STORIA

Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961)

STORIA (XXXII, p. 771)

Arnaldo MOMIGLIANO

Storia della storiografia (p. 774). - Durante l'ultima guerra mondiale e nel periodo successivo 1946-59 gli studî storici si sono moltiplicati in tutte le direzioni. I metodi di ricerca (in specie quelli di carattere archeologico) si sono complicati e raffinati in corrispondenza di nuovi problemi; e lo "spazio storico" (i limiti spaziali e temporali della ricerca storica) si è enormemente allargato. Nuovi metodi di datazione sono stati introdotti (metodo del radio-carbonio) e scritture di antiche civiltà sono state decifrate (micenea, ittito-geroglifica). Scoperte di nuovi documenti (come quelli ebraici del Mar Morto) hanno attratto l'attenzione internazionale. La rapida assimilazione di forme di vita occidentali in tutto il mondo, e il conseguente nazionalismo hanno diffuso la ricerca storica tra popoli che non se ne interessavano o ricevevano passivamente i risultati delle ricerche di studiosi europei e nordamericani. Familiarità con le quattro lingue in cui tradizionalmente si pubblicavano i lavori storici essenziali non è oggi più sufficiente a tenere informati dello svolgimento degli studî storici. La letteratura storica russa non solo ha ripreso l'importanza del periodo pre-1918, ma, come organo del popolo dominatore del blocco comunista, è diventata anche un modello internazionale nell'interno del blocco stesso e tra storici comunisti all'infuori di esso. Importanti ricerche si vengono poi pubblicando in arabo, ebraico, cinese e giapponese; e nella stessa Europa si è accresciuta l'importanza della produzione storica di nazioni numericamente minori. Se dopo la seconda guerra mondiale non si è ripetuto il fenomeno prebellico di un piccolo paese come l'Olanda che dà all'Europa uno dei suoi maggiori storici (J. Huizinga), numerose opere storiche in olandese, svedese, norvegese, spagnolo, polacco, ungherese, hanno richiamato l'attenzione internazionale. Un olandese, P. Geyl, e uno spagnuolo nutrito di cultura tedesca, A. Castro, per citare solo due, sono in fatto di metodo tra i più interessanti storici contemporanei; e nel loro gusto, sospettoso di filosofia e generalizzazioni il primo, estroso e romantico il secondo, stanno ai due poli opposti. Un altro olandese, J. Romein, si è fatto teorico di una "storia teoretica" fondata sulla storiografia. Rientra forse in questo fenomeno il consolidamento cospicuo della Svizzera tedesca come uno dei grandi centri storiografici d'Europa (W. Kaegi). Ma esso non implica un ulteriore spostamento del tradizionale equilibrio linguistico negli studî storici. Basterebbe questa complicazione di metodi, di zone di ricerca e di lingue a spiegare perché oggi sìa estremamente difficile per un solo individuo di essere orientato sul lavoro storiografico contemporaneo.

Con l'avvento del nazismo la Germania perdette rapidamente la posizione di fucina centrale di metodi e di problemi storici che conservava dal principio del sec. 19°. La metodologia della storiografia razzista, imposta con la violenza e accettata di solito piò per paura che per convinzione, non riuscì a concretarsi in ricerche storiche di vero valore, se anche abbia dato luogo ad alcuni studî interessanti, per es. di F. Schachermeyr in storia greca arcaica. La soppressione di tutte le voci libere, e l'esilio (come alternativa all'assassinio legale) imposto a molti storici (ebrei o imparentati con ebrei o semplicemente antinazisti), significò una sospensione di tutto quel lavoro di revisione dello storicismo, che grandi storici e sociologi come E. Troeltsch, M. Weber, G. Simmel, F. Meinecke avevano portato avanti dopo il Dilthey e una più giovane generazione (di cui facevano per es. parte K. Mannheim, K. Löwith, F. Saxl) già stava proseguendo. Il dibattito rimase interrotto in un momento di vitale importanza. Il relativismo si stava scontrando con il bisogno di salvare insieme l'individuo e l'assoluto (Troeltsch, Meinecke), il determinismo marxista era messo di fronte alla complessa tipologia delle forme di agire sociale elaborata da Max Weber (G. Lukács, K. Mannheim), l'affermazione che l'uomo non può sfuggire al destino impostogli dalla civiltà a cui appartiene (O. Spengler) era contrastata dalla teorizzazione delle possibilità di scelta, sia pure limitata, fra esperienze differenti che è alla radice del pensiero di W. Dilthey e di M. Weber; la svalutazione delle ideologie come condizionate dalla situazione sociale si contrapponeva alla rivalutazione dell'autonomia della cultura attraverso una sociologia del sapere (A. Weber, Max Scheler, K. Mannheim) e infine con M. Heidegger la teoria della storia era inserita in una filosofia dell'esistenza. Sul terreno della ricerca storica concreta la sospensione non era meno drammatica. In conseguenza del nazismo il movimento d'instaurazione di un nuovo umanesimo diretto da W. Jaeger e facente capo alle riviste Die Antike e Gnomon spariva in pochi anni. La revisione dell'eredità del mondo classico intrapresa da A. Warburg nel suo istituto di Amburgo non poteva più esprimersi in lingua tedesca. Il movimento di reinterpretazione di tutta la storia europea in termini di grandi personalità iniziato da Stefan George con la cooperazione di storici quali E. Kantorowicz e F. Gundolf era fatto tacere. Anche il conflitto, essenziale per la storiografia tedesca, fra grande e piccola Germania, che aveva ancora un'espressione di grande stile in K. Brandi e H. von Srbik, riceveva una conclusione a comando: esempio la defenestrazione di Meinecke dalla Historische Zeitschrift.

Due questioni si pongono in relazione a questa sospensione coatta del dibattito: a) se e come si sia ripreso il dibattito in Germania dopo la caduta del nazismo; b) quale sia stata la possibilità di trapiantamento e di ulteriore elaborazione fuori di Germania per i problemi dello storicismo tedesco. Per entrambe le domande la risposta è resa difficile, tra l'altro, dal fatto che il processo non è ancora concluso.

Nella Germania del dopoguerra lo sforzo di riprendere i problemi lasciati in sospeso e di richiamarsi alle tradizioni della storiografia del periodo guglielmino e di quello weimariano è palese. Testimoni la ripresa mirabile dei Monumenta Germaniae e della Historische Zeitschrift e il numero di ristampe di libri e articoli classici; testimone inoltre l'intenso studio sulla vita e l'opera di grandi maestri del passato, come Th. Mommsen e Max Weber. Donde l'autorità acquistata da G. Ritter, lo storico che ha più intensamente elaborato le aporie del conflitto fra potenza politica e vita morale sulla via già indicata dal Meinecke, sopravvissuto del resto egli stesso a constatare la caduta e a rendere testimonianza sulla natura del regime da lui aborrito. Ma circa metà della Germania con centri universitarî importanti come Lipsia si è vista imporre una dottrina storiografica marxista che, a giudicare dai risultati nel campo degli studî classici, non sembra congeniale ai Tedeschi. Nella Germania occidentale, in cui si svolge la massima parte del lavoro storico più importante, il movimento più caratteristico sembra non quello di ripresa dei problemi intrinseci allo storicismo pre-bellico, ma quello d'interpretazione teologica della storia. Ancora superficiale e combinata di elementi varî nel volume di K. Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte (1949) l'interpretazione teologica è già assai più accentuata nell'opera quasi contemporanea di K. Löwith, un esule tornato in Germania e alla fede (Meaning in history, 1949, ripubblicato in tedesco nel 1953 come Weltgeschichte und Heilgeschehen); essa poi sta al centro delle discussioni nella rivista più viva e originale della storiografia tedesca post-bellica, Saeculum, e spiega come le origini cristiane (R. Eultmann, W. Kamlah), Costantino, il Medioevo teologico e il concilio di Trento siano più che mai oggetto d'indagine. Tipiche sono le ricerche dirette da P. Schramm sul simbolismo politico medievale e la Storia del concilio di Trento di H. Jedin, ma non meno indicativi libri come quello di E. R. Curtius sulla tradizione retorica medievale, di H. Planitz sulla città tedesca nel Medioevo (1954), e A. Borst, Der Turmbau von Babel (1957 segg.), uno studio delle teorie antiche e medievali sulle origini dei popoli; per non parlare di altri autori influenti come H. Grundmann, H. Mitteis, W. von den Steinen. D'altra parte (e non c'è videntemente contraddizione tra i due aspetti) la storiografia tedesca è oggi intensamente impegnata su temi di storia recente e contemporanea, per ragioni ovvie e anche per la ragione meno ovvia - drammaticamente messa a fuoco in Der Verlust der Geschichte di A. Heuss (1959) - che il Tedesco medio sembra tendere a evitare i problemi, le responsabilità e i sentimenti di colpa lasciati in eredità dal nazismo con il cancellare dalla propria coscienza la storia del periodo post-bismarckiano. Un altro tema favorito della ricerca tedesca è quello dei rapporti tra Ovest ed Est, dove l'Est è rappresentato ora dai Mongoli (B. Spuler), ora dai Turchi (F. Babinger), ora da Bisanzio (B. Rubin nella gigantesca opera in corso su Giustiniano). È probabile che questa tendenza abbia dato nuovo interesse a studî di storia orientale antica (di particolare importanza quelli egittologici di H. Kees): e certo, dopo la propaganda di odio del periodo nazista, si è sentito il bisogno d'una revisione dei rapporti giudeo-cristiani, in specie per il periodo delle origini, della quale si è fatto iniziatore il teologo d'origine ebraica H. J. Schoeps.

Se è già difficile rispondere alla domanda su quel che è avvenuto allo storicismo in Germania, è ancora più difficile decidere che cosa abbia significato la diffusione della problematica storiografica tedesca fuori di Germania in seguito alle persecuzioni naziste. Eccezionale è stato il caso del Lukács ritornato (dopo anni in Russia) alla patria di origine, Ungheria, e trovatosi coinvolto in nuove difficoltà per il diverso e pìù libero orientamento del suo marxismo, in confronto a quello dell'ortodossia russa. Per note ragioni l'emigrazione è avvenuta soprattutto - oltre che in Israele - nei paesi anglosassoni, in Turchia e nell'America latina. In queste ultime, dove l'interesse per il pensiero tedesco è tradizionale, ma scarsi sono gli sviluppi originali, non sembra che la situazione sia stata radicalmente cambiata dagli emigranti. Del resto, poiché gli esuli scientificamente più autorevoli hanno trovato lavoro soprattutto nei paesi anglo-sassoni, a questi si deve soprattutto guardare per il trasferimento del pensiero tedesco. In Inghilterra, durante e dopo la guerra, lavorò e ripubblìcò in traduzione inglese i suoi studî sulla sociologia del sapere, K. Mannheim e estese al marxismo la sua critica metodica della scienza K. Popper. Qui si raccolse, soprattutto a Oxford, un gruppo di filologi classici e storici dell'arte di valore eccezionale, tra cui F. Jacoby, editore e commentatore dei frammenti degli storici greci. Gli storici e i sociologi di origine tedesca o ebreo-tedesca si sono però in maggioranza stabiliti in America, dove per es. W. Jaeger ha concluso la sua storia del pensiero greco (Paideia), P. O. Kristeller e H. Baron son diventati i maggiori animatori degli studî sull'Umanesimo, S. Kuttner ha rinnovato gli studî sul diritto canonico, E. Panofsky ha diffuso una metodica di storia dell'arte derivata da quella dell'Istituto Warburg, L. Strauss dalla cattedra di Chicago ha esercitato una critica penetrante dello storicismo per una restaurazione del diritto naturale (Natural right and history, 1953), E. Kantorowicz ha contribuito a astabilire nuovi legami tra il pensiero bizantino e quello occidentale nel Medioevo e infine L. Spitzer, L. Olschki, E. Auerbach hanno continuato la tradizione della "Geistesgeschichte" in storia della letteratura e linguistica. In Inghilterra l'influenza di questi rappresentanti del pensiero tedesco è stata a raggio limitato: eccezione cospicua è l'Istituto Warburg, qui trasferitosi sotto la guida di F. Saxl, diventato parte integrante dell'università di Londra, ma anche per esso si dovrebbe distinguere fra l'interesse che ha genericamente suscitato per lo studio delle arti figurative e il più limitato seguito nelle ricerche specifiche di simbologia e storia della tradizione classica. L'America è troppo vasta e varia perché se ne possa avere un'impressione complessiva, che non sia sommaria o unilaterale. Forse, la facilità con cui i rappresentanti del pensiero tedesco (in specie se provenienti dalle scuole di Meinecke e dei due Weber) si misero a contatto con la storiografia e la sociologia americana ha aspetti ingannattiri. Un indirizzo di storia delle idee come quello di A. O. Lovejoy e G. Boas, per es., poteva certo facilmente accordarsi con analoghi interessi tedeschi e dar origine a quel tipico prodotto americano-germanico che è il Journal of the history of ideas. Larga influenza tedesca si nota pure nella rivista di studî medioevali Speculum e in varî periodici di sociologia. Ma la fusione, là dove è avvenuta, è avvenuta con chiara prevalenza dei metodi sociologici e storici americani, che tendono a subordinare i problemi più schiettamente gnoseologici della ricerca storica ai problemi di correlazione fra la tecnica della ricerca e i suoi fini. Non si è avuta una continuazione in America di più caratteristici movimenti storiografici tedeschi (come il terzo umanesimo o il culto per l'eroe-guida del cerchio di Stefan George): W. Jaeger ed E. Kantorowicz, per dare due esempî, si sono inseriti nella cultura americana più di quanto abbiano piegato la cultura americana ai loro ideali originarî.

Con ciò si pone il problema, diverso nei particolari in Inghilterra e in America, ma nel fondo identico: che cosa ha permesso alla cultura storica anglosassone di opporre tale resistenza alle idee importate autorevolmente dai migliori rappresentanti del pensiero storico-sociologico tedesco? Porsi questa domanda significa analizzare in breve la contemporanea situazione della ricerca storica in Inghilterra e in America. Una generica invocazione al tradizionalismo anglosassone sarebbe soltanto erronea, perché la cultura anglo-americana si è dimostrata in campi affini apertissima a idee di origine austro-svizzero-tedesca. Basta riflettere all'influenza di L. Wittgenstein nella filosofia inglese, di R. Carnap tra i logici americani, e il più generale successo della psicoanalisi di S. Freud e C. G. Jung in entrambi i paesi. Per di più, tra il 1830 e il 1870, la storiografia sia inglese sia americana assorbì profondamente quello che allora si chiamava il metodo critico della scuola tedesca, sicché non sarebbe del tutto erroneo (sebbene sottilmente ingannatore) il concludere paradossalmente che in Inghilterra e in America uno storicismo tedesco di tipo ottocentesco si è venuto contrapponendo allo storicismo tedesco novecentesco.

In Inghilterra è perdurata fino a oggi la tradizione della storiografia politica di partito, che estende le contese politiche inglesi alla Grecia, a Roma, alla rivoluzione francese, al risorgimento italiano, ecc. La History of Europe di H. A. L. Fisher appartiene a questa tradizione, e non per nulla essa fu scelta a bersaglio dalla programmatica critica marxista di Chr. Hill. Ma questa tradizione è stata oggetto di penetrante critica interna da parte di H. Butterfield (Whig interpretation of history, 1931; Englishman and his history, 1944) ed è oggi screditata tra studiosi professionali, sebbene ancora abbia seguito tra il pubblico colto per il prestigio di scrittori come G. M. Trevelyan e lo stesso W. Churchill. La figura dominante nella storiografia inglese contemporanea è quella dell'ebreo polacco Lewis Bernstein Namier, educato a Balliol College di Oxford, ma come sionista militante rimasto fuori della società intellettuale britannica fino a quando l'apparizione della sua opera The structure of English politics at the accession of George III, 1929, gli diede quasi immediatamente posizione unica di autorità e lo trasformò, forse con sua sorpresa, in modello per le più giovani generazioni di storici inglesi. Il Namier in sostanza applicava metodi sociologici continentali di esame della classe dirigente alla storia inglese e vi aggiungeva una speciale conoscenza della situazione dell'Europa continentale moderna e contemporanea - che venne anche più in luce in saggi e ricerche successivi - ma nella sua straordinaria abilità di ricercatore minuto e nella semplicità dei suoi principî direttivi soddisfaceva ai criterî più radicati della tradizione storiografica inglese, quale essa si era formata sotto l'influsso del primo storicismo tedesco. Il Namier ha ispirato la più complessa impresa collettiva degli storici inglesi contemporanei, la Storia del Parlamento inglese; e dal suo esempio dipendono storici assai differenti tra loro come J. E. Neale (passato dalla biografia giovanile della regina Elisabetta alla storia dei parlamenti della medesima) e A. J. P. Taylor, storico dell'Austria asburgica. E non si può separare dall'opera del Namier quella in storia romana di R. Syme (The Roman revolution, 1939) sebbene nell'opera più recente di lui (Tacitus, 1958; Colonial elites, 1958) si noti la diversa preoccupazione di studiare il rapporto tra province (colonie) e madrepatria in un vasto impero. Del Namier si è fatto critico H. Butterfield per ristabilire una prospettiva religiosa di origine protestante-metodista (Christianity and history, 1949, ecc.), ma se al Butterfield si deve il risveglio d'interesse per la storia della storiografia, la sua critica specifica ai libri del Namier non ha trovato favore. Nel dissidio Namier-Butterfield si polarizza il duplice orientamento odierno della storiografia britannica o verso l'analisi di forze politico-sociali o verso un'interpretazione religiosa della storia. I cattolici hanno dato un forte contributo al secondo orientamento, sia accentuando il carattere cristiano della cultura europea (Chr. Dawson), sia producendo una storia modello degli ordini monastici medievali inglesi (del benedettino David Knowles, regius professor a Cambridge). Ma non trascurabile è stata, specie nel periodo 1935-50, l'interpretazione rigidamente marxista, che da un altro punto di vista veniva a infirmare l'interpretazione "whig" della storia, specie in zone più arretrate, come quella della preistoria (Gordon Childe) e della filologia classica (B. Farrington sulla scienza antica, e G. Thomson sulla letteratura greca, E. A. Thompson sul basso Impero). Successivamente il marxismo ortodosso entrò in crisi per l'abbandono dei suoi più autorevoli rappresentanti, quali Chr. Hill. D'altra parte si è affermato o confermato nella letteratura storica inglese un forte gusto per la narrazione disimpegnata da preoccupazioni dottrinali e intesa ad afferrare la caratteristica di persone e di avvenimenti "curiosi", che si esplica in un enorme numero di biografie e si eleva a ricerca in grande stile nella Storia delle Crociate di S. Runciman. Né è venuto meno l'interesse per la storia diplomatica (Ch. Webster). In confronto a questi movimenti restano per il momento di significato marginale nella storiografia inglese i due nomi che hanno suscitato più discussione in campo internazionale, A. J. Toynbee e R. G. Collingwood. Il primo, rimasto a mezzo tra un'interpretazione pragmatistica e una religiosa del succedere delle civiltà, ha incontrato la quasi unanime ostilità degli storici professionali del suo paese. ll secondo, nella sua oscillazione tra neostoricismo idealistico di tipo crociano e una teoria dei presupposti metafisici di derivazione diltheyana, si è fatto discutere più da filosofi (W. H. Walsh, P. Gardiner, W. Dray) che da storici, con una sola, sia pur significativa, eccezione. Il Collingwood, che era oltre che filosofo un brillante epigrafista e archeologo, ha reso consci gli archeologi suoi compatrioti che si scava per risolvere problemi storici determinati, e ha così contribuito a un caratteristico orientamento della ricerca archeologica del suo paese (L. Woolley, M. Wheeler). La posizione marginale di Toynbee e Collingwood nella cultura storica del proprio paese non implica, tuttavia, diminuzione del loro valore sintomatico. Due difficoltà sono chiare nella presente situazione della storiografia inglese: l'una è di continuare a trovare degli argomenti senz'altro interessanti di ricerca, l'altra è di uscire fuori del presente disinteresse dei filosofi per ogni questione di fatto o di valore. La prima difficoltà, benché meno cospicua, è forse la più profonda. Nello scorso secolo gl'Inglesi hanno derivato gli argomenti della propria ricerca dalla tematica storiografica tedesca ma giungendo a soluzioni fondate su "giudiziale" esame dei documenti e su semplice umano buon senso, che i Tedeschi hanno sempre trovato difficili. Ancora di recente questa derivazione tematica è evidente negli studî di storia antica e medievale (per es. nei volumi sulla cittadinanza romana di A. N. Sherwin-White, sulla città greca da Alessandro a Giustiniano di A. H. M. Jones), per non parlare di classici come R. H. Tawney, Religion and the rise of capitalism, di chiara origine weberiana. Fattasi meno intima la relazione tra storicismo tedesco e storiografia inglese, quest'ultima dovrà ritrovare in sé o fuori di sé altre fonti d'ispirazione problematica, sia per gli argomenti singoli di ricerca sia per i metodi di ricerca stessa. Collingwood e Toynbee sono chiari tentativi di autonomia tematica e metodica, e come tali riconosciuti all'estero, se non in Inghilterra. Tanto la presenza ai margini di Collingwood e di Toynbee, quanto la presenza al centro di Namier e di Butterfield, spiega perché la cultura storica inglese si sia rivelata piuttosto indifferente ad altri suggerimenti che non offrivano in confronto a Namier un esteso materiale documentario, non soddisfacevano in confronto a Butterfield e a Toynbee dei bisogni religiosi e non avevano come Collingwood il vantaggio di parlare il linguaggio della filosofia inglese.

Colpisce la maturità, la sicurezza di sé, della storiografia americana contemporanea; e sembra che se ne possano indicare almeno due ragioni. Una è la funzione essenziale che la storiografia ha assunto nel chiarire agli abitanti degli stati Uniti i proprî problemi nazionali e nel proporre direzioni di progresso a una nazione che crede nel progresso, con tutti gli svantaggi di facili deviazioni verso la propaganda, specie in periodo di panico, ma anche con i vantaggi d'una discussione dove chi travisa i fatti finisce per squalificarsi (il più recente in questa serie di storici-guide è D. Boorstin, The genius of American politics, 1953; The Americans, 1959). L'altra ragione è la cooperazione della filosofia, in specie di J. Dewey, nel creare legami tra le scienze sociali e le scienze storiche, dando all'America un primato che ancora non ha perso nell'utilizzare l'inchiesta sociologica per il duplice e contemporaneo scopo di caratterizzare una situazione storica e indicare una soluzione pratica. L'analisi dei metodi storiografici in rapporto alle scienze sociali e alle scienze fisiche si è fatto assai rigoroso, con una tendenza a riconoscere il carattere specifico della conoscenza storica, ma entro un'attività di mutuo scambio con tutte le altre scienze (si vedano a questo scopo i due rapporti collettivi del Social Science Research Council: Theory and practice in historical study, 1946, e The social sciences in historical study, 1956; e opere come la recente di J. H. Randall jr., Nature and historical experience, 1959). Donde anche l'ulteriore caratteristica della storiografia americana di avere il proprio campo sperimentale di ricerca metodica nella propria storia nazionale. "America's coming of age", secondo la frase fortunata di Van Wyck Brooks, si è espresso non solo in una letteratuta aderente alla vita americana, ma in una storiografia che, fin dai tempi in cui E. J. Turner pose il problema della frontiera (1893), Ch. Beard propose un'interpretazione economica della costituzione amiericana (1913) e Carl Becker analizzò la Dichiarazione di Indipendenza (1922), ha esemplificato nuovi metodi di ricerca in termini di problemi storici americani (e ciò naturalmente si continua nelle opere più recenti di J. F. Jameson, V. L. Parrington, J. T. Adams, P. Miller, J. G. Randall, A. Craven, R. Hofstadter, ecc.). Padrona in casa propria, la storiografia americana si è sentita forse finora meno a suo agio nel trattare di storia politica altrui; salvo certi periodi di storia sud-americana e inglese direttamente connessi con la storia propria. Qui la storiografia americana si è largamente appoggiata a emigrati della prima generazione. Ma nella storia culturale e sociale, in specie del Medioevo e del Rinascimento, l'America procede con indipendenza e ha aperto vie nuove (L. Thorndyke per la storia della scienza, S. Baron per la storia sociale degli Ebrei). E la fiducia con cui gli Americani vengono incontro a storici stranieri che importino conoscenze e idee nuove (M. Rostovtzeff e A. D. Nock nella storia antica) non deve nascondere come da ultimo il banco di prova per la validità di teorie storiche di qualsiasi genere è in America la storia americana. Anche gli storici d'ispirazione teologica, una minoranza senza troppo prestigio, riescono ad agire in quanto reinterpretano la storia americana (R. Niebuhr, The Kingdom of God in America, 1937, e la parte più originale dell'importante History of the expanaion of Christianity, del battista K. S. Latourette, 1937-1945).

Questa breve analisi della situazione anglo-sassone ha forse dunque indicato alcune delle ragioni per cui lo storicismo tedesco è oggi un "problema" soprattutto in Francia e in Italia. In questi due paesi, anzitutto, il marxismo costituisce qualcosa di centrale nella struttura politica e culturale del paese, mentre nei paesi anglosassoni è marginale. Ciò naturalmente pone per entrambi i paesi in forma più acuta la questione del rapporto tra marxismo locale e marxismo russo che esiste per tutti i paesi. La situazione è poi complicata dal fatto che la maggioranza dei marxisti italiani e francesi non sembra possedere una reale informazione di prima mano di quanto si scrive in Russia. Alcuni nomi di storici fondamentalmente di formazione e interessi pre-rivoluzionarî, come E. V. Tarle e E. A. Kosminskij, poco servono a caratterizzare la storiografia russa contemporanea. Nel campo della storia antica è chiaro che la forza dei marxisti russi sta in talune ricerche archeologiche (Urartu, civiltà delle steppe) e più nell'amplissimo orizzonte degl'interessi generali, che, come dimostra la recente Storia universale, abbraccia tutto l'Oriente. Arretrati appaiono i Russi metodologicamente circa l'interpretazione e l'analisi di una struttura sociale complessa. Gli stessi Russi sembrano non essere ignari dell'arretratezza dei loro studî di storia antica; testimoni la conclusione sospensiva del dibattito sulla fine della struttura schiavistica nel Vestnik Drevnej Istorii e il tono cauto e in sostanza di linguaggio borghese di opere come quella di A. I. Dovatur su Erodoto, 1957, e di E. M. Staerman sulla crisi della struttura schiavistica nelle province occidentali dell'Impero (1957).

Lasciando per il momento da parte il rapporto storicismo occidentale-marxismo orientale, è ovvio che il problema della dialettica è oggi essenziale nei dibattiti di metodo storico di Francia e d'Italia, ma più in Francia che in Italia (M. Merleau-Ponty, L. Goldmann) perché in Italia si è discusso tanto di dialettica in periodo idealista che si ha meno voglia di discuterne in un periodo di ripresa di materialismo storico.

In Francia, a ogni modo, spetta a R. Aron il merito di aver diffuso la conoscenza del più recente storicismo tedesco e di aver tentato una sintesi del pensiero di M. Weber e di W. Dilthey nella sua Introduction à la philosophie de l'histoire (1938). Più tardi uno storico cattolico di grande finezza, H. I. Marrou, si servì del medesimo Dilthey per un'analisi della conoscenza storica (1954). Lo sviluppo dell'esistenzialismo implicava di per sé anche il trasferimento del problema heideggeriano sul rapporto tra esistenza e storia, e si sono avute opere in questo senso (E. Dardel, 1946). Ma è forse giusto dire che l'unica opera teorica che abbia acquistato autorità presso gli storici, quella di H. I. Marrou, deve soprattutto la sua fortuna all'inserzione d'un'esperienza storica precisa (grosso modo quella delle Annales) sul tronco diltheyano. Perché anche in Francia il problema teoretico della conoscenza storica preoccupa gli storici meno che l'elaborazione d'un metodo che colga al vivo gli avvenimenti. Per quanto il marxismo abbia lasciato le sue tracce anche su storici come G. Lefebvre e E. Labrousse, la maggioranza degli storici francesi è oggi dominata dall'insegnamento metodico e dall'esempio morale di Marc Bloch - lo storico martire per la sua Francia - e del suo più anziano amico e compagno di lotte, L. Febvre. È impossibile leggere le pagine di questi storici e osservare il loro costante sforzo di adeguazione allo stesso tempo intuitiva e analitica all'oggetto della ricerca, senza ricordarsi di H. Bergson. Quale però sia il generale rapporto che certo esiste tra la più recente storiografia francese e il bergsonismo (anche a prescindere da specifiche teorizzazioni sulla storia di bergsoniani come H. Gouhier), non è facile indicare. Basti pensare all'importanza di Bergson per un grande ricercatore di pensiero medievale come E. Gilson. Le Annales hanno provveduto alla Francia un modello di mutuo scambio tra sociologia e storiografia che, sebbene infinitamente più sottile e vario di quello americano, non ha forse ancora al suo attivo la sicurezza di procedimenti e la solidità di risultati e soprattutto l'importanza politica della ricerca storico-sociologica americana. Ma dal lavoro dei pionieri delle Annales, grazie soprattutto a F. Braudel, si è venuta sviluppando una sistematica organizzazione di ricerca storica alla École des Hautes Études. È questa organizzazione che sta sostituendo in Europa la scuola storica tedesca come fucina principale di futuri storici. Ne sta intanto derivando una ricostruzione minuta della storia sociale della Francia che coinvolge i fattori demografici e si estende alla religione e alla "sociologia elettorale". Entro l'inquadratura flessibile della presente storiografia francese si possono muovere le personalità più varie, da Ch. Morazé a G. Le Bras. La coscienza della varietà dei punti di vista, dei problemi, ha suggerito collezioni di manuali di nuovo tipo, intesi soprattutto a sottolineare più i problemi che le soluzioni (Clio, Mana, Que sais-je?). Altre collezioni, come quelle sulla vita quotidiana e sulla storia delle relazioni internazionali, indicano tipici interessi di ricerca. La relativa concordia nel metodo (nonché l'accentramento degli studî a Parigi) favorisce le collezioni e le opere collettive; e il carattere collettivo è accentuato dalla forte e competente partecipazione degli ordini religiosi (in specie dei domenicani e dei gesuiti). Il metodo oggi prevalente richiede ricerca capillare, ma deve d'altro lato condurre a vaste generalizzazioni. Trovare il giusto punto dove la conclusione particolare può essere generalizzata è classica difficoltà che ritorna in ogni epoca. Non può sorprendere che in Francia oggi la si ritrovi perfino nel campo degli studî sulla rivoluzione francese, che è diventato il campo sperimentale per eccellenza delle nuove tecniche storiografiche. Tanto meno sorprenderà l'ovvia debolezza, l'eccessivo schematismo in altri campi, dove i documenti sono in minore numero e il lavoro preparatorio è minore. Questo si nota per es. negli studî di storia delle religioni, dove M. Eliade, un romeno fattosi francese di cultura (ma da poco diventato professore all'università di Chicago) e G. Dumézil, tra gli altri, hanno presentato brillanti generalizzazioni su materiale insufficiente e talvolta refrattario. Ma d'altra parte proprio in Francia dall'abbé Brémond in poi si sono avute esplorazioni di stati di animo, di leggende paradigmatiche e di fenomeni religiosi collettivi, per cui è difficile trovare riscontri altrove (per es. A. J. Festugière sulla storia della religione greco-romana, gli studî di R. Folz sulla leggenda di Carlo Magno).

In Italia, a differenza della Germania, la caduta del governo totalitario non è stata seguita da disorientamento negli studî storici. Grazie a Benedetto Croce, a Gaetano De Sanctis, ad Adolfo Omodeo e a Gaetano Salvemini, sebbene lontano - e agli storici formatisi sul loro esempio - la storiografia italiana nel periodo fascista rimase sostanzialmente all'opposizione ed emerse con problemi e metodi che potettero essere trasmessi alla giovane generazione per consenso e dissenso. Né è caso che si debba a B. Croce nella sua casa di Napoli la fondazione del più importante centro di ricerca storica nell'Italia post-bellica, affidato alla direzione di F. Chabod. Questo centro di ricerca ha influito su tutti i settori, incluso quello della storia antica, ma, caratteristicamente, ha potuto cooperare in armonia con sltre scuole come quella di R. Morghen a Roma, di D. Cantimori ed E. Sestan prima a Pisa e poi a Firenze, di P. Fraccaro a Pavia, di G. Falco e W. Maturi a Torino, e di E. Pontieri a Napoli stessa. Una differenza evidentemente c'è fra gli studî storici pre-1939 e quelli post-1945. La più giovane generazione ha dimostrato una spiccata preferenza per problemi impegnativi di carattere sociale: e la ricerca erudita, precisa, con le sue difficoltà tecniche, è tornata in onore - non senza carattere polemico - in quei campi, come la storia della letteratura e della cultura, dove era stata meno praticata. M. Bloch e G. Lefebvre sono tanto letti in Italia quanto in Francia; e un maestro dell'erudizione come il card. Giovanni Mercati assurse negli ultimi suoi anni a figura esemplare. Ricerche di storia della lingua sono in auge: si sono avute le prime due storie della lingua italiana (G. Devoto, B. Migliorini). Viaggi all'estero, scambî culturali, hanno facilitato le ricerche di storia non italiana, mentre la situazione politico-sociale italiana è continua fonte di problemi - donde, tra l'altro, un nuovo fiorire di storie municipali (Milano, Venezia, ecc.). D'altra parte era inevitabile che la discussione implicita o esplicita della concezione crociana della storia investisse tutta la recente esperienza storiografica italiana. L'autorità dell'esempio crociano negli ultimi anni del fascismo può essere esemplificata dal fatto che perfino uno storico così indipendente (e per di più cattolico) come Gaetano De Sanctis modellasse la sua Storia dei Greci sulla Storia d'Europa di B. Croce. Già Carlo Antoni, alla vigilia della guerra, con gli studî raccolti nel volume Dallo storicismo alla sociologia (1940) aveva constatato il profondo iato tra lo storicismo crociano e le diverse varietà dello storicismo tedesco - iato che del resto si confermava nella stessa amichevole polemica tra il Croce e il Meinecke e per l'aspetto estetico e letterario lasciava traccia nella corripondenza poi resa pubblica tra Croce e K. Vossler. Ma nello stesso interno dello storicismo crociano si faceva sempre più evidente il conflitto tra una direzione umanistica e una provvidenzialistica, e F. Chabod non lasciava dubbî sulla sua scelta della prima direzione, scelta espressa in quello che è forse il maggior lavoro storico dell'Italia post-bellica - la Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, I, Le premesse, 1951 - e poi confermata dallo studio dello stesso Chabod su Croce storico (Riv. Storica It., 1952). Di qui la possibilità per lo Chabod e la sua scuola di avvicinarsi, sia nella varietà della sperimentazione, sia più specificamente in nuovi interessi economicosociali, alla scuola francese di Bloch e Febvre. Lo scambio tra le due scuole si è fatto in anni recenti più serrato, mentre si estendeva l'influenza della scuola napoletana ad ambienti stranieri. Con scopi non dissimili C. Antoni dedicava le sue forze a un'eliminazione della dialettica dalla filosofia crociana e a un ristabilimento del valore della personalità individuale. Ma per varie ragioni una cooperazione effettiva tra l'indirizzo dello Chabod e quello dell'Antoni non c'è stata. Al momento attuale essi sembrerebbero rappresentare piuttosto soluzioni alternative, l'una fondata sull'eliminazione di ogni precisa sustruttura filosofica dagl'interessi umanistici della storiografia crociana e l'altra fondata sull'instaurazione d'una rinnovata filosofia dei distinti senza dirette implicazioni storiografiche. Per converso, la separazione operata dall'Antoni fra l'indirizzo crociano e le varie forme dello storicismo tedesco poteva rappresentare il presupposto per una ripresa di motivi di quest'ultimo.

Su questa seconda strada si sono messi N. Abbagnano e più specificamente il suo allievo Pietro Rossi il quale in due volumi (Lo storicismo tedesco contemporaneo, 1956; Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, 1960) ha, per così dire, capovolto la posizione dell'Antoni e indicato in Dilthey e Max Weber i precursori d'un rinnovato storicismo liberato da presupposti metafisici. Si tratta finora di un lavoro preparatorio a reali sviluppi storiografici (benché un giurista come P. De Francisci abbia da tempo adottato schemi weberiani), ma si collega col diffuso interesse per la sociologia sia tedesca sia americana e col conseguente bisogno d'accertare i rapporti tra ricerca sociologica e ricerca storica. Riviste come Il Mulino, Rivista di filosofia, Quaderni di sociologia e numerose traduzioni di opere sociologiche straniere, rientrano nel medesino giro di problemi. La ripresa della ricerca sociologica in Italia, se ha funzione anti-idealista, ne ha anche una più chiaramente anti-marxista: donde la difficoltà, in cui si sono trovati palesemente i marxisti italiani, di partecipare a iniziative di ricerca sociologica. Più generalmente, i marxisti italiani si trovano a dover sostenere la loro interpretazione classista in un'atmosfera di ricerca storica e sociologica che è certamente sfavorevole a ogni contrapposizione rigida di gruppi sociali e a separazione di strutture e soprastrutture. Essi sono consci di questa difficoltà e si sforzano di sormontarla, sia in opere individuali di notevole rilievo sia in riviste bene organizzate. Una specifica storiografia marxista nettamente separabile da quella di origine crociana non sembra per ora essersi individuata. Sicché si spiega che i ricchi spunti di riflessione teorica e storica rivelati dalla pubblicazione postuma degli scritti di A. Gramsci abbiano potuto svilupparsi in due settori, dentro e fuori del partito comunista; e fuori del partito abbia riconosciuto l'ispirazione di Gramsci uno dei più penetranti storici italiani della cultura, E. Garin. Si spiega pure perché al compito urgente di studiare i movimenti politici e sociali della Russia e dei paesi dell'Europa centrale i maggiori contributi siano venuti da storici di sinistra non comunisti (F. Venturi). Non facilmente individuabile è sempre stata in Italia la storiografia cattolica, sin almeno dal tramonto della scuola neo-guelfa. Appunto al Manzoni si è originariamente richiamato A. Ferrabino in quello che sembra essere rimasto un lavoro solitario di costruzione d'una generale interpretazione cristiana della storia entro la storiografia italiana contemporanea. Più limitata in scopo, ma ugualmente impegnata nei presupposti religiosi, l'opera di A. C. Jemolo, in cui la posizione fideista si accompagna a una rigorosa distinzione tra i diritti dello Stato e quelli della Chiesa e a un'acuta percezione di vita morale. In altri storici cattolici o vicini al cattolicesimo, questo si rivela piuttosto nella scelta dei temi e nel giudizio sugli eventi che in un particolare metodo d'interpretazione. Se in Francia è la rivoluzione francese che opera da banco di prova per le teorie, in Italia si vorrebbe attribuire la stessa funzione al periodo post-Risorgimentale. Simile valore sintomatico hannti le ricerche sulla vita religiosa del Cinquecento e Seicento e in particolare, sotto l'impressione dell'opera di H. Jedin, le ricerche sul concilio di Trento. L'estensione degli studî di storia economica (G. Luzzatto, A. Sapori, R. S. Lopez, ecc.) e il trionfo della ricerca di storia sociale hanno paradossalmente portato con sé un rinvigorimento e un riorientamento delle ricerche di storia religiosa, di cui E. Buonaiuti, L. Salvatorelli, A. Omodeo e R. Pettazzoni furono i pionieri più autorevoli, portandovi successivamente le esigenze del modernismo, dell'illuminismo, dell'idealismo, della fenomenologia e infine della lotta antifascista per la libertà di coscienza. In questa espansione ha trovato anche il suo posto un interesse per interpretazioni esistenzialiste o junghiane dei fenomeni religiosi. A queste interpretazioni esistenzialiste sembra talvolta essersi avvicinato S. Mazzarino, uno storico dell'antichità difficilissimo a cogliersi nelle sue linee direttive, ma ricchissimo di cognizioni e suggestioni e particolarmente sensibile ai fenomeni di decadenza (alla pari del tedesco F. Altheim di cui ha subìto l'influsso). Tuttavia l'esistenzialismo, Jung e Altheim, come del resto Toynbee, non sembrano aver messo per ora radici profonde in Italia. Al di fuori dei gruppi cattolici prevale oggi in Italia tra gli storici una mentalità illuministica in materia religiosa e filosofica. Questo prevalere dell'illuminismo di fronte al romanticismo si riflette nella speciale importanza che il Settecento e la Rivoluzione francese hanno nella ricerca (F. Venturi). Esso fu già chiaramente auspicato nell'immediato dopoguerra da G. De Ruggiero e trova numerosi appigli sia in Croce e in Omodeo sia nel lavoro storico di Salvemini e Salvatorelli, ma nella sua ispirazione sentimentale deve molto a Piero Gobetti. In esso culmina forse la differenza tra la storiografia italiana di oggi e quella del periodo fascista.

Bibl.: La lettura diretta degli autori citati nel testo è il migliore aiuto per ulteriori letture. Di capitale importanza sono le Relazioni del IX (1950), X (1955) e XI (1960) Congresso internazionale di scienze storiche, specie del X. Il volume III delle Questioni di storia contemporanea a cura di E. Rota (Milano 1953) contiene una storia generale della storiografia moderna e contemporanea da consultarsi con cautela. Un utile orientamento F. Wagner, Moderne Geschichtschreibung, Berlino 1960. Per la storiografia tedesca Historische Zeitschrift, vol. 189, 1959 (volume del centenario). Sulla storiografia americana orienta il modo criticato H. Hale Bellot, American history and American historians, Londra 1952, da integrarsi con Paolo Rossi, in Il pensiero americano contemporaneo a cura di F. Rossi-Landi, Milano 1958, 95-129. Toccano ancora il periodo considerato in questo articolo, per la Germania: H. von Srbik, Geist und Geschichte vom deutschen Humanismus, II, Monaco 1951; W. Goetz, Historiker in meiner Zeit, Colonia 1957. La storiografia sovietica celebrò il proprio quarantennio nel 1957 con rassegne del lavoro compiuto pubblicate in riviste: quelle sulla storia antica, per es., sono contenute nel fascicolo 3 di Vestnik Drevnej Istorii. Per la storiografia italiana si veda soprattutto Cinquant'anni di vita intellettuale italiana in onore di B. Croce, Napoli 1950. Eccellenti saggi particolari sono contenuti per es. in W. Kaegi, Historische Meditationen, II, Zurigo 1946 (trad. it., Bari 1960); F. Venturi, Jean Jaurès e altri storici della rivoluzione francese, Torino 1948; L. Febvre, Combats pour l'histoire, Parigi 1953; R. Romeo, La storiografia politica marxista, in Nord e Sud, agosto-settembre 1956 (ora in Risorgimento e capitalismo, Bari 1959); D. Cantimori, Studî di storia, Torino 1959; A. Negri, Saggi sullo storicismo tedesco, Milano 1959; W. Bodenstein, Neige des Historismus, Gutersloh 1959 (su E. Troeltsch). Tra le opere storico-teoriche meno note sono degne di essere consultate J. Romein, De biografie, Amsterdam 1946; G. Martini, Cattolicesimo e storicismo, Napoli 1951; E. Rothacker, Die dogmatische Denkform in den Geisteswissenschaften und das Problem des Historismus, in Abhandl. Akad. Mainz 1954, n. 6. Varie biografie di storici contemporanei, appartenenti alla Accademia Bavarese si trovano in Geist und Gestalt, I, Monaco 1959. Una antologia di testi è provveduta da P. Gardiner, Theories of history, Glencoe 1959. Per un più largo inquadramento, H. Stuart Hughes, Consciousness and society, New York 1958.

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