STATI UNITI

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1981)

STATI UNITI (XXXII, p. 523; App. I, p. 1019; II, 11, p. 889; III, 11, p. 821)

Pasquale Coppola
Rainer S. Masera
Enzo Tagliacozzo
Biancamaria Tedeschini Lalli
Mario Manieri Elia
Rosalba Zuccaro

L'ordinamento politico degli SUA non ha subìto sostanziali variazioni nel corso degli anni Sessanta. La Confederazione continua pertanto ad annoverare 50 stati e il Distretto federale, mentre Puerto Rico rimane stato associato; le dipendenze si compongono delle Isole Vergini in territorio americano e di alcuni gruppi insulari (Guam, Midway, Samoa, Wake) dell'Oceania. Gli SUA governano tuttora in regime di amministrazione fiduciaria gli arcipelaghi delle Marianne, delle Caroline e delle Marshall, nel Pacifico, mentre hanno restituito al Giappone, dal 22 maggio 1972, l'isola di Okinawa (Ryūkyū), occupata dopo la 2ª guerra mondiale.

Gli SUA, con una popolazione superiore ai 200 milioni d'individui (203.211.926 al censimento del 1970; 218.520.000 secondo una stima del 1978), sono attualmente il quarto paese del mondo per numero di abitanti, superati soltanto da Cina, India e Unione Sovietica nell'ordine. Nel decennio 1960-70 l'incremento demografico (13,9%) è stato piuttosto contenuto rispetto ai periodi precedenti, subendo anche le negative ripercussioni della perdita di vite umane legata al lungo conflitto vietnamita. Solo 4 stati all'interno della Confederazione hanno fatto registrare tassi annui superiori al 3% (Florida +3,3%; Texas +5,5%; Nevada +5,8%; California +8,8%). Nel Distretto federale, nella Virginia occidentale e nel Nord e Sud Dakota si è registrata una diminuzione della popolazione assoluta (v. tab.1).

I forti limiti posti all'immigrazione fin dal dopoguerra sono tra le cause fondamentali del rallentamento nel ritmo di accrescimento della popolazione statunitense. L'immigrazione permanente continua a essere regolata dal sistema delle quote, che fissa il numero massimo di persone che possono stabilirsi ciascun anno sul territorio degli SUA. La quota è attualmente fissata in circa 290.000 immigrati per anno (non più di 20.000 per paese di provenienza). Nel corso del 1972, però, la cittadinanza statunitense è stata accordata a ben 385.000 individui (contro i 370.000 di ciascuno dei due precedenti anni): di essi 295.000 erano nuovi immigrati, mentre 90.000 vivevano già entro i confini della Confederazione. Negli anni Settanta la quota degl'immigrati originari di altri stati dell'America Settentrionale e Centrale è divenuta di gran lunga prevalente (oltre il 35%) e in testa a tutti si collocano i Messicani, che hanno toccato nel 1972 la cifra di 64.000 immigrati (circa un sesto del totale). Dai paesi dell'America Meridionale proviene circa il 5% dei nuovi cittadini degli SUA, mentre gli arrivi dall'Europa si mantengono intorno al 25% e quelli dall'Asia hanno superato il 30%; poco più del 2% sono gli originari di altre parti del mondo. La quota d'immigrati asiatici ha subìto una brusca impennata nel 1974-75 in seguito allo sgretolamento e alla caduta dei regimi filoamericani instauratisi nell'Asia di Sud-Est, che ha indotto molti individui a cercare rifugio negli SUA (il Congresso ha autorizzato in tale circostanza consistenti deroghe alle quote prestabilite). Non tutti gl'immigrati, comunque, assumono la cittadinanza statunitense; il rapporto tra immigrati e naturalizzati cresce con il crescere della distanza con i paesi d'origine: bassissimo, nell'ordine del 20-30%, per Messico e Canada, diviene piuttosto alto per i paesi europei: in particolare raggiunge il valore dell'85% per l'Italia. Vi è stato nei confronti del passato un rallentamento del flusso migratorio che ha leggermente ridimensionato, nell'ultimo decennio, l'alta aliquota di nati all'estero; mentre nel 1960 il rapporto dei nati fuori del paese sul totale era del 6%, esso alla fine del decennio era sceso al 5%. Un'altra caratteristica tipica della popolazione degli SUA resta la forte mobilità sociale, che implica una spiccata disponibilità degl'individui a spostarsi là dove nuove situazioni permettono un più alto tenore di vita, sicché le migrazioni interne assumono dimensioni assai accentuate. Tali movimenti dànno vita a una serie di correnti che prendono diverse direzioni: a quelle più tradizionali, che mettono capo ai grandi agglomerati urbano-industriali del Nord-Est e al distretto dei Grandi Laghi, si è aggiunta di recente una grossa direttrice che interessa gli stati dell'Ovest, in particolare la California e il Texas, dove più intensamente pulsa oggi la vita industriale, soprattutto in certi rami d'avanguardia quali l'elettronica e la petrolchimica. Le nuove possibilità di guadagno hanno attirato numerosi nuclei familiari in particolare dalle regioni del Centro e del Sud. Tra i movimenti di popolazione meritano pure di essere ricordati quelli, che vanno sempre più prendendo corpo, inerenti al trasferimento di cittadini fuori degli ambienti ormai sovraffollati e fortemente inquinati delle maggiori metropoli del Nord-Est, in aree residenziali più ricche di verde e ben raccordate con i distretti urbani mediante strade a scorrimento veloce e un'efficiente rete di trasporti pubblici.

La distribuzione degli abitanti resta assai difforme da una regione all'altra e vasti spazi si aprono ancora alle prospettive di popolamento futuro. Infatti, la densità media degli SUA (22 ab./km2) permane di per sé abbastanza bassa, ma esistono, soprattutto nell'interno, territori immensi (come il Wyoming, l'Idaho, il Montana, il Nevada e altri) in cui la densità supera ancora raramente 1 ab./km2. In realtà, tutto il Centro-Ovest ha densità inferiori, anche di molto, alla media nazionale, con l'eccezione della popolosa California (21.185.000 abitanti nel 1975; 51 ab./km2), la quale ha di recente superato lo stato di New York nella graduatoria della consistenza demografica. La fascia di terre atlantiche di più antica colonizzazione sopporta, al contrario, densità più alte, in particolare nel New Jersey (360 ab./km2), nel Rhode Island (294), nel Massachusetts (272), nel Connecticut (238). Gli stati del Sud-Est e quelli del Centro-Nord, che si affacciano sui Grandi Laghi, fanno registrare in genere densità medie.

Delle antiche popolazioni indigene non si trovano oggi che pochi superstiti (circa 800.000) per lo più raccolti in quelle "riserve indiane", frequenti soprattutto nell'Arizona, nell'Utah e nell'Oklahoma, che sono poco meno che musei etnologici. I bianchi, che sono quasi 178 milioni (177.748.975 al censimento del 1970, di cui 169 milioni nativi e il resto di provenienza estera), costituiscono di gran lunga il gruppo dominante (87%); seguono i negri, che ammontano a oltre 22 milioni (22.580.289 al 1970, pari all'11% della popolazione totale) e poi i gruppi etnici minori, che le statistiche ufficiali raggruppano sotto la voce "altre razze" e che nel complesso ammontano a circa 3 milioni (2.882.692 alla rilevazione del 1970; tra di essi: 591.290 giapponesi; 435.062 cinesi, 343.060 filippini, gruppi etnici che dopo la fine del secondo conflitto mondiale hanno di molto accresciuto la loro presenza negli SUA, anche in rapporto all'intensificarsi delle relazioni politiche ed economiche con gli alleati asiatici della Confederazione). Tra i bianchi nati all'estero (8.733.770 al 1970) prevalgono gl'italiani (circa il 12% del totale), seguiti da tedeschi (9,5%), canadesi (9%), messicani (8,5%), inglesi (7,7%), polacchi (6,2%), russi (5,2%) e irlandesi (2,9%). In particolare, per quanto riguarda gl'italiani, essi formano attualmente una comunità di circa un milione d'individui, cui vanno aggiunte altre 250.000 persone che conservano ancora la nazionalità d'origine. Soprattutto nelle grandi metropoli atlantiche (e in particolare a New York) e in quelle sui Grandi Laghi le colonie degl'italoamericani continuano a essere piuttosto fiorenti.

A differenza dei bianchi, i quali si distribuiscono in tutti gli stati della Confederazione, i negri, pur numerosi nelle metropoli della fronte atlantica (lo stato di New York ne conta il maggior numero in assoluto, pari a oltre 2 milioni) e nel Centro-Nord, vivono ancora prevalentemente negli stati del Sud, dove rappresentano aliquote piuttosto alte rispetto al totale della popolazione: oltre un quarto nell'Alabama e nella Georgia, circa il 30% nella Louisiana e nella S. Carolina, oltre il 35% nel Mississippi. Un caso a parte è offerto dal Distretto di Colombia, in cui i negri costituiscono oltre il 70% degli abitanti (area metropolitana di Washington). In complesso, negli stati meridionali vive ancora il 60% della popolazione di colore statunitense, che d'altra parte quivi rappresenta circa un quarto della consistenza demografica complessiva (v. tab. 2).

I negri degli Stati Uniti conoscono tuttora acute forme di discriminazione, che si avvertono particolarmente nei territori del profondo sud, ma trovano anche una triste espressione nei ghetti delle grandi città, dove essi occupano assai spesso gli ultimi gradini della scala sociale ed economica. Nel Sud i negri si vedono ancora negare assai spesso l'esercizio dei diritti politici più elementari e il godimento delle libertà che la Costituzione federale (cui ha dato applicazione concreta nel 1964 la legge sui diritti civili) garantisce a tutti i cittadini. Per questa serie di ostacoli, oltre che per cercare salari più remunerativi, nell'ultimo periodo è aumentato in modo notevole il numero dei negri che abbandonano gli stati più meridionali affluendo soprattutto negli stati del Nord-Est, del Centro-Nord e dell'Ovest dove sono meno marcate le manifestazioni di ostilità estremistiche com'è la segregazione nelle scuole.

Tra le altre razze minoritarie, i nuclei più cospicui, cinesi e giapponesi, vivono in grande prevalenza concentrati nelle maggiori metropoli e in particolare lungo le coste del Pacifico (in California i gruppi asiatici costituiscono circa il 4% della popolazione).

Per quanto attiene alle religioni, non si dispone di statistiche ufficiali, ma stime al 1975 valutavano in circa 131 milioni gli adepti delle diverse professioni, con una prevalenza netta delle varie Chiese protestanti (54%), seguite dal cattolicesimo (37%), e dalla religione giudaica (4%). Nei tempi più recenti sono andate prendendo piede talune sette musulmane (come quella dei musulmani neri, particolarmente diffusa tra i negri più politicizzati) o buddiste (specie presso giovani e reduci dal Sud-Est asiatico). Tra le professioni protestanti, che raggruppano 69.743.000 individui, le maggiori aliquote di adepti competono ai battisti (circa il 36%), ai metodisti (poco meno del 20%) e ai luterani (7%); delle altre ben poche superano il milione di fedeli e molte sono quelle praticate da piccolissime comunità, spesso d'immigrati.

Urbanesimo-Città. - Nel 1970 oltre 149 milioni di abitanti (il 73,5%) vivevano nelle città. Il fenomeno urbano, un tempo sviluppato essenzialmente negli stati del Nord-Est, si è andato gradualmente affermando anche nell'interno, soprattutto nell'Ovest, dove numerosi centri hanno assunto dimensioni gigantesche sul modello delle più vecchie metropoli della costa atlantica, dei Grandi Laghi e del distretto industriale appalachiano. All'ultimo censimento (1970) sono state rilevate 916 città con oltre 25.000 abitanti contro le 762 di dieci anni prima, e attualmente negli SUA si contano ben 30 aree metropolitane la cui popolazione supera un milione di residenti (erano 23 nel 1960). La più grande di tutte continua a essere quella che si estende intorno alla foce dell'Hudson, comprendendo New York, Jersey City e Newark; mentre nei confini della maggiore città si conta una popolazione quasi statica, nell'ordine dei 7,9 milioni di abitanti, l'area metropolitana della Grande New York ospita un numero d'individui in forte calo (circa 9,6 milioni al 1977) e si ampliano invece a dismisura i confini e la popolazione dell'area urbanizzata che su New York s'impernia, investendo anche il vicino stato del New Jersey, tanto che si calcolano in quasi 16,2 milioni (alla stessa data) gli abitanti di questa "megalopoli" dell'Atlantico. L'espansione urbana più impressionante ha riguardato negli ultimi tempi le coste del Pacifico, in particolare la California, che annovera oggi ben cinque metropoli: Anaheim, Los Angeles, San Bernardino, San Diego e San Francisco raccolgono oggi in tutto circa 15 milioni di abitanti, mentre centri come San José e Sacramento hanno conosciuto incrementi di popolazione impressionanti in brevissimo tempo. Altri casi di poderoso sviluppo delle dimensioni urbane si sono registrati nella Florida (Jacksonville), nell'Arizona (Tucson) e soprattutto nel Texas, dove Houston, Dallas e Austin hanno fatto segnare aumenti di popolazione superiori al 20% nel periodo 1960-70. L'espansione dei grandi centri è spesso bilanciata dal movimento già ricordato di esodo dai perimetri urbani più intasati verso più modesti, ma anche più accoglienti, centri residenziali posti nell'area periurbana, dai quali ogni giorno sfollano in massa le persone attive per lo svolgimento delle loro attività professionali. Al censimento del 1970 oltre una trentina di grossi centri denunciava perdite di popolazione consistenti, talora nell'ordine del 10-15% rispetto a dieci anni prima, in favore dei propri nuclei satelliti. In tale novero rientravano, oltre alla capitale Washington (756.510 ab. nel 1970 contro 763.956 del censimento precedente), ben 13 capitali di stati e ben 24 dei 56 centri con oltre 250.000 abitanti (tra questi Chicago, Los Angeles, Filadelfia, Detroit); in genere, l'esodo è stato particolarmente marcato nelle città con più antica e intensa industrializzazione (Cleveland, Pittsburgh, Akron).

Forniamo il quadro in ordine di grandezza delle città che superavano al 1975 i 250.000 abitanti, con l'eccezione delle già ricordate capitali di stati (tra parentesi la popolazione al 1960): New York 7.867.760 (7.781.984); Chicago 3.366.957 (3.550.404); Los Angeles 2.816.061 (2.479.015); Filadelfia 1.948.609 (2.002.512); Detroit 1.511.482 (1.670.144); Houston 1.232.802 (938.219); Baltimora 905.759 (939.024); Dallas 844.401 (679.684); Cleveland 750.903 (876.050); Milwaukee 717.099 (741.324); San Francisco 715.674 (740.316); San Diego 696.769 (573.224); San Antonio 654.153 (587.718); Menphis 623.530 (497.524); St. Louis 622.236 (750.026); New Orleans 593.471 (627.525); Seattle 530.831 (557.087); Jacksonville 528.865 (201.030); Pittsburgh 520.117 (604.332); Kansas City 507.087 (475.539); Buffalo 462.768 (532.759); Cincinnati 452.524 (502.550); San José 445.779 (204.196); Minneapolis 434.400 (482.872); Ft. Worth 393.476 (356.268); Toledo 383.105 (318.003); Newark 382.417 (405.220); Portland 382.619 (372.676); Louisville 361.472 (390.639); Oakland 361.561 (367.548); Long Beach 358.633 (344.168); Omaha 347.328 (301.598); Miami 334.859 (291.688); Tulsa 331.638 (261.685); El Paso 322.261 (276.687); Norfolk 307.951 (304.869); Birmingham 300.910 (340.887); Rochester 296.233 (318.611); Tampa 277.767 (274.970); Wichita 276.554 (254.698); Akron 275.425 (290.351); Tucson 262.933 (212.892); Jersey City 260.350 (276.101); Austin 251.808 (186.545). Quanto alle aree metropolitane, se ne annoverano 7 (Baltimora, Boston, Filadelfia, Newark, New York, Paterson, Washington) nella fascia atlantica compresa tra il Massachusetts e il Distretto federale, 6 sulle sponde dei Grandi Laghi (Buffalo, Chicago, Cleveland, Detroit, Milwaukee e Minneapolis), 2 nei distretti industriali appalachiani (Pittsburgh, Atlanta), 1 in Florida (Miami), 3 nel Sud (Dallas, Houston e New Orleans), 5 nel Centro (Cincinnati, Denver, Indianapolis, Kansas City, St. Louis), e 6 lungo la fascia del Pacifico compresa tra lo stato di Washington e il confine messicano (Anaheim, Los Angeles, San Bernardino, San Diego, San Francisco e Seattle). In complesso questi distretti metropolitani accolgono oltre 73 milioni d'individui, pari a oltre un terzo della popolazione della Confederazione e a quasi la metà dell'intera popolazione urbana.

Condizioni economiche. - Al censimento del 1970 le forze di lavoro degli SUA risultavano formate di 82.048.781 individui, pari al 58,2% della popolazione in età superiore ai 16 anni. A parte i quasi 2 milioni di addetti ai servizi militari e i circa 4 milioni di disoccupati (4,4% degli attivi), la ripartizione dei 76.553.599 occupati tra le varie attività risultava la seguente: agricoltura, foreste e pesca 3,7%; industrie estrattive 0,8%; industrie delle costruzioni e manifatturiere 31,9%; trasporti 6,8%; commercio, finanza e servizi vari 51,2%; pubblica amministrazione 5,5%. Nell'ultimo ventennio risulta dunque enormemente diminuito il peso della popolazione agricola (era il 18,3% nel 1950) e una considerevole decurtazione denuncia anche la quota degli addetti alle attività minerarie; ciò è anche conseguenza della diffusa meccanizzazione del lavoro nei campi e nelle miniere, nonché di una generale tendenza alla terziarizzazione dell'economia statunitense. I più grandi incrementi di addetti (in percentuale e in valori assoluti) si sono registrati, infatti, nel settore dei servizi, specie nel campo dei servizi altamente qualificati (banca, finanza, management) e in quello del commercio (al dettaglio e all'ingrosso), che occupa da solo un'aliquota di attivi maggiore di quella attribuibile nel 1950 all'intero comparto dei servizi.

Attività primarie. - La superficie coltivata si è ridotta al 20,1% del totale (19,9% di arativi e 0,2% di colture arboree), mentre era il 24,7% alla fine degli anni Cinquanta. Anche l'area destinata a prati e pascoli si è ridotta (dal 37% al 25,8%) e leggermente diminuita è pure l'estensione del manto forestale (dal 33,1% al 31,0%). Di conseguenza solo l'incolto e l'improduttivo si sono accresciuti (dal 5,8% al 23,1%), in relazione a un progressivo abbandono da parte degli agricoltori americani delle terre marginali meno suscettibili di sfruttamento intensivo mediante l'impiego di macchine. Il parco-macchine a disposizione delle attività agricole si è accresciuto in modo eccezionale: si contano ben 4.380.000 trattori e 645.000 mietitrici-battitrici.

La riorganizzazione su basi concorrenziali sempre più efficienti dell'impresa agricola ha portato il numero delle farms (fattorie) dai 6.350.000 del 1940 ai 2.850.000 del 1972, mentre la superficie media delle aziende si è più che raddoppiata, superando i 150 ettari. Si è particolarmente contratto il numero dei fittavoli (350.000), sicché essi non rappresentano oggi che un 10% dei contadini degli SUA. L'accrescersi della specializzazione ha fatto sì che il 60% delle aziende agricole tragga oggi oltre la metà dei propri redditi dal solo allevamento o dalla pratica di una sola coltura (specie quando si tratta di cereali, tabacco, cotone o alberi da frutta). La quota di aziende agricole con fatturato superiore ai 20.000 $ si è raddoppiata nel 1970 rispetto a dieci anni prima (20% contro il 9%) e la parte di mercato di competenza di queste grandi aziende è divenuta di gran lunga prevalente (74% dell'intero fatturato del settore agricolo; 51% dieci anni prima). La massiccia impennata in senso capitalistico delle imprese agricole ha avuto per conseguenza nel giro di un ventennio un grande incremento della produttività del lavoro: un agricoltore che produceva derrate per quindici persone è giunto a produrne oggi per quasi cinquanta; dei 10 milioni di contadini del 1950, infatti, meno di un terzo è rimasto nelle farms e ancora minore è la quota di quelli rimasti a coltivare i campi.

La superficie irrigua ha oggi toccato gli 8,5 milioni di ha, con punte massime nella fascia prospiciente il Pacifico, dove è continuata la valorizzazione sistematica delle grandi riserve d'acqua costituite dai fiumi del versante occidentale delle Montagne Rocciose.

Tra le colture continuano a dominare i cereali, anche se la loro incidenza sul totale dell'arativo si è portata al di sotto del 40%. Su tutti prevale il mais, coltivato soprattutto negli Stati Centrali (Jowa, Illinois, Indiana, Minnesota, Nebraska). Per il frumento si segnalano gli stati del Kansas e del North-Dakota, che forniscono da soli oltre un terzo del prodotto. Quasi metà del cotone proviene invece dagli stati meridionali (Texas, New Mexico, Arizona, Nevada e California): il Texas da solo raggiunge un terzo della produzione. La maggior parte del tabacco (circa il 65%) è fornita dal N. Carolina e dal Kentucky. Nei confronti del passato si manifesta una specializzazione accresciuta dei vari territori riguardo alle differenti colture, molte delle quali denunciano forti contrazioni delle superfici interessate (cotone: −30% in 15 anni; tabacco −50%), soprattutto là dove le rese si presentano meno competitive; del resto, uno dei tratti caratteristici dell'agricoltura statunitense è dato dal vertiginoso incremento della produttività per ettaro, che ha consentito in genere di conservare o di accrescere i livelli complessivi di produzione (v. tab. 3).

Uno sviluppo assai notevole ha avuto l'ortofrutticoltura; in alcuni campi gli SUA hanno acquistato una solida posizione di supremazia nella produzione mondiale: così, per es., per i pompelmi (73%), le arance e i mandarini (26%), i limoni (20%) e le pesche (33%) (v. tab. 4).

Il manto forestale è esteso su oltre 296 milioni di ettari, circa due terzi dei quali sono considerati accessibili per uno sfruttamento commerciale. Oltre il 25% dei boschi è amministrato dal governo federale o dalle amministrazioni locali, mentre il resto della superficie forestale appartiene a privati (circa metà di questa quota rientra nei confini delle farms). Ogni anno il fuoco attacca oltre I milione di ettari di bosco, il che richiede un forte impegno e una complessa organizzazione dei servizi anti-incendio; sono quasi 500.000 gli ettari di bosco attualmente coperti da una tutela capillare contro gl'incendi. La media della superficie rimboschita negli anni 1970-71 si è aggirata attorno ai 650.000 ettari.

La valorizzazione sistematica del manto forestale consente una produzione di legname mediamente superiore ai 300 milioni di m3 (soprattutto legno di conifere, tra le quali emerge il Douglas fir con oltre il 20% del totale).

Il patrimonio zootecnico è stato potenziato attraverso una razionalizzazione assai marcata delle pratiche di allevamento, con il ricorso a particolari incroci di razze e con l'adozione di mangimi selezionati; anche in questo campo la specializzazione è divenuta la norma. Il settore più potenziato è stato quello dei bovini da carne, saliti da 96 a 122,8 milioni di capi tra il 1960 e il 1977. Si sono invece contratti il numero dei suini (da 59 a 54,9 milioni di capi), quello delle mucche da latte (da 19,5 a 12 milioni di capi) e quello dei capi ovini (da 33 a 12,8 milioni); i cavalli e i muli, che prima dell'ultimo conflitto erano oltre 14 milioni, sono ora meno di 10 milioni. Tanto per il latte che per la carne le rese per capo si sono fortemente incrementate (v. tab. 5).

L'attività peschereccia si è da tempo stabilizzata su buoni livelli produttivi (3.101.544 t di pescato nel 1977, quota di poco superiore a quella di 10 anni addietro), ma gli SUA hanno perso varie posizioni nella graduatoria mondiale per l'enorme sviluppo che ha interessato questo settore in altri paesi (come il Perù, l'Unione Sovietica e la Norvegia).

Fonti di energia. - Il ritmo di sfruttamento delle risorse carbonifere e di quelle petrolifere degli SUA, per quanto grandi queste siano, si è contratto di parecchio nel secondo dopoguerra per la necessità di non esaurire anticipatamente le riserve interne; gl'incrementi di produzione registratisi sono soprattutto effetto dei progressi tecnologici nel settore, che hanno consentito, soprattutto nel campo della prospezione e dello sfruttamento del petrolio e del gas naturale, la valorizzazione di taluni giacimenti e l'aumento della produttività dei campi sfruttati. L'estrazione di carbone (comprese le modeste quote di lignite) si aggira sui 600 milioni di t annue, che collocano gli SUA circa il 7% al di sotto dei livelli di produzione dell'Unione Sovietica; essa viene alimentata soprattutto dai tradizionali bacini degli Appalachi (tra Pennsylvania e Alabama), del Centro (medio Mississippi-basso Ohio) e dell'Ovest (Texas, Jowa).

Nel campo dell'estrazione del petrolio (circa 430 milioni di t nel 1978) il maggior contributo (oltre un terzo) deriva sempre dai giacimenti texani, mentre la Louisiana (24%) ha recuperato il secondo posto, precedendo la California (11%) e l'Oklahoma. In poderosa ascesa è la produzione dei campi alascani, il cui sfruttamento data dagl'inizi degli anni Sessanta: dai giacimenti del bacino del F. Swanson e della rada di Cook si estraeva nel 1961 appena 1 milione di t di greggio; ma nel 1971 i pozzi hanno dato quasi 13 milioni di t, collocando l'Alaska all'ottavo posto tra gli stati petroliferi della Confederazione. Lo sfruttamento dei giacimenti delle regioni nordiche ha presentato non pochi problemi tecnici e richiesto l'allestimento di apposite petroliere-rompighiaccio e di condotte adatte all'attraversamento per oleodotto di vaste superfici permanentemente gelate, esaltando in modo particolare in questo settore la ricerca tecnologica statunitense.

Nell'ultimo decennio la lunghezza complessiva della rete degli oleodotti è rimasta inalterata intorno ai 300.000 km, mentre si è di molto potenziato il complesso dei gasdotti (circa 1.300.000 km di rete distribuiscono i 5,8 miliardi di m3 di gas naturale, attinti per un buon 40% dagli sterminati campi del Texas).

Ai grandi impianti idroelettrici in esercizio si sono aggiunte, tra le altre, negli anni Sessanta, due gigantesche centrali, che sfruttano il salto del Niagara (1.950.000 kW di potenza installata) e uno sbarramento artificiale sul fiume San Lorenzo (circa 1.000.000 di kW). Quest'ultimo impianto s'inquadra in un piano assai vasto che gli Stati Uniti e il Canada hanno condotto a compimento per la valorizzazione delle acque del San Lorenzo, soprattutto per garantire l'accesso del naviglio di maggiore stazza (fino a 10.000 t) ai Grandi Laghi; tutte le iniziative collegate a questo fine sono state coordinate, per la parte degli SUA, da un apposito ente pubblico, la St. Lawrence Seaway Development Corporation, che si attribuisce anche il 29% dei pedaggi della via d'acqua (il resto va alla St. Lawrence Seaway Authority, di parte canadese).

Il contributo delle centrali idroelettriche all'enorme fabbisogno energetico del paese resta comunque modesto (meno di 300 miliardi di kWh su una produzione totale di oltre 2120 miliardi di kWh, forniti essenzialmente dalle centrali termiche; le centrali nucleari producono circa 191 miliardi di kWh, essendo state notevolmente incrementate nell'ultimo decennio). Infatti il numero degl'impianti elettronucleari degli SUA si è andato moltiplicando in modo consistente: al 1970 ne esistevano circa una trentina e quasi altrettanti attendevano di entrare in funzione. Le previsioni di crisi delle tradizionali fonti energetiche, infatti, hanno trovato un'eco particolarmente viva presso i responsabili statunitensi, che si sono ormai da tempo orientati verso un graduale sviluppo della produzione di energia dai reattori nucleari. Anche in questo caso, come per le consuete fonti di energia termica, si pongono però in termini piuttosto drammatici il problema della sicurezza e quello dell'inquinamento (gravi timori sollevò, per es., il guasto della centrale di Three Miles Island-Pennsylvania, nel marzo 1979). Alcune regioni della Confederazione, specie l'Est e le sponde dei Grandi Laghi, hanno del resto subìto così profondi danni all'ambiente per effetto degl'inquinamenti causati dagl'impianti termoelettrici (e dal complesso degli scarichi industriali) da vedere profondamente alterati - spesso in termini irreversibili - i loro ecosistemi.

Economia mineraria. - L'esaurirsi graduale di molti giacimenti soggetti a periodi d'intenso sfruttamento e la necessità di non intaccare in modo determinante le riserve hanno contenuto l'espansione di gran parte della produzione mineraria. Se i livelli dei rifornimenti interni si conservano piuttosto costanti, ciò è dovuto soprattutto ai continui aggiornamenti tecnologici nel campo della ricerca e della coltivazione dei giacimenti. Gli SUA, però, tendono a divenire sempre più un paese importatore di minerali; il loro sistema industriale necessita di sempre più ampi rifornimenti da altre parti del mondo: la situazione è deficitaria soprattutto per lo zinco, il nickel, il manganese, l'antimonio, il piombo, il rame, il mercurio e molte altre materie prime strategiche per l'alimentazione di un moderno apparato industriale. Ciò ha indotto da tempo le grandi compagnie statunitensi ad assicurarsi il controllo di giacimenti minerari posti fuori dei confini della Confederazione, soprattutto nell'America latina, ingenerando una serie di fittissimi interessi economici che non hanno mancato di riflettersi sul quadro politico di questa parte della Terra. In compenso, gli SUA continuano a detenere il monopolio della produzione del molibdeno, del vanadio e del tungsteno, mentre sono giunti a estrarre quasi metà del totale mondiale dei minerali d'uranio provenienti soprattutto dal New Mexico, dal Colorado e dall'Utah (v. tab. 6).

Attività industriali. - L'ascesa dell'industria statunitense si è protratta a ritmi vertiginosi per tutto il secondo dopoguerra e solo di recente avverte delle battute di decelerazione in rapporto alla crisi mondiale del sistema industriale collegata anche al rialzo dei prezzi delle materie prime. Si è ancora accentuata la tendenza alla concentrazione industriale e i colossi del settore si sono proiettati sempre più di frequente all'estero, realizzando numerosissimi impianti in quelle aree che offrivano migliori occasioni di mercato (come il Canada e l'Europa occidentale). Il peso della ricerca tecnologica è divenuto essenziale, legando i laboratori aziendali, quelli statali (soprattutto del Dipartimento della Difesa) e quelli universitari in una serie di relazioni e in un rapporto di concorrenza, che hanno dato molteplici frutti per l'innalzamento dei livelli produttivi e per il miglioramento dei vecchi prodotti o l'introduzione di una vasta gamma di nuove produzioni. Gli SUA continuano a trarre, inoltre, grandi benefici dalla vendita all'estero dei brevetti che il loro efficiente apparato di ricerca sforna a un ritmo assai sostenuto.

Il complesso dell'industria manifatturiera impiegava al 1970 poco meno di 20 milioni di persone; ma, pur nel quadro di un'espansione generale del potenziale produttivo, non tuttì i rami mostravano incrementi di occupazione. Alcuni comparti tradizionali, come quello tessile dell'Est, hanno denunciato, per es., nonostante la poderosa produzione, un calo di addetti e la smobilitazione degl'impianti più obsoleti. Sono state potenziate di molto, però, le produzioni dei tessili artificiali (nel 1976 oltre 160.000 t di fibra e 220.000 t di fiocco) e sintetici (1.734.000 t di fibra e 1.794.000 di fiocco nel 1978), che hanno spesso rimpiazzato lungo la fronte della fall line (pedemonte orientale) le aziende laniere e cotoniere.

I rami portanti restano in gran parte quello siderurgico (116 milioni di t di acciaio nel 1976) e quello meccanico (nel cui ambito continua a emergere l'industria dell'auto: circa 8 milioni di addetti, 9,2 milioni di autovetture e 3,5 milioni di veicoli commerciali nel 1977); essi collocano sempre gli SUA al primo posto nel mondo per molte delle produzioni e alimentano un complesso panorama di attività collegate (si pensi, solo per esempio, ai 230 milioni di pneumatici prodotti nel 1977).

Vi sono, però, attività industriali che denunciano un'ascesa maggiore delle altre: come la chimica (e la petrolchimica), che dai tradizionali distretti del Nord-Est si è andata espandendo nel Centro, in particolare negli stati petroliferi (le raffinerie degli SUA superano ormai i 780 milioni di t di capacità di lavorazione), con le aree di Baton Rouge e di Houston alla testa; e come l'aeronautica, che si è andata localizzando soprattutto lungo le coste del Pacifico, nel Kansas, nel Missouri, nella Georgia e nel Texas (oltre che nei vecchi distretti industriali dei Grandi Laghi e della costa atlantica). Un impulso del tutto eccezionale hanno ricevuto poi le industrie elettroniche e quelle aerospaziali, per molti versi collegate, che hanno consentito agli SUA la conquista di prestigiosi traguardi nel campo dell'esplorazione dello spazio e che occupano oggi schiere sempre più numerose di specialisti (si vedano i grandi impianti-laboratori della NASA di Los Angeles e di Houston).

Comunicazioni. - Dopo un periodo in cui sembrava che la ferrovia dovesse cedere definitivamente ad altri mezzi di trasporto (soprattutto all'auto e all'aereo) il suo ruolo propulsivo dell'economia statunitense, l'introduzione di convogli più rapidi con l'ammodernamento sostanziale della rete ha rilanciato le sorti di questo mezzo. Nondimeno lo snellimento ha comportato la chiusura di alcuni tronchi, sicché il complesso della rete era lungo al 1975 circa 331.000 km, un 10% in meno rispetto a dieci anni prima. La ferrovia continua ad accogliere un movimento di merci gigantesco, che nell'ultimo decennio si è espanso di oltre un quarto, approssimandosi ai 3,5 miliardi di t, mentre il traffico dei passeggeri si è contratto di oltre il 40%, aggirandosi sui 272 milioni d'individui l'anno.

La realizzazione della nuova via d'acqua del San Lorenzo per l'accesso ai Grandi Laghi ha comportato una ristrutturazione della flotta dei lakers e dei canallers, il naviglio in circolazione su gran parte delle idrovie interne (la flotta speciale dei Grandi Laghi stazza oggi circa 1.560.000 t) e consistenti opere di ammodernamento degli approdi lacustri e dei canali collegati al sistema Grandi Laghi-San Lorenzo; ciò ha consentito un poderoso incremento del traffico interno: sul solo tratto compreso tra Montreal e il lago Ontario il movimento ha superato alla fine degli anni Settanta i 50 milioni di t.

La rete stradale degli SUA superava nel 1977 i 6 milioni di km, per l'80% asfaltati; tra questi, 1.029. o00 km formavano il complesso delle strade urbane. Vi erano inoltre circa 7500 km di tronchi autostradali a pedaggio (contro i 500 del 1940) e altri 1700 km erano in costruzione. La circolazione su questo gigantesco reticolo viario ha raggiunto un livello unico al mondo, alimentata da 143 milioni di autoveicoli, di cui oltre 114 milioni di autovetture.

Navigazione marittima, porti e navigazione aerea. - Dopo il secondo conflitto mondiale gran parte della flotta statunitense, molto potenziata nel corso dello sforzo bellico, si è rivelata inadeguata o economicamente esuberante per affrontare la concorrenza internazionale sul mercato dei noli. Ciò ha comportato un drastico ridimensionamento del tonnellaggio complessivo: al 1977 c'erano in esercizio circa 4500 navigli oceanici con una stazza lorda complessiva di oltre 13,7 milioni di t, pari a meno del 5% della stazza della flotta marittima mondiale (dieci anni prima la capacità era di quasi 23 milioni di t, pari al 18,5% del totale mondiale).

Il naviglio con bandiera statunitense partecipa per circa il 6% al movimento dei porti della Confederazione, che ha superato in complesso, nel 1970, i 580 milioni di tonnellate. Più di un quinto di tale movimento compete al solo porto di New York (132 milioni di t di traffico nel 1977, di cui 60 di movimento internazionale); questo scalo ha però perso la sua posizione di supremazia mondiale, di gran lunga superato oggi dal porto europeo di Rotterdam (271 milioni di t). Spettacolare l'ascesa del traffico negli scali del Golfo del Messico, dove attraccano soprattutto le petroliere che operano sulle rotte nazionali: New Orleans sfiora i 100 milioni di t, in prevalenza all'imbarco; Houston ha toccato i 90 milioni, Baton Rouge i 74 milioni. A confronto, la posizione dei porti atlantici appare quasi statica pur nella grande mole dei traffici: il sistema di Filadelfia muove 49 milioni di t l'anno,38 ne circolano a Norfolk, 39 a Baltimora. Sui Grandi Laghi l'apertura della via d'acqua del San Lorenzo ha consentito grandi balzi in avanti agli scali maggiori: il traffico di Chicago si è portato a 18 milioni di t, quello di Duluth a 30 milioni.

La rete dei collegamenti aerei degli SUA si è ulteriormente intensificata, assumendo proporzioni gigantesche: si contavano al 1971 ben 12.000 scali per velivoli e 154.000 aerei civili; nello stesso anno la flotta aerea statunitense ha compiuto 175 milioni di voli sulle linee internazionali e ben 156 milioni sulle linee interne, con un enorme movimento di passeggeri (245 miliardi di passeggeri/km) e di merci (8 miliardi di t/km). Tale flotta risulta potenziata grazie all'introduzione di un buon contingente di aerei supersonici, sempre più capaci, mentre si va diffondendo molto, per i voli su brevi tragitti, il ricorso all'elicottero (vi erano al 1971 quasi mille eliporti).

Commercio estero. - Mentre la direzione delle principali correnti di scambi internazionali che fanno capo agli SUA ha subìto limitate modifiche, data l'universalità che caratterizza i rapporti commerciali di questa potenza economica, un radicale cambiamento ha interessato la consistenza dei flussi in entrata e in uscita, giacché il costante e netto predominio delle esportazioni sulle importazioni è stato ribaltato sulla fine degli anni Sessanta. Il fenomeno si collega all'eccezionale incremento subìto in tempi recenti dalle importazioni di materie prime e alla rivalutazione di queste merci, fatti che hanno avuto una ripercussione assai grave sulla bilancia dei pagamenti commerciali degli SUA. Le principali voci in entrata sono per l'appunto costituite da materie prime (petrolio, carta per giornali, rame, semilavorati metallici), oltre che da derrate alimentari; in uscita prevalgono sempre i prodotti dell'industria meccanica (oggi in particolare l'elettronica, l'automobilistica e l'aeronautica), seguita a lunga distanza dai prodotti chimici e dai cereali. Quasi un quarto del traffico si svolge con il Canada e una quota pressoché simile con l'Europa occidentale (soprattutto con la Rep. Fed. di Germania), mentre un ruolo crescente compete al Giappone (10% del movimento totale), che è in prevalenza esportatore di prodotti finiti sul mercato statunitense.

Bibl.: J. Gottmann, Mégalopolis, new York 1961; V. Fuchs, Changes in the location of manufacturing in the U.S. since 1929, New Haven 1962; L. Haystead-G. C. Fite, The agricultural regions of the U.S., Londra 1963; H. C. Allen, The U.S. of America, ivi 1964; A. Pecora, Ricerche di geografia nell'Arizona centromeridionale, in Mem. Geogr. Ec. e Antrop., Napoli 1964; W. R. Mead-E.H. Brown, The United States and Canada, Londra 1964; C. Fohlen, Les Noirs aux États-Unis, Parigi 1965; J. Labasse, L'organisation de l'espace, cap X: Les États-Unis, ivi 1966; R. E. Murphy, The American City. An urban geography, New York 1966; L. Franck, Les États-Unis d'Amérique, Parigi 1966; N. J. G. Pounds, North America, Londra 1966; P. George, L'économie des États-Unis, Parigi 1968; G. Owen, Puissance de l'industrie américaine, ivi 1968; J. Beaujeu-Garnier, Les régions des États Unis, ivi 1969; J. Soppelsa, Les Étas-Unis, ivi 1971; C. Furtado, Gli Stati Uniti e il sottosviluppo nell'America Latina, Milano 1971; P. George, Géographie des États-Unis, Parigi 1971; G. Sacco, Il petrolio dell'Alasca e i problemi del suo sfruttamento, in Rivista Geografica Italiana, Firenze 1971; N. Zelinsky, The cultural geography of the United States, Englewood Cliffs 1973; O. P. Starkey-J.L. Robinson-C. S. Miller, The Anglo-American Realm, New York 1975; J. Fraser Hart, Geografia degli Stati Uniti, Milano 1978; Geografia e storia del mondo. USA, Bari 1978; A. R. Pred, Sviluppo industriale e sviluppo urbano negli Stati Uniti, Milano 1978.

Economia e Finanza. - Tra il 1960 e il 1978 il prodotto nazionale lordo degli SUA a prezzi correnti è aumentato a un tasso medio annuo dell'8,2%, raggiungendo nel 1978 2100 miliardi di dollari. Nel decennio 1960-69 si era registrato un tasso d'incremento pari al 7,1%, che è passato a 9,4% nel periodo 1970-78. L'accelerazione è tuttavia dovuta a un più rapido ritmo dell'inflazione: a prezzi costanti l'aumento medio è stato pari al 4,3% negli anni Sessanta, ma è sceso a 2,8% nei successivi nove anni. Dopo la fase recessiva del 1960-61, l'economia americana conobbe un lungo periodo di sviluppo sostenuto, che si concluse gradatamente in condizioni di eccesso di domanda aggregata: nella seconda metà degli anni Sessanta il prodotto nazionale lordo effettivo risultava sistematicamente al di sopra del potenziale. Molti uomini politici ed economisti ritenevano che l'utilizzazione degli schemi di analisi economica neokeynesiani permettesse un superamento delle difficoltà cicliche, e che l'interesse dovesse ormai incentrarsi prevalentemente sui problemi della crescita: così, per es., si organizzavano convegni sul tema "È diventato obsoleto il ciclo economico?". Tuttavia il lungo periodo di boom registrato tra il 1965 e il 1969 aveva comportato crescenti tensioni inflazionistiche e un notevole deterioramento della posizione di bilancia dei pagamenti negli SUA. L'azione concomitante degli stimoli espansivi monetari e fiscali, posti in essere, anche come conseguenza della guerra nel Vietnam, veniva bruscamente invertita nel 1969, cosicché proprio nel 1970 si registrava una seria recessione. Le. difficoltà cicliche interne erano acuite dalla debolezza nei pagamenti esterni, per cui la posizione del dollaro risultava sempre più vulnerabile. Nel 1971 si decideva comunque di continuare a dare priorità agli obiettivi di ripresa economica, pure accettando le conseguenze in termini di stabilità esterna del dollaro. Le previsioni di una rapida e significativa inversione autonoma del ciclo già nel 1971 si basavano preminentemente sull'aspettativa di una ripresa delle spese di consumo; tuttavia, nonostante i pronunciati stimoli monetari dati all'economia, questo tipo di spesa reagiva solo lentamente, anche a seguito delle incertezze connesse al persistere di spinte inflazionistiche. Le autorità economiche americane continuavano quindi a mantenere in essere politiche fortemente espansionistiche nel corso del 1972. Si raggiungeva così nel primo trimestre del 1973 una situazione in cui il prodotto effettivo eccedeva nuovamente il potenziale: si registravano condizioni di carenza di forza lavoro e soprattutto limitazioni nelle capacità produttive di molti settori chiave. Ne risultavano forti pressioni sui prezzi e sui salari, nonostante le misure amministrative imposte nelle successive fasi della cosiddetta "legge sulla stabilizzazione economica".

Le spinte inflazionistiche interne, alimentate dagli ulteriori deprezzamenti del dollaro, toccavano punte mai precedentemente raggiunte nel periodo postbellico: i prezzi al consumo e quelli all'ingrosso aumentavano a ritmi pari al 10 e al 20%, rispettivamente, su base annua. A ciò contribuiva in maniera significativa il boom mondiale dei prezzi dei prodotti a commercio internazionale, che traeva a sua volta origine essenzialmente dalla sincronia nell'evoluzione congiunturale che mostravano le economie di tutti i principali paesi industriali. In questo contesto s'inseriva nell'ottobre 1973 la crisi petrolifera e il successivo quadruplicarsi del prezzo del greggio. Il rincaro del petrolio avveniva in presenza di un sottostante grave squilibrio di ordine strutturale negli sviluppi di domanda e offerta di energia su scala mondiale, cui aveva peraltro contribuito in modo determinante il rapido aumento dei consumi e delle importazioni nette di petrolio, da parte degli SUA, che agl'inizi degli anni Settanta, pur essendo ancora il massimo produttore mondiale di petrolio, erano contemporaneamente il principale importatore. L'esplosione del prezzo del petrolio comportava sia impulsi recessivi, simili a quelli derivanti dall'introduzione di una forte imposta indiretta su beni di largo consumo, sia, direttamente, spinte inflazionistiche; in queste circostanze gli SUA, che già nel corso del 1973 si erano gradualmente orientati verso politiche di contenimento della domanda, accentuavano gli orientamenti restrittivi, dando preminenza all'obiettivo di porre sotto controllo il processo inflazionistico. Si ponevano così le premesse della più grave recessione sperimentata dagli SUA nel periodo postbellico, che avrebbe comportato, nel triennio 1974-76, un divario complessivo tra prodotto potenziale ed effettivo pari a 330 miliardi di dollari. Tra il massimo ciclico del novembre 1973 e il minimo raggiunto nell'aprile 1975 la produzione industriale registrò una caduta pari a 13,5%, e solo nel giugno 1976 la produzione si è riportata sui livelli raggiunti nel novembre 1973. L'ampiezza e gravità della fase ciclica recessiva è stata accompagnata da una notevole lentezza nel conseguimento di risultati positivi nella lotta contro l'inflazione. Il coesistere nel 1974 e nella prima parte del 1975 di recessione e inflazione - fenomeno per cui si è coniato il termine di "stag-flazione" (stagflation) - accentuava l'interesse per proposizioni della scuola "monetarista", esposte in particolar modo da M. Friedman. Le difficoltà di gestione del sistema economico negli anni Settanta e la gravità del problema inflazionistico hanno accentuato l'attenzione prestata dalle autorità economiche americane al controllo dei principali stocks monetari: base monetaria, M1, M2. Già nel 1970 il Federal Reserve Board ha iniziato a formulare obiettivi di sviluppo degli aggregati monetari; dalla primavera del 1975 questi obiettivì - consistenti nella determinazione di un margine consentito di espansione su base annua - vengono resi pubblici.

La fase di ripresa, iniziata nel 1975, si è protratta per quattro anni: il periodo di prolungata espansione ha avuto termine nel secondo trimestre del 1979, quando il prodotto nazionale (a prezzi costanti) ha mostrato una lieve contrazione, risultando comunque superiore su base annua del 18,3% rispetto al minimo ciclico del 1975. Uno degli aspetti più rilevanti della fase di espansione è costituito dalla deludente evoluzione della produttività; l'assorbimento di occupazione è stato infatti notevole e spiega, dopo gli aggiustamenti ciclici, la quasi totalità nell'incremento del prodotto: agl'inizi del 1979 il numero di occupati superava di circa il 12% quello registrato in occasione della precedente punta massima della domanda del 1973, mentre la produzione era aumentata del 13% rispetto alla stessa data. La stagnazione della produttività è uno dei fattori che, insieme con la caduta del valore esterno del dollaro, concorrono a spiegare la notevole accelerazione dell'inflazione registrata a partire dalla fine del 1976: il tasso di aumento dei prezzi al consumo è passato dal 4,8% a oltre il 10% nella prima parte del 1979, riproponendo condizioni di stagflazione. Si è perciò ricorsi a misure restrittive - monetarie e fiscali - che interagendo con fattori endogeni dell'economia hanno condotto all'inversione del ciclo.

Pagamenti con l'estero. - La posizione del dollaro come valuta di riserva internazionale - de iure prima, ma de facto anche dopo gli accordi smithsoniani e, successivamente, la caduta del sistema di Bretton Woods e l'avvento della fluttuazione generalizzata dei cambi - spiega l'interesse tuttaffatto particolare dell'evoluzione della bilancia dei pagamenti americana. Gli anni dell'immediato dopoguerra, in cui la capacità produttiva dell'economia americana risultava incomparabilmente superiore a quella di quasi tutti gli altri paesi industrializzati, in larga misura costretti a far fronte a seri problemi di ricostruzione, sono stati caratterizzati dalla cosiddetta "scarsità di dollari" (dollar shortage). Negli anni Cinquanta la posizione della valuta americana risultava sostanzialmente forte, seppure gradualmente la concorrenza dei principali paesi europei e del Giappone, anche a seguito del riaggiustamento dei cambi nel 1949, cominciasse a farsi sentire. Vere difficoltà per la bilancia dei pagamenti statunitense cominciano comunque a emergere solo negli anni Sessanta.

Proprio a partire dalla metà del 1960 le perdite di oro monetario degli SUA, derivanti da richieste di conversione di dollari da parte delle banche centrali degli altri paesi, mostrarono una forte impennata comportando condizioni d'incertezza e tensione sui mercati privati del metallo giallo. In ottobre il prezzo di mercato dell'oro saliva a 40 dollari l'oncia, contro i 35 del prezzo ufficiale. Nel 1961 il mercato dell'oro ritornava a condizioni di normalità, anche a seguito degli accordi intervenuti tra le banche centrali dei principali paesi che sfociarono nella creazione del cosiddetto "Pool dell'oro", e fino al 1968 non si sarebbero ripetute crisi. Gli eventi del 1960 avevano comunque un notevole impatto psicologico attirando l'attenzione delle autorità monetarie e del pubblico sul fatto che la scarsità di dollari stava tramutandosi in eccedenza (dollar glut). Già nel corso della fase di recessione del 1960-61 le misure di rilancio dell'economia interna avevano così tenuto presente il vincolo dei pagamenti esteri. In particolare si poneva in essere la "operazione contorsione" (operation twist), volta a determinare, tramite operazioni in titoli di diversa scadenza, da un lato, un innalzamento relativo dei tassi d'interesse a breve per scoraggiare i deflussi di capitali a breve determinati dai più elevati tassi d'interesse che si registravano nei mercati europei (è da ricordare al riguardo che iniziava in quegli anni a espandersi a ritmo assai rapido il mercato degli eurodollari al di qua dell'Atlantico), e d'altro lato, la caduta relativa dei tassi a lunga che avrebbe dovuto stimolare la spesa per investimenti fissi. Per quanto riguarda le partite correnti, iniziava una serie di campagne di promozione delle esportazioni, mentre venivano adottate misure volte a ridurre l'onere valutario derivante dallo stazionamento delle forze militari americane all'estero e a collegare all'acquisto di beni americani gran parte dell'aiuto bilaterale concesso dagli Stati Uniti. Allo scopo di frenare la persistente grave emorragia valutaria derivante dai deflussi di capitali, vennero prima innalzati i limiti sui tassi d'interesse pagati su depositi a termine dalle banche americane e successivamente, nel 1963, venne imposta una tassa di egualizzazione degl'interessi sugli acquisti da parte di residenti americani di titoli emessi da mutuatari localizzati in paesi industrializzati.

Il deterioramento della posizione dei pagamenti esteri americani è diventato tuttavia evidente e inarrestabile quando il saldo attivo delle transazioni commerciali e, più in generale, correnti ha cominciato a contrarsi rapidamente, nella seconda metà degli anni Sessanta, per diventare in breve negativo. Un ruolo preponderante in questa evoluzione è svolto dalla forte accelerazione delle importazioni americane: il rapporto tra il tasso di variazione annuale delle importazioni e quello del prodotto nazionale lordo, in valore, risultava in media pari a 0,9 tra il 1950 e il 1964, ma si raddoppiava nel periodo 1965-71. Il saldo commerciale, che aveva rappresentato l'elemento tradizionale di forza della bilancia dei pagamenti americana, diventava così nel 1971 negativo per ben 2,3 miliardi di dollari. Molteplici spiegazioni sono state avanzate in merito al continuo peggioramento della posizione dei pagamenti correnti degli Stati Uniti. È indubbio, per es., che la notevole forza della domanda interna e il lungo periodo di sostenuta espansione ciclica nella seconda metà degli anni Sessanta hanno contribuito a questo processo. Più in generale l'interazione dell'inflazione da domanda e da costi aveva comportato una graduale perdita di competitività dell'economia americana, accentuata peraltro dall'enorme, rapido sviluppo della capacità produttiva nei principali paesi industrializzati, che aveva loro permesso di coprire aree, anche tecnologicamente avanzate, di mercato che erano precedentemente dominate dalla produzione americana. A questi sviluppi aveva peraltro contribuito in misura non indifferente la forte espansione degl'investimenti diretti degli SUA all'estero, stimolati da tassi salariali notevolmente inferiori a quelli interni.

La politica monetaria e finanziaria sostanzialmente espansiva perseguita nella seconda metà degli anni Sessanta finì col minare irrimediabilmente la posizione del dollaro, nonostante una serie di misure amministrative adottate dalle autorità monetarie, consistenti, da un lato, in restrizioni sui deflussi di capitali e, dall'altro, in accorgimenti volti a limitare le domande di conversione in oro delle attività in dollari accumulate dai principali paesi industriali. Queste misure non furono sufficienti a impedire la crisi del mercato dell'oro del marzo 1968, quando a seguito della forte domanda speculativa di oro sul mercato il Pool decideva di astenersi da vendite sul mercato libero dando così origine al doppio mercato dell'oro e sancendo un'inconvertibilità de facto del dollaro. La politica monetaria fortemente restrittiva adottata nel 1969 e il conseguente notevole afflusso di fondi a breve, particolarmente tramite le banche operanti nel mercato dell'eurodollaro, e, nel 1970, la recessione, con il favorevole rimbalzo ciclico sul saldo commerciale, consentivano di rinviare la crisi. La situazione precipitava nel 1971 quando fattori ciclici e monetari crearono condizioni in cui le forze speculative potevano operare accelerando conclusioni oramai inevitabili. Durante i primi mesi del 1971 le banche centrali dei principali paesi industrializzati intervenivano per somme assai considerevoli a difesa del dollaro, senza peraltro riuscire ad arrestare la marea. La situazione diventava insostenibile a maggio: nei primi due giorni lavorativi del mese la Bundesbank, da sola, doveva accumulare riserve al ritmo di un miliardo di dollari al giorno e decideva quindi di chiudere i mercati dei cambi. Il deprezzamento del dollaro nei confronti delle valute più forti poteva soltanto riportare una calma temporanea. Agl'inizi di agosto la fuga dal dollaro riprendeva su scala mondiale e domenica 15 agosto il presidente Nixon annunciò la sospensione della convertibilità del dollaro, imponendo contemporaneamente una sovratassa del 10% sulle principali importazioni negli Stati Uniti. La fluttuazione generalizzata dei cambi che ne seguì ebbe termine solo con gli accordi smithsoniani del 18 dicembre. In base a questi accordi le autorità monetarie dei principali paesi decidevano un riallineamento delle relazioni di cambio. Il dollaro, in particolare, subiva una svalutazione "effettiva", e cioè ponderata nei confronti delle altre valute, pari al 9% rispetto alle parità in vigore al 5 maggio, mentre veniva raccomandato al Congresso di svalutarlo dell'8% rispetto all'oro. La valuta americana rimaneva comunque non convertibile.

Il riallineamento delle parità si proponeva di dare nuovo respiro al sistema dei cambi fissi; gli eventi avrebbero tuttavia mostrato che queste speranze non erano fondate. La svalutazione del dollaro si mostrava troppo esigua rispetto agli squilibri esistenti; inoltre gli effetti di breve periodo della stessa avevano risultati perversi sul saldo commerciale per i ritardi con cui esportazioni e importazioni reagiscono a una nuova configurazione di prezzi relativi. Infine, la politica economica interna degli SUA continuava a dare priorità agli stimoli interni per superare la conseguenza della fase di recessione. In queste condizioni già agl'inizi del 1973 le tensioni sui mercati dei cambi si facevano nuovamente non sopportabili. La Germania, in particolare, nei primi sette giorni lavorativi di febbraio era nuovamente costretta a interventi al ritmo di 1 miliardo di dollari al giorno. Dopo una temporanea chiusura dei mercati dei cambi gli SUA annunciavano un'ulteriore svalutazione del 10% del dollaro il 13 febbraio. La fiducia nel sistema dei cambi fissi era tuttavia ormai svanita, presso il pubblico, ma anche nelle banche centrali che avrebbero dovuto accettare le "regole del gioco" imposte dal sistema di Bretton Woods. Alla riapertura dei mercati dei cambi si riaccendevano quindi nuove forti pressioni speculative sul dollaro. I mercati valutari venivano nuovamente chiusi il 2 marzo per riaprirsi solo il 19 dello stesso mese: dopo una lunga serie di discussioni tra i responsabili delle politiche monetarie dei principali paesi si accettava il nuovo sistema di fluttuazione dei cambi, sia pur sottoposti a interventi discrezionali delle autorità monetarie.

La bilancia dei pagamenti americana subiva naturalmente nel 1974 i contraccolpi dell'aumento del prezzo del petrolio, ma nel 1975 gli effetti congiunti della recessione, della maggiore competitività delle merci americane e dell'interesse dei paesi arabi a investire nel mercato finanziario statunitense, comportavano un forte miglioramento nei pagamenti esteri degli SUA nonostante lo smantellamento delle misure di restrizione sui deflussi di capitali, iniziato nel 1974. Si registrava così un rafforzamento del dollaro, che proseguiva nel 1976, nonostante il nuovo indebolimento delle partite correnti.

Nel 1977 e nel 1978 tuttavia si ripresentavano, acuite, pressioni al ribasso sulla valuta americana, che si deprezzava del 15% nell'arco dei due anni. Il saldo corrente divenuto pesantemente negativo, la mancata attuazione di un'incisiva politica energetica, l'accelerazione dell'inflazione interna determinavano una crisi di fiducia nel dollaro, che poteva essere arrestata solo nel novembre del 1978, a seguito dell'annuncio di una serie di misure intese a sostenere il valore esterno della moneta. Il pacchetto non comprendeva soltanto misure tradizionali di restrizione monetaria e, in prospettiva, fiscale, ma anche la mobilitazione massiccia di risorse finanziarie per l'intervento diretto sui mercati dei cambi, in collaborazione con le autorità monetarie giapponesi, svizzere e tedesche. L'annuncio e l'effettiva utilizzazione di queste risorse hanno rappresentato una modificazione fondamentale nell'atteggiamento di benign neglect sostanzialmente seguito dalle autorità americane nel precedente decennio.

Bibl.: Fondamentali sono i rapporti annuali del presidente (Economic report of the President), e nel bollettino mensile del Federal Reserve Board. Per un'analisi economica approfondita e tecnica, v. gli articoli nelle riviste economiche specializzate: American economic review e Brookings papers on economic activity. Si ricordano anche i seguenti volumi, con ampia bibliografia: M. Friedman, The optimum quantity of money, Londra 1967; E. Denison, Accounting for U.S economic growth, Washington 1974; R. Marston, American monetary policy and the structure of the euro-dollar market, Princeton 1974; Parameters and policies in the U.S. economy, a cura di O. Eckstein, Amsterdam 1976.

Storia. - I problemi emersi nell'ultimo periodo dell'amministrazione Eisenhower avevano posto gli SUA di fronte all'urgenza di nuove scelte politiche. L'alternarsi di aperture coesistenzialistiche e d'improvvisi irrigidimenti caratterizzava l'azione internazionale di Chruščëv; d'altra parte, il tasso d'incremento del reddito nazionale risultava modesto sia rispetto alla crescita dell'economia sovietica negli anni Cinquanta, sia rispetto ai "miracoli economici" dei paesi euro-occidentali. L'esigenza di uscire dalle copdizioni di un equilibrio garantito dagli armamenti, dunque, s'incontrava con la necessità di fronteggiare la crisi dell'occupazione e d'imprimere nuovo slancio all'apparato produttivo. Il triennio di J. F. Kennedy, dal gennaio 1961 al novembre 1963, si contrappose al periodo di Eisenhower per un mutamento di stile alla Casa Bianca. Mentre Eisenhower aveva scelto i suoi aiutanti fra i grandi industriali e uomini d'affari, i consiglieri di Kennedy furono reclutati di preferenza fra intellettuali e professori universitari: così il ministro della Difesa R. S. MacNamara, il consigliere G. Bundy, il ministro della Giustizia R. Kennedy, fratello del presidente. Vaste aspettative di rinnovamento furono suscitate dal programma della "Nuova Frontiera": lotta alla povertà e alla discriminazione razziale, aiuto ai popoli sottosviluppati. Il paese fu portato fuori dalla recessione economica che aveva contrassegnato gli ultimi anni della presidenza Eisenhower. Kennedy ebbe partita vinta contro i magnati dell'acciaio che volevano aumentare i prezzi; si mosse con prudenza per rimettere in moto l'economia, aumentando le spese del governo federale, espandendo il commercio estero e ottenendo un aumento della produzione nazionale senza corrispondente aumento dei prezzi. Ma la disoccupazione continuò a superare il 5% della forza-lavoro globale. La politica estera, d'altra parte, continuò a ispirarsi al principio del "contenimento" dell'espansione comunista nel mondo. Kennedy andò incontro all'insuccesso della Baia dei Porci a Cuba (quando, nell'aprile 1961, un gruppo di esuli tentò con l'aiuto dei servizi americani di costituire nell'isola una testa di ponte per rovesciare il regime rivoluzionario) e assunse la responsabilità dell'impegno diretto americano nel Vietnam. Nell'America del Sud il presidente si fece campione dell'Alleanza per il progresso, un ambizioso piano di ricostruzione accettato alla conferenza di Punta del Este (Uruguay) nell'agosto 1961, quando gli SUA presero l'impegno di erogare a tal fine 20 miliardi di dollari in un decennio; d'altra parte, egli volle l'espulsione del regime castrista dall'Organizzazione degli stati americani e pose in atto un rigido boicottaggio, che finì per avvicinare ancora di più Cuba all'Unione Sovietica. La popolarità acquisita dall'Alleanza per il progresso venne infine compromessa dagli sviluppi della crisi cubana che portò al culmine la tensione con l'URSS, nel dicembre 1962, e si concluse col ritiro delle installazioni missilistiche sovietiche nell'isola. In quell'occasione il governo americano escluse sia l'invasione armata di Cuba che il bombardamento aereo delle rampe, scegliendo invece la "quarantena", cioè il blocco navale dell'isola, e lasciando a Chruščëv il tempo di riflettere e di tornare sui suoi passi. Le navi sovietiche che portavano materiale missilistico a Cuba evitarono lo scontro con la flotta americana, e tornarono indietro. Il primo segretario sovietico, che verosimilmente era stato mosso dall'intenzione di guadagnare posizioni a Cuba per ottenere concessioni sulla questione tedesca, finì per acconsentire alla rimozione dei missili, richiesta da Kennedy.

Nel settore europeo, la riapertura del problema di Berlino da parte di Chruščëv aveva posto in rilievo una varietà di atteggiamenti in seno ai paesi del Patto atlantico: di fronte all'intransigenza del governo di Bonn, appoggiato da de Gaulle, la diplomazia americana si era mostrata disposta ad allacciare trattative e aveva dovuto accettare il fatto compiuto della barriera eretta nella ex capitale tedesca nell'agosto 1961. Un primo frutto concreto della distensione fu colto solo nell'agosto 1963, quando venne firmato a Mosca un accordo per la sospensione parziale degli esperimenti nucleari (v. atomica, non proliferazione, in questa App.). Ma a breve distanza di tempo la vita del giovane presidente fu troncata dall'assassinio di Dallas, che destò profonda emozione nel mondo intero, recando un colpo alle aspettative coesistenziali aperte, con modi e obiettivi diversi, dalle eccezionali personalità di Chruščëv, Giovanni XXIII e dello stesso Kennedy. Anche dopo la pubblicazione del voluminoso rapporto della commissione d'inchiesta presieduta dal giudice E. Warren, che attribuì il delitto a un singolo individuo, molti dubbi sono rimasti circa un possibile complotto con la partecipazione di altri elementi.

La questione negra assunse particolare spicco durante la presidenza di Kennedy. Fin dal 1954 la Corte suprema presieduta dal liberale Warren aveva dato impulso, con la famosa decisione nella causa Brown, al movimento per la desegregazione nelle scuole. Negli anni di Kennedy si assisté a iniziative di vasta risonanza grazie all'attività della NAACP (l'Associazione per il progresso della gente di colore, presieduta dall'abile M. Evers), alla coraggiosa campagna non violenta capitanata dal pastore protestante negro Martin Luther King e alla cooperazione di numerosi volontari bianchi. Furono anni di grandi speranze, contrassegnati però da violente resistenze dei razzisti del Sud. Non c'è dubbio circa le simpatie del presidente e di suo fratello Robert, ministro della Giustizia, per la causa negra. Ma Kennedy dovette muoversi con prudenza per non compromettere altri punti del suo programma destinati allo sviluppo degli stati del Sud: sicché bisogna dire che i progressi fatti dai negri furono dovuti più alla loro crescente forza e organizzazione che al buon volere dei liberali. Vincendo opposizioni anche violente dei razzisti, i Freedom riders, bianchi e negri associati, occuparono i posti riservati ai bianchi nei mezzi di trasporto, nei bar, nelle stazioni di servizio, nei motels. Le lotte per i diritti civili, con la cooperazione dei bianchi, furono tra i fenomeni più significativi di quegli anni. Il movimento dei Freedom riders fu incoraggiato dalla decisione della Corte suprema del 14 maggio 1961 circa la desegregazione nelle stazioni degli autobus. A Montgomery, ove la folla dei bianchi aveva occupato una stazione di autobus, il governo federale dové inviare centinaia di armati a restaurare l'ordine. Nel Mississippi i razzisti ricorsero a centinaia di arresti, utilizzando la polizia di quello stato. Ma il ministero della Giustizia ottenne successi nella lotta per la desegregazione in un buon numero di aeroporti e stazioni. Notevoli successi si ebbero pure nella campagna per togliere le restrizioni al diritto di voto dei negri e per persuaderli a iscriversi nelle liste elettorali. Nel Mississippi si ebbe uno scontro tra razzisti e governo federale allorquando il negro J. Meredith, veterano di guerra, volle iscriversi all'università del Mississippi. Il governatore dello stato Ross Barnett si oppose alle decisioni dei tribunali federali, ma Kennedy rispose inviando circa trentamila uomini dell'esercito e mettendo sotto controllo la guardia nazionale. Una notte di terrore, con due morti e centinaia di feriti, fu il prezzo pagato perché il negro Meredith potesse frequentare l'università, protetto da agenti federali. Il venerdì santo del 1963 M. L. King capeggiò un'imponente dimostrazione, turbata da gravi incidenti, a Birmingham nell'Alabama, ritenuta il principale bastione della supremazia dei bianchi. Anche il governatore dell'Alabama G. Wallace si oppose all'ammissione dei negri nell'università del suo stato; ma dovette cedere quando Kennedy pose sotto controllo federale la guardia nazionale. Quando M. Evers cadde vittima di un attentato, Kennedy sottolineò la gravità della questione negra e chiese al Congresso di approvare la più ampia legge sui diritti civili nella storia del paese, che però solo il suo successore riuscì a condurre in porto, Il 28 agosto 1963 il presidente parlò a una folla di duecentomila persone, riunitasi a Washington per manifestare l'entusiastica approvazione al progetto di legge. Ma nel settembre, a Birmingham, una bomba causò la morte di quattro bambini negri in una chiesa.

Il suo successore, il texano L. B. Johnson, vicepresidente, che aveva fatto le sue prime prove come seguace di F. Roosevelt e giovane funzionario nel Texas negli anni del New Deal, dotato di grande abilità in seno alle Commissioni del Congresso, ottenne nei primi mesi del suo mandato notevoli successi in politica interna. Nel febbraio 1964 egli riuscì a fare approvare dal Congresso una riduzione di tasse di oltre 10 miliardi di dollari, favorendo così un sensibile aumento della produzione nazionale globale e della capacità d'acquisto dei consumatori. La media della fascia povera del paese fu ridotta dal 22% all'11%. Persino un economista conservatore come M. Friedman affermò di essersi convertito alle teorie keynesiane. Ma studi di M. Harrington e di altri attestavano che un quinto della nazione, in buona parte negri ma anche bianchi della regione dei Monti Appalachi, avevano ancora un tenore di vita bassissimo in confronto alla prosperità del resto della popolazione. Una serie di leggi del 1964-65 fornì aiuti a scuole di ogni grado e valse a offrire lavoro specie nelle zone più povere del paese. Johnson lanciò la parola d'ordine della "Grande società", ove la qualità della vita sarebbe stata migliorata per tutti grazie all'istruzione; e quando il partito repubblicano scelse come suo candidato per le elezioni presidenziali del 1964 un reazionario come il senatore B. Goldwater, egli lo sconfisse ottenendo oltre il 60% del voto nazionale e vincendo in tutti gli stati, tranne che nell'Arizona e nei cinque statì del Sud ove prevalevano gli elettori razzisti. Anche la maggioranza di cui Johnson già godeva nelle due Camere fu sensibilmente aumentata, lasciando sperare che gli elementi conservatori dei due partiti non potessero più bloccare le riforme politiche e sociali. Andarono anche in porto i provvedimenti enunciati nel Fair Deal di H. S. Truman, come l'assistenza medica per gli anziani e le sovvenzioni per i ragazzi delle scuole elementari e medie appartenenti a famiglie povere. Furono adottati provvedimenti ecologici e stanziati sussidi per quanti non riuscivano a sostenere le spese di alloggio. In sostanza, grazie a tali misure di carattere sociale, i primi anni della presidenza Johnson rivaleggiarono con quelli del New Deal.

Tuttavia il processo inflazionistico già in atto fu accentuato dal crescente impegno nel Vietnam, che inoltre produsse una spaccatura morale nel paese, difficilmente sanabile, e alienò dagli SUA larghi strati dell'opinione mondiale. Johnson rifiutò il consiglio dei "falchi" estremisti che gli chiedevano l'impiego dell'arma atomica, ma le tecniche poi adottate furono quasi altrettanto distruttive, dai bombardamenti a tappeto con bombe incendiarie, alla distruzione di innumerevoli villaggi, ad atti di crudeltà contro guerriglieri e popolazioni civili che li proteggevano. Johnson si avvalse di una risoluzione delle due Camere, quella detta del Tonchino, basata sull'attacco da parte di unità del Vietnam settentrionale contro navi da guerra degli SUA che procuravano informazioni a uso dei sudvietnamiti (non è chiaro se l'incidente fosse stato provocato dai dirigenti americani) per avere mani libere in qualità di capo delle forze armate per le operazioni nel Vietnam meridionale. Johnson volle applicare la politica di contenimento anche nel Sud-Est asiatico, senza distinguere tra zone geograficamente tanto diverse: egli non tenne conto della mutata situazione mondiale, del contrasto verificatosi tra Russia e Cina, della necessaria distinzione da fare tra zone vitali e non vitali per la sicurezza degli Stati Uniti. Comprendeva solo che la "repubblica imperiale" (secondo l'espressione di R. Aron) non poteva e non doveva cedere nel Vietnam; così il numero delle truppe americane comandate dal generale W. Ch. Westmoreland nel Sud-Est asiatico aumentò progressivamente fino a raggiungere la cifra di mezzo milione di uomini oltre alla flotta e all'aviazione. La guerra nel Vietnam si rivelò costosa in vite umane (varie decine di migliaia di morti) e in danaro, la più costosa dopo la seconda guerra mondiale. L'impegno nel Sud-Est asiatico ebbe ripercussioni negative anche in altri settori: nell'America Meridionale decadde il piano dell'Alleanza per il progresso, in Brasile una dittatura militare si affermò con l'apparente disinteresse americano, nella repubblica dominicana i marines intervennero per prevenire l'andata al potere di un governo progressista. I sondaggi della pubblica opinione mostravano che il presidente e i falchi avevano il consenso della maggioranza del paese; e tuttavia la parte più progressista, i giovani delle università, gl'intellettuali e persino 20 autorevoli senatori come J. W. Fulbright contestarono l'abuso dei poteri presidenziali rispetto al Congresso, e chiesero che venisse posto termine all'intervento americano. Si ebbero disordini nelle università; un gran numero di giovani si sottrasse agli obblighi militari rifugiandosi in Canada e altrove. Ma ciò che persuase finalmente Johnson a mutare rotta fu il successo del generale nordvietnamita Giap nell'offensiva del Tet agl'inizi del 1968, che portò all'occupazione di molti capisaldi sudvietnamiti e minacciò la stessa Saigon. Dopo aver tolto il comando al generale Westmoreland, il 21 marzo, in un drammatico discorso alla televisione, Johnson dichiarò che non avrebbe riproposto la candidatura alle imminenti elezioni presidenziali, e annunciò che avrebbe limitato i bombardamenti aerei alle sole zone meridionali del Vietnam, affidando alle truppe di Saigon le maggiori responsabilità della guerra per consentire un graduale ritiro delle truppe americane. Di lì a poco W. A. Harriman si recò a Parigi per iniziare colloqui coi rappresentanti nordvietnamiti, senza tuttavia ottenere risultati immediati. La guerra del Vietnam provocò disordini in un gran numero di scuole superiori. Un buon numero di professori liberali solidarizzò con gli studenti, ma in alcuni luoghi, come nelle università di Cornell e di Columbia, vi furono interventi della polizia e finanche spargimento di sangue. Gli studenti contestarono i programmi di studio e gl'insegnanti tradizionali. Questa rivolta contro tradizioni culturali secolari rivelò, come in Europa, una buona dose d'improvvisazione, superficialità e spontaneismo; ma nell'opposizione all'impegno americano nel Vietnam, giudicato ingiusto, intellettuali come A. N. Chomsky e P. M. Sweezy si trovarono a fianco degli studenti. Già parecchi anni prima, un economista come J. K. Galbraith aveva contrapposto al modello della "società affluente", basata sul consumismo, un diverso tipo di economia basato sulla pianificazione e sulla precedenza degl'investimenti di utilità sociale.

Nel luglio 1964, vincendo l'ostruzionismo dei razzisti dei due partiti, Johnson riuscì a far approvare, con l'aiuto di H. H. Humphrey, E. Mck. Dirksen e altri, quel vasto disegno di legge sui diritti civili che Kennedy non era riuscito a condurre in porto. Fu dichiarata illegale la discriminazione negli alberghi, motels, ristoranti, stazioni di servizio, stadi e piscine; furono negati sussidi federali a scuole e ospedali che praticavano la discriminazione. Circa l'iscrizione dei negri nelle liste elettorali, ostacolata dai razzisti mediante cosiddette prove di cultura, si stabilì che la frequenza di sei anni di scuola elementare era sufficiente per esercitare il diritto di voto. Neppure questa legge riuscì, tuttavia, a sanare la piaga della discriminazione. M. L. King fu imprigionato in una contea razzista dell'Alabama; quando volle organizzare una dimostrazione nella capitale dello stato, Montgomery, il governatore G. C. Wallace permise che la polizia attaccasse i dimostranti. Il presidente dovette intervenire, mettendo la guardia nazionale dell'Alabama sotto il controllo del governo federale. Con la protezione di funzionari federali, aumentò considerevolmente nel Mississippi e nell'Alabama il numero dei negri che s'iscrissero nelle liste elettorali; intanto la Corte suprema dichiarò incostituzionale il pagamento della tassa per esercitare il diritto di voto, mentre aumentava considerevolmente il numero dei negri ricoprenti cariche pubbliche nelle assemblee locali e statali. Salvo sporadici disordini, sembrava che il movimento per i diritti civili avesse registrato progressi tali da garantire il pacifico avanzamento dei negri nella società americana, allorquando i gravi tumulti avvenuti nel quartiere Watts di Los Angeles, nell'agosto 1964, fecero crollare ogni illusione. I tumulti razziali che in quattro estati consecutive a partire dal 1964 desolarono una quantità di centri americani da Los Angeles a Newark, da Chicago a Detroit, hanno cause molteplici. Sorprese il fatto che esplodessero in centri ove comparativamente le condizioni dei negri non erano delle peggiori; la lotta per i diritti civili aveva dato risultati notevoli, ma la traduzione in atto delle leggi incontrava resistenze mentre i risentimenti accumulati lungo i decenni richiedevano soluzioni immediate. La sfrenata pubblicità televisiva poneva in evidenza i consumi superflui del ceto medio (il 30% della popolazione aveva redditi superiori ai 10.000 dollari l'anno), da cui la popolazione di colore affollata nei ghetti delle città industriali era tuttora esclusa. La rapida decolonizzazione nei paesi dell'Asia e dell'Africa, il sorgere di nuovi stati indipendenti, dava ai negri la coscienza di non essere una minoranza isolata nel mondo. Di fronte al disorientamento dei liberali integrazionisti e della stessa maggioranza di colore, minoranze esasperate cercarono la via della violenza. Nel luglio del 1967 i tumulti di Newark, che durarono cinque giorni, provocarono 26 morti e 1200 feriti; a Detroit, ove pure la popolazione negra godeva di condizioni economiche migliori che in altre regioni, furono lamentati 43 morti, oltre 200 feriti e migliaia di incendi. Mentre negli anni precedenti si era notata una tendenza dei negri verso l'integrazione, leaders come S. Carmichael presero a diffondere, in contrasto con la campagna non violenta di M. L. King, la parola d'ordine del "potere negro" (black power): in luogo della campagna per i diritti civili patrocinata dai liberali bianchi, i negri avrebbero dovuto condurre una loro battaglia specifica, esercitando il diritto di voto per impadronirsi di alcune amministrazioni locali e ricorrendo al boicottaggio per colpire determinati interessi economici; ma soprattutto avrebbero dovuto acquistare coscienza della loro razza, sviluppando una cultura distinta e contrapposta a quella dei bianchi.

Il movimento dei "negri mussulmani" rivendicò la nascita, in territorio statunitense, di uno stato abitato e governato esclusivamente da negri; esso ebbe i suoi profeti in E. Muhammad e Malcolm Little (che passando all'Islam prese, ripudiando il nome imposto ai suoi antenati dai padroni bianchi, il nuovo nome di Malcom X, sotto il quale pubblicò un'importante e fortunata autobiografia), più tardi divisi da una rivalità che fu conclusa solo dalla morte violenta di Malcom X. Dall'ala estrema del movimento del Black power ebbe origine il gruppo delle "pantere nere" (Black panthers), che predicò il ricorso all'azione diretta, all'incendio dei templi del consumismo e al saccheggio. La strategia della non violenza era svalutata da nuovi tragici eventi: J. Meredith, che aveva condotto una marcia non violenta nel Mississippi, fu attaccato e ferito; e il 4 aprile 1968 fu assassinato da un razzista bianco a Memphis nel Tennessee lo stesso Martin Luther King.

Particolare importanza assunsero le elezioni presidenziali del 1968. L'opposizione sempre più decisa degl'intellettuali e degli studenti, i disordini razziali, la crescente inflazione erano altrettanti problemi che Johnson lasciava insoluti. Nei primi mesi dell'anno si presentò e affermò in vari stati il senatore E. Mac Carthy del Minnesota, che per il suo programma di rapida pace nel Vietnam e per la sua personalità d'intellettuale idealista ottenne il concorso di diecine di migliaia di giovani entusiasti e sembrò mettere in pericolo il vicepresidente H. Humphrey, candidato democratico. La sua affermazione si rivelò più tardi un fuoco di paglia, quando R. Kennedy entrò in lizza riscuotendo consensi ancora più entusiastici e successi nelle primarie di vari stati. Ma la corsa alla candidatura fu troncata da un altro delitto: il fratello dell'ex presidente fu anch'egli assassinato, a Los Angeles, da un giovane emigrato giordano. La posizione di Humphrey fu pure minacciata sulla destra dall'affermazione, soprattutto negli stati del Sud, del governatore dell'Alabama G. Wallace, che si presentò con un programma chiaramente razzista. Dopo i disordini razziali che gettarono lo scompiglio nelle file dei liberali integrazionisti, si era avuta nel paese un'ondata di riflusso (white backlash) in vasti strati della popolazione, non esclusi gli operai che avevano raggiunto il benessere e altri elementi del ceto medio, convinti che i negri avessero ottenuto fin troppe concessioni che finivano col gravare pesantemente sui bilanci federali e statali. La coalizione, che durava fin dal tempo di Roosevelt e del New Deal, fra operai, negri e bianchi poveri sembrò doversi incrinare. Ma i risultati elettorali dimostrarono che lo sfaldamento era stato minore del previsto. In campo repubblicano, dopo le sconfitte contro Kennedy, nel 1960, e poi nella gara per il governatorato della California, R. Nixon sembrava un uomo politicamente finito; ma nel 1966 egli aveva avuto un sorprendente recupero, mostrando la sua abilità politica e organizzativa al servizio del suo partito, che aveva riconquistato non pochi seggi al Congresso. Quindi, nella competizione elettorale del 1968, Nixon riuscì ad affermarsi contro i suoi rivali, fra cui l'ultraconservatore R. Reagan governatore della Califomia, e a ottenere la candidatura alla presidenza. Presentatosi come l'erede di Eisenhower, promise di rimarginare le lacerazioni e i contrasti nel paese e di liquidare la guerra nel Vietnam. Fece appello alla "maggioranza silenziosa" che aveva disapprovato gli eccessi dei negri e delle varie avanguardie e che, dopo avere appoggiato la politica di Johnson nel Sud-Est asiatico, chiedeva che l'America uscisse dalla malaugurata avventura vietnamita senza perdere la faccia. La convenzione democratica di Chicago che nominò Humphrey fu contrassegnata da smodate violenze poliziesche contro gli oppositori di sinistra, mentre quella repubblicana a Miami si svolse in una calma sonnolenta. Humphrey fu ostacolato nella sua campagna non solo dal successo iniziale dei rivali Mac Carthy e Kennedy, ma dai consensi raccolti dal razzista G. Wallace nel Sud e altrove. Aveva collaborato con Johnson e non poteva sganciarsi dal presidente, proclamandosi fautore della pace; liberale nella politica interna, non godeva della fiducia dei pacifisti. Uscì assai male dalle primarie, ma ebbe una sorprendente ripresa nelle ultime settimane che precedettero l'elezione, quando, finalmente staccatosi da Johnson, si dichiarò risoluto a porre fine alle ostilità. Nixon risultò vincitore su Humphrey, ma con un margine ristrettissimo del voto popolare, meno dell'i %, benché la vittoria nel collegio elettorale fosse di 301 voti contro 191. Wallace vinse in cinque stati, tutti nel Sud, raccogliendo poco meno di 10 milioni di voti. I democratici conservarono la maggioranza nelle due Camere del Congresso. Analizzando i risultati elettorali si vide che la tradizionale maggioranza rooseveltiana nel partito democratico, benché diminuita, aveva ancora retto. I margini ristretti del successo elettorale e l'esistenza di una maggioranza democratica nel Congresso costrinsero Nixon ad agire con estrema prudenza. Il suo modello doveva essere, secondo qualche consigliere, la politica di Disraeli in Inghilterra, della "democrazia tory"; ma egli doveva raccogliere la pesante eredità di Johnson, assumere la liquidazione dell'affare vietnamita e la lotta all'inflazione che la guerra aveva reso minacciosa. Il suo compito non facile consisteva nel cercare di attirare un buon numero di coloro che avevano votato per Wallace nel Sud, senza apparire troppo conservatore all'elemento liberale che aveva votato per Humphrey. Nixon propose modifiche nelle assicurazioni sociali. Il suo piano di assistenza garantiva alle famiglie prive di reddito un aumento consistente rispetto al passato; stabiliva inoltre che ogni capofamiglia avente diritto a sussidio, eccettuate le madri dei bambini in età prescolastica, dovesse ricevere un addestramento professionale. Sottoposto a critiche da parte degli elementi liberali del Congresso, ancora nel 1972 questo piano non era stato approvato; inoltre le elezioni al Congresso, tenute in quello stesso anno, non recarono variazioni alla composizione delle due Camere. Si registrarono alcuni fatti positivi nel campo ecologico, ma nel fronteggiare l'inflazione la politica di Nixon fallì. Il costo della guerra nel Vietnam presentava due alternative; permettere che l'inflazione continuasse, o tentare di frenarla a costo di vedere aumentare la disoccupazione. Alla "politica dei redditi", suggerita da alcuni economisti, Nixon preferì tagli nel bilancio federale e restrizioni monetarie da parte della banca di emissione; ma l'aumento dei tassi d'interesse mise in difficoltà gl'investitori e vi furono forti ribassi dei titoli quotati in borsa, cui si aggiunsero fallimenti, anche sensazionali. Calò l'indice della produzione globale, diminuì il gettito fiscale e alla fine del 1970 la disoccupazione raggiunse il 6%, mentre i prezzi continuavano a salire. Nominato A. E. Burns alla presidenza della Riserva federale, Nixon sembrò convertirsi a una moderata linea keynesiana; ma neppure questa dette risultati sufficienti visto che nel 1971 i prezzi e la disoccupazione continuarono ad aumentare e, per la prima volta dopo ottant'anni, le importazioni degli SUA superarono le esportazioni. Si ebbe allora un'altra brusca svolta, auspice il nuovo ministro del Tesoro J. Connally. Il 15 agosto del 1971 Nixon annunciò il congelamento dei salari, prezzi e affitti per novanta giorni; richiese diminuzione di tasse per stimolare gli affari, impose una soprattassa su molti prodotti importanti e spianò la via a una svalutazione del dollaro. Rinnegava così la sua politica economica originaria fra le proteste degli operai e dei gruppi liberali, i quali notarono che le categorie a reddito fisso risentivano della crisi, mentre profitti e dividendi non venivano colpiti. Contemporaneamente il presidente, per ovviare al deficit nella bilaancia commerciale, annunciò "temporanei" dazi sulle importazioni e misure equivalenti a una reale svalutazione del dollaro, provocando grave allarme in Europa e in Giappone. Bisognò giungere al luglio del 1972 prima che fosse registrato un aumento della produzione nazionale e una diminuzione dei prezzi.

Più fortunato fu Nixon nella politica estera, mostrando notevole elasticità dovuta anche all'influenza di H. Kissinger, consigliere presidenziale per la politica estera e successivamente ministro degli Esteri. Le visite di Nixon in Cina e nell'Unione Sovietica segnarono una svolta nella politica di un uomo che per il passato si era caratterizzato come anticomunista intransigente. Nel luglio 1971 il dipartimento di stato annunciò che gli SUA non si sarebbero più opposti all'entrata della Cina popolare all'ONU, cosa che avvenne di lì a poco; grande pubblicità fu data alla visita di Nixon a Pechino del febbraio 1972, che servì a migliorare i rapporti tra i due paesi, anche se non fruttò risultati immediati sostanziali. Nel maggio dello stesso anno Nixon si recò a Mosca: a seguito di questa visita fu raggiunto un accordo per migliorare l'accesso a Berlino. Con i russi furono proseguiti i negoziati per la limitazione degli armamenti strategici, congelando gli equilibri raggiunti e rinunciando da ambo le parti ai costosi progetti di costruzione di sistemi difensivi contro eventuali attacchi nucleari. La liquidazione della guerra nel Vietnam si rivelò assai più lunga e difficile del previsto. Nixon aveva promesso il ritiro graduale delle truppe; quando entrò in carica vi era nel Vietnam oltre mezzo milione di uomini e alla vigilia della sua rielezione nel 1972 vi erano rimaste solo alcune diecine di migliaia di soldati oltre alla flotta e all'aviazione. Ma i negoziati di Parigi tra Cabot Lodge e i nordvietnamiti fallirono e seguì una lunga pausa prima che fossero ripresi da H. Kissinger. Nixon si mosse con circospezione per non scontentare sia "i falchi" che le "colombe". Continuarono i bombardamenti massicci, ed è stato calcolato che fu sganciato nel Vietnam nel corso dell'intero conflitto un quantitativo di bombe superiore non solo a quello impiegato in Corea, ma persino a quello contro la Germania nazista. Bisogna dire che, prima dell'affare cambogiano (1970) e laotiano (1971), l'atmosfera di rivolta che aveva contrassegnato gli anni Sessanta era sensibilmente diminuita. La recessione economica costringeva gli studenti a preoccuparsi della ricerca di un lavoro professionale, mentre si diffondeva la persuasione che la protesta violenta era divenuta controproducente e aveva provocato un irrigidimento nelle forze dell'ordine e nell'opinione pubblica. L'invasione della Cambogia fece di nuovo fiammeggiare la rivolta, come all'università di Kent nell'Ohio, ove quattro studenti rimasero uccisi e altri feriti ad opera della forza pubblica. Benché ancora sostenuto dalla maggioranza silenziosa e dagli strati degli operai benestanti, che, secondo i sondaggi della pubblica opinione, mostrarono di appoggiare anche l'iniziativa di minare il porto di Haiphong, la politica di Nixon allarmò gli elementi liberali e pacifisti. Dietro consiglio di Kissinger, sempre più influente, Nixon annunciò di voler promuovere la "vietnamizzazione" del conflitto. Si trattava cioè di mettere in grado le forze sudvietnamite, armate ed equipaggiate dagli SUA, di resistere a quelle del Vietnam settentrionale mentre si provvedeva a un graduale rimpatrio delle truppe americane. Intanto il conflitto era costato altri 15.000 soldati periti nelle risaie del Vietnam. Le conversazioni di Parigi procedevano a rilento, benché, alla vigilia delle elezioni presidenziali del 1972, Nixon annunciasse che la pace era in vista. Viceversa, lo sbarco dei primi astronauti sulla luna, il 16 luglio 1969, aveva prodotto un'enorme impressione: erano stati colti i risultati dei favolosi investimenti nel programma spaziale, iniziati già sotto Kennedy e continuati sotto Johnson, raggiungendo e superando i sovietici che si erano assicurati un vantaggio negli anni di Eisenhower. Nel coro delle voci osannanti non mancarono note di dissenso da parte di quanti, scienziati ed esperti, videro nella sensazionale impresa un'altra tappa nella gara agli armamenti atomici tra le due superpotenze.

Il piano per l'aiuto alle famiglie povere segnò il passo. Quanto si fece in tema di desegregazione scolastica fu dovuto più alle precedenti decisioni della Corte suprema e alle iniziative del governo di Johnson, che alla volontà di Nixon e del suo governo. Sebbene un'inchiesta dimostrasse i progressi economici registrati dai negri, fra gli strati poveri di essi si fece strada l'opinione che il governo di Nixon fosse tendenzialmente il più contrario ai loro interessi dai tempi di Eisenhower in poi. E infatti, in un suo discorso che allarmò i liberali, Nixon non esitò a dire che egli era in una posizione intermedia tra gl'integrazionisti e i segregazionisti: si avvicinavano le elezioni presidenziali del 1972 e Nixon doveva cercare di allargare la sua base elettorale negli stati del Sud, sottraendo voti al futuro candidato dei razzisti Wallace. Il ministro della giustizia J. N. Mitchell, che rappresentava gl'interessi conservatori delle grandi società di Wall Street, convinse Nixon che il segreto per vincere le elezioni del 1972 consisteva nel puntare sui voti dei razzisti del Sud e dei numerosi appartenenti alla "maggioranza silenziosa", trascurando gli elementi liberali e progressisti che guardavano al suo governo con crescente scetticismo e avversione. Nonostante l'attivismo di Kissinger i negoziati di Parigi andavano per le lunghe. L'uccisione di alcuni studenti a Kent fu il segnale di un'ondata di disordini in numerosi collegi universitari e di dimostrazioni pacifiche, culminanti in una marcia convergente su Washington. Confortato da sondaggi nella pubblica opinione, secondo i quali erano state fatte fin troppe concessioni ai negri, Nixon esitò a favorire l'integrazione scolastica mediante il trasporto con automezzi pubblici dei bambini negri nelle scuole; ma fu richiamato all'osservanza della legge da una decisione della Corte suprema, che ribadì la politica integrazionista. Nixon si trovò a sostituire per limiti di età il presidente della Corte suprema, e al posto del liberale Warren nominò il moderato W. E. Burger. Vi erano ben altri quattro posti da ricoprire, ed egli tentò il colpo di formare una Corte di stampo nettamente conservatore per compiacere l'elettorato del Sud; ma per ben due volte i nomi da lui proposti furono respinti dal Senato. Fu uno smacco per il presidente, che dovette accontentarsi di altri candidati meno invisi al Congresso per conservatorismo o per incompetenza. Durante la campagna elettorale Nixon fu avvantaggiato da varie circostanze. Il candidato democratico reazionario Wallace, che aveva mietuto grandi successi nelle primarie, fu gravemente ferito e dovette ritirarsi dalla gara. Proprio per contrapporsi alle tesi oltranziste di Wallace, nella convenzione di Miami i delegati democratici, fra cui numerosi erano i giovani che votavano per la prima volta, scelsero come candidato G. MacGovern del Sud Dakota, un intellettuale progressista con un programma di pace immediata nel Vietnam e di ampie riforme sociali. Ma questi scontentò l'elettorato democratico per alcune strane proposte, una in particolare che fu poi abbandonata, e cioè il regalo da parte del governo di mille dollari a ogni singolo americano dal più povero a Rockefeller; inoltre il suo linguaggio nell'affare del Vietnam apparve eccessivamente disfattista a quanti, fra i democratici, avevano appoggiato la politica di Johnson. Non pochi, quindi, dei voti che nel 1968 erano andati a Humphrey si spostarono, in mancanza di migliori prospettive, sul presidente in carica. Questi, per giunta, a una settimana dalle elezioni fece annunziare da Kissinger che la pace nel Vietnam era in vista. Una notizia di cronaca, che in seguito avrebbe assunto ben altre dimensioni, ebbe scarso rilievo immediato nel clamore della campagna elettorale; elementi della "mafia" filorazzista avevano forzato l'ingresso nel quartier generale del partito democratico, alloggiato nell'edificio chiamato Watergate, per sistemarvi dei microfoni e procurarsi così informazioni sulla strategia avversaria. La vittoria di Nixon, apparentemente strepitosa, fu limitata in realtà da vari elementi negativi: la partecipazione alle urne fu assai ridotta, giacché molti elettori non seppero chi preferire fra i due candidati; la maggioranza nelle due Camere rimase ai democratici, i quali guadagnarono anzi altri due seggi al Senato. Nixon vinse in tutti gli stati tranne che nel Massachusetts e nel District of Columbia, sede del governo federale, abitato in maggioranza da negri; egli ebbe 521 voti del collegio elettorale, contro 17 a Mac Govern, e 45,9 milioni del voto popolare contro 28,4 al competitore. La storica maggioranza rooseveltiana si era questa volta sfaldata; il "solido Sud" storicamente democratico era passato ai repubblicani, e moltitudini di "colletti blu", ossia di operai benestanti, avevano votato per Nixon. Dinanzi alle stravaganze di MacGovern durante la campagna elettorale, persino la centrale sindacale CIO-ALF di G. Meany, invece di suggerire l'appoggio al partito democratico, dichiarò la propria neutralità nella competizione elettorale. Nixon sembrava all'apice della sua fortuna, quando l'affare del Watergate lo portò molto vicino a essere incriminato dal Congresso e lo costrinse a dare le dimissioni (9 agosto 1974).

Nel gennaio 1973, dopo 19 mesi di negoziati, Kissinger e Le Duc Tho firmarono il cessate il fuoco in Indocina. L'evento venne acclamato come "pace con onore". In realtà la maggior potenza mondiale non era riuscita a piegare i nordvietnamiti e i Vietcong, che successivamente avrebbero conquistato la parte meridionale del paese e instaurato una dittatura comunista. Frattanto la fiducia dell'opinione pubblica nelle istituzioni veniva scossa profondamente. Nel mese di maggio milioni di americani seguirono alla televisione le sedute della Commissione d'inchiesta del Senato, che rivelarono una serie di illegalità commesse da alti funzionari governativi: l'irruzione organizzata nel quartier generale democratico, i tentativi di nascondere le proprie responsabilità e altri atti miranti a screditare gli uomini del partito avverso. Nixon cercò di mantenersi in disparte, quasi tutto ciò fosse avvenuto a sua insaputa. Ma gli esecutori diretti denunciarono i mandanti nella cerchia dei collaboratori del presidente. In ottobre si ebbe un colpo di scena quando il giudice A. Cox si rifiutò di obbedire all'ordine del presidente di rinunciare ai nastri su cui erano registrate le conversazioni dello stesso Nixon coi suoi più stretti collaboratori. Nixon ordinò al suo procuratore generale di licenziare Cox; ma anche quegli oppose un rifiuto. Tre alti funzionari che avevano resistito a Nixon furono licenziati. Fu allora che la Camera dei rappresentanti decise un'inchiesta per accertare se vi fossero motivi sufficienti per porre in stato d'accusa il presidente. Nel contempo anche il vicepresidente S. Agnew, vessillifero del programma "legge e ordine", fu costretto a dimettersi perché accusato di corruzione e di frode ai danni del fisco (fu sostituito da G. Ford: 12 ottobre 1973). Intanto procedeva l'inflazione aggravata dalla crisi petrolifera, che fece salire i prezzi del combustibile e di molti altri prodotti. Dopo penose esitazioni, Nixon fu persuaso a dimettersi per evitare di esser posto sotto accusa. Le rivelazioni intorno all'affare Watergate, comprendenti i tentativi d'inquinare la CIA e l'FBI e coinvolgenti la massima carica dello stato, avevano creato un'ondata di sfiducia nelle istituzioni. La pace, nonostante l'attivismo di Kissinger, si rivelava tutt'altro che consolidata, sia in Indocina che nel Medio Oriente. Assunta la successione, Ford conservò Kissinger al ministero degli Esteri e scelse quale vicepresidente N. Rockefeller, la cui nomina fu approvata non senza un'esauriente inchiesta preventiva sulla sua posizione finanziaria e sulla sua vita privata. Il Congresso aveva maturato gravi sospetti sul modo di far politica dell'esecutivo e reclamava una parte maggiore nella direzione degli affari: la vita del governo Ford non si annunciava facile di fronte a un Congresso vigilante e riottoso. Ma si può dire che gli SUA avevano superato una delle crisi costituzionali più gravi della loro storia.

Dopo le dimissioni di Nixon, la successione alla presidenza di G. Ford fu accolta con sollievo. Ma la tregua fra Congresso e presidenza si ruppe in seguito al perdono concesso da Ford per tutti i reati che l'ex presidente poteva aver commesso, e alla restituzione a Nixon dei documenti e dei nastri in contestazione: tali atti furono visti come un affronto alla Commissione per gli affari giudiziari della Camera, che si disponeva a porre sotto accusa Nixon, e sembrarono in contrasto con un provvedimento, emanato da Ford, di limitata clemenza ai disertori nella guerra del Vietnam. Il programma presidenziale di lotta contro l'inflazione si affidò più all'autodisciplina dei cittadini che a misure governative; tuttavia furono operati tagli nelle importazioni di petrolio e fu imposta una sopratassa del 5% alle famiglie i cui redditi superavano i 15.000 dollari annui. Nell'autunno del 1974 la recessione si aggravò e nel dicembre la disoccupazione raggiunse il 7%; seguirono licenziamenti in massa nelle fabbriche di automobili, mentre anche la bilancia dei pagamenti risentiva dell'alto prezzo del petrolio. Gli aspetti psicologici dello scandalo Watergate si ripercossero nelle elezioni al Congresso del 1974, nelle quali i democratici guadagnarono 43 seggi alla Camera, 3 seggi al Senato e 4 posti di governatore; alcuni fra gli esponenti repubblicani più conservatori non furono rieletti. Il Congresso intese riaffermare la propria autorità nei confronti dell'esecutivo, aumentando i poteri del presidente della Camera e infliggendo un colpo al principio dell'anzianità nella partecipazione alle commissioni legislative, nonché alla partecipazione delle stesse persone a commissioni diverse. Fu anche approvata una legge, nel 1973, che dava al presidente ampi poteri per negoziare una riduzione delle tariffe doganali con l'estero; il provvedimento era stato ritardato dalla controversia circa la concessione della clausola della nazione più favorita all'URSS, quando questo paese limitava l'emigrazione di elementi dissidenti, e specie di ebrei che volevano trasferirsi in Israele. Il disegno di legge approvato faceva delle concessioni commerciali a quei paesi socialisti che non limitassero l'emigrazione. La distensione con l'URSS fu rafforzata, invece, in seguito all'incontro di Vladivostok (novembre 1974); Ford e Brežnev stabilirono le linee di un secondo accordo SALT (v. missile, in questa App.), che incontrò tuttavia gravi ostacoli, anche dopo la sostituzione del ministro della Difesa J. R. Schlesinger (duramente critico nei confronti della politica di accordo voluta da Kissinger, ch'egli giudicava pericolosa per la sicurezza degli SUA). Fu comunque negoziato un accordo quinquennale per la vendita all'URSS di un quantitativo di grano fra 6 e 8 milioni di t annue, correlativo all'importazione di petrolio dalla stessa Unione Sovietica. L'avvenimento principale del 1975 nella politica estera fu la fine della guerra in Indocina, durata un decennio. La guerra nel Vietnam del Sud terminò il 30 aprile, quando il governo sudvietnamita si arrese ai comunisti e le truppe del Vietnam settentrionale entrarono a Saigon; poche settimane prima il Congresso aveva respinto la proposta fatta da Ford di aiuti militari e "umanitari" al Vietnam del Sud per un ammontare di circa un miliardo di dollari. Nel Medio Oriente, invece, Kissinger colse un successo, negoziando come mediatore un accordo tra Israele ed Egitto: Israele ritirava le sue truppe da una parte della penisola del Sinai, mentre personale civile americano si recava sul posto a garantire l'esecuzione del piano stabilito. Dopo l'insuccesso in Vietnam, Ford volle assicurare agli alleati, alla conferenza della NATO a Bruxelles, che la potenza americana era intatta. Tornò in Europa nel luglio 1975 per partecipare alla riunione di Helsinki, ove i rappresentanti di 35 stati firmarono l'atto finale della conferenza sulla sicurezza e cooperazione in Europa, che sanciva l'inviolabilità dei confini tra gli stati europei e, al tempo stesso, poneva una serie di questioni relative alla libertà personale e ai diritti umani (v. sicurezza europea, in questa App.). Nel novembre Ford partecipò pure a una conferenza dei sei maggiori paesi industriali, onde fissare i modi di assicurare la ripresa economica e ridurre la disoccupazione. Si discussero pure i metodi per raggiungere la stabilità monetaria e appianare le divergenze tra gli SUA, favorevoli a una continuazione delle fluttuazioni nei cambi, e la Francia, che preferiva tornare a un sistema di rapporti fissi tra le monete dei singoli paesi.

Il nuovo presidente J. E. Carter (v.), di confessione battista, esponente dell'America rurale e primo capo dello stato proveniente dal "profondo Sud", si era affermato in un ambiente segregazionista come campione dei diritti dei negri; quale governatore della Georgia, aveva attuato un programma di riforme, con la riduzione di uffici governativi e l'introduzione di un buon numero di negri nella burocrazia statale. Con venature populistiche aveva insistito nei suoi discorsi sull'importanza dei valori morali, sconfiggendo in Florida il razzista Wallace; in campo repubblicano l'ultraconservatore Reagan non era riuscito ad affermarsi contro il presidente Ford. Sia Ford che Carter avevano commesso errori psicologici nella campagna presidenziale: era stata assai criticata un'intervista concessa da Carter a Playboy, mentre un gran numero di elettori di discendenza europea non aveva perdonato a Ford la sua affermazione sull'inesistenza di un dominio sovietico nell'Europa orientale. Dopo un'abile campagna di 22 mesi da un capo all'altro del paese, Carter era stato nominato a primo scrutinio candidato alla presidenza degli SUA alla Convenzione di New York del Partito democratico, scegliendo come candidato alla vicepresidenza il senatore "liberale" del Minnesota W. F. Mondale. Nelle elezioni del 2 novembre 1976, grazie al massiccio voto dei negri, che avevano votato per il candidato democratico in proporzione di quattro su cinque, Carter otteneva una vittoria di stretta misura (il 51%) sul suo competitore G. R. Ford. In politica estera, la campagna di Carter per i "diritti umani" gli ha valso simpatie fra gli elementi progressisti anche fuori degli SUA. Nel Medio Oriente il governo americano è venuto a contrasto col governo conservatore israeliano di M. Begin e M. Dayan, sicché la missione del ministro degli Esteri C. R. Vance nel 1977 non ha dato risultati apprezzabili. Anche la ripresa economica sembra procedere a un ritmo più lento del previsto.

Assunto il potere il 20 gennaio 1977, Carter svolse subito un'intensa attività. In politica estera, ha inteso interpretare la "distensione" accompagnandola alla difesa dei diritti umani, senza tuttavia ritornare alla guerra fredda. In politica interna, ha cercato di stimolare l'economia e di ridurre la disoccupazione senza aumentare l'inflazione, ponendosi come obiettivi a lungo raggio un piano sanitario nazionale, un piano federale per l'energia, e una riforma del sistema fiscale.

Cominciò concedendo il perdono a coloro che si erano opposti alla coscrizione per la guerra del Vietnam. Si espresse poi a favore dei minimi di salario, e di misure di protezione per i minatori. Fu fautore del riavvicinamento con Cuba e dell'ammissione della Repubblica del Vietnam all'ONU (settembre 1977). Dette pure inizio a un graduale ritiro delle truppe americane dalla Corea e consentì la concessione di visti ai comunisti che desiderassero visitare gli Stati Uniti. Fu inoltre contrario all'introduzione di nuove armi di "valore militare marginale". Personalmente contrario all'aborto, accettò l'opinione liberale della Corte Suprema e si oppose a un emendamento della Costituzione in sostegno del "diritto alla vita". Nel febbraio 1977 Carter inviò al Congresso un bilancio che prevedeva spese per 459 miliardi di dollari ed entrate per 401 miliardi. Promise nel futuro radicali riforme del sistema fiscale e riorganizzazione degli uffici governativi, ma tali piani subirono un rallentamento quando il suo vecchio amico Bert Lance, ministro del Bilancio, fu costretto a dimettersi per le critiche del Congresso alle sue disinvolte manovre finanziarie personali. Per fronteggiare simultaneamente l'inflazione, che quando aveva assunto la carica era intorno al 6%, e la disoccupazione, che si aggirava sull'8%, Carter avrebbe preferito affidarsi a stimoli privati. Ma, dimostratisi questi insufficienti, nell'agosto e settembre 1977 il governo appoggiò un disegno di legge che prevedeva l'intervento governativo. E nell'ottobre il presidente firmò un disegno di legge di aiuto alle città per un totale di 14,7 miliardi di dollari. Carter si mostrò preoccupato per la moltiplicazione sia negli SUA che negli altri paesi di reattori nucleari produttori di plutonio. Alla fine di settembre 1977 furono riprese le conversazioni SALT con i sovietici per il rinnovo del trattato sulla limitazione delle armi strategiche, giunte in porto nel giugno 1979. La deposizione dello Scià e la rivoluzione islamica in Iran segnarono un grosso insuccesso americano sia strategicamente che per gl'interessi petroliferi. Né giovarono l'atteggiamento negativo dell'URSS circa il rispetto degli accordi di Helsinki e l'intransigenza sovietica in materia di diritti civili alla Conferenza di Belgrado. Nella questione della bomba al neutrone, Carter, dopo aver cercato di persuadere gli alleati ad approvarne la costruzione, finì poi per differirne la fabbricazione. Grazie all'abilità mediatrice del presidente si ebbero nel settembre 1978 gli accordi di Camp David che decisero la pace separata tra Egitto e Israele. Sensazionale fu pure la ripresa dei rapporti diplomatici con Pechino, alla fine del 1978, seguiti dalla visita negli SUA del ministro degli Esteri cinese Deng Xsiaoping. Il prestigio di Carter, un po' diminuito nel 1979 soprattutto in conseguenza della politica economica, si è ripreso dopo i fatti dell'Afghānistān (occupazione sovietica, dicembre 1979) e dell'Iran (sequestro di ostaggi all'interno dell'ambasciata americana di Teheran, novembre 1979; lunga disputa diplomatica per la loro liberazione, inverno 1979-80; applicazione di sanzioni economiche all'Iran e boicottaggio delle Olimpiadi, aprile 1980), ma ha anche avuto momenti di caduta col fallito blitz di un commando di marines per liberare gli ostaggi (24-25 aprile 1980); ma appare sicura la sua nomination alle elezioni presidenziali del novembre 1980.

Bibl.: Rassegne di politica estera americana: W. Lafeber, America, Russia and the cold war, 1945-1966, New York 1967; J. Spanier, American foreign policy since world war II, ivi 19683; I. e G. Kolko. The limits of power: the world and United States foreign policy, 1945-1954, ivi 1972. Sulle elezioni presidenziali degli anni 1960, 1964, 1968: Th. H. White, The making of the President, New York 1961, 1965, 1969. Sulle singole presidenze: A. M. Schlesinger jr., A thousand days: John F. Kennedy in the White House, Londra 19672; Th. C. Sorensen, Kennedy, ivi 1967; E. Mazo, S. Hess, President Nixon: a political portrait, ivi 1968; E. F. Goldman, The tragedy of Lyndon Johnson, ivi 1969; R. Evans jr., R.D. Novak, Nixon in the White House: the frustration of power, New York 1971; P. Oorst, Gerald Ford and the future of the presidency, ivi 1974. Sui problemi sociali: R. Berman, America in the sixties. An intellectual history, New York, Londra 1968; J. K. Galbraith, The affluent society, Londra 1969; W. W. Rostow, Politics and stages of growth, New York 1971; R. Aron, République impériale. Les États Unis dans le monde, 1945-1972, Parigi 1973; The unfinished century, a cura di E. Leuchtenburg, New York 1973.

Letteratura. - Se si è potuto affermare che il decennio successivo alla seconda guerra mondiale ha recato, nella letteratura americana, una piena consapevolezza critica di sé stessa, della propria tradizione e della propria peculiare identità (si pensi ai temi dell'innocenza, del rapporto tra individuo e società, della natura e della storia, dell'utopia e dell'Eden), un distacco dal naturalismo degli anni Trenta, si dovrà notare come gli anni Sessanta vedano una crisi violenta d'identità nazionale e spirituale che lascia il suo segno, profondo e irreversibile, anche in letteratura, sostanziandone la ricerca e l'esperimento, anche a livello linguistico.

Si tratta, d'altronde, di una crisi storica cui il mondo intero ha assistito e in cui il mondo intero è stato coinvolto e che non è stato forse improprio definire, in parafrasi della formula "del gigantesco teatro", "il gigantesco e incredibile melodramma dell'America degli anni Sessanta": dalla presidenza Kennedy (inauguratasi, appunto, nel 1960) al trionfo di violenza espresso dalla serie sanguinosa di assassinii politici (J. Kennedy stesso nel 1963, M. L. King nel 1968, R. Kennedy nel medesimo anno); da una nuova, drammatica presa di coscienza della povertà in America, a quella dell'inquinamento ambientale; dalla tragedia storica, ideologica e umana della guerra del Vietnam a un'acuta esplosione delle contraddizioni delle discriminazioni razziali e di sesso. E dal 1964 il Free Speech Movement di Berkeley, del 1970 l'eccidio degli studenti alle università di Kent e di Jackson State durante le proteste di massa contro l'invasione della Cambogia, del 1968 la prima presidenza di R. Nixon, del 1972 Watergate. Nell'ultimo quindicennio, l'America sembra aver vissuto tutto, e il contrario di tutto, a livello di azione politica e a livello di coscienza collettiva. Ne hanno partecipato SDS (Students for a Democratic Society) e Weathermen, Pantere Nere e la controcultura degli hippies, dei freaks, dei crazies.

Al periodo di assestamento culturale del decennio precedente ha fatto seguito lo sbigottimento degli anni Sessanta. Che non si trattasse, peraltro, di uno sbigottimento culturalmente ingenuo e sprovveduto è testimoniato ampiamente da una letteratura fin troppo raffinata ed esasperata nelle sue ricerche, autoanalisi e sperimentalismi, che risponde al segno di violenza dei tempi "vivendo pericolosamente al margine in cui s'incontrano profezia e nostalgia".

Le direzioni che essa prende, sono, come si vedrà, molteplici; dall'apocalittica alla visionaria o profetica, dal black humor a una letteratura, specie teatrale, usata come arma politica, ma tutte si pongono sotto il comune denominatore di un'inventività senza freni. Un'inventività letteraria ipotizzata, teorizzata e perseguita come risposta alla mostruosa inventività della storia. Essa sarà soprattutto stilistica, non solo al livello dell'espressione scritta, ma anche al livello esistenziale nella ricerca di nuovi canali di percezione (le droghe in primissimo luogo). Non a caso, nel ricostruire il clima del periodo, uno dei punti abituali di riferimento è rappresentato da un saggio, molto citato, di P. Roth su Commentary: il Writing American fiction del 1961; "la realtà attuale ridimensiona continuamente il nostro talento. La cultura inventa quasi ogni giorno figure che fanno l'invidia di ogni romanziere".

Saggistica. - Una saggistica estremamente vigile e avvertita segue, e talora anticipa e condiziona, i diversi stadi di questa ricerca in molti modi disperata. E ciò su diversi piani.

Gli anni Cinquanta avevano visto porre alla ribalta il problema dell'individuo in una società massificata da una rivoluzione superindustriale. Si tratta di classici di critica sociologica e socio-economica ben noti anche in Italia. Si ricorderanno The lonely crowd, del 1950 (trad. it., La folla solitaria, Bologna 1956) e Individualism reconsidered del 1964, di D. Riesman; Childhood and society, del 1950 (trad. it., Infanzia e società, Roma 1966), che sarà poi seguito da Identity: Youth and crisis, del 1968 (trad. it., Gioventù e crisi d'identità, Roma 1974), di E. Erikson; Hidden persuasers (New York 1957; trad. it., I persuasori occulti, Torino 1958), di V. Packard; The affluent society (ivi 1958; trad. it., La società opulenta, Milano 1963), di K. Galbraith.

Negli anni Sessanta il canadese M. McLuhan introduce il tema del rapporto tra informazione e conoscenza che dominerà molta parte dei dibattiti del tempo con esasperazioni - e talora anche deformazioni - della sua nota, e allucinata visione dei media come estensione dell'uomo e delle sue possibilità di percezione del reale (Understanding media, Toronto 1964; trad. it., Gli strumenti del comunicare, Milano 1967; Culture is our business, ivi 1970). Quanto alla "profezia" post-marxista di H. Marcuse (v.), essa e la sua influenza diretta o mediata, nel dibattito politico e ideale degli anni Sessanta, hanno avuto, anche in Italia, una precisa stagione di popolarità.

Molti sono del resto i libri-chiave che sembrano marcare e quasi indicare o riassumere i più importanti movimenti di idee dell'ultimo quindicennio: se il libro di T. Leary, The politics of ecstasy (New York 1968) definì, più o meno ambiguamente, i confini, intellettuali e culturali, dell'esperienza psichedelica, è ancora un libro di saggistica, l'ormai classico The feminine mistique di B. Friedan (trad. it., La mistica della femminilità, Milano 1964), con i più tardi e più militanti Sexual politics di K. Millet (New York 1970; trad. it., La politica del sesso, Milano 1971) e The female eunuch di G. Greer (L'eunuco femmina, Milano 1972), a rappresentare il punto di riferimento e di partenza del movimento femminista.

Sono poi i saggi di J. Cage, Silence, A year from monday, New York 1961 (trad. it., Silenzio, Antologia da Silence e A year from monday, Milano 1971), lui stesso noto esponente dell'avanguardia artistica in diversi campi (musica, danza, teatro) a voler offrire, tra l'altro, un punto d'incontro - meno paradossale di quanto non appaia - tra cultura tecnologica e spirito Zen. Allo stesso tempo in cui verrà rivalutata e riutilizzata un'esperienza culturale peculiarmente americana e letteraria, come quelle di H. D. Thoreau.

Ma si pensi soprattutto a The autobiography of Malcolm X (postuma, 1965; trad. it., L'autobiografia di Malcolm X, Torino 1967), che è divenuto in tutto il mondo, illuminato dalla stessa tragedia del leader negro Malcolm Little detto Malcolm X, il manifesto del Black power, per cogliere appieno la solidità del legame che collega, in questi anni, il mondo delle idee e la forma della sua espressione a quello dell'azione e del dibattito culturale e politico. Il senso della letteratura in questi anni, dunque, non può non coincidere, anche per questa ragione (quella, cioè, dell'efficacia e rapidità della diffusione delle idee espresse anche dalla carta stampata nonché del conseguente e relativo gioco di interessi editoriali che la determina o accompagna), in larga misura con la saggistica. Non è un caso che il saggio di uno degli autori più noti di questo periodo, il White negro di N. Mailer, apparso in Advertisement for myself (New York 1959; trad. it., Pubblicità per me stesso, Milano 1962), con il suo eroe della notte americana, sembri poter essere assunto come punto focale di "passaggio" tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta.

Naturalmente la saggistica più propriamente critica è il campo in cui maggiormente si manifesta quel complesso gioco di specchi tra letteratura creativa e riflessione sulla medesima, tra fonte ideologica e chiosa critica, che ci sembra così peculiarmente caratterizzare il periodo di cui ci occupiamo. Ciò che distingue, nella varietà d'indirizzi, questa letteratura critica da quella che l'ha preceduta, è soprattutto l'attenzione precisa, militante, ai temi culturali del momento e la collocazione, quando non l'identificazione, del fatto letterario in quest'ambito. Questa impostazione, sostituendosi a quella della durevole, e autorevole, tradizione di New criticism, non rimane senza conseguenze nel campo delle lettere americane.

Il mito, pertanto, o l'illusione, o la mistificazione di questa militanza critica - a seconda del punto di vista da cui vorrà considerarsi la battaglia - è quella di una neo-avanguardia considerata quale risposta anche ideologica alla crisi di valori della società americana. Da una parte la postulazione della morte della letteratura e della critica e l'affermazione - o la retorica - della letteratura del silenzio, dall'altra la contrapposizione della "nuova sensibilità" letteraria "all'imperialismo dell'iperrazionalità dell'intera tradizione artistica occidentale".

Il termine stesso di "nuova sensibilità" è, d'altronde, invenzione di S. Sontag, uno dei critici più efficaci e dotati di questi anni (Against interpretation and other essays, New York 1967; trad. it., Contro l'interpretazione, Milano 1967), mentre "La letteratura del silenzio" dà il titolo a un altro influente libro di critica (I. Hassan, The literature of silence, New York 1967), e R. Poirer, già direttore di Partisan review, ci ha invece suggerito, in alternativa a una critica d'impostazione umanistica, l'uso di moduli di verifica di modelli più o meno obiettivizzabili di performance o prestazione, letteraria e politica insieme, dei singoli autori (The performing self, New York 1971). Si è detto che questa critica, informatissima, militante e intelligente è anche influente, anzi, sommamente influente.

Non è così facile discernere se un saggio come L'immaginazione illiberale di R. Scholes, impostato sulla non strutturabilità e non razionalizzabilità, e dunque sulla non narrabilità dell'attuale, si limiti ad appoggiare criticamente il relativismo narrativo di un J. Barth o di un K. Vonnegut o diventi in qualche modo fonte ideologica di questo tipo di letteratura che rinunzia all'onniscenza del narratore della tradizione; o quanto, d'altro canto, lo stesso Barth o T. Pynchon debbano al concetto di letteratura ludica di Poirier.

Diviene a questo punto anche doveroso, oltre che abbastanza ovvio, prender nota degli echi - o delle convergenze - di molte tendenze o mode europee, dallo strutturalismo di C. Lévi-Strauss alla fenomenologia di Heidegger, agli apporti della linguistica e della psicolinguistica, dalla semiotica di R. Barthes alla critica della negatività di M. Blanchot, fino agli echi anti-balzacchiani di Robbe-Grillet. Tuttavia negli SUA avviene che la convinzione e l'insistenza sul senso della futilità della cultura letteraria, sulla retorica della fine sustanzi quello che è stato giustamente definito "l'ambiguo radicalismo della controcultura americana d'oggi". Per questo stesso fatto esse assumono un rilievo tutt'affatto diverso nella storia culturale degli anni Sessanta e primi anni Settanta, nonché - di riflesso e per un gioco di interscambi, cui la cultura occidentale del Novecento ci ha abituato - in quella europea.

La vitalità della letteratura critica americana in questi anni è, infine, rappresentata anche in molti altri modi: se l'estrosa militanza critica di L. Fiedler rientra parzialmente nelle linee sopra descritte, la cronaca letteraria di un A. Kazin vi si oppone polemicamente. Né potrà totalmente sottacersi l'importanza della critica accademica (come non potrà assolutamente sottovalutarsi, del resto, l'importanza dei vari centri universitari nell'atteggiarsi, formarsi ed esplodere di importanti movimenti culturali e politici). Valga per tutti nominare, anche come esponenti della scuola storico-culturale degli studi americani, H. Nash Smith e L. Marx.

Muore in questi anni il critico che più di ogni altro aveva seguito e indirizzato quarant'anni di vita letteraria americana: E. Wilson (v.).

La poesia. - Anche in poesia gli anni Quaranta avevano proiettato sul decennio successivo l'ombra delle "restrizioni della benevola tirannide" della Nuova Critica e della presenza di Eliot e Pound (specie nella sua versione imagista). Tale presenza, con e attraverso W. Stevens e H. Crane, si rifletteva nella poesia erudita, formale e compressa di poeti peraltro molto diversi come T. Roethke e R. Eberhart, K. Shapiro e S. Kunitz, R. Jarrell e R. Lowell o R. Wilbur. Tutto ciò era stato soprattutto rilevabile a livello linguistico. È ancora al livello linguistico che il primo nuovo segno della poesia degli anni Sessanta va certamente colto.

Si riscoprono nuove - o vecchie - fonti indigene, da W. Whitman a C. Sandburg, dal Pound dei Cantos a W. C. Williams, e con esse si riscoprono l'idiomatico, l'immediato, il discontinuo di quella "rauca lingua americana" del quotidiano non trasferita in lingua poetica con una semplice operazione naturalistica, ma filtratavi attraverso la complessa mediazione ed elaborazione storica di un mito culturale.

A questo segno squisitamente formale (o anti-formale che dir si voglia) si affiancano segni ideologici dal primo tutt'altro che separati e distinti. In primo luogo, anche in termini cronologici, è la ricerca di una dimensione più genuinamente storica della coscienza che trova espressione anche nella puntualità di un quasi caparbio riferimento all'attuale (talché è stato osservato come talune poesie nate dalla guerra del Vietnam non possano già oggi leggersi senza note a piè di pagina). D'altro lato, in apparente contraddizione con questo tipo di ricerca, si tende a vedere la poesia come correlativo interiore di quel continente intatto e virgineo che ha così a lungo dominato l'immaginazione americana. Le forme "aperte" di questa poesia, queste "nuove frontiere", costituirebbero - in questa dimensione - la compensazione del sogno storico di un'innocenza adamica distrutta dalla violenza e dalla sopraffazione.

Infine il tentativo di riporre proprio nella poesia e nel suo stesso sperimentalismo formale l'ultima spiaggia di un altro mito storico e letterario americano: quello di una democrazia in "rivoluzione celebrata e permanente". Non troppo paradossalmente le stesse fonti paiono alimentare ricerche apparentemente diverse. Sarà Whitman, e la sua robusta inclusività poetica a fornire la chiave così alla poesia aperta alle circostanze storiche come alla poesia compensatoria di una libertà e innocenza - anche spaziali - ormai perdute.

W. C. Williams, un influsso così importante nella poesia degli anni Sessanta da venire talora contro ogni evidenza rinnegato (si veda il caso di L. Ferlinghetti), fornisce quasi ossessivi modelli di dizione poetica e lo schema, anch'esso largamente ripetuto, del collage linguistico, storico e culturale. Il suo Paterson, del resto, è un poemetto non in lingua americana, ma sulla lingua americana, e un altro suo breve poema fornisce la più completa rappresentazione metaforica di una certa visione della poesia americana degli anni Sessanta: una poesia che rifiorisce continuamente dai propri fallimenti appunto come il fiore il cui modello formale si attua nel momento in cui si sveste dei propri petali. E attraverso la metafora, appunto, la poesia diviene anche correlativo della democrazia in rivoluzione permanente.

Tuttavia l'indicare delle tendenze non esime, come si vedrà, da ulteriori distinzioni. L'eccezionalità, drammaticità e varietà delle contraddizioni esplose in America negli anni Sessanta influiscono direttamente sulla ricerca poetica di quegli anni che registra continui ripensamenti, ripiegamenti, frustrazioni e rinunzie, e di questi, non meno che delle conquiste in positivo, si nutre.

Basterà pensare - a un livello estremamente semplice - come l'utilizzazione del "rauco idioma quotidiano", che sembra una costante generalizzata, risulti direttamente inficiata dallo stravolgimento semantico operato dall'uso pubblico di certe parole attraverso i mezzi di comunicazione di massa e come il poeta non possa che esserne consapevole ("Lingua - scriveva D. Levertov - ti erodono come la guerra erode noi"). O basterà pensare come il tentativo d'interiorizzazione poetica dei processi storici abbia spesso cozzato contro un'incoercibile tentazione ad accantonare la memoria storica come insostenibile al livello della coscienza individuale, per darsi conto di come - specie durante e dopo la guerra del Vietnam ("la guerra per noi non è finita neppure quando è stata dichiarata la pace") - si abbiano clamorosi ripiegamenti nel mito e nell'esperienza mistica vissuti, e rappresentati, troppo spesso come fuga.

Non sarà dunque più così facilmente attendibile - nella poesia di questi anni - la ormai famosa distinzione di P. Roth di "visi pallidi" e "pellirosse" (a sua volta ricalcante il nietzschiano apollineo e dionisiaco) o, sul piano formale, quella di R. Lowell tra verso "crudo" e "cotto", o di Ferlinghetti tra poesia della torre eburnea e poesia della strada. Infatti, le mutazioni di gusto che seguono o accompagnano crisi di coscienza collettiva di entità mai prima registrata, consentono solo a grandi linee una distinzione di scuole e tendenze poetiche. All'interno di ciascun gruppo e di ciascuna scuola, accanto all'inevitabile differenziazione determinata dai talenti individuali, vanno sottintese ulteriori differenze, evoluzioni e involuzioni da cogliersi a livello cronologico.

Tutta questa varietà trova una buona rappresentazione, anche storica, nelle antologie che hanno avuto grossi meriti nella cultura poetica del tempo. La ormai famosa The new american poetry di D. Allen (New York 1960) si pone come una sorta di manifesto della "poesia aperta" (da C. Olson al domenicano Brother Antoninus, da R. Duncan a D. Levertov, R. Creeley o A. Ginsberg), rompendo in qualche modo con tutto ciò che era stato fino a quel punto antologizzato. Più eclettiche le antologie che si collocano alla fine degli anni Sessanta (come Naked poetry di S. Berg e R. Mezey del 1969, o Possibilities of poetry di R. Kostelanetz del 1970). Esse fanno posto, senza particolari discriminazioni di gusto, alle varie scuole via via affermatesi: al gruppo del Black Mountain con Olson e Creeley, a quello di New York con J. Ashbery e K. Koch, ai Beats di Ginsberg e Corso, o alla cosiddetta scuola del "Rinascimento di San Francisco" di R. Duncan e L. Ferlinghetti. Con la stessa cattolicità di scelta queste antologie, di fatto, documentano e codificano anche i numerosi interscambi avvenuti tra i vari gruppi.

Cominciamo dalla prima, in ordine di tempo, di queste scuole, ovvero quella raggruppatasi intorno al Black Mountain College nel North Carolina e alla rivista omonima quivi pubblicata. Il gruppo ha una sua precisa collocazione storica che coincide proprio con l'antologia di D. Allen del 1960 in cui riappare il saggio-manifesto di C. Olson (Projective verse), insieme rettore del College sperimentale dal 1951 al 1956 e figura centrale del gruppo. Con questa pubblicazione quanto era stato prodotto ed espresso nel clima abbastanza eccezionale di un gruppo di talenti creativi (che accanto a poeti come i già ricordati Duncan e Creeley, vede musicisti come J. Cage o D. Tudor, coreografi come M. Cunningham, architetti come Buckminster Fuller), fin dai primissimi anni Cinquanta, esce dalla semiclandestinità delle edizioni private e limitate per acquisire peso e portata nazionali.

Projective verse, in apparente contrasto col raffinatissimo bagaglio letterario e culturale del suo autore, e dei suoi seguaci, postulava in stile provocatoriamente rosso la "forma come pura estensione del contenuto" e, soprattutto, la necessità anche tecnica per il poeta di recuperare - a livello metrico e ritmico - "la piena potenza della voce umana". Quella di Olson fu opera certamente seminale, il cui influsso non si limita al gruppo che con Olson lavorò al Black Mountain o ai poeti, pur essi stessi già diversissimi, che vi si unirono dall'esterno, come D. Levertov o P. Blackburn, ma si estende assai oltre motivando un ventaglio amplissimo di ricerche formali e stilistiche.

Lo stesso gruppo Beat di J. Kerouac, A. Ginsberg, G. Corso e W. Burroughs che nasce a New York per poi spostarsi, dapprima saltuariamente e poi più stabilmente, a San Francisco, comincia a pubblicare sulla Black Mountain Review le proprie versioni di "stile aperto" utilizzando le medesime fonti poetiche (da Whitman a Williams) e a esprimere il senso di un'esperienza abbastanza distinta da quella di Olson e dei suoi, in cui dominano sesso, violenza e droga. Appare anzi paradossale che il poeta beat, utilizzando come necessario alla propria rivolta il linguaggio osceno e blasfemo, recuperi così la retorica di cui aveva ritenuto di svestirsi con la sua scelta di dizione poetica. In verità alcune successive fughe mistiche o ecologiche dei beats avrebbero forse già potuto cogliersi nell'ideologia di questa scelta formale. Verso la fine degli anni Cinquanta il crocevia, culturale e geografico, delle molte forme di "poesia aperta", diviene dunque, si è detto, San Francisco. I fogli e riviste che vi si pubblicano, le sue piccole case editrici (City Light Booksm Corinth, Jargon, Tiber, Totem, Auerha, ecc.) insieme con le più note e solide case editrici dell'Est, come Grove Press o New Directions, ospitano le opere di tutti coloro che in questi anni convergeranno nelle piccole librerie e nei caffè della North Shore dove la letteratura si discute ad alta voce e la poesia stessa viene, sempre ad alta voce, letta e declamata.

In un misto di nuova bohème e di manifesto anti-accademico, si sviluppa e svolge quello che verrà denominato il Rinascimento di San Francisco. Ne faranno parte Brother Antoninus nella sua personale e incandescente sintesi di W. Whitman e G. M. Hopkins, molti dei poeti beat, e soprattutto R. Duncan e L. Ferlinghetti. Il primo, associato, come si è visto, col gruppo del Black Mountain, utilizza un'ampia serie di esperienze culturali diverse, in ispecie musicali (Strawinsky, Schönberg o Satie) e mitico-favolistiche in una poesia che, nonostante l'adesione teorica al "verso proiettivo", rimane estremamente controllata, densa e talora manieristica. Quanto al secondo, è nella sua libreria e intorno alla sua casa editrice (City Light), che emergono i fenomeni poetici più importanti.

La poesia di Ferlinghetti accentua e valorizza quelle qualità "orali" della poesia che la letteratura americana aveva, talora invano, perseguito come elemento distintivo e autoctono negli ultimi venti anni (specie in W. C. Williams) piegandole all'espressione vivida, satirica e veemente di un preciso impegno politico e culturale, dell'ira e dell'impotenza che talora lo accompagna. Tuttavia l'emergenza del polo di attrazione sulla costa ovest non mette in ombra totale i grandi centri dell'Est, tradizionalmente il cuore delle avanguardie artistiche americane e, in ispecie, New York. A New York convergeranno tre giovani harvardiani, K. Koch, F. O'Hara e J. Ashbery, per dar vita a un'esperienza diversa di "poesia aperta", un'esperienza che non prescinda dall'apporto surrealista, e particolarmente da quello del teatro dell'assurdo e dai suggerimentì della poesia spaziale e si giovi della fecondità di scambi con la contemporanea arte figurativa di un J. Pollock o di un W. de Kooning.

Ironica, dissacratrice, iper-raffinata, la poesia del gruppo di New York si pone consapevolmente in un ambito e in un'area più squisitamente cosmopolita di quelle in cui muovono gli altri gruppi cui abbiamo fatto cenno e con cui pure i contatti e gli scambi, attraverso gli anni, sono stati molteplici.

Questi i tre gruppi che meglio son sembrati incarnare l'immagine della poesia degli ultimi anni. Accanto a essi, alcuni poeti che - anche nelle loro opere più tarde - continuano con eccellenza una tradizione di formalismo abbastanza vicino alle esperienze degli anni Cinquanta. Muore, per es., nel 1966 D. Schwartz, direttore di Partisan Review, lasciando nel mondo letterario americano il rimpianto per la scomparsa di una grossa personalità poetica che non sembrò mai pienamente espressa, e il vivo ricordo di una personalità umana disperata e inquietante. Oltre al Summer Knowledge del 1959, resta a testimoniarcelo una bella raccolta antologica di critica uscita postuma, nel 1970, Selected essays of D. Schwartz.

Meno controversa ma sempre notevole la personalità di un altro poeta scomparso in questi anni, R. Jarrell, con i suoi The woman at the Washington zoo del 1960 e The lost world del 1965. Ma, soprattutto, vale qui ricordare la raccolta postuma di poesia di Jarrell (Complete poems, New York 1970) che epitomizza egregiamente tutta un'epoca poetica, proprio quella rappresentata da una famosa raccolta antologica curata da Jarrell stesso negli anni Cinquanta, dal significativo titolo di Poetry and the age (New York 1953; trad. it., La poesia di un'epoca, Parma 1956).

Scompare, infine, nel 1963 T. Roethke, poeta della "condizione gioiosa" e della "pura disperazione", dalla sensibilità torturata. Il difficile, e romantico, rapporto tra l'io e il mondo, è espresso da Roethke nella forma dei monologhi interiori, ben inseriti nella tradizione americana, con l'aiuto di una dizione ellittica, colloquiale, colma di echi e di associazioni verbali e culturali e di una vivida capacità di ironia e di humor. The far field, la raccolta poetica che esce nel 1964, rappresenta bene l'ultima fase dell'opera poetica di Roethke.

Per ultimo infine, e per diverse ragioni, abbiamo lasciato R. Lowell, la più complessa e completa, senza alcun dubbio e per generale acclamazione, personalità poetica del dopoguerra, che è mancato, ancora relativamente giovane, nel 1977. Negli ultimi anni, dal 1960 del bellissimo Life studies in poi, la "maniera" di Lowell e i suoi stessi contenuti poetici cambiano in forma piuttosto notevole. Dalla versificazione colta, complessamente strutturata di Land of unlikeness (1944) e di Lord Weary's castle (1946), si passa a una dizione poetica piana, quasi prosastica e tuttavia sottilmente controllata nella sua pacatezza. Dalla tormentata e oscura speranza di redenzione contemporanea all'ugualmente tormentata conversione al cattolicesimo, all'introduzione insieme reale e metaforica dell'angoscia della malattia mentale nella sua poesia di "confessione"., Un'introduzione che in qualche modo essa stessa riesce a essere pacata. Di questo stesso linguaggio poetico, che giunge fino all'essenzialità della sua limpidezza attraverso una rarissima elaborazione formale, Lowell si servirà per affrontare e perfino tentare di organizzare e dominare emotivamente il caos e l'insensatezza politica e morale del contemporaneo, dalla guerra del Vietnam ai duri scontri razziali di Newark, dalle morti di Che Guevara, M. L. King, R. Kennedy al maggio francese. Basterà nominare For the union dead (1964), Near the Ocean del 1967, e quel Notebook: 1967-68 (1969) modello della cosiddetta "poesia confessionale" degli anni Sessanta e Settanta.

La narrativa. - Anche in narrativa, come in poesia, una figura artistica già peraltro emersa negli anni Cinquanta sembra acquistare un rilievo eccezionale. Si tratta di S. Bellow (v.) a cui il conferimento del premio Nobel attribuirà anche maggior fama e prestigio internazionali. La produzione di Bellow è assai impegnativa, anche se non tutta di pari riuscita e livello, con l'apporto di una grande consapevolezza della tradizione culturale e narrativa americana in generale, e di quel particolare filone di essa che è la tradizione ebraica in cui autorevolmente s'inserisce. Bellow affronta l'enigma dell'uomo di fronte ai problemi drammatici di una società di cui come Samler, il protagonista di uno dei suoi ultimi romanzi, non intende più la storia. "Abbiamo sfruttato così a fondo ìl vecchio tema dell'identità personale che non si vede come si potrebbe ancora continuare lungo le stesse linee. Non v'è dubbio che l'essere umano non sia più oggi quel che usava essere un secolo fa. Ma la domanda, peraltro, non cessa di porsi. Egli è pur qualcosa. Che cosa?".

Al servizio di questo grande tema esistenziale, Bellow pone le risorse di uno stile narrativo estremamente lucido e sapiente che, pur riprendendo, come si è accennato, i moduli di una tradizione (quella gloriosa del filone naturalistico americano), v'inserisce i molteplici apporti della cultura e della sensibilità contemporanea insieme con un vivo senso di satira e d'ironia. Come un altro suo protagonista, Augie, Bellow spesso "elude la corruzione, la confusione babilonica, la disperazione nella risata in cui si nasconde il mistero della vita".

Alla cosiddetta "scuola ebraica" e a una tradizione umanistica si collega, accanto a uno scrittore in yiddish, J. B. Singer (v.), anche B. Malamud. Il suo primo romanzo. The natural (New York 1952), incentrato sulla vita di un eroe contemporaneo, un campione di baseball, incontrerà un successo dilazionato. Ad esso faranno seguito The assistant (New York 1957; trad. it., Il commesso, Torino 1962), The magic barrel, ivi 1958 (trad. it., Il barile magico, Torino 1958), e Idiots first, ivi 1963 (trad. it., Prima gli idioti, Torino 1966), con cui comincerà a conoscersi e a imporsi così la peculiare tematica di Malamud, quella di personaggi oppressi e vittime delle circostanze alla ricerca di una qualche forma di rigenerazione e di riscatto personali e morali, come il suo stile ugualmente caratterizzato, con gli echi yiddish, il senso del comico tipico di una tradizione anche orale ebraica, e il ritmo stesso colto sulle cadenze della parlata quotidiana. Seguiranno prove e tentativi diversi fino al The tenants (New York 1971; trad. it., Gli inquilini, Torino 1972), in cui, intorno ai due personaggi centrali, uno ebreo e uno negro e ambedue contemporaneamente vittima e aggressore, Malamud andrà espandendo ulteriormente le possibilità di risonanza simbolica della sua narrativa.

Il filone ebraico continua dunque a tener alta una tradizione che aveva avuto, specie negli anni Trenta, eccellenti precursori in H. Roth, D. Fuchs, N. West e - in minor misura - nello stesso M. Gold. Vi s'inserisce un altro più giovane narratore contemporaneo, P. Roth, che deve l'ampiezza della propria popolarità al successo del romanzo Portnoy's complaint (New York 1969; trad. it., Il lamento di Portnoy, Milano 1970) nonché allo scandalo che esso riuscì a suscitare tra il grosso pubblico con la felice mistura di humor e di erotismo con cui veniva colta e rappresentata la vita di una famiglia ebrea e, in particolar modo, i problematici rapporti tra una madre possessiva e un figlio allegramente ribaldo.

Parlando di filoni, andrà qui notato come l'apporto della letteratura negra non possa prescindere dalle mutate condizioni di consapevolezza socio-culturale della comunità afro-americana in questi anni, dalla sua ira, dalle sue frustrazioni, dalla sua militanza.

A restare in un ambito squisitamente letterario, J. Baldwin ne è, nonostante tutto e nonostante i molti distinguo, anche ideologici, che accompagnano il suo cammino artistico, esponente qualificato. La produzione di Baldwin, che si estende in diversi campi (narrativa, teatro, saggistica), a un tempo partecipa della famosa definizione di R. Wright, del "negro come metafora dell'America" e se ne distacca polemicamente. Nella ricerca e nell'approfondimento della propria contraddittorietà culturale, oltre che in lunghi anni di voluto esilio europeo, Baldwin va affinando la grazia e la potenza del suo stile inconfondibile che contribuisce in modo determinante alla spesso folgorante efficacia della sua opera saggistica.

Quanto a un'altra antica tradizione narrativa americana, quella del sud, con l'uscita di scena di W. Faulkner, essa sopravvive eccellentemente, negli anni Sessanta, nell'opera ben più che sudista e regionale di un R. Penn Warren, e nel realismo gotico di scrittrici come C. McCullers e F. O' Connor.

È tuttavia con N. Mailer, di gran lunga lo scrittore più "personaggio" di questa nostra epoca (non è certo un caso se egli intitola Advertisement for myself, come si è visto, il suo volume del 1959), che si arriva, al di fuori dell'area sperimentalista, a un tentativo di allargamento senza precedenti della narrativa nel reportage storico (The armies of the night, New York 1968; trad. it., Le armate della notte, Milano 1968; A fire on the moon, Boston 1970; trad. it., Un fuoco sulla luna, Milano 1971).

Mailer è personaggio volutamente irritante e inquietante nel suo consapevole (ma non in senso limitatamente romantico) ruolo pubblico di protagonista-antagonista di una realtà americana storicamente percepita come coacervo di tutte le frammentazioni e di tutte le contraddizioni; ma la critica è concorde nel riconoscere che non è nel personaggio - pur inscindibile, anche ideologicamente e al livello di dichiarazione poetica, dall'opera letteraria - che il valore della presenza di Mailer si esaurisce.

La stessa varietà e versatilità di essa, dai primi romanzi neonaturalistici alla reinvenzione dei fatti storici di Miami and the siege of Chicago (New York 1968; trad. it., Miami e l'assedio di Chicago, Milano 1969) forniscono un'impressionante struttura di metafore politico letterarie, di cui è ormai in qualche modo intessuta la nostra apprensione della realtà americana contemporanea: si pensi all'orrore delle immagini di cancro e di peste, all'ossessività delle metafore del sesso con cui si rendono realtà e mali, a loro volta insieme reali e metaforici (totalitarismo, devastazione, paranoia) ovvero, infine, all'"America come mistero e follia del potere, come tempio gelido e spettrale di ogni schizofrenia". Il tentativo costante e rabbioso essendo quello di discostare sempre più la propria opera dalla "letteratura", di approfondire - nella sua formula generosa anche se talora rudimentale - il ruolo dell'artista-profeta in grado di meglio intuire, proprio in quanto artista, i problemi della società in cui è immerso e della sua organizzazione, tagliando alle sue spalle i ponti della memoria personale.

A dispetto del rilievo di alcune delle personalità di cui abbiamo parlato, peraltro, esse non esaurirebbero appieno o tantomeno rappresenterebbero il clima letterario predominante degli anni di cui ci stiamo occupando. Ancora con Mailer siamo in un certo senso nell'ambito di una visione relativamente tradizionale della letteratura come aspirazione alla verità e tuttora moventesi su piani da cui non siano esclusi i valori umani, siamo ancora lontani dalla postulazione e pratica dell'anti-arte da cui muove, invece, la grande maggioranza degl'intellettuali e dei narratori di questi anni.

Il movimento post-modernista, o movimento dell'utopia negativa, s'identificherà in un credo anti-realistico che privilegerà "le qualità saggistiche" del romanzo, tenderà "alla formula del metaromanzo", e segnerà la fortuna di "una fantascienza sempre più ideologizzata". Da ciò, peraltro, una fertilità di produzione narrativa che è stata giudicata tra le più ricche degli Stati Uniti. Da ciò anche e, soprattutto, in narrativa non meno che in poesia, la tensione verso la reinvenzione di moduli linguistici i quali tra l'altro riescano, attraverso la loro stessa inventività, a sfuggire alla "manipolazione, controllo e asservimento" delle onnipotenti strutture del potere.

Emblematico di queste linee di ricerca e del suo tempo è J. Barth, altra figura di grande rilievo il cui "nichilismo comico", sospeso come vuole essere in un'atemporalità totale che escluda ogni scelta, si colloca all'estremo opposto rispetto alla ricerca narrativa di Bellow. Con Barth l'interesse del narrare si sposta sempre più decisamente dal racconto ai suoi strumenti, dalle intenzioni anche vagamente contenutistiche alla struttura. Ennesima riedizione di antieroe moderno, il suo personaggio è maschera spezzettata che testimonia il relativismo di un universo di consecutivi e concentrici travestimenti e parodie. Il burlesco in cui è immerso e di cui si riveste impedisce peraltro al lettore italiano di leggerlo in chiave pirandelliana, se non come soluzione estrema di un gioco di cubismo letterario di cui anche Pirandello - inconsapevolmente - sia tappa. Sebbene Barth desideri personalmente rivendicare una sua collocazione letteraria in una tradizione di ampio - e aperto - respiro: gli autori delle Mille e una notte, Boccaccio, Rabelais, Cervantes e Sterne, tutta la critica concordemente e correttamente colloca la sua ascendenza e parentela letteraria in un'area assai più vicina, quella della letteratura del silenzio di Borges e S. Beckett, in una particolare versione che riveste d'ilarità quando non di frivolezza anche la più truculenta delle tragedie.

"Per me Senso e Nonsenso - afferma il suo Giles ragazzo-capra (Giles goat-boy, or the revised New Syllabus, New York 1966; trad. it., Giles, ragazzo-capra, o Il Nuovo Sillabo riveduto, Milano 1972) - hanno perduto ogni significato una notte di dodici anni e quattro mesi fa, nella pancia di WESCAC" (varrà ricordare che WESCAC è il mostruoso computer nel cui ventre Giles e l'amata Anastasia riescono a realizzare la propria esistenza).

Con Lost in the funhouse (New York 1968; trad. it., La casa dell'allegria, Milano 1974), il racconto tende a consistere di sempre meno parole, al limite tendendo a "scrivere cose di una sola parola". Il linguaggio tecnologico e le sue voci (nastri magnetici, altoparlanti, ecc.) da qui in poi s'inseriranno sempre più prepotentemente nell'universo di concentriche parentesi quadre in cui va costringendosi, ed esaurendosi, il rapporto di Barth narratore col mondo, in cui va paradossalmente consumandosi la sua residua fiducia nel linguaggio come fonte di conoscenza.

La letteratura dell'esaurimento è rappresentata anche da scrittori più giovani ancora di Barth, come T. Pynchon e D. Barthelme, i cui anti-racconti sono esasperate parodie degli elementi tradizionali della narrazione e si offrono come paradigmi di un possibile diverso ordine dell'esistenza, al momento stesso in cui il loro "allegro nichilismo", la loro "comicità nera" esprimono con particolare lucidità la paura di aver perso il controllo della propria vita.

In diverso modo il discorso, anche formalmente, prosegue nel filone fantascientifico. Se con I. Asimov, e in ispecie con alcune poetiche narrazioni di R. Bradbury, la fantascienza può ancora definirsi, nelle parole dello stesso Asimov, "quella branca letteraria che tratta di una società fittizia che differisce dalla nostra solo in virtù della natura e delle dimensioni del suo sviluppo tecnologico", e rappresentare in qualche modo l'espressione di un sogno collettivo, con K. Vonnegut i lineamenti del rapporto col reale si sfanno e si deformano definitivamente e la stessa narrazione fantascientifica assumerà dimensioni e risonanze diverse.

La visione apocalittica di Vonnegut trova piena espressione soprattutto nella trilogia The sirens of Titan (New York 1959; trad. it., Le sirene di Titano, Piacenza 1966); Cat's cradle (ivi 1963; trad. it., Ghiaccio-nove, Milano 1968) e soprattutto il più famoso Slaughterhouse-Five (ivi 1969; trad. it., Mattatoio N. 5, Milano 1972). È con la commedia nera più e meglio che con la satira che Vonnegut esprime "la propria ira, la propria compassione e il proprio senso di colpa di vivo in un regno di morte". Tuttavia dacché l'orrore della realtà, in ispecie della guerra, scoraggia "la gente a farsi personaggio a tutto tondo" e la narrativa non può più disporre di paradigmi positivi e negativi su cui basare la propria dialettica interna, anche per Vonnegut il disegno strutturale del racconto si fa personaggio, e personaggio centrale del narrare.

Non stupisce, dunque, che alla fine degli anni Sessanta anche i giovani della contro-cultura scoprano il cinquantenne Vonnegut e decretino ai suoi romanzi un successo di cui lo scrittore stesso rimase sbalordito. L'autonomia del mondo inventato sul mondo reale è la grande, e ambigua, seduzione di questi anni con l'illusorio corollario di una negatività formale, di una rivoluzione del linguaggio che rappresenti non il segno, ma la sostanza stessa di un mutamento profondo di quei valori americani in questi anni - talora con retorica rovesciata - totalmente contestati.

Appena si passi a parlare di controcultura e di alienazione, la mente non potrà che riportarsi al movimento beat, alla sua talora velleitaria ma eloquente ribellione metafisica (con una composita compagnia di Cristo, Budda, Thoreau e Whitman sullo sfondo), come essa si esprime non soltanto nel lontano, jazzistico e vitalistico J. Kerouac di On the road (New York 1957; trad. it., Sulla strada, Milano 1959), o dei più recenti The Subterraneans (ivi 1958; trad. it., I sotterranei, Milano 1965) e Big Sur (ivi 1962; trad. it., Big Sur, Milano 1966), ma anche nelle più estreme propaggini della cultura hipster, che esaspera i motivi del ribellismo metafisico e riveste di grottesco e di orrore il suo mondo creato. Il W. Burroughs di Naked lunch (trad. it., Il pasto nudo, Milano 1964) e, più recentemente, di Nova Express (New York 1964; trad. it., Nova Express, Milano 1967) e di The wild boys (New York 1971; trad. it., Ragazzi selvaggi, Milano 1973) colloca così il suo alienato paesaggio lunare di fredda violenza e perversione a metà strada tra fantascienza, esperienza beat e commedia nera (da cui, a differenza della controcultura dei beats, quella di Burroughs mutua un humor allucinato e sconvolgente).

In questo panorama non mancano voci anche formalmente meno estreme, come quella della satira disseccata, ma fondamentalmente "integrata", di J. Updike e dei suoi uomini-coniglio imbrigliati nei propri squallidi coinvolgimenti sessuali verso cui - nell'apparente superficiale disprezzo - va la nascosta, umana simpatia e complicità dell'autore, o di un libro come Tbe confessions of Nat Turner (New York 1967; trad. it., Le confessioni di Nat Turner, Torino 1969), di W. Styron, che ripropone una "meditazione sulla storia" di una rivolta di schiavi negri del 19° secolo. (In Europa, e in ispecie in Italia, trova maggior credito un libro precedente di Styron stesso, Set this house in fire [New York 1960; trad. it., E questa casa diede alle fiamme, Torino 1964], in cui i temi dell'alienazione e della libertà vengono posti in termini genericamente esistenzialistici).

Ma non v'è dubbio che sono soprattutto le voci estreme a dare tono e colore al clima letterario degli anni che partono dal 1960. Con queste voci una letteratura, pur carica di allusioni a una precisa realtà storica, si sottrae alla storia nell'ambizione di farsi storia essa stessa.

Teatro. - Agl'inizi degli anni Sessanta la scena teatrale a Broadway è ancora dominata dal sensazionalismo decadente di T. Williams (si veda Orpheus descending del 1957 [trad. it., La calata di Orfeo, in T. Williams, Teatro, Torino 1963], Suddenly last summer, dello stesso anno, Bird of Youth del 1969, The night of the iguana, del 1961 [trad. it., La notte dell'iguana, Torino 1965], The milk train doesnt stop here anymore, del 1963, molti dei quali ebbero grossi successi anche nella riduzione cinematografica) e dagli echi degli ultimi successi di A. Miller, in particolare da A view jrom the bridge (trad. it., Uno sguardo dal ponte, Torino 1967), scritto e rappresentato nel 1955-57. Dopo nove anni di silenzio in cui di Miller, sposatosi nel frattempo con un mito popolare vivente come M. Monroe e in seguito divorziatosi anche da lei, si occuparono, e non poco, anche le cronache mondane, il drammaturgo tornerà alla ribalta con un dramma autobiografico e introspettivo, After the fall (trad. it., Dopo la caduta, Torino 1964), per l'appunto del 1964, una rielaborazione della vita e della morte di Marilyn accolta con umori ineguali da pubblico e critica.

Nel 1959, intanto, vengono prodotti The connection di J. Gelber e The zoo story di E. Albee, e con essi si fa strada una sorta di nouvelle vague teatrale americana, che trova dapprima spazio sui palcoscenici off-Broadway, fuori, cioè, dai circuiti commerciali del teatro americano e dalla stessa fisica zona di Broadway dove la maggior parte dei grandi teatri si raggruppa, al Greenwich Village ma anche in altre "periferie" di Manhattan, e che risente della riscoperta europea del teatro dell'assurdo e della crudeltà.

Gli echi di questa tradizione teatrale sono chiaramente percepibili in E. Albee la cui prima opera, appunto The zoo story (trad. it., Storia dello zoo, in Il sogno americano e altre commedie, Milano 1963), respinta da Broadway, aprirà addirittura a Berlino per trasferirsi l'anno successivo, in cartellone con Beckett, al Provincetown Playhouse off-Broadway.

Il più noto dei drammi di Albee è anche il suo primo lavoro in più atti, Who's afraid of Virginia Woolf? (Chi ha paura di Virginia Woolf?, Milano 1963) del 1962, provvisto di un fortissimo dialogo (il senso della lingua è certamente il meglio di Albee). In esso quattro personaggi chiusi in un salotto medio-borghese si distruggono, distruggendo con sé stessi, meglio di quanto Albee non fosse riuscito a fare in un dramma precedente (The american dream, del 1961), il "sogno americano". Tiny Alice, del 1965, con il suo ambiguo simbolismo, A delicate balance, del 1966, Everything in the garden, del 1968, continueranno a rappresentare, in forma drammaticamente tradizionale, la distruttività del reale, l'ironica dignità del fallimento.

Ma il meglio del teatro americano di questi anni è senza dubbio da cogliersi al livello delle messe in scena (v. regia; teatro). Vanno ricordati il Living Theatre di J. Beck e J. Malina, l'Artists' Theatre di H. Machiz e, accanto a questi, il Phoenix, il Cherry Lane, il Theater de Lys.

Sarà il Living Theatre a mettere in scena The connection di J. Gelber, nel 1959 (trad. it., Il contatto, Milano 1963): un'oscura improvvisazione drammatica con echi non solo di Beckett ma anche di Pirandello, che tende a distruggere l'antinomia tra pubblico e attori, riuscendo a provocare e offendere, anche mercé la voluta oscenità del suo linguaggio, uditorio e critica. Sarà la costanza della compagnia a imporlo infine stabilmente.

Deludenti, finora, le sue opere successive. Interessanti rimangono ancora The prodigal e Gallows humor (1961), le tragicommedie di J. Richardson (trad. it., Risate sul patibolo, in Nuovo teatro americano, Milano 1963), o l'excursus di K. H. Brown nell'esperienza allucinante della pura follia di un potere assoluto quale si manifesta in un baraccamento di marines (The brig, 1964; trad it., La prigione, Torino 1967).

A un altro livello, ma con abile uso degli elementi della commedia nera e della parodia, muove A. Kopit con Oh dad, poor dad, mama's hung you in the closet and I'm feeling so sad (1960; trad. it., Oh papà, povero papà, la mamma ti ha appeso nell'armadio e io mi sento tanto triste, in Nuovo teatro americano, Milano 1963), messo in scena e diretto da J. Robbins. Com'era, d'altronde, inevitabile, verso la metà degli anni Sessanta anche i teatrini off-Broadway apparvero troppo amalgamati dal sistema. Nacque così un teatro ancor più informale, iconoclasta e "periferico", l'OOB (Off-Off-Broadway) dei piccoli caffè, ristoranti, vecchie chiese abbandonate, dove è di scena l'improvvisazione e lo spontaneismo. Nel clima di off-off-Broadway ma anche, non inspiegabilmente, sui palcoscenici europei si affermano le esperienze di molti giovani drammaturghi (per es. P. Foster e J.-C. Van Itallie).

Agli happenings, spesso tutt'altro che improvvisati, partecipano pittori e musicisti. Alla più remota lezione del dada si affianca quella di compositori contemporanei come M. Duchamp e J. Cage.

Abbiamo infine, in questi anni, un teatro negro militante. Dalle opere di J. Baldwin (The Amer corner, del 1968; Blues for Mr. Charlie, del 1964; trad. it., Blues per l'uomo bianco, Milano 1965), in cui la protesta politica si cala ancora in moduli drammaticamente convenzionali, alla più violenta milizia drammatica e politica di LeRoi Jones, ovvero I. Amir Baraka, per cui diviene diminutivo persino considerare il teatro negro come arma di protesta (in tal modo comunque postulando la presenza incombente di un uditorio bianco), il teatro viene comunque a porsi come modo privilegiato attraverso cui il negro possa impossessarsi della propria identità culturale (The toilet, 1963; Dutchman, 1964; The slave, 1964; Slaveship, 1967; trad. it., Il predicatore morto, Milano 1968).

Nella anche troppo facile contrapposizione tra la ricca, contraddittoria e ambigua scena letteraria degli anni Sessanta e primi anni Settanta e quella della decade che li precedeva, sembrano cadere definitivamente, si è detto, i miti o temi portanti della tradizione letteraria americana. Sarebbe forse meglio dire che tali tematiche, più che scomparire, vengono a essere ribaltate e stravolte.

Si è già parlato, specie in sede di produzione poetica, delle particolari rielaborazioni del grande tema dell'innocenza americana; ora, a considerare l'altro mito costante che di esso fa parte, quello della natura ristoratrice, ne ritroveremo l'amara parodia nell'atroce Deliverance, il romanzo di un eccellente poeta come J. Dickey. In esso si rappresenta una natura totalmente suburbana e diminuita, una natura ormai partecipe della "cruda aggressività mascolina" che L. Marx associa, nella tradizione americana, alla macchina. Il successo della riduzione televisiva del romanzo non è senza significato.

Quanto al One flew over the cuckoo's nest di K. Kesey (Londra 1962; trad. it., Qualcuno volò sul nido del cuculo, Milano 1975) esso, come ha visto L. Fiedler, fa giustizia sommaria di un altro grande mito letterario americano, quello della fuga, della promessa dell'Ovest, del nobile selvaggio: le droghe e la follia appaiono ormai gli unici territori inesplorati verso cui il nuovo americano può fuggire. Anche il libro di Kesey ha avuto una fortunata traduzione cinematografica ad opera di M. Forman (1975). In questo modo, paradossalmente (ma non troppo) la letteratura americana, distruggendo rabbiosamente le proprie radici ideologiche, reincontra il grosso pubblico.

Bibl.: Opere di carattere generale: Publications of Modern Language Association of America (PMLA), supplementi bibliografici annuali, New York dal 1923 a oggi; L. Leary, Articles on American literature, 1900-1950, Durham (North Carolina) 1954; M. Cowley, Criters at work, New York 1958; Contemporary authors, a cura di C. D. Kinsman, M. A. Tennenhouse, Detroit dal 1962 a oggi; C. Gohdes, Bibliographical guide to the study of the litearture of the US, Durham (North Carolina) 1963; Writers in revolt, a cura di T. Southern, R. Seaver, A. Trocchi, Berkeley (Calif.) 1963; N. Mailer, Cannibals and christians, New York 1964; S. E. Hyman, Standards: a chronicle of books for our time, ivi 1968; The new American arts, a cura di R. Kostelanetz, ivi 1967; L. Leary, Articles on American literature, 1950-1967, Durham (North Carolina) 1970; C. H. Nilon, Bibliography of bibliographies in American literature, New York-Londra 1970; H. M. Jones, R. M. Ludwig, Guide to American literature and its background, Cambridge (Massachusetts) 1972; J. W. Aldridge, The devil in the fire: retrospective essays on American literature and culture, 1951-1971, New York 1972; I. Hassan, Contemporary American literature, ivi 1973; A. Lombardo, Il diavolo nel manoscritto, Milano 1974.

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Teatro: A. S. Downer, Recent American drama, Minneapolis 1961; G. Weales, American drama since world war II, New York 1961; J. Price, The Off-Broadway Theatre, ivi 1962; M. McCarthy, Teatre chronicles, 1937-1962, ivi 1963; H. Blau, The impossible theater, ivi 1964; F. Lumley, New trends in 20th century drama, ivi 1965; H. Clurman, The naked image: observations in the modern theatre, ivi 1966; L. Mitchell, Black drama: the story of the American negro in the theatre, ivi 1967; C. W. E. Bigsby, Confrontation and commitment: a study of contemporary American drama, 1950-1966, Kansan City 1968; M. Gottfried, A theater divided: the postwar American stage, Boston 1968; R. Brustein, The third theater, New York 1969; G. Weales, The jumping-off place: American drama in the 1960's, ivi 1969; R. Gilman, Common and uncommon masks: writings on theatre, 1961-70, ivi 1971.

Architettura e Urbanistica. - Gli anni Sessanta non segnano notevoli modificazioni nel trend di sviluppo edilizio della città e del territorio: procede l'espansione dei suburbi con un'urbanizzazione disordinata della campagna; crescono i grattacieli nelle zone centrali destinate alle attività terziarie; continua il degrado delle "zone grige" dei vecchi quartieri, saltuariamente investite da limitati interventi di ristrutturazione (Urban Renewal) che, di fatto, non risolvono e spesso aggravano i problemi residenziali. Vi è, invece, nel linguaggio architettonico una notevole svolta, attuata dalle ricerche più avanzate, i cui sintomi si cominciano a sentire verso la fine degli anni Cinquanta. Si tratta di una reazione alle fredde stereometrie e all'alto produttivismo della maniera di L. Mies van der Rohe. È l'opera di questo tedesco, che dirige l'Istituto di tecnologia dell'Illinois, il modello essenziale per l'edilizia commerciale e direzionale del dopoguerra; un modello che esprime i suoi punti d'arrivo con il Seagram's Building di New York (1958) e il Federal Court Building di Chicago (1965): prismi di cristallo che dissimulano ogni diversa funzione in essi ospitata, chiusi da una guaina che risulta dalla ripetizione ritmica e indifferenziata dell'elemento finestra. Elemento standardizzato che, nel caso delle opere di Mies, è studiato con precisione da orefice; e nei casi correnti è un comune prodotto di serie (Curtain Wall).

Tra l'altissimo livello qualitativo di Mies e la prassi più rozza della speculazione, s'inserisce un livello intermedio, corrispondente ai grandi studi di progettazione coordinata (per es., L. Skidmore, N. A. Owings e J. Merrill, con sede a New York, San Francisco e Chicago), con edifici di qualità elevata prodotti nel quadro di un'eccezionale efficienza organizzativa. Sono questi studi, responsabili del volto delle cities americane, a registrare e confermare la svolta linguistica degli anni Sessanta, i cui precedenti possono essere individuati, fin dal 1956-58, in alcune opere di Ph. Johnson (varie versioni del progetto per il Lincoln Center di New York) e di E. Saarinen (Ambasciata SUA a Londra, Terminal TWA a Idlewild); ma soprattutto in tutta l'opera di L. Kahn, l'architetto èstone che si pone in netta alternativa alla scuola miesiana, già dal 1951-53, con la Galleria d'arte dell'università di Yale; e, intorno al 1960, con i laboratori Richards e i dormitori Bryn Mawr in Filadelfia. L'opera di Kahn, che non avrà presa sulla metropoli americana, e nell'ultimo periodo prima della sua morte (1972) si svilupperà nel Terzo Mondo, testimonia una nuova fiducia "illuministica", per l'architettura, di risalire agli eterni valori del classicismo e della geometria; atteggiamento nettamente controcorrente, rispetto al pragmatismo produttivistico dello stile internazionale, che avrà gran forza didattica e séguito tra i giovani. Accanto a Kahn, su quello che è stato chiamato "l'asse Filadelfia-Yale", dobbiamo citare P. Rudolph, diverso, per la metodologia progettuale dinamica e anticlassica, ma altrettanto orientato verso una radicale revisione dello stile razionalista per una forma di nuova monumentalità (Scuola d'arte di Yale, 1962; Government Center di Boston, 1963; oltre ai progetti per New York: Lower Manhattan Expressway e Graphic Art Center, 1967). Altri nomi di questa postulata rinascita dell'architettura "d'immagine" sono I. M. Pei, R. Giurgola, V. Lundy, J. Johansen, K. Roche, B. Goldberg; figure tutte diverse tra loro.

All'enfasi kahniana, fa seguito una reazione che matura negli anni settanta, ma ha origine nel decennio precedente: il libro di R. Venturi, Complexity and contradditions in architecture del 1966, che un critico come V. Scully non esita ad accostare, nell'importanza, al Vers une architecture di Le Corbusier, è una reazione scettica e "americana" al richiamo all'ordine e al culturalismo totalizzante di L. Kahn. Venturi assume le contraddizioni della realtà e le esprime in architettura come coesistenza di opposti (Guild House di Filadelfia, 1963), secondo un atteggiamento intellettuale che si svilupperà in pura accettazione, con vene d'ironia, della realtà americana, avvicinandosi, per questa strada, alla pop art (sistemazione asse B. Franklin a Filadelfia; studi per Las Vegas e California City, Los Angeles). Questa posizione critica, e le altre, pur diverse, che le si possono affiancare per l'analogo livello di raffinata intellettualità (per es.: C. Moore, D. Lyndon, J. Esherick, i Five: M. Graves, J. Hejduk, P. Eisenman, R. Meier, C. Gwathmey; per citare i più noti) hanno come sbocchi obbligati l'insegnamento, da un lato, e le pagine patinate delle riviste, dall'altro. La città, invece, non sembra minimamente registrare questa ricerca; nel soffocante ingorgo delle sue strade non c'è spazio per la qualità: ciò che vi si può rendere evidente è solo la quantità. In tal senso possono essere compresi i "supergrattacieli": nuove tipologie del terziario che, a partire dal World Trade Center (M. Yamasaki, 1967-70, in prossimità della punta di Manhattan), divengono elementi essenziali nella skyline delle maggiori metropoli. Ai due giganteschi prismi identici di New York che, con l'ermetica e sconvolgente silhouette, superano già i 300 metri di altezza, umiliando i vecchi giganti del New Deal, si aggiunge subito il John Hancock di Chicago (Skidmore, Owings e Merrill, 1968-70), un'immane struttura a traliccio metallico lasciata in vista con impressionante franchezza; poi il John Hancock di Boston e, infine, più alta di tutti, la Sears Tower di Chicago. Sono dimensioni che non consentono più un giudizio basato sui tradizionali strumenti critici: intere città verticali entro le quali residenze, uffici, negozi, servizi di ogni tipo, garages e trasporti cercano di ripristinare quella razionalità organizzativa che la città, ormai, nega. E va da sé che ciascuna di queste realizzazioni non fa che accrescere il caos della zona urbana circostante.

La corsa alle massime altezze sembra oggi arrestarsi per una crisi che mette in pericolo anche le più razionali realizzazioni di ristrutturazione urbana residenziale, molto tardivamente avviate sotto la spinta di un bisogno ormai intollerabile (per es. Welfare Island di Ph. Johnson e J. Burgee; Twin Parks Northeast di R. Meier). Vedi tav f.t.

Bibl.: V. Scully, American architecture and urbanism, Londra 1969 (trad. it. Architettura e disegno urbano in America, Roma 1972); J. Cook, H. Klotz, Conversation with architects, ivi 1973; M. Manieri-Elia, L'architettura del dopoguerra in USA, Bologna 19752. V. anche: Lotus, n. 7, 1970; Architecture d'aujourd'hui, dic. 1971-genn. 1972 e marzo-apr. 1975.

Arti figurative. - La cultura artistica degli SUA dagli anni postbellici costituisce, nelle sue diverse connotazioni e direzioni di linguaggio, un fenomeno storico di fondamentale importanza nella scena internazionale.

Sullo sfondo di un sempre più intenso rapporto dialettico con il mondo europeo nel flusso crescente dell'emigrazione intellettuale con l'esplodere della seconda guerra mondiale, la Galleria Art of this Century, aperta a New York da Peggy Guggenheim, curando, fra le altre iniziative, una serie di mostre personali, dal 1943 al 1946, di J. Pollock, W. Baziotes, R. Motherwell, H. Hofmann, C. Still, M. Rothko, si pone come il fulcro del nascente movimento che si è soliti, tra l'altro, definire abstract-expressionism (espressionismo astratto): nella relatività delle schematizzazioni terminologiche, di volta in volta troppo restrittive o estensive rispetto all'entità del fenomeno, anche questa riflette un'inadeguatezza storico-critica, limitandosi a enfatizzare, tra le complesse componenti, le implicazioni emotive nel processo di astrazione.

Gli artisti menzionati, unitamente ad A. Gorky, A. Gottlieb, W. De Kooning, B. Newman, T. Stamos, sono i protagonisti diversi, e a volte divergenti, della American type painting che, nel districarsi dal realismo espressionista e dal modernismo accademico, si esplicherà in un'accentuazione esistenziale dell'operare, inteso come sentimento individuale, liberazione dell'essere in una contrapposizione all'ambiente, avverso o ignoto, e in un'assoluta libertà pittorica.

Caratterizzati da disparate provenienze culturali, ma partecipi di una comune atmosfera di problemi che, sui temi dell'impegno sociale (si pensi all'incisività figurativa di B. Shahn) e del subconscio, aveva scandito gli anni della Depressione, essi, in un clima di crisi sociale ed estetica, intorno al 1943, in un'età già matura, pervengono, con alcune eccezioni, molte sfaccettature e diversa durata, a una visione mitica della vita. Considerando l'arte un'avventura rischiosa nel mondo sconosciuto dell'immaginazione, alieno da illusioni e opposto al pragmatismo finalizzato, nella perentorietà della superficie del dipinto, affermano la validità dell'esplorazione dell'arte primitiva, con la sua tendenza all'astrazione, e dei miti antichi, temi tragici ed eterni, sottolineando la forza dell'arcaismo, con le sue fantasie primordiali, e, nel ciclico ritmo cosmico, la fiducia nel simbolo collettivo del subconscio onirico, in una trascrizione automatica delle immagini. In tale contesto immediato è il riferimento alle fonti del Surrealismo, noto non solo attraverso le poetiche o le opere - particolare incidenza ebbero quelle di J. Miró e di P. Picasso - ma anche attraverso la presenza diretta di artisti e teorici come A. Breton, M. Ernst, A. Masson, S. Matta, J. Miró, Y. Tanguy, ecc., mentre non va sottovalutata, per la conoscenza delle avanguardie europee e la riflessione sulle qualità espressive del colore, l'apporto di J. D. Graham e soprattutto di H. Hofmann, con i suoi dipinti sgocciolati.

A. Gorky, che a ragione W. C. Seitz, nel catalogo redatto in occasione della retrospettiva del 1962 al Museum of Modern Art di New York, definiva un surrealista astratto, può essere considerato il tramite tra la cultura europea e la nuova arte americana. Dalla formulazione di una pittura biomorfica che rinvia a morfologie note, egli reinventa un sistema di segni, sinuosi e vitalistici, che s'impongono con una carica personale nella struttura e nel colore, che arriva talora a debordare oltre i margini, in contenuti rigagnoli a guazzo. I suoi crittogrammi, acutamente espressi nel fluire di ricordi ancestrali, di emotività lirica, trapassano da segni che traggono il loro significato dal mondo dell'inconscio, a segni non più significanti, ma correlati al moto interiore della dimensione psichica dell'indistinto.

Proprio sul finire degli anni Quaranta si assiste a un graduale abbandono, da parte di alcuni degli artisti ricordati, delle fantasie primitive, dei sogni di riti antichi, dei simboli mitici, nell'emergere di un linguaggio originale: nella comunicazione vitale dell'uomo con il cosmo, la pittura scopre nuove risorse nella scrittura dell'immagine-segno investendo lo stesso atto creativo, intensamente vissuto, di un valore espressivo, di potenza primigenia. Nella concezione dell'arte come esperienza e sperimentazione dei mezzi a disposizione, in un puro agire inteso come esistere, si esalta l'attimo in cui il gesto del dipingere concreta la forma, mobile, in continua trasformazione, nella sua irripetibile singolarità dell'hic et nunc. Il rifiuto della mediocrità s'invera in un impegno verso l'atto pittorico, presenza significativa dell'autonomia dell'artista che scarica il suo furore professionale contro la realtà dei progetti preordinati: la fede estrema nella possibilità dell'"azione" induce H. Rosenberg a intiiolare un saggio apparso su Art News nel dicembre del 1952 The American action painters. In queste nuove prospettive gli esponenti della pittura americana (Baziotes, Motherwell, Newman, Rothko, con la collaborazione di Sill per la formulazione del piano, nel 1948 fondano a New York una scuola, Subjects of the Artists, trasformatasi poi in The Club) intraprendono percorsi diversi che sinteticamente possono farsi confluire in due vie. Le due vie già segnalate in qualche modo dallo stesso Rosenberg e più tardi, nel 1956, da M. Shapiro, conducono l'una alla gestualità più esplicita e disegnata e alla densità materica, per es., di Pollock, De Kooning e quindi di F. Kline, l'altra alla sensibilità contenuta in campi di colori dominanti, con una ridotta dinamica pittorica, di Rothko, Still, Newman, Ad Reinhardt, come si precisano alla fine degli anni Quaranta e all'inizio dei Cinquanta.

Assumendo la tela, distesa sul pavimento, come un'arena in cui agire, Pollock, in un processo rituale, l'affronta, a partire dal 1946, con la tecnica del dripping, sostituendo agl'impasti tradizionali vernici industriali, e vi penetra tessendo la superficie attraverso un'alchimia dinamica di segni, fili e grovigli labirintici di colore sgocciolato, in una continuità lineare di spazi all-over (coperti in ogni punto). De Kooning esprime la sua violenta energia vitale e cromatica in gesti irruenti che aggrediscono l'immagine e lo spazio con vertiginose astrazioni, in un impeto di brutale stravolgimento della forma, carico di tensioni esistenziali. Kline, in una ridotta tavolozza cromatica, proietta sullo schermo bianco della tela gravi macrosegni, vettori di forze che si scontrano, gesti di una condizione di rivolta che, in una scala epica, Motherwell, tra l'altro acuto scrittore, dal 1949 propone nella serie aperta Elegie per la Repubblica spagnola. Di contro Rothko, in una essenzializzazione che mira a una qualità estetica quasi teologica, "trascendentale", conduce l'astrazione in sovrapposizioni cromatiche di rettangoli orizzontali, olii stemperati dagli orli sfrangiati, su campi espansi di colore che alludono all'infinito, quantità di luce per nuove dimensioni spaziali nei pulsanti contrappunti interni tra sfondo e immagine. Le tele di Newman, icone ideali, si qualificano in stesure di colore totale, sensibilizzato o compatto, per lo più scandito da strisce verticali, di valore e tonalità contrastanti, nella presentazione di un "astratto sublime". Le superfici densamente dipinte di Still sono percorse da squarci di colate pittoriche, crepe luminose nella progressiva riduzione cromatica. In una severità purista, estranea all'emotività espressionistica, Reinhardt libera i dipinti dall'ansia energetica sostituendo alle superfici iperattive l'inazione, e quale precursore della "minima" pittura astratta, raggiunge il diapason dell'invisibilità nella distinzione fra colore e forme geometriche nelle "definitive" tele nere, dopo aver rinunciato dal 1953 ai principi d'irregolarità e asimmetria.

Mentre Pollock e De Kooning portano il dipinto a espandersi al di là della cornice in un totale coinvolgimento spaziale, quale evento environmental attraverso l'accelerazione del segno e l'ampiezza monumentale della scala, Rothko, Newman, Still, Reinhardt, in campi pittorici altrettanto ampi, operano come un rallentamento delle forme in dominanti zone cromatiche, che essenzializzano sensazioni di moto e di quiete in una percezione più misteriosa.

Parallelamente agli esponenti della New York School, M. Tobey, della scuola del Pacifico, su un diverso humus culturale e con un diverso atteggiamento psicologico, quasi di contemplazione mistica, assume la calligrafia dei segni dell'arte estremo-orientale estrapolandoli dalla loro originaria area semantica: sotto gl'influssi dei principi Zen, recepiti per altri versi pure da M. Graves, il microsegno, ripetuto all'infinito, con piccoli tocchi di pennello, in impercettibili variazioni, si dipana in un ordito più o meno fitto, scandendo istanti dell'esistenza e manifestando "l'universalità della coscienza" comprendente l'unità e la reciprocità del tutto, in una "fusione del ritmo dello spirito con il movimento delle cose viventi".

Nella linea dell'Action painting, tra macchie colorate di diversa qualità materica, ulteriori acquisizioni si hanno con Ph. Guston, J. Brooks, B. W. Tomlin, J. Tworkov, L. Rivers, E. Frankenthaler, S. Francis, G. Hartigan, L. Johnson, L. Krasner, C. Marca-Relli, J. Mitchell, E. Vicente, ecc. Nel suo inquieto iter pittorico, Guston riafferma: "Proprio mentre si viaggia verso uno stato di ''non libertà'' dove possono accadere solo cose certe, inesplicabilmente l'elemento sconosciuto e la libertà devono apparire...".

Anche in ambito scultoreo, nel predominante influsso del surrealismo e del costruttivismo, in concomitanza con le diverse ricerche di L. Lippold, I. Noguchi, J. de Rivera e ancora di A. Calder, artista faber e ludens, che con la sua "gaia scienza" affianca stabiles e mobiles, in una poetica cosmogonia di immagini animate dal soffio dell'aria nella magia del movimento, emerge nei tardi anni Quaranta un discorso astratto espressionisticamente intonato da parte di D. Smith, T. Roszak, I. Lassaw, S. Lipton, H. Ferber, D. Hare, R. Nakian, ecc. Nell'uso di metalli, quali ferro e acciaio, trattati con una consumata maestrìa tecnica della saldatura, o piombo e bronzo, colati e fusi, tali scultori, nell'evidenziare la dinamica dell'atto creativo e nel sovvertire la concezione tradizionale del volume plastico, palesano una notevole varietà di risultati nella modellazione dello spazio. Le acute tensioni lineari di Roszak fendono l'aria con punte irte, mentre le "sculture spaziali" di Lassaw svolgono tessiture traforate di fili incurvati e grovigli materici, in un disegno tridimensionale di piani compenetrantisi. Le gravi figure di Lipton si condensano in "forme curve e accartocciate in sviluppo, non completamente svolte", con inclusione di motivi surreali, presenti, in un diverso contesto, pure in D. Hare. I geroglifici ascendenti e spigolosi di Ferber lacerano lo spazio; le dense immagini di Nakian vivono in uno spessore materico. Le opere di D. Smith si articolano in una sempre rinnovata invenzione che, attraverso un processo di semplificazione geometrica, darà luogo all'inizio degli anni Sessanta alla serie di Cubi, significativa per le strutture primarie, in scala monumentale, con superfici brunite o colorate, diversamente sensibilizzate alla luce tramite la lavorazione con la spazzola elettrica.

La fine degli anni Cinquanta e gl'inizi dei Sessanta, attraverso una graduale reazione all'"espressività" in nome della "visività", si declinano nella presentazione della struttura percettiva della comunicazione pittorica o di quella sociale, in una prospettiva "antisensibilità". Una rimeditazione de-gesturizzante della superficie di Pollock e una riconsiderazione della sintesi colore-luce-spazio dei cosiddetti Field painters (Newman, Reinhardt, Rothko, Still) conducono, attraverso canali diversi, a un'astrazione oggettiva, antidoto alla precedente tensione soggettiva, che sfocerà nel riduttivismo dell'arte minimal. La tela bianca, tesa sul telaio nella sua forma assoluta, diventa il campo su cui si concretizza una situazione spaziale, agita dalla forza dei colori, in un assunto puramente visivo del dialogo fra supporto e immagine. In tale direzione, al di là delle differenti variazioni su temi geometrici di J. Albers, S. Davis, B. Diller, L. P. Smith, ecc., antesignane nella loro essenzialità si rivelano, per es., le tele strette, verticali di Newman, gli accostamenti di pannelli monocromi, bianchi e neri, di R. Rauschenberg, esposti nel 1951, che azzerano la percezione sensoriale e quelli a colore unico di E. Kelly del 1952, le strutture nero su nero di Reinhardt che datano dal 1954, le Bandiere dipinte di J. Johns del 1954-55, il quale, assumendo un simbolo collettivo, lo fissa, al di là del valore semantico, nei suoi attributi ottici, con un risultato pregno di implicazioni che preludono non solo alla nuova astrazione, ma anche, per l'impiego di un'immagine corrente, alla Pop Art.

Una serie di mostre organizzate da C. Greenberg negli anni 1959-60, con opere di Newman, Gottlieb, M. Louis e K. Noland, favoriscono il nuovo clima, che, ulteriormente connotato nel testo critico di H. H. Arnason per la rassegna American abstract expressionists and imagists del 1961 al Guggenheim Museum di New York, si consolida a livello di riconoscimento museale nel 1963 con l'esposizione Toward a new abstraction, curata da A. Solomon, al Jewish Museum di New York che ospita pittori quali Al Held, E. Kelly, M. Louis, K. Noland, R. Parker, F. Stella, ecc.: nel catalogo Ben Heller parla di "conceptual approach to painting" (approccio concettuale alla pittura). L'anno seguente lo stesso Greenberg, puntualizzando la sua teoria estetica, organizza la mostra Post painterly abstraction al Los Angeles County Museum of Art, comprendente opere di Al Held, E. Kelly, K. Noland, F. Stella, J. Olitski, H. Frankenthaler, R. Parker, G. Davis, E. Avedisian, W. D. Bannard, S. Francis, P. Feeley, F. Dzubas, ecc.: nell'istituzione di una pittura aliena da ambiguità illusionistiche, Greenberg pone come elementi basilari, sul dato imprescindibile della bidimensionalità, la chiarezza lineare, l'evidenza di forme definite, il colore "ottico" fino alla monotonia e alla sua delimitazione.

All'interno della teoria ciclica di Wölffin, egli vede nell'espressionismo astratto uno stile pittorico soppiantato dal lineare dell'attuale astrazione in un'accezione talmente ampia da includere le varie sfaccettature del fenomeno. Infatti l'esplorazione delle qualità visive intrinseche al medium colore solo per necessità di schematizzazione può essere raggruppata in settori, spesso sovrapposti o intersecantisi: con lo sviluppo della tecnica a macchia, i color-fields permeati di una sottile sensibilità lirica, nel morbido espandersi di soluzioni diluite sulla tela di diffusa luminosità in E. Frankenthaler, si declinano in una nuova spazialità di vasta gamma cromatica nelle fluide velature e nei rivoli di colore, secondo l'inclinazione della tela, di M. Louis, trasposti da veicoli emozionali a iconica oggettività. Le forme più strutturate ed esatte di Noland, relazionate a un rigore intellettuale, dialettizzano, soprattutto nelle fasce, la focalizzazione dell'immagine e la sua espansione cromatica oltre i bordi incornicianti, mentre le superfici di Olitski presentano effetti atmosferici di tremolante luminosità.

In sintonia con la concretezza dello spazio visivo di Albers, l'intensità di colore combinata con un'austera logica formale viene denominata pittura Hard edge (bordo rigido): il termine coniato da J. Langsner in una più ampia accezione semantica, è applicato dal 1959-60 a questo aspetto della ricerca americana che coniuga appunto in un processo unitario la pienezza del colore campito sulla superficie con forme dai contorni netti, in una sostanziale equivalenza degli schemi simmetrici o delle figure asimmetriche. Ai dipinti a olio di E. Kelly che disegna con il colore, nella sua evidenza ottica, si affiancano le opere di L. P. Smith, Al Held, F. Stella, A. Liberman, A. Martin, ecc. e in ambito scultoreo di G. Sugarman.

Ancora da una mostra The shaped canvas al Guggenheim Museum nel 1964 deriva la terminologia per indicare, nella costante piattezza pittorica, l'uso di tele sagomate non solo nel profilo del telaio, ma anche rispetto al piano, mosso a diversi livelli spaziali con aggetti o rientranze volumetriche determinate dalla pressione di elementi in tensione, che creando un supporto plastico accentuano la qualità oggettuale del dipinto in una concatenazione fra superficie pittorica, volumetria scultorea e carpenteria. Tale settore comprende artisti quali C. Hinman, P. Feely, ecc.; le più libere variazioni sono giocate nelle "strutture deduttive" (M. Fried) di F. Stella.

Nell'intrecciarsi delle diverse ricerche e sulla scia dell'arte otticocinetica che presuppone mutamenti di immagini nell'atto percettivo dello spettatore sia a livello di puro illusionismo gestaltico sia a livello di parti effettivamente in movimento nel tempo e nello spazio, tramite congegni meccanici, si registra la mostra del 1965 The responsive eye, organizzata da W. C. Seitz al Museum of Modern Art di New York, ove accanto a opere dei pioneri V. Vasarely, Albers, J. R. Soto e altri, figurano quelle di più giovani artisti americani quali R. Anuszkiewicz, L. Poons, ecc.

Un'ennesima codificazione si ha nella rassegna Sistemic painting della fine del 1966 al Guggenheim Museum di New York: facendo eco all'esposizione di scultura Primary structures, il curatore L. Alloway presenta le ricerche più riduttive nel settore di monocromi non modulati o di schemi regolati in forme elementari, proposte nella serialità ripetitiva di un sistema organizzato. Tale processo che implica, pure nel modulo ricorrente, una varietà nei criteri di continuità e progressione, suggerisce ad Alloway la definizione di arte a "immagine-unica" in un procedimento "sistemico" che sigla l'impronta personale insita nell'ordine concettuale di ciascun artista (Reinhardt, Newman, Noland, Kelly, Stella, A. Martin, J. Baer, R. Mangold, R. Ryman, L. Zox, e altri).

Sullo scorcio degli anni Cinquanta contemporaneamente alla pittura che si avvia a oggettivare e oggettualizzare sé stessa, emerge, nell'area di una rivisitazione del rapporto con la realtà urbana, una tendenza che fonda il suo termine esistenziale di confronto nell'immagine concreta degli oggetti di consumo assunti dal banale quotidiano e riproposti manipolati, come provocatoria, diversa, e a volte disperata appropriazione del totalizzante consumismo di una società industrializzata e come evidenziazione di inaspettate valenze dell'oggetto comune o di scarto. New Dada o New Dadaism si suole denominare, restrittivamente, tale fenomeno, i cui principali protagonisti sono R. Rauschenberg e J. Johns, i quali contattano l'oggetto attraverso il gesto pittorico o la percezione oggettivante.

In un atteggiamento di radicale estremismo nell'affrontare i termini del proprio operare, oltre al debito formale nei confronti dell'Action painting, pur se volto a nuova significazione e circoscritto al rapporto con un'immagine-oggetto che evidenzia la sua semanticità e l'usura del vissuto, va segnalata, nell'imporsi di una figurazione, l'alternativa di contenuto già proposta, per altri versi, per es., da L. Rivers, oltre che da De Kooning, con l'immissione di temi desunti dal mito popolare americano. Nell'incontro-scontro con il mondo esterno, l'azione dell'artista si riversa sull'oggetto, simbolo del feticismo moderno, estraniato dalla sua originaria funzionalità o logorato dall'uso, ma vivo nella sua materialità, combinando, nella formulazione d'immagine, l'elemento oggetto (assurto da supporto referenziale a protagonista dell'opera) e l'elemento pittura in una mutua tensione, con risultati che palesano l'aggressività estroversa e la gestualità espressionistica delle combine paintings di Rauschenberg o l'emblematicità metafisica e la fissità dei simboli di Johns.

Nel contesto della Junk-culture (definizione di L. Alloway), l'impiego di materiali tratti dai depositi di rifiuti, emblema della cultura artificiale della città, della condizione dell'artista nella società e del suo porsi nei suoi confronti, diventa enfatico nei rottami di pezzi di macchinari saldati di R. Stankiewicz o nelle carrozzerie colorate di automobili compresse e modellate di J. Chamberlain, mentre A. Kaprow, denunciando il ritmo inesorabile ma obbligato del declino e del disuso, esalta l'utilizzazione delle materie più deteriorabili sì che anche l'opera presto possa finire nel pattume. Di contro, nella poetica del relitto quale segno del sottrarsi alla logica della funzionalità meccanicistica, i montaggi di pezzi di legno di L. Nevelson conferiscono ai residui di un artigianato scomparso un sapore di memoria, bloccata dalle patine nere, bianche o dorate che li ricoprono, in sintonia con i ricordi inconsci di J. Cornell, mentre la riflessione sul tempo mitico si esercita su una scala monumentale in una tensione costruttivo-architettonica.

L'assunzione e la "ricognizione" degli oggetti nel contesto della realtà è orchestrata dalla strumentazione linguistica dell'assemblage, quasi sempre permeata di partecipazione emotiva: The art of assemblage è appunto il titolo della mostra realizzata nel 1961 al Museum of Modern Art di New York da W. C. Seitz (espongono, tra gli altri, Nevelson, Stankiewicz, Chamberlain, M. di Suvero, R. Mallary, L. Bontecou, E. Kienholz, B. Conner) che costituisce una prima storicizzazione del fenomeno e un confronto con il Nouveau Réalisme accomunerà esperienze diverse nella definizione di New Realism.

Nella combinazione di immagini personali, gravide di esperienza, con una sensibilità cromatica che esalta l'oggettiva qualità pittorica dei colori, J. Dine esprime una fantasia intensa ed energica. Mimando l'ambiente della vita quotidiana, la ricerca artistica approda allo spettacolo: infatti in una dimensione del mondo come teatro vivente, partecipata pure da Rauschenberg tramite M. Cunningham e J. Cage che intendeva l'arte come rivelazione della vita nel suo casuale farsi, J. Dine, unitamente ad A. Kaprow (che ne è il teorico e l'iniziatore), a C. Oldenburg, R. Whitman, R. Grooms, dà luogo a una nuova forma di spettacolo totale, implicante cioè più arti, noto come happening (evento, accadimento). Mirando a cogliere un momento della scena quotidiana del mondo, l'happening trasferisce l'immediatezza dell'Action painting al diretto e inatteso accadere di un'azione che, coinvolgendo in una situazione reale, pone l'accento sul tema dell'environment, in un assemblage mobile. Significativo è l'operare del gruppo Fluxus, promosso da G. Maciunas e composto da G. Brecht, D. Higgins, A. Knowles, Ben (Vautier), La Monte Young, ecc.

L'incalzante precipitare di immagini nel ritmo crescente della proliferazione delle comunicazioni di massa, quale industria dell'immaginario collettivo, determina nell'environment urbano un monopolizzante imporsi del mondo materiale degli oggetti, idoli di una cultura del benessere in una società opulenta. Su tale panorama oggettuale e visivo, con la mediazione di Rauschenberg, Johns e Dine, fermano l'attenzione i popular artists (definizione già nota, e applicata verso la fine del 1961 ad alcuni esponenti della nuova situazione americana, in particolare newyorkese), i quali assumono i contenuti, le forme e le tecniche della cultura "popolare" (in quanto destinata alla collettività), con un distaccato oggettivismo. Nell'esibire e mimare la banalità di tale codice iconografico, assurto a mito vivente di un'organizzata società dei consumi, si attua una ristrutturazione della percezione massificata, che, indagando sé stessa, si esercita sugli strumenti linguistici freddi e meccanici del cliché tipografico, del calco, dello stampo, della fotografia, della serigrafia, ecc., acuendo le capacità ottiche nella conoscenza visiva. L'ironia congelata dell'operazione formale-percettiva, simulando la fedeltà del reportage, fissa l'oggetto, anonimo nella sua quantificazione, a un livello diverso rispetto a quello della sua esistenza quotidiana o meglio ancora a quello della sua "immagine", attraverso un'intenzionalità che parodiandolo lo immobilizza in una staticità di anti-oggetto reificato che si contrappone alla transitorietà accelerata della fruizione pubblicitaria. In tal modo R. Lichtenstein, tecnico ineccepibile, quasi paradigmatico, della volgarità d'informazione dei comics, isolando il puntinismo meccanico del retino tipografico, lo preleva come stilema grafico dei suoi fumetti, variandone la frequenza e articolandone le potenzialità. C. Oldenburg conferisce un'enfasi farsesca al suo colorato repertorio alimentare attraverso un'irreale iconicità monumentale, che nei cartelloni pubblicitari di J. Rosenquist si attua in una lettura evidenziata nella dilatazione dei dettagli e nel sezionamento dell'immagine a trompe-l'øil. A. Warhol, bene di consumo egli stesso, si esibisce nei ritmi seriali dei clichés fotografici, ove la metafora ripetitiva, scandendo i veloci tempi dell'assorbimento dell'immagine, ne rivela pure la rapida obsolescenza. Le piatte silhouettes di T. Wesselmann bloccano miti voluttuari; i simboli di R. Indiana si fissano in un disegno netto e in un colore compatto di evidenza ottica. Prelievi di brani di vita di G. Segal si raggelano nei calchi gessosi di figure umane in una spettrale finzione teatrale.

Da una serie di mostre che, in ambito newyorkese e californiano, nel 1962 permettono il debutto di questi e altri esponenti della Pop art, si giunge alla collettiva del 1963 intitolata appunto The popular image, curata da A. Solomon alla Washington Gallery of Modern Art, comprendente V. Blosum, G. Brecht, J. Dine, J. Johns, R. Lichtensten, C. Oldenburg, R. Rauschenberg, J. Rosenquist, A. Warhol, R. Watts, J. Wesley, T. Wesselman. In quest'area che viene a fondersi con la Nuova figurazione, si situano, fra gli altri, con varie implicazioni, A. Katz, Marisol, W. Thiebaud, H. C. Westermann, R. Lindner.

Pur nella tematica completamente diversa e in una situazione culturale dialettica tra contrapposizione e assimilazione, non è difficile rilevare nella Pop art elementi stilistici affini all'astrazione cromatica, in un'influenza reciproca nell'analoga presentazione oggettiva di differenti strumenti di comunicazione sul terreno dell'analisi dei procedimenti tecnici, in cui s'incontrano categorie ideologiche e intenzionalità solo apparentemente contrapposte, ma in realtà gestite da una simile finalità formale.

Come si è accennato, nell'ambito della scultura il discorso sulle unità elementari, significanti in sé, svolto dall'inizio degli anni Sessanta, trova nella rassegna Primary structures, del 1966, al Jewish Museum di New York, curata da K. McShine, il riconoscimento a livello museale degli espositori, americani e inglesi.

Accogliendo l'assunto "less is more", gli artisti prelevano dalla produzione industriale elementi ridotti, primari, che sistemano spazialmente a terra o a parete in cadenze seriali, determinanti ritmi lineari e quantità plastiche di pieno e di vuoto che, nella risultante "struttura" architettonica, inglobano l'ambiente in una totalità percettiva variabile col mutare della stazione visiva. A questo tipo di ricerca, non senza riserve e differenti accezioni da parte dei critici, viene applicato il termine Minimal art, coniato da R. Wollheim nel 1965 per qualificare alcune opere del 200 secolo con "low art content"; tra le altre denominazioni quella di L. R. Lippard, Rejective art, tende a enfatizzare il rifiuto di qualsiasi interpretazione, mentre B. Rose parla di ABC art. In un processo di re-invenzione del rapporto forme-spazio, la "definizione" delle unità avviene nella differenziata occupazione o negazione dello spazio realizzata, per es., da C. Andre, L. Bell, R. Bladen, W. De Maria, D. Flavin, R. Grosvenor, D. Judd, Sol LeWitt, J. McCracken, R. Morris, T. Smith, R. Smithson. Questi artisti, nell'utilizzazione ripetitiva di moduli standardizzati, rigidi e simmetrici, entità ontologiche a volte colorate, spesso praticabili quali ambienti, se da una parte, come espose D. Judd nel saggio Specific objects del 1965, recuperando una spazialità tridimensionale combinano opere dette anche art-object, con titoli non referenziali, dall'altra, considerando il proprio lavoro come "idee che operano nello spazio" (Grosvenor), palesano una tendenza concettualizzante e nell'attitudine organizzativa aprono verso la performance. Le strutture primarie, imposte come presenza occupante in un'oggettualità monumentale, vengono anche a proporsi come strutture-processo da verificare mentalmente.

In contrasto con le forme pure ed essenziali, la tendenza Funk art, tipica della costa del Pacifico, che già vari anni prima con E. Kienholz e B. Conner, in una direzione tra assemblage e neorealismo, aveva espresso allarmanti e repellenti immagini in una feroce trascrizione della crudeltà umana e della violenza sociale, inalbera i vessilli del sensoriale e dell'organico nella mostra allestita da P. Selz all'University Art Museum di Berkeley nell'aprile del 1967 con opere materiche, complicate, di un naturalismo surreale, prodotte da J. Anderson, R. Hudson, H. Paris, W. Wiley, ecc.

Oltre la rottura dei tradizionali confini tra pittura e scultura, nella crisi delle tecniche artistiche, si prospetta una sempre più spiccata aleatorietà del fenomeno estetico che, nell'alienazione della "datità" del prodotto, sancisce la supremazia del verbale sul visivo. Una posizione nettamente antioggettuale è documentata dalla rassegna Non-anthropomorphic art alla Lannis Gallery di New York del febbraio 1967: tra i protagonisti J. Kosuth dichiara il valore mentale del proprio lavoro, inteso come idea, modello astratto: la ricerca, tramite proposizioni linguistiche, argomenta l'arte come un sistema tautologico: "Art is Art, nothing more, nothing less", "Art as Idea as Idea". Nel giugno Sol LeWitt, in un saggio su Artforum, connotando il genere d'arte che privilegia i processi ideativi del pensiero, conia il termine di Conceptual art: il valore primario accordato al concetto fa regredire la sua visualizzazione fisica a fredda operazione meccanica, estranea a ogni elemento di arbitraria soggettività, fino a comportare un'indifferenza nei confronti dell'oggettivazione fisica dell'idea, e una dematerializzazione dell'arte: "l'idea diventa una macchina che crea l'arte". L'obiettivo è d'interessare mentalmente lo spettatore in una dinamica che può anche associare un'ideazione logica a una percezione visiva illogica dell'idea, giovandosi di strumenti diversi, quali parole, numeri, fotografie, ecc. La riflessione sulla natura dell'arte si sposta così da assunti di morfologia a problemi di "concezione": travalicata la figura dell'artista faber, il concettuale non ha limiti nelle sue operazioni mentali, che coinvolgono la categoria tempo come cadenza della processualità e che nel carattere auto-referenziale manifestano componenti ermetiche. Significative in questa direzione sono le mostre tenute a New York nel 1967 Language to be looked/Things to be read alla Dwan Gallery (partecipano C. Andre, H. Darboven, W. De Maria, S. LeWitt, On Kawara, ecc.); Art in series al Finch College, curata da Mel Bochner, che indaga la serie quale mezzo idoneo a far pensare ai rapporti fra le cose nello spazio e nel tempo; e, tra quelle al Lannis Museum of Normal Art, 15 people present their favorite books, in cui il libro è proposto da Kosuth come medium per un discorso dell'arte e sull'arte. Sostituendosi l'informazione all'oggetto, il libro-catalogo diventa lo strumento di una comunicazione esplicata a diversi livelli come visualizzazione di processi mentali, concettualizzazione di eventi immateriali, analisi spazio-temporali, riflessioni sul linguaggio verbale, ecc.: S. Siegelaub promuove tra il 1968 e il 1969 la pubblicazione di Xerox book, January 5-31 e March 1969, attestanti lavori di C. Andre, M. Baldwin, R. Barry, D. Huebler, S. Kaltenback, J. Kosuth, C. Kozlov, S. LeWitt, R. Morris, R. Smithson, L. Weiner e altri.

Tra polemiche ideologiche, nel segno dell'anti-arte, formulazioni di poetiche e proposte di interventi che accelerano i mutamenti nell'iter dei singoli artisti, R. Morris, dopo i suoi esordi con W. De Maria, La Monte Young e Y. Rainer nelle performances "all over dance" alla Judson Memorial Church, e l'apporto minimalista, nel 1968 definisce Anti-form una tendenza che in opposizione alla rigidità delle strutture primarie, all'ordine razionalistico precostituito, alla tecnica programmata, alla totale dematerializzazione concettuale, evidenzia le qualità intrinseche di materiali morbidi, elastici, già usati, per altri versi, da Oldenburg: l'interazione fra una diretta manipolazione delle sostanze fluide, desuete, subestetiche e la loro autoattivazione, caratterizza l'effimero e occasionale "processo" temporale dell'intervento-evento, relato appunto alle insite proprietà dei materiali stessi, alla loro casuale caduta gravitazionale, a un fortuito accadere, nell'intenzionale supremazia del procedimento sul risultato, la cui sostanza formale svela, a volte, legami con altre tendenze. Alla precedente rassegna del settembre del 1966 Eccentric abstraction, a cura di L. R. Lippard, alla Fischbach Gallery di New York, con opere "eccentriche" di A. Adams, L. Bourgeois, E. Hesse, G. Kuehn, B. Nauman, D. Potts, K. Sonnier, F. Viner, fanno seguito nel 1968 Anti-form alla J. Gibson Gallery di New York (E. Hesse, Panamarenko, R. Ryman, A. Saret, R. Serra, K. Sonnier, R. Tuttle); Soft and apparently soft sculpture, organizzata da L. R. Lippard per l'American Federation of Arts; 9 at Leo Castelli, allestita su indicazione di Morris (B. Bollinger, E. Hesse, S. Kaltenbach, B. Nauman, A. Saret, R. Serra, K. Sonnier, oltre agl'italiani G. Anselmo e G. Zorio); nel 1969, tra le molte, Soft art allo State Museum di New Jersey (R. Artschwager, Sue Bitney, Chamberlain, Hesse, Morris, Oldenburg, Sonnier, Tuttle, W. Wegman) e Anti-illusion: Procedures/ Materials al Whitney Museum of American Art, comprendente anche due musicisti, P. Glass e S. Reich, che accoglie fenomeni eterogenei tra l'anti-form e il concettuale, nell'analoga intenzionalità di un lavoro-processo, attuato sul posto e quindi non più ripetibile.

All'interno del raw materialist nel ripudio dell'ideologia tecnologica - in Europa rispecchiato dall'Arte povera (G. Celant) analogamente al teatro povero di J. Grotowski - e sulla scia di un articolo di R. Smithson, A sedimentation of the mind: earth projects, V. Dwan allestisce nella sua galleria nell'ottobre 1968 Earth works, seguita l'anno dopo da Earth art alla Cornell University di Ithaca, con saggi di W. Sharp e W. C. Lipke. L'elemento terra, la sua "geologia astratta", la sua indiscriminata fisicità, assurge in diverse connotazioni a mezzo artistico attraverso una concreta occupazione dello spazio o una documentazione fotografica di interventi diretti sulla natura: "il presente... deve... esplorare la mente pre e post-storica; deve penetrare nei luoghi in cui remoti futuri incontrano remoti passati" (Smithson). In questa direzione si muovono, oltre a Smithson, C. Andre, W. De Maria, H. Haacke, M. Heizer, D. Huebler, S. Kaltenbach, S. LeWitt, R. Morris, D. Oppenheim, T. Smith, ecc.

Nel totale stravolgimento della tradizione espositiva e nell'osmosi di componenti varie con risultanze non sempre univocamente definibili, materiali poveri e impalpabili coniugano processi effimeri, mentre il termine Land art di G. Schum nel 1969, evidenziando il passaggio da un materiale all'ipermaterializzazione dell'ambiente, enfatizza il paesaggio quale campo sconfinato all'azione dell'artista in una posizione ambigua fra disincanto per la tecnologia urbana dei prodotti e suo uso nell'esplorazione terrestre. Sterminati ambienti fiumi ghiacciati o montagne rocciose, desolati deserti, distese nevose o prati illimitati assurgono a luoghi deputati a gesti macroscopici o a geroglifici caduchi in una proiezione sulla natura, custode di segni magici, di riti arcani, in un'investigazione di stratificazioni geologiche nell'infinito dello spazio e del tempo, nel porre in essere un concetto la cui memoria si oggettiva in un ricordo visivo. Alla fotografia e ai grafici si affianca intanto il videotape, documento "ricco" del diretto evolversi dell'intervento, nuovo medium artistico tra i molti che verranno usati, in una feticizzazione sempre più incalzante della mcluhaniana tecnologia dell'informazione di massa, come attivazione ed estensione della percezione umana, a livello sia di sperimentazione artistica sia d'informazione alternativa. Un'ulteriore definizione è proposta da J. Gibson con l'esposizione Ecologic art (Andre, Christo, J. Dibbets, W. Insley, R. Long, Morris, Oldenburg, Oppenheim, Smithson, ecc.). Le prime autonome qualificazioni linguistiche del videotape sono realizzate, per es., da T. Riley, De Maria, Y. Rainer sotto l'egida della Dilexi Foundation di San Francisco e del laboratorio televisivo K.Q.E.D., o presentate dalla WGBH-TV di Boston nella trasmissione Medium is the Medium (A. Kaprow, O. Piene, N. J. Paik, S. Van Der Beek, ecc.) o nella mostra organizzata da H. Wise nel 1969 TV as a Creative Medium (tra gli altri, partecipa Paik con TV Bra for living sculpture).

Il dialogo fra arte, scienza e tecnologia svolto da lungo tempo in un ordine di problemi teorici e operativi, oltre che sociali, se si concretizza nella seconda metà degli anni Sessanta in oggetti isolati variamente connessi a tecniche meccaniche o elettroniche; nell'uso di materiali industriali (L. Bell, R. Davis, C. Kauffman, D. Wheeler); nelle "sculture mobili", a volte eteree, di L. Lye, G. Rickey, WenYing Tsa'i; o nell'ambito della Light art nelle strutture luminose di Chryssa, O. Piene, S. Antonakos, J. Seawright, o ancora negli ambienti di L. Samaras, S. Landsman, B. Mefferd, tende d'altra parte sempre più a sganciarsi da opere individuali per proporre lavori collettivi multimedia di environment (Nine evenings: theater and engineering del 1966, The magic theater, alla Nelson Gallery Art di Kansas City; manifestazioni legate al programma Experiments in Art and Technology (EAT) diretto da B. Kluver e R. Whitman del Los Angeles County Museum of Art, o prodotte presso il centro Automation House di New York).

Nel settore underground della Freak culture, connotato dalla pittura visionaria, psichedelica per un "retinal orgasm" (T. Leary) o dai comic books di R. Clumb, la tecnologia più avanzata è indirizzata dal gruppo USCO ad attivare spazi attraverso una moltitudine di fenomeni in uno shock sensoriale che altera il normale stato di coscienza in una sinestesia che mitizza paradisi artificiali in una pacificazione allucinogena.

Una serie di mostre esemplificano le diverse ricerche, al di là dell'emblematico simbolo autodistruttore dell'Omaggio a New York di J. Tinguely del 1960: a partire dal 1968 si possono ricordare al Museum of Modern Art di New York The machine as seen at the end of the mechanical age, già allestita a Stoccarda da K.G.P. Hulten, una memoria della storia della macchina nel preannuncio di una nuova era di "dispositivi chimici ed elettronici che imitano i processi cerebrali e del sistema nervoso"; Some more beginnings o ancora Spaces, una rassegna di J. Licht degli antitetici interventi operativi a livello di arte ambientale verso una progressiva deprivatizzazione sensoriale volta più alla contemplazione che all'azione: lo spazio oggettivamente denotato dai newyorkesi (tubi fluorescenti di D. Flavin, vasi di terra con abeti in crescita di Morris) è inteso dai californiani in una direzione immateriale come campo di sensazioni percettive elementari (M. Asher, L. Bell), mentre il gruppo Pulsa crea environments luminosi giocati sul paesaggio naturale. Ancora, oltre al Report on the art and technology program (1971) del Los Angeles County Museum of Art (Rauschenberg, Whitman, Oldenburg, Mefferd, T. Smith), sono significative nel 1970 Information curata da K. McShine al Museum of Modern Art, che in nome della crisi storico-politica scatena un'offensiva contro la pittura e la scultura per presentare i più sofisticati congegni elettronici della comunicazione, e Software al Jewish Museum, sotto il patrocinio dell'American Motors Company, con saggi in catalogo di J. Burnham e H. T. Nelson: nello spirito di una tendenza organizzatrice di quantità di energie e informazioni, vengono invitati anche artisti concettuali e comportamentisti quali Barry, Huebler, Kosuth, Les Levine, V. Acconci, ecc., mentre Haacke con il suo Visitor's profile, in un assunto socio-politico, computerizza le risposte dei visitatori alle sue domande programmate.

Proprio alla fine degli anni Sessanta la Body art, nel rifiuto della delega a qualsiasi altro genere di mediazione, elige il corpo umano a espressione di una comunicazione diretta in un linguaggio psicofisico che, attraverso segni di una gestualità organico sensoriale, libera l'essere nella sua totalità in un esito di performance. L'artista opera con movimenti fisici o con dialoghi orali, in una pantomima che può esaurirsi in un soliloquio o coinvolgere, nella processualità del comportamento, lo spettatore con esibizioni in prima persona (V. Acconci, B. Nauman, D. Oppenheim, I. Wilson, ecc.).

Una summa di alcuni dei principali movimenti che si sviluppano e s'intersecano nella seconda metà degli anni Sessanta è proposta da L. R. Lippard nel 1969 al Seattle Art Museum 557087, mentre il Metropolitan Museum di New York offre New York painting and sculpture: 1940-1970.

Nel succedersi degli anni in uno scenario multiforme, se la concentrazione sul non-oggetto (riflesso della crisi della specificità e della de-estetizzazione dell'oggetto stesso, revoluto a cosa nella morsa mercificante della legge egemone del profitto) si esercita su un'investigazione dell'arte come idea, azione, processo nel tempo, fluire della vita contro la datità del prodotto, la frequentazione delle specifiche pratiche pittoriche si svolge con prospettive analitiche o sintetiche, nell'esplorazione di nuove tecniche e materiali in un'astrazione che, agita anche dai protagonisti della prima metà degli anni Sessanta e sottesa da coordinate diverse, si declina, nella rivisitazione di precedenti stili, in una varietà di aspetti che comprende, tra l'altro, intonazioni liriche o illusionistiche, essenzialità dell'impatto visivo o divagazioni cromatiche in libere soluzioni disegnative o a macchie di colore evidenziato nelle sue qualità fisiche o nel potere di stimolazione visiva (tra i molti artisti non ricordati prima Dan Christensen, R. Duran, R. Diebenkorn, S. Gilliam, B. Al Bengston, E. Avedisian, C. Hill, A. Jensen, R. Irwin, D. Diao, R. Landfield, W. Pettet, H. Quaytman, A. Schields, K. Showell, P. Wofford). Inoltre, in un settore già sondato da A. Katz, la promozione della fotografia a fonte di repertorio visivo, tramite l'assimilazione della sua tecnica meccanica, induce a tradurre l'informazione fotografica in una pittorica, implicitamente relegando quest'ultima al rango di una fra le tante tecniche nella sconfinata fenomenologia della comunicazione di immagini. Il meticoloso, minuto procedimento mimetico del Photo-Realism si cimenta, sulla scia della Pop art, su soggetti figurativi dell'environment quotidiano, fissamente focalizzati, con risultati più consoni a una intellettualistica astrazione che a una tradizione di realismo pittorico. Le opere di J. Clem Clarke, Chuck Close, R. Cottingham, R. Estes, J. Kacere, A. Leslie, M. Morley, P. Pearlstein, ecc. riflettono, a diversi livelli, l'obiettivo di una verisimiglianza estrema, letterale e non critica, denotata da prefissi quali Hyper, Super, Radical-Realism (mostra al Museum of Contemporary Art di Chicago, 1971) o Sharp-Focus Realism (mostra alla Sidney Janis Gallery di New York, 1972). L'equivalente scultoreo, rappresentato da J. De Andrea e D. Hansen, fa uso di calchi del corpo umano, in resine di poliestere e in fibre vetrose, rivestiti a volte di abiti veri, in un illusionismo ambiguo tra realtà e artificio, talora in raggelanti immagini della scena vietnamita. Una retrospettiva della nuova figurazione è allestita nel 1974 al Whitney Museum of Art di New York.

Nella potenzialità interpretativa degli ultimi eventi, in una coesistenza di opposti indirizzi, la ricerca si esercita nella riflessione analitica degli apparati tecnici e ideologici delle segnalazioni, nuove icone da decifrare, spesso in un'attitudine di demistificazione, a sua volta demistificabile, in una predominante tendenza critica incline a reificare referenti linguistici e a risemantizzare segni. Lo stravolgimento dei ruoli, che coinvolge oltre all'artista anche il critico, la dicotomia fra durevole ed effimero, rotti gli argini tra arte e altri fenomeni, procedono alla s-definizione dell'arte nel mare proteiforme della transitorietà e dell'eccesso consapevolmente ricercato o ripetuto, in una sfasatura tra obiettivi non estetici e loro fruizione come "nuovi" beni culturali. Nell'accelerazione temporale del "giocare la realtà contro l'arte, e come arte" (H. Rosenberg), nell'oscillazione tra massimo d'introspezione o di oggettività, nella prospettiva programmata del "World Game" di B. Fuller di "un ambiente totale per l'uomo totale", teorizzato da G. Youngblood nella considerazione "dell'astronave terra come un'opera d'arte", si consuma l'ansia filosofica, psicologica, sociale dei riti inesauribili, nuovi miti, delle avanguardie nel segno duchampiano o marinettiano o surreale, nei più sofisticati sistemi di comunicazione diretta o metaforica, nella stratificazione di linguaggi alternativi in un linguaggio di ricerca e nel fare l'arte "increata o "l'assenza" dell'arte. Vedi tav f. t.

Bibl.: Oltre ai cataloghi e ai saggi indicati nel testo, alal bibliografia segnalata nelle voci specifiche dei singoli movimenti e artisti, si veda: Autori Vari, L'arte dopo il 1945, Milano 1959; N. Ponente, Tendances contemporaines, Losanna 1960; C. Brandi, Astrattismo e 'Informel', in Segno e immagine, Milano 1960; H. Rosenberg, The tradition of the new, New York 1961 (trad. it., La tradizione del nuovo, Milano 1964); G. C. Argan, Salvezza e caduta nell'arte moderna, Milano 1964; H. Rosenberg, The anxious object, New York 1964 (trad. it., Milano 1967); G. Dorfles, Nuovi riti, nuovi miti, Torino 1965; A. Kaprow, Assemblage, Environments and Happenings, New York 1966; M. Calvesi, Le due avanguardie, Milano 1966; U. Kultermann, Neue Dimensionen der Plastik, Tubinga 1967 (trad. it., Milano 1967); M. Bochner, Serial art. Systems: solipism, in Arts Magazine, estate 1967; V. Rubiu, Le 'nuove icone' dell'arte d'oggi, in Lineastruttura 1/2, 1967; J. Burnham, Beyond modern sculpture: the effects of science and technology on the sculpture of this century, Londra 1968; N. Calas, Art in the age of risk and other essays, New York 1968; L. R. Lippard, J. Chandler, The dematerialization of art, in Art international, febbr. 1968; B. Rose, Readings in american art since 1900: a documentary survey, New York 1968; N. J. Paik, Electronic Zen, ivi 1969; U. Kultermann, Neue Formen des Bildes, Tubinga 1969 (trad. it. Milano 1969); B. Rose, American painting: the twentieth century, New York 1969; J. Kosuth, Art after philosophy, in Studio international, ott.-dic. 1969; M. Kozloff, Renderings: critical essays on a century of modern art, New York 1969; H. Rosenberg, Artworks and packages, Londra 1969; M. Tuchman, The New York school: abstract expressionism in the 40s and 50s, ivi 1969; M. Volpi Orlandini, Arte dopo il 1945, U.S.A., Bologna 1969; Autori Vari, Depuis 45. L'art de notre temps, 3 voll., Bruxelles 1969, 1970, 1972; C. Brandi, Le due vie, Bari 1970; I. Sandler, The triumph of American painting: a history of abstract expressionism, New York 1970; Autori Vari, On the future of art, ivi 1970; J. Burnham, The structure of art, ivi 1971; N. e E. Calas, Icons and images of the sixties, ivi 1971; G. Dorfles, Senso e insensatezza nell'arte d'oggi, Roma 1971; L. R. Lippard, Changing: essays in art criticism, New York 1971; J. Benthall, Science and technology in art today, Londra 1972; J. P. Hodin, Modern art and the modern mind, Cleveland-Londra 1972; U. Meyer, Conceptual art, New York 1972; G. Muller, The new avantgarde, ivi 1972; H. Rosenberg, The de-definition of art. Action art to Pop to Earthworks, ivi 1972 (trad. it., La s-definizione dell'arte, Milano 1975); D. Davis, Art and the future, ivi 1973; S. Hunter, American art of the 20th century, Londra 1973; C. Greenberg, Art and culture: critical essays, ivi 1973; L. R. Lippard, Six years, ivi 1973; H. Rosenberg, Siscovering the present, Chicago 1973; J. A. Walker, A glossary of art, architecture and design since 1945, Londra 1973; E. Lucie-Smith, Movements in art since 1945, ivi 19752; B. Rose, American art since 1900, ivi 19752; J. A. Walker, Art since Pop, ivi 1975; R. Barilli, Informale oggetto comportamento, Milano 1979; C. Brandi, Scritti sull'arte contemporanea II, Torino 1979.

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