente come esemplificazione, piuttosto che vera e propria realizzazione, della sua visione: il t. come strumento scientifico (e quindi esteticamente gustoso per la precisione e nettezza dell'analisi), capace di rivelare i reali rapporti di forza che muovono nel profondo gli avvenimenti umani e si camuffano invece sentimentalmente nelle traversie del t. borghese. E anche Per un teatro povero di Grotowski ebbe un'influenza di per sé, per la sua forza di libro, quasi indipendente dagli spettacoli realizzati dal grande artista e innovatore polacco. Alla tradizionale autobiografia degli artisti di t. si sostituisce sempre più spesso il libro in cui l'artista traduce il senso della propria esperienza, la tecnica, le visioni, e cioè un'immagine del t. come arte, artigianato e trascendenza: The empty space di Brook; La vita del teatro e Theandric di J. Beck; La canoa di carta di Barba, dove l'autore, quasi facendo propria l'oscillazione che caratterizza i teatri-in-forma-di-libro, alterna capitoli autobiografici a meticolose disamine dei comportamenti ricorrenti nelle diverse tradizioni europee e asiatiche. Un'oscillazione fra l'analisi fredda e il racconto fervente che accenna al bisogno di trascendere il t. tramite il teatro. Il teatro-in-forma-di-libro rappresenta in maniera particolarmente evidente il processo di liberazione del t.: che comincia con l'essere liberazione dal commercio e dalle sue regole e finisce con il divenire liberazione dal t. stesso, cioè da alcune di quelle regole e convenzioni che sono a lungo apparse necessarie a distinguere ciò che è t. da ciò che non lo è.

La sala Italia. - Osservando più da vicino ciò che accade nella 'sala-Italia' del pantheon teatrale novecentesco appare in primo luogo la sala dominata da Pirandello e dalla Duse. Per quanto riguarda la drammaturgia, essa è dominata dalle lingue regionali. Persino Pirandello vi affonda le radici. Gli altri grandi drammaturghi novecenteschi sono attori: R. Viviani, E. De Filippo, D. Fo. Quando, nell'ottobre del 1997, Fo fu insignito del premio Nobel per la letteratura, molti (ma quasi soltanto in Italia) reagirono scandalizzati. Dal loro punto di vista avevano delle ragioni: nelle motivazioni del premio si menzionava sia l'uso politico del t. sia il valore della letteratura orale, sancendo attraverso il più accademico dei riconoscimenti il meno accademico mutamento del t. novecentesco. A questi attori-drammaturghi sono vicini (malgrado l'enorme dissomiglianza d'aspetto) attori-autori che si allacciano alla tradizione delle avanguardie artistiche del Novecento: C. Bene e L. De Berardinis, autori di spettacoli e non di normali testi teatrali. Bene (anche importante autore cinematografico e scrittore) a partire dai primi anni Sessanta crea Pinocchio, Salomè, Nostra Signora dei Turchi. Nei decenni seguenti, le sue performances vocali si impongono come concerti d'una sapienza difficilmente eguagliabile. Gli spettacoli di De Berardinis sono anch'essi opere memorande per se stesse, sia quando nascono senza l'appoggio di testi preesistenti, sia quando reinventano un testo di poesia. A partire dall'inizio degli anni Settanta: 'O zappatore, Sudd, Chianto 'e risate e risate 'e chianto, fino a Novecento e Mille alla fine degli anni Ottanta e alla messinscena de I giganti della montagna. Oltre che alla tradizione delle avanguardie storiche e a quella degli attori-drammaturghi (che in Italia caratterizza quello che viene chiamato il teatro dialettale), Bene e De Berardinis andrebbero ricollegati anche alla linea degli uomini-teatro, quelle personalità che identificano in sé, nella propria persona più ancora che nei propri personaggi, un'originale invenzione scenica.

La sala degli scherzi della memoria. - Si pensi a E. Petrolini, L. Fregoli, Y. Guilbert, K. Valentin o persino a una personalità come F. Wedekind. In genere, le donne o gli uomini-teatro (quando non traducono la loro presenza in scrittura, come Wedekind), malgrado la potente influenza della loro presenza, restano poi in ombra nella memoria storica, e la loro figura si appiattisce nel ricordo, come se non fossero stati nient'altro che virtuosi o anomalie di successo. La loro arte e la loro intelligenza, che si manifestava in sapienti ragnatele d'azioni, sparisce dentro la tomba d'un grande nome. La complessità di figure come quella del 'mago' Houdini (nome d'arte di E. Weiss) o del giocoliere E. Rastelli si riduce a nomi quasi proverbiali e privi di densità. È una tendenza che corrode le 'arti di persona' e costituisce una delle più gravi remore per lo sviluppo della cultura teatrale. Gravida di conseguenze negative, infatti, non è la perdita di memoria, ma il fatto che la memoria si protragga attraverso la banalizzazione. Si immagini - per farsi un'idea dell'incoscienza storica che deriva dai processi di banalizzazione della memoria - a che cosa di ingenuo e buffo assoceremmo oggi al gran nome di Chaplin, se di quel comico non potessimo tornare ogni volta a rivedere con stupore le opere, le contraddizioni, l'ardua lotta contro la sua stessa fama. Vi sono poi figure che dovrebbero giganteggiare e che invece restano nascoste per la loro stessa originalità. Uno dei più grandi maestri del t. del Novecento gode d'una fama ancipite: venerato da alcuni, influente per vie sotterranee sul t. quasi d'un intero secolo, capace di collegare la generazione dei Craig, dei Copeau, dei Dullin, a quella di Fo e di Barba, resta ignoto ai più e malnoto anche a molti di coloro che sanno di teatro: É.-M. Decroux, allievo di Copeau, maestro di J.-L. Barrault e di M. Marceau, codificatore del mimo moderno, vero e proprio artista-scienziato dell'azione fisica. Ha tenuto scuola dagli anni Trenta agli Ottanta, e i suoi allievi di diverse generazioni costituiscono una di quelle reti sotterranee del t. internazionale che feconda la cultura scenica del 20° secolo. Un suo libro, Paroles sur le mime (1963), trasmette la sua eredità in una lingua precisa ed evocatrice, cartesiana e poetica.

La sala del teatro libero, ovvero della secessione. - Antoine fondò nel 1887 il Théâtre Libre e nel 1889 O. Brahm a Berlino aprì la Freie Bühne; a Londra, nel 1891 venne aperto l'Independent Theatre (all'inizio, l'emblema dell'indipendenza dal commercio e dalla routine prevale sul richiamo diretto alla ricerca artistica). Nel 1893 Lugné-Poe aprì il Théâtre de l'Oeuvre. Nel 1897, come s'è detto, inizia la storia del Teatro d'Arte di Mosca. E quindi: 1904, Abbey Theatre di Dublino diretto da W.B. Yeats e Lady Gregory; 1907, a Stoccolma, J.A. Strindberg e A. Falk fondano l'Intima Teater. Con lo stesso nome era sorto tre anni prima un piccolo t. d'arte a Barcellona: l'intimità nel rapporto fra scena e sala era legata all'idea di una recitazione sommessa e sensibile ai piccoli mutamenti, e rispondeva al bisogno d'indipendenza dai gusti prevalenti fra il pubblico. Intanto, alcuni registi innovatori passavano a dirigere grandi t. ufficiali: Reinhardt nel 1905 assunse la direzione del Deutsches Theater; Antoine nel 1906 passò a dirigere a Parigi l'Odéon e Mejerchol´d nel 1908 venne assunto come regista per i t. imperiali di San Pietroburgo: sia Reinhardt che Mejerchol´d aprirono accanto ai grandi istituti teatrali dei piccoli t. da camera protetti dalla prepotenza normativa dei gusti maggioritari. Già da tempo, accanto al Teatro d'Arte di Mosca si erano aperti degli Studi per rendere possibile la libertà di ricerca di attori, giovani registi e dello stesso Stanislavskij: nel 1905 vi aveva operato il trentenne Mejerchol´d, poi, negli anni e nei decenni seguenti, L.A. Suleržickij, M. Čechov ed E.B. Vachtangov. A Parigi, nel 1913, Copeau fondò il t. del Vieux Colombier, che con la sua attività, la sua scuola, e la sua stessa chiusura, nel 1924 (quando il gruppo si trasferì in Borgogna), diede vita - direttamente e indirettamente - alla generazione che creerà la civiltà teatrale francese del 20° secolo. Copeau lanciò l'idea dei 'piccoli teatri' come cellule di un'arte rinnovata. A quest'idea si riferirà la Duse negli ultimi anni della sua attività per contrastare i progetti di un Teatro nazionale di Stato. Nel 1947, al programma di Copeau si richiamerà esplicitamente il programma di fondazione del Piccolo Teatro di Milano, diretto da P. Grassi e G. Strehler. A esso si richiamerà anche il t. fondato dalla Mnouchkine alla Cartoucherie di Parigi. Nel 1914 A. Tairov aprì a Mosca un t. da camera; J. Osterwa fondò a Varsavia il Teatr Reduta nel 1919; nel 1921 Dullin fondò il teatro dell'Atelier, ed ebbe fra gli attori e gli allievi personalità come Artaud, Decroux, Barrault. Intanto Reinhardt alternava spettacoli per migliaia di spettatori a spettacoli intimi, e F. Gémier, che aveva inscenato spettacoli di massa e aveva fondato nel 1911 il Théâtre national ambulant, apriva a Parigi, nel 1920, il Théâtre national populaire. Piscator nel 1924 era regista stabile alla Volksbühne. Pirandello dirigeva, nel 1925, il Teatro d'Arte di Roma (un'esperienza dalla vita breve, subito interrotta dall'esigenza di tournée in Italia e all'estero). Sempre a Roma, A.G. Bragaglia aveva fondato il Teatro degli Indipendenti nel 1922 e nel 1937 avrebbe fondato il Teatro delle Arti, centri di diffusione - più che di ricerca - delle esperienze futuriste e delle avanguardie artistiche. Nel 1927, a Parigi, il Théâtre Alfred Jarry, fondato da Artaud, aveva vita brevissima. Di Artaud avrà vita lunga e intensa, ed efficace influenza, il teatro-in-forma-di-libro Il teatro e il suo doppio. Nel 1931, H. Clurman, L. Strasberg e Ch. Crawford fondarono il Group Theatre di New York, e in Francia L. Chancerel, formatosi presso Copeau, a sua volta creava il gruppo dei Comédiens Routiers. L'anno dopo F. García Lorca fondò il gruppo La Barraca. Nel 1937 O. Welles e J. Houseman fondarono il Mercury Theatre a New York. Dopo la guerra, il Berliner Ensemble, il Piccolo di Milano, il Théâtre national populaire diretto da J. Vilar nel 1951 e la fondazione nel 1957 del Théâtre de la Cité di Villeurbanne, presso Lione, diretto da R. Planchon, chiusero la stagione dei tentativi di creare t. d'arte piccoli o grandi, intimi o popolari ma capaci di reggere gli stessi ritmi produttivi dei normali t. borghesi (spettacoli quasi tutte le sere, repertorio variato, economia adeguata al normale mercato teatrale, sia quello basato sugli incassi, sia quello basato sulle sovvenzioni statali).

Ciò che comincia a 'far storia', nel t. del secondo Novecento, è la tradizione di teatri separati. Nel 1947 - l'anno in cui venne fondato l'Actors' Studio e in cui a Milano si aprì il Piccolo Teatro - a New York J. Beck e J. Malina davano vita a un nucleo d'arte sperimentale, il Living Theatre, un piccolo centro d'avanguardia che negli anni seguenti si trasformerà in un laboratorio teatrale di grande originalità e coerenza, e quindi - a partire dagli anni Sessanta - in un gruppo nomade ed esiliato che incarnerà il senso del legame fra t. e rivolta, fra rigore artistico e anarchia. Uno dei t. che ha esercitato più profonda influenza sul t. del secondo Novecento è così un t. senza sede e senza una posizione all'interno del sistema ufficiale. Il Theatre Workshop, fondato a Manchester nel 1945 da J. Littlewood, nel 1954 si trasferì alla periferia di Londra, dove iniziò un lavoro che avrebbe formato una generazione di drammaturghi inglesi. Nel 1949, in Uruguay, Atahualpa del Cioppo fondò il gruppo Teatro Galpón, che avrà lunghissima vita, anche in esilio, e grande influenza sul t. latinoamericano. Nel 1955 Kantor, pittore e scenografo d'avanguardia, fondò a Cracovia il teatro Cricot 2: un gruppo legato alla tradizione del surrealismo che acquisterà una notorietà d'élite negli anni Sessanta e diverrà nei Settanta, a partire dallo spettacolo La classe morta, una delle presenze più influenti del t. internazionale. Nel 1961, provenendo anch'egli dalle arti figurative d'avanguardia, P. Schumann fondò il Bread and Puppet, che inaugurava una stagione di spettacoli itineranti e di strada, legandosi al radicalismo politico e alla campagna contro la guerra americana nel Vietnam; esso ebbe una grande influenza sui gruppi teatrali irregolari che - subito dopo il 1968 - intrecciarono azione politica, interventi sociali e ricerca artistica (quella stessa realtà su cui sarà particolarmente forte l'influenza del Living Theatre, del t. di Fo e - con più dialettica - dell'Odin Teatret). Nel 1959, a Opole, una cittadina polacca ignorata dall'intellighenzia europea, in un teatrino con poche decine di posti, iniziava l'avventura di Grotowski, che in poco tempo scardinò molti dei luoghi comuni del t. di quegli anni, a partire dal modo di pensarne la funzione sociale. E soprattutto dimostrò con i fatti come un tipo di spettacolo e d'attore vicino ai vaticini di Artaud o di S.I. Witkiewicz - che parevano avulsi dalla realtà - fosse invece possibile e per nulla utopico. Nel 1962, fuori dal sistema dei t. di New York, E.Stewart aprì il Café La Mama, che diverrà il luogo di tutto il t. radicale americano. L'anno dopo, sempre a New York, J. Chaikin, proveniente dall'esperienza del Living, fondò l'Open Theatre. Nel corso degli anni Sessanta, un'altra esperienza importante e di grande influenza si svolgeva in un'oscura cittadina nello Jutland danese, Holstebro: quella dell'Odin Teatret, fondato nel 1964 a Oslo da Barba, e poi accolto in Danimarca. Dopo aver conquistato il prestigio artistico con i suoi primi spettacoli, Barba divenne con la sua azione e i suoi scritti la guida di un ampio movimento denominato Terzo Teatro nel quale si riconoscevano coloro che, soprattutto in Europa e in America Latina, a partire dagli anni Settanta, facevano t. fuori dagli alvei tradizionalmente riservati al t. ordinario e a quello d'avanguardia. Nel 1965, in seguito alle attività per uno sciopero dei braccianti messicani in California, il chicano L.M. Valdez fondò il Teatro Campesino. Nel 1969, a Cuba, iniziò la sua attività il Teatro dell'Escambray; in Colombia si formò la Corporazione colombiana di teatro che si riconosceva soprattutto nell'opera teorica e drammatugica di E. Buenaventura (teorico del 'metodo di creazione collettiva') e nell'arte scenica del Teatro La Candelaria di Bogotá, guidato da S. García. La tendenza alla separazione fra avamposti teatrali e t. ordinario veniva controbilanciata da momenti di incontro in cui convergevano i t. dei diversi paesi. I festival teatrali non erano soltanto 'feste' per gli spettatori e gli estimatori, ma luoghi di incontro che permettevano ai t. più diversi di riunirsi per un certo tempo in un solo villaggio, il cui éthos è definito dalla professione. Coniugavano l'idea delle grandi feste teatrali ateniesi (rinnovate dal wagnerismo del Festspielhaus di Bayreuth, inaugurato nel 1876) con la realtà meno nobile ma non meno feconda, presto prevalente, delle fiere. Nel 1920, Reinhardt inventò il Festival di Salisburgo. Nel 1933 si tenne il primo Maggio musicale fiorentino (dove furono ospitate anche opere di t. drammatico: Copeau vi allestì una famosa messinscena del Mistero di Sant'Uliva e R. Simoni, nel 1937, l'anno dopo la morte dello scrittore, vi curò la prima rappresentazione del testo incompiuto di Pirandello, I giganti della montagna). Nel 1934 si svolse il primo Festival del Teatro a Venezia, e nel 1947 nacquero il Festival internazionale di Edimburgo e il Festival di Avignone, fondato da J. Vilar. Nel 1954 iniziò il Festival del Théâtre des Nations di Parigi, che in seguito si terrà in vari luoghi del mondo, nelle città sedi di festival teatrali (Varsavia, Belgrado, Caracas ecc.). Negli anni Settanta, il Festival di Nancy divenne il punto di riferimento mondiale e la grande fiera del t. non-ufficiale, e negli anni Ottanta il Festival di Santarcangelo si propose come il principale luogo di incontro dei t. indipendenti europei e latinoamericani, intrecciando spettacoli, scambi di lavoro, momenti di ricerca teorica. Intorno al 1968, negli anni della contestazione, rivolta e coraggio si diffusero anche nel mondo del teatro. Il Festival del Théâtre des Nations, nel maggio, venne interrotto. Barrault abbandonò la direzione dell'Odéon (lo aveva allontanato A. Malraux, ministro della Cultura nel governo di De Gaulle); il Living rinunciò alla struttura chiusa dello spettacolo e creò Paradise now, uno spettacolo che trasformava l'ingenuità in semplicità ed estremismo, e fece appello agli spettatori per realizzare subito un'azione di protesta non violenta; Strehler lasciò (per pochi mesi) il Piccolo Teatro di Milano. Gravida di conseguenze, invece, fu la svolta impressa da D. Fo e F. Rame alla loro carriera di attori satirici di successo, abbandonando i circuiti teatrali dei t. più ricchi d'Italia, dove erano i beniamini del pubblico borghese (auspice la loro satira antiborghese), e creando un proprio autonomo circuito teatrale legato ai movimenti politici dell'estrema sinistra, liberi anche dalle organizzazioni culturali della sinistra tradizionale. Nel 1970 Brook lasciò Londra e la Royal Shakespeare Company e inaugurò a Parigi il Centre international de recherche théâtrale (divenuto poi il Centre international de créations théâtrales), che trovava la propria sede in un vecchio t. distrutto. In piccole città di provincia e alla periferia delle metropoli, quasi in tutta Europa e in America Latina, si costituivano gruppi teatrali. In Argentina nacquero il Libre Teatro Libre di Córdoba e la Comuna Baires di Buenos Aires. Attraverso l'esilio e la diaspora dei propri componenti genereranno nei decenni successivi innumerevoli t. nei diversi paesi dell'America Latina e dell'Europa. In Perù si formarono i gruppi teatrali Cuatrotablas e Yuyachkani. In Polonia venne creato il t. viaggiante di Gardzienice. C. Brie, argentino, dopo esser stato membro della Comuna Baires, dopo anni di esilio in Italia, dove faceva t. nei centri sociali, e dopo aver fatto parte del Gruppo Farfa (guidato da I.N. Rasmussen) e dell'Odin Teatret, fondò il Teatro de los Andes, con sede nel villaggio di Yotala, nei pressi di Sucre, in Bolivia. Mentre attorno al t. cresceva una comunità artistica, negli anni Novanta i suoi spettacoli viaggiarono, in America Latina ed Europa, diventando per molti un punto di riferimento. In Italia, sorsero il Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera, il Teatro Due di Parma, il Teatro Tascabile di Bergamo, il Teatro del mago povero ad Asti, il Laboratorio Teatro Settimo presso Torino, il Teatro Potlach a Fara in Sabina, presso Rieti, che spesso saldarono il proprio lavoro con i piccoli t. più strettamente legati alle esperienze delle avanguardie (Magazzini, La Gaia Scienza, il teatro di Santagata e Morganti, Teatro dei Mutamenti, Falso Movimento ecc.). Nacquero in seguito il Teatro Le Albe a Ravenna, la Societas Raffaello Sanzio e il Teatro della Valdoca a Cesena, il Teatro Due Mondi a Faenza. Il regista A. Punzo fondò la Compagnia della Fortezza, i cui attori erano detenuti del carcere di Volterra. A partire dal 1986, il Centro di Lavoro di Grotowski venne ospitato e sostenuto dal Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera. Grotowski ormai non faceva più spettacoli. Lavorava sul valore dell'azione per colui che agiva, non per colui che lo vedeva.

Niente di tutto questo sembra corrispondere all'immagine della vita teatrale nella mentalità corrente e nei media. Ma questa è la storia che ha attraversato il teatro. Sembra che il t., in questo modo, venga sopravvalutato. Non è così. È proprio lo stato di degrado in cui spesso vive, il fatto d'essere o d'apparire socialmente innocuo, a farne un territorio aperto alla rivolta. In tutto questo l'opera di Grotowski, il suo modo di appartenere al t. per secessione, è stata decisiva ed è un emblematico suggello d'una storia secolare.

Una storia emblematica

Grotowski non aveva ancora quarant'anni, e il capitale di prestigio accumulato gli permise di smettere con gli spettacoli. Le opere che gli avevano procurato fama di rivoluzionario e genio indiscusso - Akropolis (cinque versioni, 1962-67), Dr. Faust (1963), Il principe costante (1965) e Apocalypsis cum figuris (tre versioni, 1968-73) - le aveva composte in un arco di tempo relativamente breve. La sua fama intanto cresceva anche tramite la diffusione di Per un teatro povero, uscito nel 1968, in lingua inglese (Towards a poor theatre), pubblicato in Danimarca nelle edizioni dell'Odin Teatret.

Grotowski era allora trentacinquenne; Barba, fondatore dell'Odin e - per l'occasione - editore, era un trentaduenne. Quel libro girò il mondo in numerose traduzioni. "Teatro povero" fu l'ultimo grande slogan del t. novecentesco. Ma dietro quello slogan non c'è una poetica teatrale, o una teoria. C'è l'efficacia d'una presa di posizione eversiva e adatta ai tempi: "Nessun libro sul teatro ha avuto, nel nostro secolo, l'impatto fulmineo di Per un teatro povero […]. Si era all'indomani del maggio 1968, con un bisogno di impegno, di rinnovamento e di ritrovare, nel teatro, quel senso politico, etico o sociale che aveva caratterizzato la ricerca dei riformatori teatrali dei primi trent'anni del Novecento. […] Per un teatro povero affronta i principali problemi tra i quali si dibatte un regista o un attore. Comincia dal primo passo, la preparazione tecnica […]. Apre prospettive drammaturgiche radicali […]. Presenta la visione di un teatro che, superando il suo carattere di spettacolo d'arte o intrattenimento, ribadisce la sua vocazione di rituale collettivo, sacro e laico allo stesso tempo […]. È una visione che ridà all'attore e al regista la possibilità d'un impegno assoluto, e dall'altro consente loro di ritrovare una libertà, al di fuori della cerchia dei mercanti, degli ideologi, delle mode. Mai era stato scritto un libro del genere in cui trovassero posto sia le grandi ossessioni che gli aspetti concreti della professione" (Barba 1998, pp. 121-22).

Ma poco dopo aver lanciato il sasso del Teatro povero e aver compiuto Apocalypsis, Grotowski decise di "lasciar semplicemente cadere" l'arte. Su che cosa Grotowski lavorasse lo si seppe alla fine degli anni Ottanta, quando riaffiorò, trovando il modo di parlare accanto all'attore. Ciò che diceva non riguardava lo spettacolo, perché non si trattava del lavoro per gli spettatori, eppure riguardava il t., perché Grotowski lavorava nell'ambiente del t., si rivolgeva agli attori e indicava loro una prospettiva ulteriore. Definiva a posteriori qualcosa che già aveva sperimentato. Parlava di Performer, con la maiuscola: "Il Performer, con la maiuscola, è uomo d'azione. Non è l'uomo che fa la parte di un altro. È uno che fa [he is a doer], il prete, il guerriero: è al di fuori dei generi estetici" (The Grotowski sourcebook, 1997, p. 374). Non spettacoli, ma azioni, il cui scopo consiste nel mutare chi le compie, piuttosto che chi le vede. Una sorta di yoga le cui radici affondano nel sapere attorico novecentesco e non direttamente nelle dottrine dell'esoterismo tradizionale. Grotowski ha così compiuto un'azione doppiamente importante dal punto di vista culturale: ha legato il suo yoga all'umiltà d'un artigianato senza 'parole' dottrinarie, e d'altro canto ha inventato un valore per la marginalità del t., facendone un resto, un ritiro laborioso capace di proteggere persino il seme d'una pratica iniziatica. Non ha costruito dottrine, sicché nessuno potrebbe incapsularlo negli scaffali dell'esoterismo, così come nessuno potrebbe classificarlo fra coloro che vengono chiamati gli utopisti del teatro.

Rivendicava per sé il sapere dello sperimentatore: "Il teatro è stata un'enorme avventura nella mia vita. Ha condizionato il mio modo di pensare, di vedere la vita. Direi che il mio linguaggio è stato formato dal teatro. Ma non ho pensato a questo lavoro cercando il teatro. In realtà ho sempre cercato qualcosa d'altro. Da giovane mi domandavo quale fosse il mestiere in cui potessi cercare un essere umano, l'altro e me stesso, per cercare una dimensione della vita che fosse radicata in ciò che è normale, organico, persino sensuale, ma che oltrepassasse tutto questo, che avesse una sorta di assialità, di asse, un'altra dimensione più alta, che ci oltrepassa. Allora, a quell'epoca, mi sono detto: debbo studiare l'Induismo, per lavorare sulle differenti tecniche di yoga; o devo studiare medicina, per diventare psichiatra; o arte drammatica, per diventare regista. Era il periodo stalinista, la censura era molto forte, pesante, si censuravano gli spettacoli, ma non le prove. E le prove sono sempre state, per me, la cosa più importante. Là accadeva qualcosa fra un essere umano e un altro essere umano, cioè l'attore e me, che toccava questa assialità al di fuori di ogni controllo dall'esterno. Vuol dire che, nel mio lavoro, sempre lo spettacolo è stato meno importante del lavoro nelle prove. Lo spettacolo doveva essere impeccabile, ma tornavo sempre verso le prove, anche dopo la prima, perché le prove sono sempre state la grande avventura. In fondo, è stato questo interesse per l'essere umano, nell'altro e in me stesso, che mi ha portato al teatro, ma avrebbe potuto portarmi alla psichiatria o agli studi di yoga" (da un'intervista con M. Ahrne nel documentario televisivo Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski, 1993).

Usando espressioni come secessione, scappare dal centro, rifiuto, non bisogna dimenticare che la conquista dell'estraneità è una linea d'azione, e implica una politica di intervento. Grotowski, per allontanarsi dal t., lo rimodellò. Seppe realizzare le realtà di cui parlava. Trovava le persone, gli spazi, le giustificazioni pubbliche e il denaro. Organizzava fin nei minimi particolari le situazioni che dovevano proteggere il proprio lavoro. Poiché si dedicava a compiti che difficilmente avrebbero potuto ottenere sostegno senza l'avallo d'un prestigio assodato, usò, per tenersi libero dal gioco politico, la competenza e le abilità di un politico consumato. Per quanto riguarda gli anni Sessanta e la Polonia, occorre leggere la testimonianza di Barba in La terra di cenere e diamanti (1998) per comprendere come l'ardire artistico e sperimentale confinasse col rischio della vita. Il territorio profondo e circoscritto della ricerca di Grotowski, che ha creato e crea mille equivoci, allora, negli anni Sessanta (e poi nei Settanta), nella Repubblica socialista di Polonia, era gravido di conseguenze ben più pericolose.

Dall'intreccio fra le esigenze della propria ricerca e le possibilità offerte dalle contingenze storiche nacque la carica eversiva e rifondatrice del libro Per un teatro povero e dei primi anni della carriera grotowskiana. La dimensione politica è essenziale per comprendere la storia della dissidenza di Grotowski. Egli non ha trovato nel t. un rifugio, ma al contrario, per usarlo come territorio adatto ai propri bisogni, lo ha reinterpretato in maniera lucida alla luce delle meno appariscenti fra le sue trasformazioni strutturali. In un'epoca in cui il t. socialmente vive come bene culturale sovvenzionato, e in cui quindi cade la secolare necessità primaria - quella economica - di coinvolgere numerosi spettatori paganti, in un'epoca in cui il t. diventa spettacolo di minoranza nel sistema degli spettacoli di massa, Grotowski non si è mai unito al coro dei lamenti e, profittando della marginalità, ha indicato alcune strade maestre per sfuggire all'emarginazione. Ha mostrato come la mutata situazione permettesse di far fiorire potenzialità che la dimensione tradizionale del t. conosceva ma non aveva potuto sviluppare appieno; ha estratto il valore insito nella relazione di prossimità fra attore e spettatore; ha sviluppato il valore autonomo che può assumere la situazione delle prove; ha trasformato in vasto e inesplorato terreno di indagine la constatazione (altrimenti ovvia) per cui il lavoro dell'attore ha conseguenze non solo per chi lo vede, ma anche per colui che compie l'azione, dato che plasma anche la sua cenestesi, la sensazione fisica che ciascuno ha di sé e cioè la percezione interna del proprio esserci materialmente.

L'esperienza politica ribelle aveva sempre caratterizzato la vita di Grotowski, anche indipendentemente dal t.; ma fu proprio il t. che, nella situazione politica in cui si trovava la Polonia alla metà degli anni Cinquanta, divenne per lui il modo per sfuggire all'alternativa fra divenire vittime del regime oppure integrarvisi. Il t. non è clandestino: è mimetizzato. È arte di minoranza che può divenire un lavoro d'impegno fatto attraverso la minoranza.

Con questo, ci ricolleghiamo alle immagini da cui siamo partiti nella 42ª Strada di New York e alla rue du Faubourg Saint-Denis di Parigi. Pensando ai percorsi complementari compiuti da Grotowski, dal Living Theatre, da Atahualpa del Cioppo, da Barba, dalle generazioni teatrali che si sono accese scommettendo sulla professione scenica (Schino 1992), saremmo tratti a pensare a un insieme di storie che potrebbe essere raccontato solo nei termini di veri e propri racconti d'avventura. Eppure, come è stato proposto con grande intelligenza storica (Meldolesi 1986), i riformatori del t. dovrebbero essere visti come straordinari esempi di una sociologia in atto, come costruttori di forme che interpretano la società e forniscono risposte alle sue meno evidenti tensioni. Il che contribuisce a spiegare perché, più che l'esame dei capolavori, più dei molti clamori, siano adatte a render conto dell'eredità che il t. lascia al Duemila le domande difficili sul modo di pensarlo, sul mutare delle sue geografie, su ciò che si sostituisce alla multisecolare centralità della letteratura, sulla sua dimensione eurasiana, e - alla fin fine - sulle ragioni della sua quasi imprevedibile persistenza.

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Drammaturgia e spettacolo

di Raimondo Guarino

Nel t. contemporaneo la parola drammaturgia riguarda il complesso processo di creazione e composizione che tocca la sfera delle relazioni interne al lavoro teatrale, la sedimentazione e l'elaborazione dei materiali espressivi e delle tradizioni, la rete delle identità professionali e degli assetti produttivi. In questo senso, acquista un significato diverso - più specifico e parziale - la drammaturgia letteraria, cioè la produzione e l'identità autonoma del testo scritto, riconoscibile e analizzabile come una proposta drammaturgica tra le altre.

La grande drammaturgia letteraria del pieno Novecento europeo (B. Brecht, S. Beckett, E. Ionesco, J. Genet) non ha offerto un arricchimento del repertorio funzionale al sistema dello spettacolo. Seppur riassorbita nel rinnovamento delle tensioni letterarie della scena, essa è stata una vicenda multiforme di 'reinvenzioni' del t. a partire dalla dimensione esterna, rispetto alla rappresentazione, della pagina scritta. L'attivo e a volte esclusivo interesse di molti letterati per la scena nell'ultimo Novecento è invece al tempo stesso consapevole di una distanza e carico dei presupposti organizzativi e strutturali dello spettacolo colto, esistenti nelle culture nazionali di appartenenza.

La problematica aderenza alle strutture e alle tradizioni nazionali e alle culture locali emerge attraverso le personalità più caratterizzanti degli ultimi decenni. Nell'area germanica la presenza dominante è stata quella di H. Müller, dapprima voce problematica e scrittore dissidente della Repubblica Democratica Tedesca, poi Dramaturg della Volksbühne di Berlino Est; più volte attivo come Dramaturg e come regista nella Germania Federale; direttore, nella Germania unificata, del Berliner Ensemble fondato da Brecht. La scrittura di Müller si è evoluta dagli anni Settanta verso la definizione di una parola teatrale totalmente avulsa dalla forma del dialogo e dalla composizione dell'azione proprie della drammaturgia tradizionale, traducendosi nella coesistenza di una prosa poetica fortemente espressiva e di una prescrizione di visioni consegnate dall'autore alla concretezza scenica. Il narratore austriaco Th. Bernhard ha dedicato l'ultima stagione della sua produzione drammatica all'invenzione di un registro discorsivo che chiama in causa l'identità e la funzione recitante dell'attore, dalla pièce Minetti, scritta per l'omonimo novantenne mito della scena tedesca del Novecento, ai drammi destinati al regista C. Peymann e ai suoi interpreti. Sulla scia del ruolo di Dramaturg svolto per il regista P. Stein, si è affermato con sapiente equilibrio tra coralità e struttura dialogica B. Strauss, mentre è legata all'affermazione di un'autonomia regionale, culturale e produttiva, l'opera del bavarese H. Achternbusch.

In area francese la scrittura di V. Novarina ha esaltato l'ipertrofia dell'invenzione verbale, in una concezione del luogo teatrale e dell'attore rispettivamente intesi come luogo deputato e come virtuoso esecutore della parola letteraria. B.-M. Koltès, prematuramente scomparso nel 1989, portato in scena dal regista P. Chéreau, è stato sensibile creatore di atmosfere e dialettiche estreme, non estranee all'eredità di Genet. Nel t. britannico si è imposta, per qualità e unanimità di consensi, la produzione di T. Stoppard, situata cronologicamente tra l'impegno ideologico degli Arrabbiati della generazione di J. Osborne, J. Orton ed E. Bond e le manifestazioni trasgressive della cultura metropolitana: una produzione lontana dalla rarefazione lirica dei drammi di H. Pinter, contrassegnata da un'ironica attrazione per la conversazione teatrale di O. Wilde e da forme parodistiche che coinvolgono la ripresa di temi e motivi shakespeariani. Sulla scia di J.A. Strindberg, e dei nodi stilistici e tematici dell'opera teatrale e cinematografica di I. Bergman, il t. svedese ha trovato in L. Norén nuove varianti alla tematica del dramma familiare. Nel contesto statunitense, invece, la produzione di S. Shepard e D. Mamet è segnata dalla contiguità dello scrivere per la scena con la produzione cinematografica e televisiva.

La situazione della drammaturgia italiana, del tutto particolare per la prevalenza della figura dell'attore-scrittore, delineatasi con R. Viviani, E. De Filippo, D. Fo, è caratterizzata nel passato recente da un vasto arco di posizioni linguistiche: dall'espressione intenzionalmente alta e concettualmente sostenuta, rappresentata dai testi di P.P. Pasolini e argomentata nel suo "manifesto" per un t. di parola, al dramma-conversazione (N. Ginzburg, F. Brusati), alla rinnovata vitalità della drammaturgia dialettale. I centri attivi della drammaturgia dialettale corrispondono ad aree che per tradizione, o per fioritura recente, si situano all'avanguardia dello sperimentalismo drammaturgico: Napoli, con una relazione mista di continuità e di rotture rispetto alle contrastanti anime di Eduardo e Viviani, espressa da autori come A. Ruccello ed E. Moscato e anche nella molteplice officina registica di M. Martone; la Romagna, dove al sostrato prevalentemente lirico della letteratura in vernacolo hanno dato impulso teatrale, in un arco di traiettorie diverse e di ibridazioni con altri universi culturali e artistici, gruppi affermatisi negli anni Ottanta, come il Teatro delle Albe di Ravenna, con la marcata personalità del regista-scrittore M. Martinelli, che ha coinvolto come attori e collaboratori immigrati senegalesi e ha fondato un t. a Dakar, e il Teatro Valdoca di C. Ronconi, mosso dalle suggestioni della scultura di F. Melotti e convertito alla rifondazione della parola con la poesia scenica di M. Gualtieri. Importante anche la produzione in dialetto siciliano di F. Scaldati. La particolare oltranza espressiva impressa al dialetto lombardo nell'ultima fase dell'opera drammaturgica di G. Testori si è indirizzata negli anni Settanta e Ottanta alle doti e alle imprese di attori come F. Parenti e poi F. Branciaroli, ed è confluita successivamente nell'intenzione di t. di poesia che ha caratterizzato progressivamente l'attività dei Magazzini di F. Tiezzi e S. Lombardi, gruppo impegnato nei decenni precedenti sul versante della performance a base visiva e musicale e nell'attraversamento di Genet e Artaud. Oltre a dare corpo a Testori e a Pasolini, la ricerca dei Magazzini su una drammaturgia capace di intercettare e incarnare i valori assoluti del dettato poetico ha incontrato nel 1989-91 Manzoni e le tre cantiche della Commedia dantesca, realizzate con la collaborazione dei poeti E. Sanguineti (già attivo per la scena dai tempi della riduzione dell'Orlando Furioso per L. Ronconi), M. Luzi e G. Giudici. Altri orizzonti della letteratura in scena sono quelli aperti dall'ultima stagione di C. Bene, che ha concentrato la sua ricerca sul conflitto essenziale tra la presenza dell'attore e l'immagine scenica, sulla riconquista della centralità dell'attore nei confronti dell'egemonia registica, lavorando sullo Shakespeare delle traduzioni e delle riscritture decadenti, sulla drammaturgia musicale, e sul verso come parola restituita alla pienezza della sua natura recitativa.

Come originale fusione tra l'affermazione dell'autonomia drammaturgica dell'attore e l'appello alle tecniche della narrazione teatrale va interpretato il successo mondiale di Fo, l'attore drammaturgo italiano formatosi nel cabaret degli anni Cinquanta, inventore di forme autonome di t. comico e politico. Insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1997, Fo ha esportato con successo sia la qualità costruttiva delle sue pièces degli anni Sessanta, altamente traducibili in azione teatrale, sia lo stile recitativo fortemente gestuale, la lingua inventata e la narrazione monologante, elementi improntati al mito del giullare, e realizzati pienamente nelle molteplici versioni di Mistero buffo. Il senso della narrazione ha costituito anche l'approdo dell'evoluzione di un multiforme scrittore di t. come G. Scabia, legato prima alla convergenza di avanguardia letteraria e musicale e poi alla stagione dell'animazione e della drammaturgia collettiva. E riemerge come una feconda direzione nel lavoro individuale di attori-affabulatori di rilievo degli anni Novanta, come M. Paolini e M. Baliani.

Esistono accezioni del lavoro drammaturgico che invece di insediarsi nelle tradizioni nazionali germinano nell'alveo di soluzioni circoscritte e radicali, che richiedono una scienza delle relazioni, e una conoscenza del contesto determinato cui si rivolgono i due sensi prevalenti della parola drammaturgia: la composizione delle azioni sceniche e l'invenzione della parola teatrale. Così la figura del Dramaturg come consigliere letterario del t. istituzionale mitteleuropeo ha trovato nuove declinazioni nell'apporto di L. Flaszen al Teatr Laboratorium diretto da J. Grotowski, o nella collaborazione di F. Taviani con l'Odin Teatret diretto da E. Barba. Una combinazione di grande rilievo è quella che ha visto l'apporto di J.-C. Carrière al t. del regista P. Brook dal 1978. Carrière è stato sceneggiatore di L. Buñuel, e unisce requisiti di trasparenza stilistica e di funzionalità narrativa nella scrittura e nell'adattamento dei testi. La collaborazione con Brook si è espressa, oltre che nelle rielaborazioni da Shakespeare e Čechov, con il 'racconto teatrale' della Conférence des oiseaux e con la drammaturgia epica del Mahābhārata.

Determinante la drammaturgia specifica del regista per spiegare la trasformazione di questa figura egemone nel t. del Novecento, la sua conversione tra il ruolo del rifondatore e del maestro, e l'attuale configurazione di autore del fatto teatrale che rianima e attualizza il repertorio letterario. La drammaturgia registica sostiene la conservazione nel repertorio del canone della drammaturgia europea, da Eschilo a Brecht; consente, come in Germania, la convivenza dei classici con la nuova drammaturgia; o provoca, come nella sistematica indagine di Ronconi, revisioni degli inventari della letteratura teatrale, con il recupero alla vita scenica di testi obsoleti o mai rappresentati (Andreini, Holz, Kraus, l'Aminta di Tasso) e annessioni dal territorio del romanzo (il Pasticciaccio da C.E. Gadda o I Fratelli Karamazov da F.M. Dostoevskij). Il lavoro di A. Vitez su Molière, o le esperienze - fondate su norme ed eccezioni dell'organizzazione teatrale tedesca, ma ispirate a un'inconfondibile continuità d'autore - di P. Zadek, P. Stein, K.M. Grüber e C. Peymann, hanno individuato nella composizione registica una nuova forma di protagonismo intellettuale che, invece di agire immediatamente su un dato tecnico come la regia cinematografica, opera sulla connessione tra materiale letterario, lavoro dell'attore, spazi e tempi della rappresentazione.

Con Müller, Fo, con le sporadiche ma radicali incursioni teatrali di P. Handke, con Bernhard, ma anche con l'uso della poesia da parte dell'artista napoletano A. Neiwiller, meteora della scena italiana, scomparso nel 1993, o con la visione dello spazio del regista belga, attivo prevalentemente in Italia, Th. Salmon (tragicamente scomparso nel 1998), la drammaturgia come arte della parola scenica si è estesa al di là dei confini formali della letteratura drammatica e ha mutato gli orientamenti del mestiere di regista. Ma la drammaturgia come composizione delle azioni estende le sue fonti e i suoi processi oltre i confini della letteratura.

Al di sotto delle distinzioni professionali, dei parallelismi con il cinema, dei nessi con la produzione letteraria o delle relazioni con le arti visive, la drammaturgia è un livello del lavoro teatrale che sta tra le tecniche, i depositi della memoria, le identità e la percezione dei contesti e degli ambiti delle attività di rappresentazione. A partire dagli sviluppi della riflessione di K.S. Stanislavskij, è stato possibile individuare, nel passaggio tra la costruzione della sequenza delle azioni fisiche e la composizione dello spettacolo, un campo riferibile alla drammaturgia dell'attore. Questo campo ha valorizzato una realtà già esistente in termini diversi nell'autonomia artistica dell'attore ottocentesco. Ne ha sottratto le potenzialità al confronto vincolante con il testo scritto della drammaturgia letteraria. Ha proiettato il profilo dell'attore europeo su nuove dimensioni, a confronto con altre aree del comportamento scenico, esplorate nella ricerca sull'attore asiatico e nel recupero della forma del mimo corporeo, nella originaria e rigorosa accezione di É.-M. Decroux, orientate a una critica e feconda relazione con la danza, impiegate nel terreno di lavoro comune e continuo caratterizzante la relazione tra regista e attore nel t. di gruppo che da V.E. Mejerchol´d e J. Copeau ha trovato in Grotowski e Barba nuova linfa. L'enfasi dell'autonomia compositiva ha anche caratterizzato nuove fisionomie del danzatore e nuovi orizzonti della coreografia, nel frastagliato territorio che, affondando le radici nell'Espressionismo, ha nutrito invenzioni e personalità del teatro-danza tedesco nell'ultimo scorcio del secolo, soprattutto con l'opera di P. Bausch, direttrice del Tanztheater di Wuppertal. Le incursioni di Brook nella reinvenzione del t. musicale (La tragédie de Carmen, Impressions de Pelléas) hanno nello stesso tempo infranto le barriere di confine tra i generi di spettacolo e le categorie di recitanti (tra attore che canta e cantante-attore lirico) e il limite costituito dal vincolo del tempo e del testo musicale sulla regia operistica; vincolo che aveva spesso relegato nelle attualizzazioni e variazioni visive l'intervento interpretativo sul repertorio (ricordiamo la tetralogia wagneriana diretta da Chéreau, le regie dell'americano P. Sellars o l'indefessa attività di L. Ronconi nei t. d'opera).

Nel solco dell'arte della scena inaugurata dall'inglese G. Craig all'inizio del 20° secolo va collocata la nitida composizione visiva e coreografica dello statunitense R. Wilson. Ispirata in una prima fase dallo studio sulla percezione autistica, l'opera di Wilson si è mossa tra le sperimentazioni periferiche sulla combinazione delle forme espressive e le ipotesi di riformulazione del grande spettacolo musicale (A letter for the Queen Victoria, Einstein on the beach), e si è più volte misurata con vertici della ricerca letteraria del Novecento, da G. Stein a H.Müller, incontrato nel progetto internazionale degli anni Ottanta The civil wars. Livelli di personale elaborazione poetica e di ricerca musicale, vocale e coreografica si intrecciano anche nella direzione autobiografica del t. di M. Monk.

Nell'ambito della cultura della performance americana, ha assunto un valore primario l'elaborazione degli spazi e dei percorsi, e la drammaturgia, facendo esplodere la fortunata e fragile formula della 'scrittura scenica', si è convertita in un'attivazione diretta della percezione straniante e nella trasformazione dei tempi e dei luoghi dell'esperienza quotidiana. L'eventuale elaborazione dello script come componente letteraria è prevalentemente posteriore e determinata dagli altri fattori, come nelle creazioni di R. Foreman, in cui testi e impiego dello spazio si producono a contatto con la necessaria e personale collaborazione dell'attore-performer.

La questione della drammaturgia contemporanea non riguarda la morfologia inafferrabile e gli incerti contorni di un genere letterario destinato a trascendersi in materie eterogenee, ma risulta complessivamente pertinente alla tensione verso la visibilità e l'oggettività dei processi creativi di una comunità, di una situazione di lavoro teatrale determinata. Più si accentua la varietà delle grammatiche e l'arbitrarietà delle strutture, più la composizione dell'azione scenica acquista la natura e la coerenza segreta di un linguaggio circoscritto, di una convenzione ristretta e inusitata eppure efficace, di un dialetto che non solo è espressione della lingua ma lavoro originale sul senso del corpo nello spazio e nel tempo e sulla qualità della presenza. Nella ricchezza del contesto polacco, la figura appartata ed eccezionale di T. Kantor e le creazioni del teatro Cricot 2, da lui fondato a Cracovia nel 1955, conservando rapporti fitti con le premesse del t. polacco del Novecento e con le avanguardie artistiche del 20° secolo, hanno realizzato, soprattutto nell'ultima fase (da La classe morta del 1975 a Qui non ci torno più, ultimo spettacolo di Kantor), una straordinaria sintesi tra confluenza delle memorie personali e creazione contestuale dell'energia dell'attore e della composizione.

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Geografie del teatro

di Mirella Schino

La geografia del t. muta sensibilmente nel corso del Novecento: si modifica il rapporto fra centro e periferia, molti t. riorganizzano il proprio territorio, si ridefiniscono i contorni delle mappe che distinguono aree e settori teatrali.

La geografia teatrale ereditata dall'antichità era caratterizzata da grandi centri, situati nelle capitali nazionali o regionali, circondati da periferie più o meno ricche. Alla fine del 20° secolo, essa non si adatta pienamente alla vita delle scene, e il Novecento lascia in eredità al secolo nuovo una geografia teatrale mobile, una rete di relazioni, di aggregazioni, di influenze e distinzioni che tiene poco conto dei confini presenti nelle carte della geografia politica. Mutano anche i territori che il t. occupa o nei quali è in grado di inoltrarsi.

Com'è illustrato partitamente in altri contributi di questa stessa voce, i mutamenti della geografia teatrale vanno letti in stretta connessione con quelli dell'economia e dei modi di produzione; con il diverso modo di pensare il t.; con l'affermarsi della sua dimensione 'eurasiana'; con le nuove relazioni che si creano fra drammaturgia e spettacolo e, più in generale, con la questione della persistenza del t. in un'epoca che mette in crisi e ridefinisce il suo modo d'essere.

Centro e periferia. - I caratteri secondo cui, nei diversi paesi europei, fra il 17°e il 18° secolo il t. professionistico si dispose nel territorio si conservano costanti, nelle loro grandi linee, fino a buona parte del 20° secolo. Infatti lo schema francese vede un t. centralizzato, parigino, circondato da t. periferici che aspirano a trasferirsi al centro, dal quale traggono valore e ispirazione. Lo schema inglese è simile, orientato su Londra. Quello tedesco si basa sui t. di corte dei diversi piccoli Stati tedeschi, e si trasforma, nella seconda metà del Novecento, nella rete di t. stabili regionali forti, autonomi, ciascuno molto ben finanziato. Lo schema italiano è caratterizzato dalla condizione itinerante delle compagnie, con giri ricorrenti, e con alcune città considerate particolarmente significative sia per i guadagni sia per il formarsi del giudizio critico: Napoli, Palermo, Venezia, Roma, Firenze, Bologna, Milano, Torino, Genova. In Russia, invece, la vita teatrale si organizza attorno ai poli delle due capitali, Mosca e San Pietroburgo. In generale si può dire che lo schema più diffuso anche nel resto dei paesi europei (l'Italia, come si è visto, costituisce in parte un'eccezione) ha al centro i t. delle capitali - poli di attrazione e modelli - circondati da un'orbita di t. periferici o itineranti. Lo stesso schema si impone negli USA (il centro è Broadway, a New York). Simile è anche quello in cui si organizzano le forme teatrali autoctone in Cina e Giappone. In Cina (dove per il t. classico si usa comunemente il termine Opera) vi è una rosa di Opere regionali con al centro l'Opera di Pechino; in Giappone, il centro della vita teatrale è costituito dai t. kabuki a Tokyo. Il colonialismo ha disseminato nel mondo, in Asia, in Africa, in America Latina, t. 'provinciali', imitazioni lontane delle capitali europee e, più recentemente, di Broadway.

Gli schemi di base che dettero forma alle diverse geografie teatrali non sono stati veramente intaccati dai tentativi di correzione, anzi tendenzialmente hanno riassorbito gli elementi nuovi ed estranei. In Italia, per es., a partire dagli anni Cinquanta, il tentativo di creare t. stabili secondo una distribuzione sul territorio simile a quella tedesca ha dato vita, in realtà, a una riorganizzazione e modernizzazione del 'teatro di giro'. In Francia, il sorgere di t. regionali e di Centres dramatiques non ha scalfito la centralità di Parigi, ma l'ha semmai rafforzata: a Parigi hanno trovato consacrazione, e si son fatte parigine, quelle forme ed entità teatrali che erano cresciute nel decentramento. Il decentramento teatrale francese sorse in reazione all'eclisse di Parigi, durante l'occupazione nazista, quando il paese era spaccato in due e lo Stato francese aveva la sua capitale a Vichy. Nel dopoguerra si è sviluppato come programma per un t. popolare, che naturalmente ha trovato a Parigi la sua più influente espressione.

Il t. delle capitali, che è stato a lungo la norma del Novecento, non fu tale soltanto dal punto di vista dell'ufficialità e del commercio. Anche le avanguardie celebrano nelle capitali le loro infrazioni e sperimentazioni. Appartengono, in genere, alle capitali anche i 'teatri d'arte' (da quelli parigini di A. Antoine e J. Copeau, a quello moscovita di K.S. Stanislavskij e V.I. Nemirovič-Dančenko) con la loro volontà di ricreare l'ambiente del t. in tutti i suoi aspetti e le sue diverse stratificazioni (nuovi attori, nuovi autori, nuovi spettatori). Vi sono state, nella prima parte del 20° secolo, alcune significative eccezioni che confermavano la regola. Sorsero, a volte, t. apparentemente decentrati, che contrapponevano, però, la loro isolata centralità a quella delle capitali, come un santuario si distingue da una cattedrale. Forse la più rappresentativa, fra queste eccezioni, è quella di É. Jaques-Dalcroze e dell'Istituto da lui fondato a Hellerau nel 1911.

Jaques-Dalcroze (1865-1950) fu l'inventore di un sistema di movimenti, l'euritmica, che traduceva in termini corporei il ritmo musicale. Collaborò con A. Appia, uno dei fondatori della moderna concezione della regia teatrale, e affiancò alla propria attività pedagogica e di ricerca la creazione di veri e propri spettacoli. Ebbe grande influenza su tutti i protagonisti del rinnovamento del t. e della danza nei primi decenni del Novecento. L'Istituto Jaques-Dalcroze di Hellerau è un tipico esempio di teatro-santuario, antitetico, ma paradossalmente equivalente, a quello wagneriano di Bayreuth. La scelta della periferia invece di una grande capitale derivava, per Jaques-Dalcroze, non da problemi economici, ma dal desiderio di garantirsi una visibilità maggiore di quella che avrebbe potuto offrire una città importante. Inoltre Hellerau, un sobborgo di Dresda, è un posto particolare, una città-giardino edificata da un industriale filantropo e utopista, K. Schmidt, che fece costruire, a Hellerau appunto, un'industria-modello e una serie di case per gli operai immerse nel verde e improntate a uno stile innovativo sobrio e funzionale.

La costruzione dell'Istituto si rese possibile per l'interessamento di un altro industriale tedesco, W. Dohrn, che aveva lavorato al fianco di Schmidt per la creazione della città-giardino, ed era forse già in contatto con il pittore russo A. von Salzmann (che fu uno dei principali collaboratori di Jaques-Dalcroze). Dohrn offrì a Jaques-Dalcroze la possibilità di creare l'edificio secondo i suoi desideri e ne sostenne la quasi totalità della spesa. Come architetto venne scelto il giovanissimo H. Tessenow. L'edificio di Hellerau fu in seguito considerato uno dei suoi capolavori, e uno dei massimi esempi della rivoluzione iniziata a metà Ottocento per un'architettura funzionale. Aveva le linee pure e ascetiche, la simmetria tipica di un classicismo atemporale. La differenza tra questo stile essenziale e i progetti precedenti di Tessenow fa pensare a un'attiva collaborazione di Appia. Jaques-Dalcroze e Appia, comunque, furono entusiasti dell'opera del giovane architetto. Come tutti i teatri-santuari, Hellerau, nei suoi primi anni di vita, fu completamente dipendente dal suo mecenate. Perciò, quando agli inizi del 1914 un incidente sugli sci troncò inaspettatamente la vita di Dohrn, l'Istituto dovette chiudere.

Nella seconda metà del Novecento, le mutate condizioni economiche del t., passato quasi globalmente dall'economia di mercato a quella delle sovvenzioni, configurano nuove possibilità. Le emergenze teatrali non coincidono più con quelle della geografia politica. È possibile, per i t., vivere lontani dai centri in cui sono numerosi gli spettatori potenziali ed è possibile fare t. per spettatori che in altri tempi non sarebbero stati sufficientemente remunerativi. Esperienze avventurose ed economicamente donchisciottesche, come quella di Copeau, quando nel 1924 chiuse il suo t. parigino e si recò con alcuni dei suoi attori in Borgogna (Cruciani 1985), possono ora svolgersi in una condizione di quasi normalità.

Che le emergenze teatrali non coincidano più con quelle della geografia politica lo si vede chiaramente non appena si osservi come alcune delle più importanti capitali della scena del secondo Novecento, luoghi in cui si irrobustiscono e diventano influenti i modelli del nuovo t., sorgano in contesti decentrati, appartengano alla geografia delle periferie e delle province. Cessa, cioè, il legame obbligato fra la centralità culturale di un t. e la centralità della sua città. Negli anni Sessanta, due di queste capitali del nuovo t. si trovano nella cittadina polacca di Opole, dove vive il Teatr Laboratorium di J. Grotowski, e nella cittadina danese di Holstebro, dove opera l'Odin Teatret di E. Barba.

In Italia, la cartografia teatrale dagli anni Settanta in poi deve registrare come centrali, accanto alle città abituate a essere capitali culturali, anche luoghi che per la geografia politica sono marginali: Pontedera, dove si radica il Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale; Cesena, dove lavora la Societas Raffaello Sanzio; Bergamo, dove operano il Teatro Tascabile e l'Accademia delle forme sceniche; Ravenna, con il Teatro Le Albe; Settimo Torinese, con il Laboratorio Teatro Settimo; Prato, dove ha a lungo lavorato L. Ronconi in condizioni laboratoriali; Fara in Sabina, un paesino presso Rieti da cui s'irradia l'attività internazionale del Teatro Potlach; Brescia, dove il Teatro della Loggetta s'impone come un modello di t. pubblico; Ferrara, nei cui dintorni lavora il Teatro Nucleo, nato attorno a due artisti argentini esiliati (Schino 1996).

La dislocazione dei t. al di fuori dei territori segnati come 'centrali' caratterizza l'intero panorama internazionale e predomina soprattutto in America Latina, dove un'influente rete di gruppi teatrali s'impone senza mettere radici nelle città importanti o vivendo in esilio, com'è il caso del Teatro Galpón di Atahualpa del Cioppo (originario dell'Uruguay), della Comuna Baires e del Libre Teatro Libre (originari dell'Argentina).

Alcuni fra i più importanti esempi del t. della seconda metà del Novecento - si pensi al Living Theatre e al Centre international de créations théâtrales di P. Brook - assumono, sia per la collocazione sia per la propria composizione interna, la figura di t. apolidi. Questo non vuol dire che sparisca lo statuto dei t. cittadini e la centralità di istituzioni come la Comédie Française, il Piccolo di Milano, il Berliner Ensemble, l'Old Vic e i molti altri t. centrali nei diversi paesi. Ma alla polarità fra centro e periferia, tipica della geografia teatrale tradizionale, si sostituisce quella fra t. che vivono radicati in un ben circoscritto territorio e t. extraterritoriali. L'idea di 'teatro nazionale' (che in alcuni paesi rappresenta la solidità di una tradizione e in altri - come l'Italia - poco più di un sogno, o di una 'fisima', come si disse già negli anni Venti) viene sostituita dall'immagine-guida di t. che sono cittadini del mondo, che possono trasferirsi e trapiantarsi in differenti zone del pianeta, rompendo il legame istituzionale e culturale con un ben preciso territorio e una sola lingua. Emblematica, da questo punto di vista, la storia dell'Odin Teatret (per la nozione di t. extraterritoriale e per una panoramica più circostanziata, v. teatro, App. V).

Questo allontanarsi di un'ampia porzione del t. del secondo Novecento dal legame con un territorio preciso, e persino da quello con una lingua, procede parallelamente all'uscita dai consueti luoghi teatrali. Si crea, così, una geografia in movimento, dove il t. abbandona i luoghi cui tradizionalmente era deputato, ed esplora ambienti e modi d'essere che fino a poco prima avrebbero dovuto essergli estranei. La geografia in movimento implica, infatti, nuovi processi di territorializzazione.

Territorializzazione

I geografi usano il termine territorializzazione per indicare quell'insieme di operazioni che organizzano a diversi livelli, sia fisico sia mentale, lo spazio in cui si è inglobati. Parlano dunque dei modi in cui l'uomo trasforma lo spazio in territorio modificandolo materialmente (edifici, strade, dighe, canali, scavi ecc.); pensandolo in maniera gerarchizzata e distinta secondo i contorni delle frontiere, delle amministrazioni e dei valori; intessendovi reti di relazioni che uniscono zone spazialmente non contigue (come le diverse proprietà di uno stesso ente, il coordinamento degli spazi con funzioni simili ecc.). L'insieme di queste operazioni di territorializzazione dà luogo alla 'geografia complessa'. Tutto questo ha un preciso corrispettivo nelle complessità teatrali.

Chi si accinge a far t. trova davanti a sé uno spazio già organizzato, 'luoghi teatrali' già pronti, una rete di legami, di occasioni, di incontri. Trova, insomma, una tipologia delle attività consolidata dagli usi e dalla tradizione. La tipologia dei luoghi teatrali confermati dalla tradizione riguarda sia l'aspetto materiale dell'assetto scenico sia i contesti di riferimento o la geografia delle tournée. Un tale modo di organizzare il territorio rispondeva al sistema economico che ha a lungo regolato il commercio degli spettacoli.

L'avvento delle sovvenzioni, la necessità o la volontà di sottolineare ciò che distingue lo spettacolo teatrale dall'insieme degli spettacoli più diffusi (cinema e televisione), e cioè il suo carattere di spettacolo 'al vivo', l'affermarsi di visioni estetiche e politiche che suggeriscono al t. nuovi valori e nuovi compiti sociali hanno premuto contro le forme dei luoghi teatrali, codificate e trasmesse dalla tradizione. I luoghi in cui far t. non possono più essere soltanto quelli organizzati dall'architettura del 'teatro all'italiana'. Diverse istanze teatrali obbligano a organizzare diversamente il terreno atto ad accogliere spettacoli. I luoghi per lo spettacolo a volte aboliscono la divisione canonica fra palcoscenico e platea; oppure si restringono alla dimensione di una sala in cui raccogliere attori e spettatori in numero ridotto; rifiutano la nozione stessa di pubblico come massa indifferenziata o, al contrario, invadono ampi spazi in cui costruire paesaggi teatrali dalle grandi dimensioni. Divengono t. certi spazi cittadini desueti, ex fabbriche ed ex chiese, palestre, nude sale in cui organizzare ogni volta diversamente il rapporto fra coloro che fanno t. e coloro che ne fruiscono. I territori pronti per lo spettacolo e gli edifici teatrali tradizionali in molti casi appaiono un ostacolo alla vita del t. così come essa si manifesta alla fine del 20° secolo (Cruciani 1992).

La diversa organizzazione del territorio, rispetto a quella tradizionale che recintava gli spazi preordinati allo spettacolo, rende in molti casi il t. un fenomeno pervasivo, che si instaura nei luoghi marginali e abbandonati della città, del suo centro e delle sue periferie. Alla fine del Novecento diventa cioè normale quel che nei primi decenni caratterizzava lo sperimentalismo di un creatore di spettacoli come M. Reinhardt, che esplorava con le sue messinscene spazi sempre diversi. La non appartenenza di una parte significativa del t. di fine secolo ai luoghi teatrali tradizionali si rende particolarmente evidente con il fiorire di spettacoli itineranti in spazi aperti, dove sia gli attori sia gli spettatori compiono un percorso che esplora e spettacolarizza un territorio più o meno vasto, cittadino o immerso nella natura. In queste 'Opere' teatrali itineranti l'operazione di territorializzazione viene spesso tematizzata (Cruciani, Falletti 1989). I nuovi territori che i t. si ritagliano nel continuum dello spazio cittadino non sono delle semplici fuoriuscite dai luoghi deputati, non sono infrazioni o invasioni festive, o provocazioni politiche o di propaganda (Casini Ropa 1988). Sono il segno di un vero e proprio riassestarsi della topografia teatrale.

Se dalla topografia passiamo a una scala geografica più ampia, osserviamo il crearsi di uno spazio delle relazioni teatrali che modella in maniera diversa i legami che normalmente stringono il territorio teatrale. I mutamenti ai quali facciamo qui riferimento non sono complessivi: non si tratta di una geografia dei t. che non ha più nulla a che vedere con la precedente. Al contrario, l'assetto tradizionale continua a mantenersi sostanzialmente intatto; è quello del t. non sempre di maggiore rilevanza storica, ma sempre di maggior celebrità nel sistema dei media. Ad alcuni dei suoi caratteri si è già accennato; occorre aggiungere ciò che dà forma al territorio teatrale in una dimensione internazionale. I t. tradizionali girano in luoghi sempre simili. Le tournée li conducono in altri t., spesso in altre capitali o in centri culturali corrispondenti a quelli cui appartengono. Si incontrano in grandi festival. Viaggiano, cioè, in un territorio unitario, i cui luoghi sono lontani nello spazio, ma vicini per morfologia e costumi. I t. che non possono adattarsi completamente a questo sistema, a ciò che esso indica o permette, sono costretti a cambiare l'assetto del proprio territorio d'appartenenza, cioè non solo a cambiare la struttura del 'luogo teatrale', ma anche a modificare la rete delle affinità e il modo in cui pensare i confini del mondo teatrale. Devono, cioè, rielaborare a loro uso i criteri della territorializzazione.

Si creano così due mappe teatrali compresenti e sovrapposte: l'una coerente rispetto all'organizzazione tradizionale dei t. nazionali e regionali, l'altra organica alle novità dei t. apolidi, extraterritoriali, adatti a vivere in una società multiculturale. Da un punto di vista strutturale, questa seconda geografia sostituisce l'alternanza fra t. stabili e t. in tournée con una condizione di nomadismo, dove si alternano momenti in cui prevalgono forze centrifughe a momenti in cui prevalgono forze centripete, tempi in cui ogni t. tende a lavorare per suo conto a tempi in cui due o più t. lavorano di conserva, costruiscono progetti comuni, riempiono di vita teatrale una città o una regione, trasformando un festival, per es., in una vera festa che coinvolge direttamente le diverse componenti della cultura locale. Alla geografia tradizionale delle tournée corrisponde il puro scambio di spettacoli; all'altra geografia, basata su legami sempre nuovi e multiformi, corrisponde, oltre al girare degli spettacoli, la creazione di 'progetti speciali' di carattere artistico, attività culturali, pedagogiche e di introduzione alla pratica teatrale. Anche per quanto riguarda la pedagogia teatrale, si potrebbe fare un discorso simile: alle scuole stabili si aggiunge, nella seconda parte del Novecento, l'esistenza di una rete di rapporti e pratiche pedagogiche continuative ma non legate a una sede stabile (La scuola degli attori, 1980; Schino 1996; The performers' village, 1996).

Dal punto di vista culturale, i nuovi fenomeni di territorializzazione teatrale instaurano legami con istituzioni non teatrali. Sintomatici, da questo punto di vista, i rapporti organici con le università, il sorgere di un settore del t. legato all'organizzazione scolastica e l'emergere di una rete internazionale di t. che lavorano stabilmente in istituzioni carcerarie (v. teatro, App. V; Meldolesi 1994). Dal punto di vista economico, le nuove forme di territorializzazione rispondono all'esigenza di accedere alle risorse lungo linee trasversali rispetto ai sistemi che regolano localmente le sovvenzioni teatrali. Inutile dire che le strategie per raggiungere tali risultati appaiono chiare solo a posteriori, mentre nella pratica si configurano come una serie di scelte adeguate alla spinta delle circostanze e al bisogno di porre di volta in volta rimedio a condizioni insoddisfacenti. Ma nel loro complesso e nel loro insieme tali strategie contribuiscono a configurare un territorio unitario e transnazionale del t., dai contorni e dalle caratteristiche profondamente diversi rispetto a quelli assolutamente dominanti nella prima metà del 20° secolo.

I contorni delle mappe teatrali

Il rapporto con l'ambiente di quanti praticano il t. alla fine del 20° secolo spesso è profondamente diverso da quello di coloro che li hanno preceduti: una parte consistente del t. non si sente più strettamente legata a una lingua o a una nazione. Non sarebbe stato immaginabile in altri tempi, quando i t., anche i meno legati a un pubblico particolare (si pensi all'antico caso della Commedia dell'arte), si definivano pur sempre per le terre e le culture di provenienza. Sia per chi pratica il t., sia per chi lo sperimenta come spettatore, il luogo teatrale, nella sua oggettività fattuale e geografica e nella sua soggettività culturale e umana, ha spesso connotazioni interculturali. Il che vuol dire che quanto più diventano deboli le radici che legano i singoli t. alle loro località, tanto più forti si fanno i legami che uniscono i t. sparsi nelle diverse parti del pianeta, indipendentemente dalle loro appartenenze culturali, dalle tradizioni che incarnano o dalle scelte estetiche che praticano. L'intreccio dei legami crea un vero e proprio territorio transnazionale e transcontinentale, che mette in ombra l'appartenenza dei singoli t. a un luogo geografico preciso (Barba 1996; Schechner 1983).

Tali caratteri del t. del secondo Novecento non sono stati ancora del tutto recepiti dalla storiografia teatrale, che perpetua quasi sempre il modello di una storia del t. divisa per paesi, con il risultato di sminuire, nel giudizio storico, proprio quei t. la cui grandezza consiste nello sfuggire alle vecchie regole dell'organizzazione del territorio. Un solo esempio: una personalità come P. Brook, centrale per la storia del t. del secondo Novecento, risulta svalutata e sbiadita quando ci si ostina a osservarla all'interno di un panorama nazionale, sia esso inglese o francese. Persino il t. di T. Kantor, profondamente radicato nella cultura d'avanguardia polacca, viene privato di gran parte del suo peso, se si fa della Polonia lo sfondo principale della sua azione. Simili inconvenienti, che derivano dal perdurare di punti di vista inadeguati o impropri, spiegano il ritardo con cui si fa strada la consapevolezza dei mutamenti avvenuti nella geografia teatrale della seconda parte del Novecento.

Per comprendere quale idea della sua geografia il t. del Novecento lasci in eredità al 21° secolo occorre valutare in tutta la loro insufficienza le mappe teatrali che tracciano i confini nazionali. Un esempio macroscopico di tale mutamento di prospettiva si può individuare nell'unità del 'teatro eurasiano', al quale è dedicato un apposito contributo in questa stessa voce. Altrettanto significativi gli esempi sempre più numerosi di ensembles teatrali multiculturali e caratterizzati dal polilinguismo.

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Il teatro 'eurasiano'

di Nicola Savarese

La nozione di t. 'eurasiano', recentemente proposta da E. Barba (v. oltre), non è da intendersi in senso geografico; essa designa piuttosto l'insieme di esperienze culturali in cui i più recenti risultati della ricerca teatrale occidentale si trovano a convivere con le forme classiche dei teatri asiatici. È una visione che agli inizi del terzo millennio supera, per quel che attiene al t., la tradizionale distinzione fra Oriente e Occidente. L'ingresso dei t. asiatici nella cultura teatrale dell'Occidente ha posto infatti alcuni problemi storiografici di fondo che si sono scontrati con il paradigma dell'opposizione Oriente-Occidente, a lungo utilizzato, più o meno consapevolmente, nelle sistemazioni della storia delle arti e del pensiero. Tale paradigma ha fatto sì che i t. asiatici venissero in genere collocati nella categoria 'teatri orientali', una zona liminare delle storie del t., spesso vista come sopravvivenza arcaica, paragonata alle ere antiche del t. d'Occidente, vivente reliquia del passato, legata a una visione rituale, quando non magica, del t. (Cruciani, Taviani 1988).

Tali impostazioni, quand'anche attente e sobrie, hanno spesso svisato la continuità delle tradizioni classiche asiatiche interpretandola impropriamente come una sorta di immobilità astorica, dimenticando che ogni tradizione vive della dialettica fra conservazione e pulsione al rinnovamento, e che partiture spettacolari che continuano a essere interpretate e messe in scena non possono essere viste come semplici reperti o permanenze del passato, così come non lo sono Shakespeare ed Eschilo nel t. del Novecento, né lo è la florida tradizione dell'opera, pur fondata su un repertorio che è in larga parte sette-ottocentesco.

Il quadro fisso e nebuloso in cui spesso sono stati costretti i t. asiatici, la categoria, cioè, di un 'teatro d'Oriente', è un miscuglio di favola e realtà, da ricondurre al più generale problema dell'orientalismo, che - come è stato spiegato da alcuni studiosi - è un derivato dell'età coloniale. In realtà, "non c'è nessun Oriente. Ci sono popoli, paesi, regioni, società, culture innumerevoli sulla Terra. Alcune hanno caratteri comuni (durevoli o momentanei). Ogni studio che accomuni una o più di tali entità deve essere giustificato solo in base ad alcune caratteristiche comuni in un periodo dato" (Rodinson 1980, p. 143).

E dunque quello di 'teatri orientali' è un concetto che può essere usato per designare non tanto le diverse culture dello spettacolo dei paesi asiatici, quanto un complesso di suggestioni ora profonde, ora diffuse, provenienti dai t. asiatici più o meno ben conosciuti, il quale ha agito nella cultura teatrale di matrice europea a partire dalla fine del 18° secolo. Da questo punto di vista, i 'teatri orientali' sono una delle costellazioni mitiche del pensiero teatrale occidentale, come la Commedia dell'arte o il t. greco, il t. popolare o quello dei cosiddetti primitivi. Gli scambi culturali fra gli orizzonti dello spettacolo in Europa e in Asia risalgono all'antichità greco-romana e si sono evoluti, seguendo fasi alterne, fino alle conquiste coloniali (dal 17° al 19°secolo); ma per trovare un primo diretto rapporto fra il t. europeo e i t. dell'Asia occorre arrivare alla metà del Settecento, quando un dramma cinese tradotto dai gesuiti col titolo L'orfano della Cina fu imitato da molti drammaturghi occidentali, fra i quali P. Metastasio e Voltaire, e subito apprezzato da un vastissimo pubblico. Attraverso queste prime traduzioni di drammi (vanno ricordate innanzitutto le numerose versioni romantiche di Śakuntalā del poeta indiano Kālidāsa) si diffusero rapidamente in Europa le notizie sull'esistenza di un 'teatro' anche presso i lontani popoli d'Oriente. Conosciute all'inizio attraverso il filtro della letteratura drammatica, solo nel 20° secolo le complesse civiltà teatrali dell'Asia si sono imposte all'attenzione anche per i loro aspetti scenici e rappresentativi, ma pure qui il paradigma del t. d'Oriente ha agito a lungo, velando gli aspetti più professionali e meno esotici. La differenza di atteggiamento potrebbe in fondo sintetizzarsi in questa formula: da una parte vi sono coloro che vedono i t. asiatici come un esempio di t. esotico, arcaico e orientale; dall'altra vi sono coloro che li vedono come esempio di una problematica unitaria del t., sia essa teorica o tecnica.

L'esempio forse più significativo di questo doppio atteggiamento che considera gli stessi fenomeni in modi diversi e incomparabili lo si può trovare nella Parigi del 1931, nel corso dell'Esposizione coloniale. Basti paragonare l'atteggiamento esotista tipico del pubblico che assisteva agli spettacoli asiatici presentati in quell'occasione con l'atteggiamento di A. Artaud nei confronti dello spettacolo balinese. Da quella visione nacque un articolo ancor oggi rivelatore, considerato un manifesto del nuovo t., intorno al quale crebbe uno dei libri più influenti e innovatori del t. del Novecento, Le théâtre et son double (la vicenda della presenza a Parigi del t. balinese nel 1931 è esaminata in Savarese 1997).

Nella prima metà del Novecento, gli incontri di G. Craig con il t. indiano, di A. Artaud con il t. di Bali o di B. Brecht con il t. cinese; l'influenza del t. classico giapponese kabuki su V.E. Mejerchol´d e S.M. Ejzens̆tejn, dell'antico e ancora rigoglioso t. giapponese su W.B. Yeats e P. Claudel da una parte, e dall'altra su É.-M. Decroux, sono vicende ormai esemplari. Sono tutti incontri caratterizzati, fra l'altro, dall'elusione del paradigma illusorio che contrappone Oriente a Occidente.

Ai loro livelli più avanzati, le culture teatrali occidentali e quelle asiatiche non sono più da separare. Alcuni t. classici asiatici hanno avuto una tale influenza e un tale fascino per gli uomini di t. occidentali che nel corso del 20° secolo le diverse conoscenze e i diversi motivi si sono intersecati, tant'è che si può parlare di una cultura teatrale unificata ed 'eurasiana'.

Alla fine del 20° secolo, le tradizioni classiche del t. e della danza asiatiche appaiono importanti punti di riferimento per la cultura e la pratica teatrale, non meno presenti e attivi, non meno 'contemporanei' di quanto non lo siano i modelli di t. elaborati dai teorici della regia, a partire dagli ultimi anni del 19° secolo. Non solo è possibile constatare una presenza abbastanza continuativa dei t. classici asiatici nelle stagioni e nei cartelloni dei t. europei e americani, ma alcuni artisti occidentali operano come se t. di tradizione europea e t. di tradizione asiatica appartenessero a un orizzonte culturale unificato.

Il carattere recente della nozione di t. eurasiano non vuol dire che sia recente ciò che essa designa. A proporla è stato il regista e studioso E. Barba in alcuni scritti (1988, 1993) in cui identifica un nucleo comune del sapere professionale attraverso la comparazione di principi tecnici di differenti civiltà teatrali presenti nell'Eurasia. Afferma Barba: "Teatro eurasiano non indica i teatri compresi in uno spazio geografico, nel continente di cui l'Europa è una penisola. Suggerisce una dimensione mentale, un'idea attiva nella cultura teatrale moderna. Racchiude quell'insieme di teatri che per coloro che sono concentrati sulla problematica dell'attore sono divenuti punti di riferimento classici per la ricerca […]. Questa enciclopedia si è formata attingendo al repertorio delle tradizioni sceniche europee e asiatiche. Ci piaccia o no, sia giusto o ingiusto, questo è quanto è accaduto". E aggiunge: "Parlando di teatro eurasiano constatiamo un'unità sancita dalla nostra storia culturale. Possiamo infrangerne i confini, ma non possiamo ignorarli. Per tutti coloro che nel Novecento hanno riflettuto in maniera competente sull'attore, i confini fra teatro europeo e teatro asiatico non esistono" (Barba 1993, p. 74).

L'approccio di Barba al ricco patrimonio dei t. asiatici è semplice e diretto. Come all'inizio del suo apprendistato il viaggio in India e lo studio del kathākali erano stati il modo di accostarsi a una tecnica di rappresentazione per carpirne il segreto professionale e tentare di adattarne alcuni aspetti alla preparazione dell'attore occidentale (Barba 1998, pp. 90-91), così ogni altro attraversamento degli stili degli attori asiatici diventa per Barba un interrogativo intimamente connesso ai dubbi che giorno per giorno sorgono dalla professione. Questa pratica costante di acuto spettatore gli permette di vedere oltre le barriere culturali e gli consente il dialogo e il confronto con realtà teatrali altrimenti troppo distanti nello spazio e nel tempo. E tuttavia: "oggi il termine stesso di 'confronto' mi pare inadeguato, perché separa le due facce d'una stessa realtà. Posso dire che 'mi confronto' con le tradizioni indiane o balinesi, cinesi o giapponesi se paragono le epidermidi dei teatri, le diverse convenzioni, le molte maniere degli spettacoli. Ma se considero ciò che sta dietro quelle luminose e seducenti epidermidi e scorgo gli organi che le tengono in vita, allora i poli del confronto si fondono in un unico profilo" (Barba 1996, p. 246).

Dunque, l'approfondimento del mestiere può collocare i t. asiatici non più, come in passato, sul piano, pur importante, degli stimoli creativi: essi non appaiono soltanto una fonte per rinnovare l'universo immaginario e le consuetudini più stanche della routine teatrale, ma diventano interlocutori privilegiati per analizzare quei processi, come la formazione dell'attore e le tecniche della rappresentazione, che precedono la creazione e le conferiscono maggior vita. Così i t. asiatici, al di là dei secolari malintesi, delle suggestioni esotiche, delle influenze e dei compromessi, assumono il valore di un patrimonio culturale che trascende le barriere delle singole culture per approdare sul piano, più ristretto ma essenziale, del mestiere e della professione.

Al di là del modello teatrale occidentale, imposto alle culture asiatiche dal colonialismo e neocolonialismo, o da esse assorbito come risposta a un'esigenza di modernizzazione, l'influenza delle visioni teatrali di Stanislavskij, di Brecht, e più tardi di Artaud, di Grotowski, del Living è paragonabile all'influenza dei grandi esempi dei t. classici asiatici sul t. occidentale. Quei t. che nei primi decenni del secolo erano una scoperta, alla fine del secolo fanno parte, in Occidente, del canone consolidato dell'arte teatrale. Il fatto che la consapevolezza di un tale canone sembri chiara solo ai livelli alti e sperimentali della cultura teatrale non sminuisce quanto abbiamo appena affermato. Sarebbe un errore credere che la routine delle cronache teatrali possa essere considerata una 'norma'. A ben guardare, esser consapevoli dell'esistenza dell'orizzonte teatrale 'eurasiano' e identificare il nucleo di una cultura professionale comune a differenti civiltà significa non soltanto trasmettere un patrimonio di conoscenze, ma anche incarnare l'ansia e la logica di un viaggio per nulla concluso.

Alla fine del secolo, dell'atteggiamento esotico e orientaleggiante nei confronti dei t. classici asiatici restano ben poche tracce e poco significative. Si possono invece osservare i modi diversi e complementari in cui i t. asiatici e le ricerche teatrali eredi della riforma teatrale della cultura di radici europee si innestano come componenti di un alveo culturale e di mestiere unitario. Nel vasto panorama del t. eurasiano spiccano alcuni esempi particolarmente significativi. Ma prima di elencarli velocemente, alla maniera di altrettanti primi piani, occorre ricordare l'importanza che l'una o l'altra tradizione dei t. classici asiatici ha avuto su altri maestri del t. occidentale del secondo Novecento, che qui non trovano spazio, da J. Beck e J. Malina a J. Grotowski; da R. Wilson a P. Schumann e al Bread and Puppet Theatre; da H. Müller a R. Lepage.

Il superamento dello iato fra cultura di radici europee e culture asiatiche corrisponde all'esigenza di superare un dislivello interno alla cultura scenica di matrice europea: la frattura fra t. e danza. Il risvolto scientifico di questa doppia esigenza sono gli studi di antropologia teatrale sorti intorno all'ISTA (International School of Theatre Anthropology), fondata da Barba nel 1979 assieme a maestri di t. occidentali e orientali - prima fra tutti la grande attrice-danzatrice indiana S. Panigrahi - e a studiosi di differenti discipline e differenti paesi, fra cui lo storico del teatro F. Cruciani. L'ensemble dei maestri dell'ISTA, guidati da Barba, ha tradotto nell'evidenza di un grande spettacolo il proprio modo di concepire la collaborazione delle diverse tradizioni teatrali nella reciproca autonomia. Questo spettacolo d'eccezione, dal titolo Theatrum mundi, è una grande rappresentazione che, ruotando attorno ai temi di Don Giovanni, Amleto o Faust, compone in un tutto organico di grande impatto emotivo le presenze sceniche degli attori e danzatori provenienti da differenti paesi e culture (le principali rappresentazioni si sono tenute a Copenaghen nel 1996 e a Lisbona nel 1998; cfr. Schino 1996-97).

Uno degli spettacoli più importanti degli ultimi decenni del Novecento è il Mahābhārata del regista P. Brook e del drammaturgo J.-C. Carrière. Andato in scena nel 1985, poteva durare da nove a dodici ore, o dividersi in tre diverse serate. Un ensemble di attori provenienti dai diversi continenti interpretava i diversi personaggi dello sterminato poema indiano senza servirsi delle peculiarità stilistiche delle rispettive tradizioni d'origine, in una messinscena che teneva altrettanto conto delle convenzioni teatrali europee e di quelle dei t. asiatici, soprattutto indiano e balinese (Di Bernardi 1989).

Di tutt'altro tipo il carattere 'eurasiano' di alcuni celebri spettacoli di A. Mnouchkine, che da un lato affronta sempre più frequentemente temi asiatici, in collaborazione drammaturgica con H. Cixous (L'histoire terrible mais inachevée de Norodom Sihanouk, Roi de Cambodge, 1985; L'Indiade ou l'Inde de leurs rêves, 1987; L'Inde, de père en fille, 1993), e dall'altro, negli anni Ottanta, ha più volte percorso la via delle messinscena di testi shakespeariani, utilizzando le convenzioni spettacolari dei t. kabuki e e del t. classico indiano kathākali (Richard ii, 1981; La nuit des Rois, 1982; Henri iv, 1984).

Esperimenti simili ha compiuto il teorico e regista teatrale statunitense R. Schechner, sia utilizzando attori e stilemi asiatici in regie americane, sia mettendo in scena classici del t. europeo, in Cina, con attori e convenzioni dei t. classici cinesi. Un'attività sperimentale che fa da corollario alle ricerche sulla 'teoria della performance' che Schechner conduce tenendo conto di un orizzonte culturale in cui Asia, Europa, America e Africa contribuiscono a creare un unitario universo performativo (Schechner 1983, 1985).

Anche nei diversi paesi asiatici, al di là della diffusa importazio-ne dei modelli teatrali 'occidentali', vi sono numerosi esempi di cosciente integrazione in una visione unitaria. Si pensi, per limitarsi al Giappone, alle ricerche di un caposcuola come T. Suzuki, oppure, in un ambito meno innovatore, alle esperienze di M. Watanabe, professore universitario esperto di letteratura francese, che mette in scena Eschilo, Seneca e soprattutto Racine utilizzando le forme e alcuni grandi attori del t. classico giapponese . E si pensi, soprattutto, all'invenzione della danza butō, sullo spartiacque fra cultura tradizionale giapponese e cultura postmoderna di stampo europeo e americano. La danza butō è molto più di un nuovo stile. Incarna un modo di pensare e di reagire, basato sul rifiuto degli aspetti tradizionali, raffinati e dalle radici feudali, delle forme classiche giapponesi, e sull'ambivalente contemplazione della violenza. È stata creata negli anni Cinquanta da T. Hijikata (1928-1986) e K. Ōhno (n. 1906). Hijikata parlava di una "danza delle tenebre" (ankoku butō; cfr. Butō: la danza sulla linea di confine, 1997).

Questi esempi non sono però che alcune emergenze di un uso sempre più diffuso, che percorre sia i t. occidentali sia quelli asiatici. Tanto che ormai si può dire che l'unità del t. eurasiano non costituisce più un problema. Potrebbe essere visto come un sintomo di una tale nuova 'normalità' il recente Peony Pavilion del regista P. Sellars, che fra il 1990 e il 1993 ha diretto il Los Angeles Festival, caratterizzato dall'approccio interculturale e interdisciplinare alle arti dello spettacolo. Peony Pavilion (1998) è il tentativo di creare una forma transculturale di opera lirica. È basato su un classico cinese della fine del 16° secolo, Il giardino delle peonie di Tang Xianzu, messo in musica dal compositore cinese moderno Tan Dun (n. 1957), interpretato da attori e attrici americani, da cantanti d'opera e da due attrici di uno dei t. classici cinesi, fra cui la celebre Hua Wenyi, della Shanghai Kun Opera. Si intersecano nello spettacolo gli effetti multimediali, musica postmoderna e neopucciniana, musica classica cinese, antiche melodie gregoriane, la recitazione 'realistica' tipica delle attuali scuole teatrali, le convenzioni recitative dei cantanti d'opera e le straordinarie partiture gestuali degli attori classici cinesi. L'impasto trasforma la poesia del testo cinese in una costellazione di interpretazioni e di immagini provenienti da un orizzonte artistico in cui le differenti culture si intrecciano alla pari, senza che esista alcuna particolare o significativa separazione fra il cosiddetto Occidente e il cosiddetto Oriente. L'esempio di Sellars, non solo in Peony Pavilion, ma nel complesso della sua opera, è particolarmente significativo perché mostra un modo di reagire al degrado culturale, al miscuglio, al sincretismo facile e di mercato, attraverso un'equivalente varietà di prospettive, ma controllate dalla serietà e dal rigore culturale.

All'altro estremo, complementare a tale varietà di prospettive, vi è la serietà e il rigore di chi si fa esperto in tradizioni artistiche che un tempo erano ritenute estranee. Nei paesi occidentali sono ormai numerosi gli artisti che si specializzano in una tradizione classica asiatica di musica, danza o teatro. Alcuni degli esempi migliori sono italiani: si pensi a I. Citaristi, ammirata danzatrice dello stile orissi dell'India, e soprattutto al complesso di attori e attrici che, sotto la direzione di R. Vescovi, si radunano nell'Accademia delle forme sceniche di Bergamo, dove, in un continuo scambio fra India ed Europa, vengono da tempo coltivate le forme classiche dell'orissi, del bhārata nāṭyam e del kathākali. Si tratta, in tutti questi casi, non di artisti imitatori, non di dilettanti di generi esotici, ma di veri e propri maestri accettati e apprezzati come tali sia in Europa sia in India, non diversamente dal modo in cui dai paesi asiatici provengono artisti che eccellono nella musica classica europea o nel 'bel canto' o nell'arte del balletto classico.

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La persistenza del teatro

di Raimondo Guarino

La sopravvivenza del t. comporta il problema della conservazione di una realtà artistica e sociale 'archeologica'; di un'economia e di un contesto istituzionali che mantengono in vita relazioni e consuetudini inattuali; di una forma di comunicazione che continua a sostenere profili professionali e impieghi del tempo libero, pur avendo perduto la posizione egemonica nella creazione del consenso di cui è stata investita nei secoli passati e nelle sue discontinue rinascite. Per essere elemento di contraddizione rispetto alla modificazione tecnologica dello spettacolo e della comunicazione nell'epoca dei mass media, e per le sue peculiari relazioni con le strutture della vita quotidiana, la sopravvivenza del t. si esprime con mutate fisionomie e associazioni, ma in una persistenza di significati, di valori, di condizioni materiali.

Nella prima metà del 20° secolo, la questione della specificità del t. si è imperniata sul confronto con il linguaggio cinematografico e con le ipotesi e le realtà dello spettacolo di massa. Il confronto ha determinato oscillazioni di avvicinamento e di differenziazione, nonché rilevanti influenze sulla concezione dello spettacolo come opera esteticamente coerente, sui procedimenti tecnici della composizione e sulla considerazione delle implicazioni ideologiche dell'evento scenico. Un esempio è l'avvento dell'istanza unitaria del regista nella creazione dello spettacolo. Ma il mutamento del t. si è prodotto più per contrasto che per scambio. Le diverse condizioni di localizzazione, di distribuzione, di riproducibilità e di accentramento produttivo dello spettacolo cinematografico hanno ricondotto il t. verso altre fonti dello spettacolo dal vivo e verso tradizioni esclusive e difformità.

La revisione dei rapporti tra arte del t. e usi dello spettacolo ha portato all'approfondimento dei fattori essenziali delle tecniche e delle condizioni di creazione, di cui sono testimonianza libri di teatranti di notevole importanza nel secondo Novecento come Alla ricerca del teatro perduto (1965) di E. Barba, Per un teatro povero di J. Grotowski (1968), La vita del teatro (1972) di J. Beck, accanto alla vasta produzione saggistica di R. Schechner, il regista e antropologo americano fondatore del Performance Group e teorico della performance. Questi testi hanno sostanziato e supportato forme originali di trasmissione diretta, ispirate alla resistenza e allo svelamento del t. come pratica eccentrica. L'indagine sugli strumenti si è collegata alla mutata collocazione del fare t. tra le attività umane, nella revisione delle fonti e delle funzioni, nella cognizione più ampia dei diversi contesti etnici in cui siano reperibili, e in cui ha senso reperire, pratiche analoghe a quelle del t. occidentale.

Nel secondo Novecento la persistenza del t., a parte la riproduzione scolastica e istituzionale dello spettacolo teatrale alimentato dal repertorio della drammaturgia letteraria, felicemente battezzata teatro mortale dal regista inglese P. Brook, è segnata dalla continuità dei principi di autonomia estetica, etica e organizzativa che hanno caratterizzato le esperienze fondamentali del primo Novecento. La continuità percorre il solco dei laboratori e degli studi, cantieri di progetti e utopie che hanno coltivato il lavoro teatrale, oltre le diverse inclinazioni estetiche e stilistiche, come possibilità specifica di una sperimentazione pratica sulle relazioni interpersonali (in primis gli studi facenti capo a K.S. Stanislavskij e le relative diramazioni europee e americane, il lavoro di J. Copeau e il t. in forma di scrittura di A. Artaud). All'aspetto dell'autonomia le esperienze di punta sviluppatesi negli anni Cinquanta e Sessanta hanno aggiunto la sistematica ricerca del movimento non solo oltre i confini dell'istituzione teatrale, ma anche oltre i confini sociali ed etnici. L'uomo di t. ha esteso il suo raggio d'azione e i suoi interessi conoscitivi in termini paragonabili alla figura dell'antropologo impegnato nella 'ricerca sul campo'.

Registi come Brook (fondatore a Parigi nel 1970, dopo gli esordi britannici, del Centre international de recherche théâtrale) e Barba (fondatore dell'Odin Teatret nel 1964 e dell'ISTA, International School of Theatre Anthropology, nel 1979) hanno praticato, con metodi e intendimenti diversi, lo scambio tra gli strumenti e le abilità dell'attore europeo, l'esperimento della spedizione in ambiti eterogenei o remoti (Barba in Italia meridionale e in America Latina, dall'Amazzonia ai sobborghi delle metropoli; Brook, con un gruppo di attori già originariamente provenienti da diversi continenti, in Iran e in Africa) e il dialogo con pratiche di t. extraeuropee, principalmente con le grandi tradizioni del t. asiatico. La militanza anarchica del Living Theatre, fondato da J. Beck e J. Malina a New York nel 1947, ha percorso una traiettoria di conflitti contro lo Stato e l'ordine economico, dai processi e l'esilio dagli Stati Uniti alla presenza a Parigi durante i moti del maggio 1968, alle carceri brasiliane nel 1971. La ricerca dell'identità transculturale del t. ha creato una traccia parallela ai processi di globalizzazione economica e antropologica. Il fare t. trova i suoi fondamenti attraverso la cognizione della differenza culturale. Restituito a se stesso il t. diventa uno strumento di mutamento per chi lo pratica e per chi ne è testimone, ben oltre la relazione consueta tra spettacolo e spettatore. In questi termini il t. ha anche conservato il senso di un'inquieta esperienza personale all'interno delle convenzioni e dell'organizzazione delle singole culture.

Nel 1956 E. Goffman dedicò un libro fondamentale per la sociologia contemporanea alla rappresentazione del sé nella vita quotidiana (The presentation of self in everyday life, trad. it. La vita quotidiana come rappresentazione). A parte le risonanze pirandelliane, e l'uso e l'abuso delle metafore drammaturgiche e teatrali, le argomentazioni di Goffman sulla strutturazione delle forme di comportamento costituiscono un parallelo significativo per la definizione dell'azione in t. come azione reale, risultato cui s'ispirano la riproposta radicale e il senso trascendente impressi da Grotowski (il regista polacco fondatore del Teatr Laboratorium nel 1959) agli elementi della tecnica teatrale desunti da Stanislavskij e sottratti progressivamente all'esito e all'universo di riferimento dello spettacolo pubblico. La verità del t. si è identificata con il lavoro del teatrante. La verità del teatrante può fare a meno dell'esibizione pubblica dello spettacolo. Il t. è quindi un'esperienza della verità, capace di rompere la crosta delle convenzioni comportamentali nelle quali si attua la rappresentazione della finzione sociale, e capace di liberare risorse individuali ed energie collettive. Legato alla tradizione della ricerca sulla condizione creativa dell'attore, tale indirizzo ha generato esperienze originali, a partire dalla mutata posizione del t. nel rapporto tra espressioni, istituzioni, simboli.

Se si cercano i fattori essenziali di una tradizione del nuovo che si sviluppa nel 20° secolo e perviene a conseguenze estreme nella persistenza del t., si toccano le situazioni legate alla pedagogia, alla formazione del teatrante, al dilatarsi delle situazioni che definiscono la condizione e il mestiere di uomo di teatro. Il divenire attore, le relative situazioni di creazione collettiva e di affermazione d'identità, si possono studiare come uno dei riti di passaggio della civiltà moderna, perfezionato in senso tecnico e in termini sistematici da alcune esperienze attinenti al t., ma valido come dimensione autonoma e manifestazione di una crisi generale del contratto sociale. La consistenza della cultura latente così rivendicata rovescia i criteri di efficacia del lavoro teatrale, spostandoli dal terreno degli spettatori come osservatori di uno spettacolo alla strategia delle vite nel t., all'individualità e socialità del teatrante, e ai diversi atteggiamenti con cui il gruppo dei teatranti crea relazioni con l'esterno.

La cognizione del valore e l'indagine sul senso del t. si sono trasferite dalle categorie estetiche riguardanti il testo, la scena, l'architettura del luogo teatrale, dal senso del t. come contenitore di spettacoli-opere, ai fattori latenti della cultura teatrale: al tempo delle prove, al terreno degli esercizi preparatori, allo spessore della comunità coinvolta, alla faccia nascosta della professione. Il t. si è ridefinito come un'azione collettiva premeditata, capace di generare una situazione di lavoro e di costruzione d'identità specifica, del tutto riconoscibile ed eterogenea rispetto alla produzione e al consumo d'intrattenimento alto corrispondenti all'economia dello spettacolo. Pertanto, se è giusto considerare minoritario il t. in relazione alle altre forme di spettacolo contemporanee, è più interessante valutarne l'imponente diffusione oltre la convenzionale barriera tra il professionismo e il dilettantismo, oltre i confini delle classi e delle etnie come insieme di pratiche altrimenti non definibili, prossime ma non conformi all'arte e al rito, come segnale ed elemento d'instabilità ai confini e all'interno della presunta coerenza degli insiemi culturali.

Il disordine e i nuovi ordini del t. presente coniano concetti che rispecchiano e riqualificano il dato dell'esistenza concreta del t., il suo annidarsi in spazi non convenzionali, tra la strada e la galleria d'arte, il centro sociale e l'appartamento, l'ospedale psichiatrico e i monumenti dell'archeologia industriale. Opzioni di spazio che selezionano pubblici di diverse dimensioni e motivazioni e presuppongono molteplici criteri d'intervento.

L'idea e la pratica della performance negli anni Sessanta e Settanta hanno registrato negli Stati Uniti e in Europa forme d'intervento e presenza nel sociale dissidenti e alternative rispetto alle modalità di produzione e consumo negli spazi tradizionali del teatro. La nozione di performance è entrata nella prassi e nel lessico teatrale attraverso i varchi aperti nel secondo Novecento tra territori artistici e analisi delle società. La performance culturale è la nozione comprensiva di situazioni e azioni simboliche che cambiano, instaurano, ricompongono le funzioni, i valori e le tradizioni concrete di una comunità, definendo nello stesso tempo la collocazione e le identità di chi le compie. Con questa parola lo spettacolo ritrova e trasferisce la sua complessità materiale in nuovi orizzonti di significato. La nozione di performance, oltre l'accostamento all'analisi funzionale delle società, implica anche una connessione ambigua con il dominio dell'arte, nel suo coesistere e intrecciarsi - costituendone insieme un superamento - con il concetto di happening delle avanguardie euro-americane, così contiguo alla musica e alle arti visive (fondamentali in tal senso possono essere considerate le multiformi esperienze di J. Cage, A. Kaprow, W. Vostell, J.Lebel, J. Beuys, e dell'identità collettiva di Fluxus). Derivata dal titolo di un'azione dell'artista statunitense Kaprow (1959), la nozione di happening è stata considerata sinonimo di atto o evento non ripetibile, di azione non condizionata da un testo preesistente, come negazione della ripetizione in ambito teatrale, e in genere come rottura dei confini spaziali e della staticità materiale dell'opera in ambito artistico. Il concetto di performance, per parte sua, trasferisce il discorso sul t. dal dominio dell'arte a quello degli usi, nel momento in cui le azioni artistiche raggiungono l'aderenza e l'identificazione con gli atti della vita quotidiana, e mettono in evidenza la frizione tra comportamenti particolari e dimensione pubblica. La persistenza del t. nasce dalle rinnovate asprezze di questa dialettica. La nozione di 'restauro del comportamento', formulata da Schechner, ne è un corollario. La cultura teatrale viene ridisegnata come funzione leggibile nel quadro generale delle azioni culturalmente rilevanti. Si abolisce il privilegio di alcuni materiali culturali (il testo drammatico, lo spazio scenico). Si afferma che i presupposti dell'azione teatrale sono altre azioni pertinenti nella definizione delle identità e delle relazioni di una comunità. Ciò costituisce un passo in avanti rispetto alla visione ricorrente del t. come somma delle arti. Testi, racconti, gesti, immagini divengono pertinenti in quanto azioni soggette a procedimenti di ristrutturazione e rimontaggio che definiscono le proprietà della performance.

La nozione e la pratica della performance hanno consentito di annettere al t. forme e situazioni di azione pubblica i cui procedimenti e contesti possono essere osservati, rispetto alla forma delle azioni, in termini analoghi alle situazioni di rappresentazione, dilatando all'interno di una stessa cultura la cornice dei comportamenti e dei fatti pertinenti alla visibilità e alle articolazioni della cultura teatrale.

Uscendo dalle sedi convenzionali dello spettacolo dal vivo e dalle sue normali frequenze di produzione ed esibizione, la ricostruzione dei principi essenziali dell'azione si è proiettata - e rifugiata - in nuovi fronti d'intervento e di applicazione. La diversità culturale che il t. materializza e mobilita ha aperto relazioni necessarie con la marginalità e la subalternità sociali. La reclusione e la follia, da temi e direzioni del lavoro drammaturgico e della metafora scenica, presenti in J. Genet, in S. Beckett, nelle creazioni del Living Theatre intorno agli anni Sessanta, nel Marat-Sade di P. Weiss allestito da Brook nel 1964, sono diventate campi affini e punti di riferimento concreti per riformulare il significato del fare teatro.

In quanto veicoli di forme di vita alternative e subalterne, gli sconfinamenti del t. hanno intercettato aree nevralgiche come le istituzioni totali, trasformandole in nuovi spazi di agibilità creativa, di dialettica tra costrizione e libertà. Nell'Italia degli ultimi decenni, si possono citare esperienze-guida, dalle officine di drammaturgia collettiva di G. Scabia nell'ospedale psichiatrico di Trieste, in coincidenza con l'azione innovativa e la riflessione radicale dello psichiatra F. Basaglia, al lavoro della Compagnia della Fortezza nel penitenziario di Volterra negli anni Novanta. Ma c'è da considerare soprattutto la creazione di un tessuto connettivo di iniziative e progetti nelle carceri e intorno alla malattia mentale, che ha costituito l'alimento e la giustificazione dell'attività di molti dei t. che si sono chiamati negli anni Settanta gruppi di base.

Ha scritto lo storico F. Braudel che la depressione legata alla crisi delle fonti di energia nei primi anni Settanta, lo spegnersi dello slancio seguito al secondo conflitto mondiale, hanno fatto sì che proliferassero e acquistassero nuova evidenza scambi e attività al di sotto o al di fuori dell'economia di mercato. Nell'organizzazione e nella vita dello spettacolo la deflagrazione di nuove risorse e nuove povertà ha investito e moltiplicato le condizioni del fare t., imprimendo svolte analoghe a diversi punti di partenza: il t. sovvenzionato prevalente in Europa, e la sua tensione tra avallo della mediocrità, eccezioni dell'avanguardia e spazi vitali delle forme laboratoriali; il t. americano spaccato tra mercato e prossimità al consumo limitato degli oggetti e degli eventi artistici; l'oscillazione asiatica tra forme e generi altamente codificati e l'attrazione esotica di contenuti e convenzioni dello spettacolo occidentale. Osservata dal punto di vista economico, l'inferiorità industriale del t. si identifica con un'alternativa di principio, si caratterizza come scelta di comunicazione alternativa e progetto di diversità dei valori. La resistenza e il proliferare di realtà teatrali al limite della sussistenza o finanziate da altre attività negli anni Novanta (realtà che non si confondono con le limitate ambizioni e la discontinuità o il riferimento ad altre istituzioni, requisiti della dimensione del t. dei dilettanti) rendono pensabile il t. non più, principalmente, quale ambito di una tradizione di forme e fatti di rappresentazione ma quale sede plastica e strumento duttile di culture marginali e minoritarie, accessibile alternativa alle forme di espressione egemoni. I mutamenti profondi e l'adattamento vitale del t. negli ultimi decenni non riguardano perciò aspetti stilistici e formali difficili da ricondurre a orientamenti comprensivi, ma aspetti della vita materiale, zone della sensibilità e del comportamento, postazioni di acquisizione e scambio delle esperienze.

Nei nuovi equilibri di universalità e localismo, la situazione dell'America Latina vive la drammatica coincidenza tra ragioni di sussistenza artistica e sopravvivenza culturale: una situazione che ha visto ramificarsi esiti di indirizzo antropologico del t. politico e ha animato l'intreccio di radicamento e nomadismo di gruppi come i peruviani Cuatrotablas e Yuyachkani, che coniugano ricerca etnica e trasformazioni originali delle influenze europee. Altre sintesi risultano dal rinnovamento dei t. asiatici; dalla traduzione giapponese dell'espressionismo europeo formulata dalla danza butō, alla ricerca del regista giapponese T. Suzuki tra grammatiche tradizionali, repertorio europeo e tensione interpretativa della regia occidentale. Sono esempi di processi diffusi, che rivelano la consistenza mondiale dei fili che connettono una segreta circolazione. Il concetto di interculturalismo, che ha investito l'indagine sulle risorse della creazione teatrale, identifica vagamente il rinnovato respiro della mobilità e i modi eterogenei dello scambio, della fusione e dell'alchimia, riconoscendo in quella che è possibile definire la microetnia del gruppo e della compagnia teatrale, nelle sue capacità di mediazione e sintesi, un soggetto culturale specifico della contemporaneità.

Un sintomo della persistenza del t. è la longevità delle capitali esperienze di rifondazione materiale e ideologica maturate dopo la frattura bellica, come il Living Theatre e l'Odin Teatret. Un altro esempio sono le trasmutazioni e le ripercussioni del lavoro di Grotowski dentro il t. e poi nella ricerca sull'azione e il performer sviluppata nel 'parateatro', al di fuori della relazione con lo spettatore.

Tra l'Europa e l'America meritano di essere segnalate alcune proposte esemplari, che nell'ultimo ventennio si sono sovrapposte alla longevità o alla dissoluzione delle esperienze precedenti. Il gruppo catalano Fura dels Baus, fondato a Barcellona nel 1979, coniuga il lavoro acrobatico sul corpo con forme di sollecitazione tecnologica avanzata dell'attenzione del pubblico, intrecciando immagini e comportamenti di culture etniche e subculture metropolitane. Il gruppo polacco Gardzienice si è costituito nei pressi di Lublino nel 1977, su un progetto fortemente legato da una parte all'esperienza del t. di gruppo di Grotowski e Barba, dall'altra alla cultura tradizionale contadina polacca, indagata seguendo il modello della spedizione etnografica per attingerne le forme espressive superstiti (canto, musica e gesto). A New York il Wooster Group, diretto da E. LeCompte e derivato per immediata filiazione dal Performance Group di Schechner, ha affrontato, imitato da diverse compagnie europee, la relazione con gli strumenti, i miti e le modalità della comunicazione mediatica e l'impervio dialogo tra esperienza individuale e assemblaggio deformante dei linguaggi, che ripropone nel t. la confluenza tra soggettività e somma delle arti. La Societas Raffaello Sanzio di Cesena è la formazione di punta del t. italiano dai primi anni Ottanta, guidata dal riferimento costante ed estremo a forme narrative mitiche, a suggestioni zoomorfiche, all'esperienza iniziatica preteatrale dei culti misterici.

Queste realtà non partecipano di un orizzonte comune se non in quanto instaurano un rapporto ambiguo di competizione e di emancipazione rispetto alle tecniche più aggiornate di modificazione della percezione e di codificazione dell'immagine pubblica e del comportamento. Hanno individuato nelle cornici e nelle frequenze, nelle possibilità suscitate dal t., il territorio di realizzazione di universi irriducibili. Il t. vivo è nella cultura contemporanea il luogo dove si incontrano, e si misurano con i fattori essenziali ed elementari della presenza, progetti di contaminazione tra linguaggi e convenzioni, azioni che producono interferenze epocali, memoria di sopravvivenze e ipotesi di sapere alternativo.

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Pensare il teatro

di  Franco Ruffini

'Pensare il teatro' vuol dire pensarlo dal Novecento; il che significa, più precisamente, pensarlo a partire dall'esperienza del presente. Il t. non è riducibile a nessuna delle sue componenti (attore, scenografia, drammaturgia, regia), e nemmeno alla loro somma: è un organismo, e in quanto tale va considerato nel suo insieme.

È possibile, e talvolta utile, studiare isolatamente una o più delle componenti, ma per pensare il t. è conveniente considerarlo nella sua articolazione in livelli, da quelli più evidenti a quelli relativamente più nascosti. Ogni livello di organizzazione interseca trasversalmente tutte le componenti del teatro. Livelli evidenti sono quelli che si correlano più o meno direttamente alle forme con cui il t. si manifesta, come il livello dell'ideologia, della poetica, fino a quello dell'estetica. Livelli nascosti sono quello economico, sociologico, antropologico, e insomma quei livelli che più o meno direttamente determinano i principi di funzionamento del teatro. I livelli più evidenti non sono per questo i più importanti, anzi è vero il contrario. Il livello fondamentale per il funzionamento del t. è quello più nascosto, ed è il livello in cui si definisce il rapporto tra t. e spettacolo. Pensare il t. significa innanzitutto interrogarsi su questo rapporto. Per non pre-giudicare il rapporto teatro-spettacolo come un'identità (il t. coincide con lo spettacolo) o come un'implicazione (il t. implica lo spettacolo), è necessario giudicarlo assumendo l'ipotesi concreta - e non puramente speculativa - che ci sia autonomia reciproca fra i due termini.

Si afferma giustamente che con l'avvento del cinema viene sancita la marginalizzazione del teatro. Ma parlare di marginalizzazione del t. significa concettualizzare la situazione, finendo col nasconderne il materiale nucleo dinamico. Materialmente, il cinema non 'marginalizza' il t.; quello che materialmente fa è amputare dal t. il mercato dello spettacolo, rendendo il t. assolutamente non competitivo rispetto al mercato del film. Proprio nella consapevolezza attiva di questa crisi consiste l'esperienza del presente, ovvero la crisi del t. del Novecento.

La distinzione tra t. e spettacolo non ha carattere teorico o ideologico; è la realtà oggettiva del Novecento. Lo spettacolo è l'elemento socializzabile - e commerciabile - del teatro. L'amputazione del mercato dello spettacolo separa il t. dalla sua componente - o prodotto - spettacolo (senza tuttavia contrapporli, in linea di principio). Il fatto che la distinzione tra t. e spettacolo sia la realtà oggettiva del Novecento non vuol dire che tutti gli uomini di t. ne siano stati e ne siano coscienti e che, in tal caso, vogliano farsene protagonisti creativi, anziché semplicemente rassegnarsi a esserne vittime o beneficiari.

Nel Novecento, di fatto convivono e s'intrecciano due storie del t.: quella dei protagonisti più o meno creativi della crisi, e quella delle sue vittime (o beneficiari) più o meno rassegnate. A parte le parole ereditate - e poi 'imbalsamate' - per parlarne, queste due storie non hanno quasi niente in comune tra loro. Ci si chiede se possa esistere il t. a prescindere dallo spettacolo e, se sì, cosa sia il t. 'distinto' dallo spettacolo. Simili domande erano teoricamente legittime anche prima del Novecento; solo che potevano non emergere alla riflessione perché occultate dalla presenza del mercato dello spettacolo.

Con la parola mercato non deve intendersi la pura e semplice situazione di compravendita dello spettacolo, situazione che in realtà può sussistere anche laddove il 'giro' e soprattutto le sue implicazioni non mercantili siano deboli o, al limite, inesistenti. Il mercato dello spettacolo è molto di più che il contesto e la garanzia economica del teatro. È il motore di ogni sua dinamica esistenziale, produttiva, organizzativa, funzionale e creativa: e tale era proprio al passaggio nel Novecento, nel momento di massimo rilievo delle compagnie professionistiche, vere e proprie ditte che avevano in comune non solo una pratica economica, ma anche una cultura.

Pensare il t. prima di questo passaggio poteva confondersi col pensare lo spettacolo; dopo, il pensiero sul t. diventa un pensiero autonomo rispetto a quello sullo spettacolo. Lo diventa di diritto, ma non sempre di fatto. Si pensi alla regia, che in molte ricapitolazioni storiche continua a essere descritta come la naturale evoluzione della direzione di scena di matrice ottocentesca. E si pensi alle strategie messe in atto per supplire economicamente all'amputazione del mercato dello spettacolo che - come nel caso delle sovvenzioni - vengono tuttora considerate e vissute da molti uomini di t. come una naturale evoluzione del mercato dei biglietti, basato sulla legge della domanda e dell'offerta. Di tali strategie si dirà in seguito.

Nel cosiddetto Manifesto del terzo teatro, pubblicato nel 1976, E.Barba proponeva di considerare accanto al t. ufficiale o maggioritario (primo) e al t. d'avanguardia (secondo), anche un 'terzo' t., definito solo per negativo, nel non riconoscersi né nell'identità del primo né in quella del secondo. In quel documento è stata vista una classificazione del t. in termini di estetica e/o di poetica, o un'opposizione tout-court tra estetica (e/o poetica) da un lato ed etica dall'altro: e c'è del vero in ognuna di queste interpretazioni. Ma il cuore del Manifesto è altrove, e precisamente nell'aver distinto un t. - primo e secondo - che si vive in continuità col passato, nell'accettazione acritica delle sue 'naturali evoluzioni'; e un altro t. - terzo - che si vive in discontinuità col passato. Cercheremo, dunque, di pensare il t. assumendo l'amputazione del mercato dello spettacolo come una sorta di origine del sistema di riferimento teatrale, come il 'punto-zero' dal quale considerare posizioni e dinamiche dei fatti che lo abitano nel presente e che lo hanno abitato nel passato. Sul piano del concreto operare nel presente, la reazione al venir meno del mercato dello spettacolo è stata (ed è) quella di creare un mercato sostitutivo rispetto a quello della pura e semplice compravendita del prodotto spettacolo. Quelle che seguono sono, al riguardo, alcune strategie tra le più praticate.

La linea delle sovvenzioni

Con linea delle sovvenzioni deve intendersi non tanto il fenomeno specifico delle sovvenzioni al t. da parte dello Stato e/o degli enti locali, quanto quella linea di condotta che opera nel senso di sostituire il pubblico pagante con altri erogatori di finanziamento, naturalmente in base a criteri che non sono più quelli del gradimento diffuso del prodotto scenico. Tale linea trova nel regime delle sovvenzioni il suo esito fisiologico e, allo stesso tempo, la sua enormità patologica.

Non si è riflettuto abbastanza sul fatto che i primi protagonisti del 'teatro senza (mercato dello) spettacolo' sono in grande maggioranza dei dilettanti. Dilettanti sono A. Antoine e J. Copeau, dilettanti a loro modo sono A. Appia e G. Craig, dilettante è K.S. Stanislavskij, per fermarsi ai primi decenni del Novecento. Comunque lo si voglia pensare, certo è che alla radice dell'essere dilettante c'è la disposizione - e l'assuefazione - a concepire il t. in assenza di mercato dello spettacolo (mercato, ripetiamo, nel senso forte e pervasivo in cui l'abbiamo definito). L'amputazione del mercato, mentre scardina il t. dei professionisti, è in certa misura compatibile con il t. dei dilettanti, soprattutto quando si tratti di dilettanti ricchi.

Nella vicenda del Teatro d'Arte di Mosca, fondato da Stanislavskij con V.I. Nemirovič-Dančenko nel 1898, si è posto più che altro l'accento sull'impegno per il recupero di una dignità dell'attore. L'attore doveva avere a disposizione un camerino con stufa, samovar e libri, essere sottratto al ritmo massacrante dei giri, e così via. Ma una componente di almeno pari importanza nel progetto del Teatro d'Arte era il mecenatismo. Senza il danaro del ricco industriale Savva Morozov (ricco industriale, del resto, era lo stesso Stanislavskij), il Teatro d'Arte non avrebbe potuto durare e, crediamo, senza il contesto di potenziali 'Savva Morozov', il Teatro d'Arte non sarebbe stato neanche concepibile. È ingeneroso verso l'intelligenza di Stanislavskij attribuirgli l'idea che la dignità avrebbe potuto garantire la sopravvivenza dell'attore contro il mercato. Di fatto, la 'dignità' dell'attore è una condizione che favorisce la qualità, non il commercio dello spettacolo. Ancor prima del materiale collasso del mercato, Stanislavskij poté privilegiare la qualità dello spettacolo - e dunque la dignità dell'attore - perché a ciò lo disponeva il suo status di ricco dilettante (senza con questo voler sminuire l'apporto della vocazione, e/o dell'etica).

La dilatazione del mercato

Dilatare il mercato teatrale significa costruire un mercato in cui lo spettacolo entri come una voce accanto ad altre voci, in modo che a essere attive non siano le singole voci (e tanto meno la voce spettacolo), ma il loro insieme. Lo spettacolo viene innestato in una più ampia offerta di 'prodotti', che complessivamente consentono di fare t. in assenza di mercato dello spettacolo. Va detto che molto spesso le voci attive - o il complessivo bilancio attivo - sono tali non grazie all'esborso diretto e personalizzato dei consumatori, ma grazie al flusso derivante dalla linea delle sovvenzioni (e infine dal regime delle sovvenzioni). Il che tuttavia non cambia l'identità della strategia, che resta comunque quella di dilatare il mercato teatrale. Per molti t. appartenenti al cosiddetto t. di gruppo, la produzione di spettacoli è solo una delle attività, accanto a seminari, stages, ospitalità ad artisti, editoria, iniziative culturali apparentemente anche distanti dal teatro. Si pensi al peruviano Cuatrotablas o all'italiano Teatro Tascabile, solo per citare due gruppi non a caso tra i più longevi. Ma non è molto diversa nella sostanza la vicenda del Vieux Colombier, fondato nel 1913 da J. Copeau.

L'aspetto più interessante è che la dilatazione del mercato - quando tale strategia non sia semplicemente subita in atteggiamento da vittime - si rivela alla fine come una dilatazione dei confini stessi del teatro. Il prodotto culturale di supporto finisce col non proporsi più come finanziatore dello spettacolo, ma come un'altra componente del t., diversa ma non estranea alla componente spettacolo. La dilatazione del mercato mostra che lo spettacolo non è l'unico prodotto del t.: lo mostra, naturalmente, a chi sia incline a vederlo e a utilizzarne creativamente le implicazioni. Per gli altri, si configura come una pura questione di marketing. Di fatto, è difficile dire se sia la dilatazione del mercato a provocare una dilatazione dei confini del t. o se, viceversa, sia la percezione di un orizzonte più vasto del t. a determinare la dilatazione del mercato (la confusione di cause ed effetti, del resto, testimonia dell'organicità del processo, contro ogni visione meccanicistica del rapporto tra mercato e prodotto).

Il pubblico fuori mercato

Accanto al pubblico di mercato, che del t. consuma solo il prodotto spettacolo, esiste da sempre un pubblico fuori mercato, costituito da quegli spettatori che, insieme (e spesso più che) al prodotto spettacolo, sono interessati agli aspetti del processo che conduce allo spettacolo, compresi quelli che implicano una partecipazione diretta e persino fisica. Per tali spettatori, il consumo dello spettacolo è più che altro il momento conclusivo - ma non per questo il principale - di una lunga e variegata attività di partecipazione al lavoro teatrale. L'offerta di stages, seminari, incontri, oltre a dilatare il mercato, agisce dunque anche nel senso di accrescere nel numero e nella qualità partecipativa gli spettatori fuori mercato, che consumano spettacolo per trascinamento da parte del processo che lo precede. Va detto che la programmatica confusione dei ruoli di attore e spettatore, fuori del contesto riconosciuto dello spettacolo amatoriale, è uno dei sintomi più rivelatori della crisi del t. del Novecento.

In questa prospettiva materiale, e non come una misticheggiante proposta comunitaria, dev'esser visto il progetto di Stanislavskij e L. Suleržickij (direttore, per incarico di Stanislavskij, del Primo studio, fondato nel 1912) di costruire un laboratorio teatrale a Evpatorija, un luogo isolato sulle rive del Mar Nero, in cui gli spettatori invitati avrebbero dovuto vivere e lavorare alcuni giorni insieme agli attori prima di concludere la loro permanenza con la visione dello spettacolo.

E che un gruppo di t. desideri fare spettacolo solo per se stesso, come non di rado capita di sentir dire, esprime non tanto una volontà di escludere il pubblico di mercato, quanto quella - magari inconscia - di miniaturizzare fino alle dimensioni minime compatibili, cioè a quelle dello stesso gruppo dei protagonisti dello spettacolo, il pubblico fuori mercato.

Le strategie di cui si è detto rispondono a un fatto oggettivo, com'è l'amputazione del mercato dello spettacolo, e dunque anch'esse sono in certo modo oggettive. È molto difficile che un uomo di t. vi si possa sottrarre, quale che sia l'atteggiamento - da protagonista o da vittima - nei loro riguardi. Ma è proprio l'atteggiamento che conta, non solo rispetto al presente, ma soprattutto rispetto al passato. Guardando appunto al t. del passato, possiamo domandarci quali dinamiche siano state offuscate, o addirittura sepolte, dalla presenza del mercato. Quelli che seguono sono alcuni significativi campi di applicazione della domanda.

Opera/gruppo

L'assimilazione di superficie tra t. e cinema sotto la comune etichetta di 'arte collettiva' sembra legittimare questo sillogismo: nel cinema si costituiscono gruppi allo scopo di creare opere; il t. è come il cinema; anche nel t. la priorità nel rapporto opera/gruppo spetta all'opera. Il gruppo di t. si forma dunque per creare opere e non si creano invece opere (magari non avendo il desiderio né riconoscendosi un'elevata capacità di farlo) per consentire al gruppo di formarsi e, una volta formato, di continuare a esistere. Di fatto, in presenza del mercato le due alternative possono apparire indifferenti, dato che è comunque l'opera a garantire il finanziamento: sia che nelle intenzioni esso venga primariamente destinato all'opera e indirettamente al gruppo, sia che venga primariamente destinato al gruppo con la mediazione strumentale dell'opera. Ma in assenza del mercato le due alternative non sono affatto indifferenti. Qui, come in molti altri casi, è il presente a far luce sul passato: ricevendone poi, di riverbero, ammaestramento per il futuro. L'esperienza mostra che, malgrado le somiglianze di superficie, il rapporto opera/gruppo di t. è esattamente opposto a quello del cinema: nel t. è il gruppo ad avere la priorità sull'opera. Per il passato come per il presente, il t. non è storia di opere ma è storia di persone e gruppi, spesso in conflitto contro la logica dell'opera, la quale se consente di sopravvivere impone per questo di sottostare alle leggi del mercato.

Mestiere/arte

Il mercato ha bisogno prima di tutto di garantire il livello medio dei suoi prodotti, e dunque dipende dal mestiere. Ma proprio in quanto ne dipende tende a svalutarlo, individuandolo come il nemico dell'arte. Ciò che appare nel t. del passato, attraverso il diaframma condizionante del mercato, è un rapporto di opposizione tra mestiere e arte. In assenza di mercato, si attenua la dipendenza dal mestiere, e proprio grazie a questo se ne scoprono la necessità e la forza ai fini dell'arte. Si svela che l'apparente rapporto di contrapposizione era (ed è) in realtà un rapporto di lotta, dove a contare non è l'esito ma sono le regole e le dinamiche.

Nel suo atelier, operante a Parigi dai primi anni Venti - atelier che era insieme t. e scuola - Ch. Dullin indicava agli allievi la tecnica sofisticata dell'attore giapponese ma, insieme, il mestiere praticone dell'attore del mélo. Altrettanto faceva V.E. Mejerchol´d, più o meno negli stessi anni, rispetto all'attore del t. forain. Punti di riferimento per il suo 'attore del futuro' sono l'arte eversiva di E. Duse e insieme - allo stesso livello di importanza - il mestiere 'popolare' di un attore come G. Grasso. Arte e mestiere non sono termini che si escludono, ma che si danno reciprocamente vita nel lottare l'uno con l'altro.

Convenzione/tradizione

Il mercato dello spettacolo si avvantaggia della specializzazione, che garantisce rapidità di produzione e un relativamente elevato standard del prodotto. Per questo, in presenza di mercato, la tradizione tende ad appiattirsi, fino a identificarsi con l'insieme di convenzioni che regolano la creazione e il commercio del particolare prodotto. In assenza di mercato, si scopre che la convenzione è solo un primo livello della tradizione, e precisamente il livello delle forme. Sbloccando il vincolo con la convenzione, l'assenza di mercato libera gli ulteriori livelli della tradizione: quello dei principi (oltre le forme) e quello del valore (oltre i principi e le forme). Questa catena di passaggi nella tradizione è uno dei processi vitali del t. del Novecento.

In tal senso, l'ISTA (International School of Theatre Anthropology), fondata da Barba nel 1979, può autenticamente essere definita un laboratorio del Novecento. In questa 'scuola' si ricerca e si trasmette conoscenza, che è tutt'altra cosa dall'insegnare. Vi operano maestri delle tradizioni più consolidate - particolarmente quelle dei t. asiatici - e uomini di t. senza tradizioni condivise; dal confronto del loro lavoro è sorta e si è sviluppata l'antropologia teatrale, scienza pragmatica dei principi dell'arte dell'attore; e il sentimento di una trascendenza del t. è la spinta tacita che fin dal principio accomuna artisti e studiosi nella loro ricerca.

Privi di un mercato che imponga l'appartenenza predeterminata a una particolare tradizione, gli uomini di t. del Novecento 'in crisi' cominciano col cercarne una in quel 'magazzino del nuovo' (Cruciani) che è il passato (e l'altrove). Può essere la commedia dell'arte, l'Oriente, l'antica Grecia, a cui si rivolgono un po' tutti, da Copeau ad Artaud, a Craig. Ma come non è un vincolo a priori, la tradizione non è neppure un vincolo a posteriori; non è obbligata ma neppure obbliga, dato che in assenza di mercato non è in grado di garantire. Diventa possibile e alla fine usuale il passaggio da una tradizione a un'altra. Se praticato con rigore e passione di ricerca, l'eclettismo sfocia nel sincretismo, in cui tradizioni con forme diverse dialogano in base ai principi comuni. Stupisce la pluralità di tradizioni alle quali, con apparente disinvoltura, fanno ricorso gli uomini del t. senza (mercato dello) spettacolo; ma stupisce solo ove non si percepisca, per ragioni oggettive o soggettive, quel livello dei principi in cui le differenti forme diventano alla lettera indifferenti. La biomeccanica di Mejerchol´d e il 'movimento espressivo' di S.M. Ejzenštejn sono nient'altro che il livello dei principi in cui convergono la tradizione del kabuki, quella della commedia dell'arte, la tecnica stanislavskiana della reviviscenza, perfino, o quella basata sul ritmo di É. Jaques-Dalcroze, al di là dei suoi manierismi.

Oltre il livello dei principi, il lavoro rigoroso e appassionato nella tradizione può giungere a un livello ulteriore, in cui il dialogo tra tradizioni si integra in un dialogo con se stessi - un 'lavoro su se stessi' - come risposta a una sfida che non è più sul come ma è sul perché fare teatro. È il livello del valore. Il valore è il vero e ultimo problema del t. del Novecento. Il percorso di J. Grotowski, dalla creazione di spettacoli all'arte come 'veicolo', illustra esemplarmente il passaggio forme-principi-valore nella tradizione. Il valore del t. è la vera sfida storiografica della storia del Novecento.

Nella ricerca dal presente al passato fanno da guida quei maestri anomali (ma meglio è dire: eccezionali) che hanno vissuto l'amputazione del mercato come impossibilità, consegnando il loro fare t. a visioni senza spettacolo. Artaud è il primo di questi maestri. Artaud arriva al livello del valore bruciando nella rinuncia - deliberata o meno - allo spettacolo i precedenti livelli della forma e dei principi. Il suo fare t. è immediatamente un confronto con il valore, e con ciò che fa del valore del t. un problema più grande del t., un problema di vita. Ma non è diverso il percorso della Duse: è più segreto e più tormentato, perché fatto in presenza del mercato e nella piena coscienza del suo potere di ricatto.

La distinzione tra presente e passato è solo per comodità di analisi. Nella realtà dei fatti, si ha interazione reciproca: e al principio c'è la consapevolezza del presente. È la priorità del gruppo rispetto all'opera nel presente che ce la fa riscoprire nel passato; reciprocamente poi, è la coscienza di una storia del t. come storia di persone e gruppi, prima che come storia di opere, che ammaestra per il presente e il futuro. Analogamente, l'importanza del mestiere ai fini dell'arte risulta nel presente, e però prende consistenza operativa dal riesame del passato. E il valore del t. non è un'invenzione del Novecento; piuttosto l'amputazione del mercato dello spettacolo libera il valore del t. all'esperienza aperta e consapevole, e sollecita a ricercarlo anche laddove l'esperienza è costretta a restare segreta, persino a chi la vive.

Per chi ne vive creativamente la crisi, è questo il t. del Novecento: una reinvenzione del passato come fondamento del presente e come progetto per il futuro. La crisi del Novecento ristabilisce la giusta prospettiva tra storia e insegnamento della storia. La storia procede dal prima all'adesso al dopo, come il calendario; l'insegnamento della storia, come il tempo, procede dall'adesso, già impregnato dal dopo, verso il prima. Si può pensare al t. come vincolato al calendario, e ci si ritrova con la storia dei manuali in cui i fatti si susseguono per forza di date e non per necessità organica; oppure si può pensare al t. come vincolato al tempo: vale a dire al presente, che è il suo solo sinonimo. Ci si ritrova allora con quella che sembra una storia alla rovescia - dall'adesso e qui al prima e altrove - e che è in realtà il dritto dell'insegnamento della storia, come sa ogni persona che si sia rivolta alla storia per imparare e non per imparare la storia.

Ove non lo si reinventi, il passato del Novecento non ha niente da insegnare se non se stesso: è una storia-da-imparare, appunto, e non una storia-da-cui-imparare. Reinventare il passato vuol dire conquistare la (propria) storia: una storia piena di vuoti rispetto alle ordinate successioni da calendario, ma anche di pieni, laddove quelle ordinate successioni sacrificano al blasone della cultura, dimenticando gli uomini che la fanno. Mélo, cabaret, varietà, circo, giullari, attori come Grasso, così come danzatori balinesi, attori kabuki o dell'Opera di Pechino, riempiono questa storia-da-cui-imparare, mentre la storia-da-imparare appena si scusa delle omissioni additando i rischi del facile esotismo o postulando gerarchie culturali (lingua/dialetto, colto/popolare, e così via) con diritti di esclusione.

Il passato reinventato dal Novecento non è più vuoto del passato da calendario, è pieno di cose diverse. E soprattutto è percorso da un soffio diverso, che spira a dilatare e a superare, infine, i confini del t., gonfiato dalla domanda sul valore del t., al di là di ogni sua quotazione di mercato.

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