Sport estremi

Libro dell'anno 2003

Sport estremi

Nessun limite come limite

Il piacere del brivido

di Gianfranco Colasante

29 maggio

Sir Edmund Hillary, che per primo riuscì a raggiungere la vetta dell'Everest, celebra a Katmandu il cinquantesimo anniversario della sua impresa. Lo festeggiano più di 400 scalatori e appassionati della montagna giunti da ogni parte del mondo. L'alpinismo può essere considerato l'antesignano degli sport estremi che oggi riscuotono tanto successo: discipline sportive nelle quali sull'elemento della competizione con gli altri prevale la sfida contro sé stessi e contro l'ambiente.

Ritorna il 'sogno di Icaro'?

Si potrebbe dire che tutto sia cominciato negli anni Cinquanta, quando alcuni film americani, rigorosamente in bianco e nero, fecero sapere di quei ragazzi messicani che per pochi dollari e per l'eccitazione di ricchi turisti rischiavano la vita, tuffandosi nell'oceano dalle alte rupi di Acapulco. Può darsi che non sia andata proprio così, ma se con il termine 'sport estremi' si intende un guanto di sfida gettato contro le proprie capacità e le avverse condizioni ambientali, un punto d'avvio vale l'altro. Resterebbe poi da stabilire quanto vi sia di realmente 'sportivo' in prove di abilità o di coraggio che finiscono sovente con il mettere in gioco l'incolumità personale. Chi si avventura su questo terreno muove dalle motivazioni più disparate, ma sempre nel rifiuto convinto di norme comportamentali di valenza generale. Lo sport tradizionale, quello di natura olimpica, trova invece la sua ragione d'essere e il motivo della sua fortuna nell'adozione di regole che vanno in senso diametralmente opposto, privilegiando in massima misura la tutela fisica e tentando di imporre il maggior rispetto possibile tra gli avversari.

Proprio nell'incerto confine tra questi due differenti modi di intendere la prestazione a sfondo sportivo trovano legittimazione tutti quegli esercizi che, con una certa approssimazione, si definiscono 'sport estremi'. Esercitazioni che non si possono ritenere manifestazioni sportive in senso stretto, anche se ne traggono origine, che rifiutano classifiche o graduatorie, si sviluppano in totale libertà adattandosi con inventiva (e un pizzico di giocoso masochismo, se vogliamo) all'ambiente naturale che le suggerisce. Quali possono essere gli stimoli che animano i loro praticanti? Impossibile razionalizzare. A ben vedere, potrebbe trattarsi dell'eterno 'sogno di Icaro', della tentazione a voler ripercorrere il viaggio di Ulisse, del desiderio di esplorare le proprie barriere mentali e fisiche, della voglia di riuscire dove altri hanno fallito, della convinzione di poter controllare le tensioni e di saper superare rischi: in sintesi, della presunzione di dimostrare a sé stessi di 'essere capaci'. Un po' come quegli avventurosi che affrontano spese notevoli per regalarsi una vacanza da brivido nelle foreste del Borneo o per esporsi ai rischi della traversata del deserto del Gobi. Un agognato ritorno alla vita primitiva (il mito del buon selvaggio di Rousseau) che spinge i moderni Robinson Crusoe a frequentare costose scuole di sopravvivenza. Questo per il lato nobile, quello più razionale. Esistono poi altri stimoli, più prosaici e meno appariscenti, più venali, e sui quali mette conto sorvolare, che vanno dall'esigenza di sperimentare nuovi materiali da porre in commercio all'esplorazione di nuovi scenari turistici da proporre ai più.

Una spinta che viene da lontano

La spinta è sempre la stessa. E viene da lontano. Quando ancora infuriava la battaglia tra i sostenitori del più pesante e del più leggero dell'aria, con grande richiamo di pubblico si organizzavano gare di palloni aerostatici. Che fossero improntate alla permanenza in volo oppure alla maggiore distanza coperta, il risultato era il medesimo, quasi sempre si perdevano le tracce sia degli aerostati sia dei loro occupanti. Conseguenze accettate di buon grado, che si riteneva facessero parte del gioco: era l'eterna sfida dell'uomo all'ignoto. Poi vennero le automobili e il sano cinismo di Luigi Barzini che, un po' inventando, un po' esagerando, costruì l'epopea della Pechino-Parigi del principe Borghese. La sfida all'estremo, il balzo verso il futuro, il prezzo da pagare alla modernità. Era esattamente quello che si aspettavano i suoi lettori e che fece la sua fortuna.

A questo richiamo non si sottraevano neppure romanzieri popolari: anche Emilio Salgari, quando ormai la bicicletta era diventata il mezzo più diffuso, si lasciò andare a scrivere un avventuroso Al Polo Australe in velocipede. La gente reclamava di più. In quegli anni di Belle Époque si approntarono le manifestazioni sportive più disparate: massacranti maratone di mille e più chilometri, improbabili sfide di ciclisti contro quadrupedi, affollati cimenti di nuoto invernale con la temperatura dell'acqua ben al di sotto dello zero. Tutte manifestazioni che i propugnatori dello sport d'origine britannica rifiutavano con sdegno. E che si dissolsero del tutto quando finì con l'affermarsi compiutamente lo sport olimpico, il quale trovava la piena legittimazione esclusivamente all'interno dello stadio e nel razionale raffronto di tempi cronometrici e misurazioni.

Quindi sport estremi come reazione alla fatica fisica finalizzata alla conquista del record. Può infatti apparire un'affermazione irrazionale, ma tutto lo sport dovrebbe ritenersi 'estremo'. Nella battaglia ingaggiata per far avanzare i limiti umani, la nuova frontiera è oggi costituita da un'inedita emulazione tra i due sessi. Tanto che sono già molti gli sport che prevedono classifiche miste (in equitazione, nella vela, nel tiro a volo ecc.). Le previsioni dei fisiologi per determinare il confine ultimo della prestazione sportiva vengono puntualmente smentite. Ma la posta in palio è molto alta. Per conquistarla scendono in campo moderni stregoni, con riprovevole disinvoltura si vagheggia l'atleta perfetto, la medicina esplora nuovi territori e non disdegna di ricorrere alla chimica. Gli stimoli sono sempre più elevati. Tim Montgomery che corre in 9 secondi e 78 centesimi i 100 metri non conquista solo il record mondiale, ma viene consegnato alla storia come l'uomo più veloce che abbia mai calcato questo pianeta. La fondista Paula Radcliffe che percorre 42 chilometri in 2 ore 15 minuti 25 secondi non stabilisce solo il primato mondiale della maratona, ma per quel record riceve un premio aggiuntivo di 250.000 euro.

Fuga dagli stadi

La fuga dagli stadi prende le mosse intorno al 1970. Le prime avvisaglie sono le improvvise fortune del jogging di gruppo, del tennis con gli amici, dello sci della domenica. Si riscopre la bicicletta che era finita ad arrugginire in soffitta. Si combatte il male delle società ricche, la sedentarietà, ma non solo. Poi il fenomeno deborda dai confini dell'improvvisazione e dell'istintivo, diventa messaggio pubblicitario che interessa e coinvolge le aziende, le fabbriche di attrezzature sportive, le industrie di alimenti e bevande, i gestori di palestre. Se è vero che sono sempre le minoranze a fare tendenza, non poteva essere che una minoranza a rifiutare questa nuova cultura fisica di massa, rifugiandosi nell''estremo'. Proprio in quegli anni appare in Italia la prima rivista dedicata al nuovo settore (la No-Limits che fa riferimento all'aggressiva marca di orologi Sector). Nelle sue poche pagine, più immagini che testo, sono presentate avventurose esercitazioni che stimolano la curiosità e, in qualche misura, fanno pure sorridere. Anche se ai più non appare ancora chiaro perché lo facciano, è stata aperta la via per una nuova frontiera.

Non è possibile - né corretto - stabilire quanti e quali siano gli sport estremi. Non esistono organizzazioni di riferimento, non ci sono manuali né norme univoche di comportamento. Molto si improvvisa e tanto si sperimenta. Per ogni nuova prova che viene introdotta, ce n'è almeno un'altra che viene abbandonata. Sono inoltre presenti profonde differenze tra i cultori di nazionalità diverse, con un inevitabile condizionamento da parte delle tradizioni locali, sportive o meno. La stessa ragione d'esistere per gli sport estremi risiede nel rifiuto di qualunque omologazione. Si potrebbe tuttavia azzardare un tentativo di catalogazione riferendosi all'ambiente nel quale operano gli appassionati. Seguendo un criterio di questo tipo, si può parlare di sport di aria; terra e montagne; neve e ghiaccio; acqua. Rifiutando in partenza ogni sottocategoria (basta una visita su qualunque sito Internet dedicato all'argomento per rendersi conto dell'inutilità di tale sforzo), si può ulteriormente affinare la catalogazione adottando un criterio geografico, considerando per es. gli 'estremi' più praticati in Italia, anche in funzione delle condizioni ambientali che caratterizzano il nostro paese.

Sport estremi e Olimpiadi

Tutto ciò premesso, si potrebbe pensare che non esista alcun punto di contatto tra il variegato mondo degli sport estremi e lo sport a vocazione olimpica. Non è proprio così. Sono infatti numerose le specialità nate dalle esercitazioni dei cultori degli sport estremi a essere state accolte più o meno recentemente alle Olimpiadi. Tanto da configurare una vera rivoluzione nei programmi olimpici a danno di discipline molto più paludate, ma anche molto meno spettacolari. Si tratta infatti di specialità molto ben accette in chiave televisiva (non per nulla gran parte delle risorse economiche del CIO proviene dalla cessione dei diritti televisivi) e che hanno raggiunto in breve tempo una rapida affermazione, specie tra i più giovani, grandi consumatori di mode, e per questo disposti a notevoli sacrifici economici per poterle seguire. Curiosamente a rischiare di più è oggi il pentathlon moderno, la disciplina multipla 'inventata' dal barone Pierre de Coubertin - il restauratore dei Giochi olimpici - che si ispirò alle romanzate avventure del corriere dello zar Michele Strogoff.

Per avere un'idea immediata di quanto si siano affermati gli sport estremi è sufficiente dare un breve sguardo alle specialità di recente introduzione - tutte sia maschili sia femminili - previste dal programma dei Giochi della XXVIII Olimpiade, che si apriranno ad Atene l'11 agosto 2004: beach volley, kayak slalom, mountain bike, trampolino, triathlon, windsurf. Il beach volley, disciplina proveniente dalle spiagge californiane e diffusasi a macchia d'olio con grande seguito di pubblico anche in Italia, consiste nella versione estiva della pallavolo e si gioca tra due coppie di giocatori su fondo sabbioso e a piedi nudi; ha fatto il suo esordio olimpico nel 1996. Il kayak slalom deriva dalle discese effettuate con mezzi di fortuna su torrenti di montagna. Fu introdotto nel 1972 ai Giochi di Monaco, quando la prova venne disputata su un impianto artificiale che riproduceva nel cemento i difficili passaggi alpini, mentre in seguito sono stati sempre utilizzati torrenti naturali; si gareggia sia in 'singolo' sia in 'doppio'. La mountain bike, la bicicletta da fuoripista che ha avuto grande fortuna tra i giovani e meno giovani, consente grazie ai suoi ampi rapporti di affrontare salite e terreni impervi, altrimenti proibitivi; alle Olimpiadi si disputa la gara di cross, accolta nel 1996. Il trampolino, introdotto nel 2000 nel programma olimpico della ginnastica, consiste in un telo elastico di 5 metri di lato teso a 1,20 metri da terra, sul quale si devono compiere salti, giravolte e capriole di sapore quasi circense, ma che la grandissima elasticità dei materiali rende molto spettacolari. Il triathlon, derivato dalle prove estreme disputate negli anni Settanta in California e alle isole Hawaii (Ironman), impegna i concorrenti in un triplo esercizio: si parte con 1500 metri di nuoto in acque libere, si prosegue con 40 chilometri in bicicletta e si conclude con una corsa di 10.000 metri; la classifica è a tempo complessivo e pertanto è impossibile concedersi anche la più breve pausa tra una prova e l'altra; l'esordio olimpico risale al 2000. Il windsurf, tavola a vela derivata dal surf, ha fatto la sua apparizione olimpica sin dal 1984, non per nulla proprio in California, dov'era cresciuta la specialità; da allora si sono succedute nei programmi diverse 'classi', in funzione della maggiore diffusione nel mondo dei vari tipi di attrezzo.

Anche la versione invernale dei Giochi olimpici negli ultimi anni ha aperto a nuove discipline provenienti dalle esercitazioni degli sport estremi. Così a Salt Lake City nel 2002 si sono disputate gare di freestyle, skeleton e snowboard. Il freestyle, accolto ai Giochi nel 1992, risale a metà degli anni Sessanta quando alcuni sciatori californiani sperimentarono lo hot-dog, un'ardita combinazione di passaggi su montagnole di neve, salti e passi di danza da effettuarsi con gli sci ai piedi; l'iniziativa scandalizzò i puristi, ma entusiasmò i giovani e si affermò rapidamente; le specialità principali sono oggi le gobbe (in inglese moguls) e i salti acrobatici (aerials), ma dalla ricerca di nuove sperimentazioni sono nati lo half pipe (una variante su pista da discesa) e lo ski-cross, un esercizio molto spettacolare nel quale due concorrenti scendono in parallelo incrociandosi durante i salti. Lo skeleton ha fatto il suo esordio olimpico nel 2002 (dopo una isolata apparizione nel 1948) e rappresenta un ritorno alle origini, quando veniva usato un rudimentale slittino in legno su strade innevate di montagna; si gareggia su una pista ghiacciata e i concorrenti si sdraiano a faccia in giù e a testa in avanti, guidando il mezzo con i soli movimenti del corpo e frenandolo con i piedi. Lo snowboard, apparso ai Giochi nel 1998, utilizza un attrezzo compatto e dai bordi arrotondati derivato dal più classico board da strada; affermatosi in breve tempo per la notevole facilità di utilizzo e la grande mobilità che consente, sta praticamente soppiantando dovunque lo sci tradizionale e creando seri problemi di convivenza ai gestori degli impianti sciistici; le gare olimpiche sono lo slalom (due discese su distanze non superiori a 400 metri) e lo half pipe (evoluzioni e salti compiuti su un pista ricavata nella neve).

Un anno di 'eventi' estremi

Nella primavera 2003 la locuzione sport estremi è tornata di assoluta attualità, associata ad alcuni eventi che hanno interessato e incuriosito l'opinione pubblica. Ne abbiamo scelti alcuni che più da vicino hanno interessato il nostro paese.

Il tetto del mondo

Alle ore 11,55 del 23 maggio 2003 Manuela Di Centa, che è l'atleta azzurra più titolata grazie alle cinque medaglie vinte nel fondo ai Giochi olimpici invernali, oltre che membro del CIO, è diventata la prima italiana ad aver raggiunto la cima dell'Everest. Era tra i 400 alpinisti che hanno celebrato l'anniversario della scalata che il 29 maggio 1953 portò il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay sul tetto del mondo, precedendo di un anno la spedizione di Ardito Desio sul K2. Nei cinquant'anni passati da allora si calcola, sia pure per difetto, che gli 8850 metri dell'Everest siano stati conquistati da almeno 1200 persone, la gran parte delle quali ha potuto compiere l'impresa affidandosi a spedizioni commerciali, gestite da organizzatori che garantiscono una felice riuscita a chiunque sia in grado di pagarsi un capriccio dal costo variabile tra i 50.000 e i 100.000 dollari. Senza tener molto conto che a quelle altitudini le capacità organiche possono ridursi fino all'80%.

Perché ci provino in tanti è materia controversa. Ma quanto siano numerosi lo testimonia anche la recente apertura del primo Internet café al di sopra dei 4000 metri. In verità, la gran parte di queste persone non avrebbe la capacità e l'esperienza per poter salire senza l'aiuto degli sherpa nepalesi, trasformatisi con gli anni da portatori di materiale in scalatori provetti e guide affidabili. La tendenza si è amplificata nell'ultimo ventennio, cancellando definitivamente il fascino della scalata sportiva e violando per sempre l'impressionante silenzio delle vette più alte del mondo. Tanto che oggi uno dei problemi di più difficile soluzione è rappresentato dallo smaltimento della montagna di rifiuti che seppellisce il tradizionale campo base. Troppo costoso portarla in basso, impossibile smaltirla sul posto.

Trasformata l'avventura in una vacanza di massa (per festeggiare il cinquantenario, sull'Everest è stata organizzata una maratona di corsa a un'altitudine di 5000 metri e a cui hanno preso parte una trentina di corridori: il vincitore ha impiegato 3 ore e 28 minuti), è cominciata la caccia alle prestazioni estreme, quelle da iscrivere nel Guinness dei primati. Alcune molto curiose, altre strampalate, forse tutte superflue. Il nepalese Apa Lhapka Tenzing è l'uomo che ha raggiunto la vetta dell'Everest il maggior numero di volte: 12 ascensioni compiute nel periodo tra il 1990 e il 2002. Il primato della salita più veloce dal campo base fino alla vetta appartiene a un altro sherpa nepalese, Pemba Dorje, che nel 2003 ha impiegato 12 ore e 45 minuti. La prima donna a domare l'Everest è stata nel 1975 la giapponese Junko Tabei.

Ma c'è anche chi è andato oltre, come il cinquantenne inglese Tom Whittaker che nel 1998 è arrivato in cima con una protesi artificiale al posto del piede destro. O come l'americano Gary Guller che nel 2003 ha scalato la montagna più alta del mondo benché privo di un braccio. C'è stato anche chi ha voluto sfidare la sorte estrema 'scendendo' dalla vetta al campo base con gli sci ai piedi (come lo sloveno Dave Karnicar nel 2000) o con lo snowboard (come fece nel 2001 il francese Marco Siffredi, deceduto l'anno seguente in una impresa simile).

La prima sfida all'impossibile l'aveva lanciata una quarantina d'anni fa il giapponese Yuichiro Miura che, dopo aver raggiunto quota 8150 metri, provò a discendere con gli sci e con un paracadute sulle spalle che ne avrebbe dovuto frenare la velocità. L'espediente non funzionò e Miura venne recuperato in condizioni disperate. Nella primavera di quest'anno si è preso la rivincita diventando, a 70 anni d'età, l'alpinista più anziano ad aver calpestato la neve dell'affollato tetto del mondo.

La grande onda

Da sempre l'avevano cercata tra le Hawaii e l'Australia, l'onda della vita, la superonda, l'onda anomala, tanto terrificante da ammirare quanto impossibile da domare. La sfida di una vita da giocarsi nello spazio di un brivido. Un tema che ha ispirato film di buon successo e che a ogni stagione mobilita legioni di surfisti. Estenuanti attese a spiare l'orizzonte marino valutando ogni minima variazione di vento, pronti a lanciarsi in acqua sopra 'tavole' sempre più calibrate. Si ritiene che la più impressionante sia quella apparsa - e cavalcata - nel novembre 2002 a Jaws, al largo della spiaggia di Manui, nell'arcipelago hawaiano. Con una meticolosità più scientifica che sportiva ne è stata misurata l'altezza in 66 piedi, poco più di 20 metri, pari a un palazzo di almeno sei piani.

Un record tutto americano che ha vacillato nell'aprile 2003, quando due ragazzi francesi sono riusciti a localizzare - e a domare - un'onda di altezza appena inferiore, con l'apice collocato a 64 piedi. Ma la stranezza è che il teatro di questa recente impresa si trova nel Golfo di Biscaglia, dove è andata a infrangersi l'onda gigante europea che si era creata dall'altra parte dell'Atlantico, nei pressi di Terranova. C'è chi attribuisce questa anomalia alle bizzarrie del clima che sta mutando, agli sconquassi ambientali causati dal buco dell'ozono, alle inattese e rapide mutazioni atmosferiche. Di certo è che i due surfisti francesi hanno trovato l'onda della loro vita a due passi da casa, dopo averla catturata via satellite e seguita via computer.

Quasi un affronto per americani e australiani, da sempre cultori e spericolati maestri delle acrobazie sulle tavole. Si è così innescata un'accesa polemica tra le due sponde dell'Atlantico, incentrata non tanto sull'altezza o sul volume d'acqua spostato, quanto sulla ridotta difficoltà che le onde europee presenterebbero rispetto a quelle del Pacifico. Tanto da spingere una delle maggiori industrie produttrici di materiale da surf a lanciare la Billabong Odyssey, una caccia senza quartiere all'onda del 21° secolo: le regole d'ingaggio prevedono che non dovrà essere inferiore a 100 piedi (come dire quasi 30 metri) e che chi la troverà - riuscendo a domarla, almeno fino a poterlo raccontare - riceverà mezzo milione di dollari.

Le Hawaii di casa nostra si trovano nel piccolo Golfo di Varazze, alla foce del torrente Teiro. Qui il fondale è modesto, ma con favorevoli condizioni di vento e di correnti si formano onde di oltre 3 metri, non quelle della vita, intendiamoci, ma sufficienti a fare della cittadina in provincia di Savona la capitale del surf italiano. La colpa, o il merito se vogliamo, sarebbe da attribuire allo sbancamento realizzato per far posto alla ferrovia costruita negli anni Sessanta: le pietre di risulta vennero scaricate in mare formando una barriera artificiale lunga un centinaio di metri, capace di amplificare la forza della marea. Il crescente afflusso di praticanti sta trasformando la cittadina, che si è attrezzata con una serie di negozi specializzati e alcuni club di surfisti. Un successo che non ha lasciato insensibili al fascino della grande onda neppure gli amministratori locali, tanto che già si vanno predisponendo gli ampliamenti della barriera sottomarina, impatto ambientale permettendo.

Dove osano gli sci

Nei primi giorni dell'aprile 2003 si è consumata un'ennesima tragedia dello sci fuoripista. Un elicottero che trasportava una comitiva di turisti verso una località di confine tra Italia e Francia, a oltre 3000 metri di quota, è precipitato nei pressi del Sestriere. Nell'impatto del velivolo contro un costone di roccia, forse nascosto dalla nebbia, sono perite sei persone, tutti sportivi amanti della montagna e cultori del fuoripista, lo sci d'altura su discese incontaminate e impossibili da raggiungere senza ricorrere all'elicottero.

Il termine tecnico è eliski, parola d'origine canadese che schiude scenari da favola per sciatori che provano crescente avversione per le piste normali, quelle della domenica, sempre più affollate e ripetitive. Beninteso, non tutti possono permettersi l'eliski e la sua pratica sembra per ora limitata ai più facoltosi. Il costo del trasporto in elicottero, di solito della durata di pochi minuti, si aggira infatti sui 300 euro. Senza trascurare altri 250 euro di diaria giornaliera per la guida che ha il compito dell'apripista. Cifre non trascurabili se poi si deve pensare anche all'acquisto dell'attrezzatura. Ma i vantaggi sono tanti. Il più allettante resta il fascino della solitudine e della neve incontaminata, ma non esercitano minor richiamo la prospettiva di una discesa lunghissima, il sapore inebriante della wilderness, le scosse di adrenalina per il rischio di slavine (il solo obbligo imposto è l'uso della ricetrasmittente antivalanghe).

Ce ne è a sufficienza perché sia in larga crescita il numero di quegli sciatori che scelgono di farsi trasportare in cima a una montagna per poi lanciarsi in emozionanti evoluzioni con gli sci o lo snowboard. Nulla a che vedere con lo sci-alpinismo e le sue regole rigorose, il lungo allenamento e la fatica richiesta per superare i 1500 metri canonici di dislivello prima di affrontare le discese. I praticanti dell'eliski si dividono di norma in tre categorie, a seconda dell'abilità: expert (buona esperienza di fuoripista), advanced (padronanza di piste nere e limitata esperienza di fuoripista), intermediate (padronanza di piste nere e nessuna esperienza di fuoripista).

Quello dell'eliski è un fenomeno dai confini ancora non ben definiti, ma in continua espansione. In Italia esplode di norma a primavera, dopo le ultime nevicate. Gli scenari proposti agli appassionati da chi organizza i voli sono tra i più belli del mondo e comprendono l'intero arco alpino, dal Monte Rosa al Cervino, dal Monte Bianco al Gran Paradiso, fino alla Marmolada. Ha molti estimatori, specie tra chi amministra il turismo e l'economia di zone montane prive di impianti di risalita. Ma ha anche molti nemici tra gli ambientalisti che nell'eliski intravedono i rischi di inquinamento per zone ancora selvagge e di disturbo per la fauna alpina. Il vero rebus resta l'assoluta mancanza di strumenti legislativi adatti: per ora solo la Valle d'Aosta ha emanato norme a riguardo che, benché autorizzino i voli per il solo periodo gennaio-maggio, stanno scatenando accese polemiche.

Le diverse tipologie di sport estremi

Caratteristiche comuni

La dizione sport estremi copre una vasta gamma di attività sportive, molto diverse tra loro ma accomunate dalla ricerca di emozioni forti, dal gusto del pericolo associato a un intenso impegno fisico. Gran parte di esse si è affermata sulla costa occidentale degli Stati Uniti verso la fine degli anni Sessanta (donde l'uso di chiamarle 'sport californiani') e da lì si è diffusa rapidamente anche in Europa. A lungo considerati appannaggio esclusivo di pochi avventurosi, gli sport estremi nel tempo hanno conquistato a pieno titolo lo status di discipline sportive, tanto che alcuni sono entrati a far parte del novero delle specialità olimpiche.

L'antesignano degli sport californiani è individuabile nel surf, che in Europa si è soprattutto affermato nella versione a vela (windsurf). A livello mondiale hanno inoltre guadagnato ampia popolarità il free climbing (scalata di pareti di roccia senza l'ausilio di attrezzature alpinistiche), il rafting (discesa su zattera di torrenti), il triathlon (combinazione di nuoto, ciclismo e corsa praticati in successione), lo skateboard (corsa su tavole dotate di rotelle), il windskate (analogo allo skateboard, ma praticato con l'ausilio di una piccola vela: una sorta di windsurf terrestre) e la mountain bike (gara con biciclette speciali adatte a terreni accidentati). Le regate veliche in solitario, il parapendio, il paracadutismo a caduta libera, la canoa su torrenti naturali, lo sci-alpinismo, benché non di diretta derivazione californiana, sono anch'essi sport estremi, assimilabili, per caratteristiche, a quelli. Complessivamente, infatti, possono essere descritte come attività di avventura che richiedono un notevole contenuto tecnologico, vengono praticate individualmente o in piccoli gruppi, a contatto con spazi naturali estesi e possibilmente incontaminati e si basano sulla cooperazione in funzione di una sfida collettiva piuttosto che sulla competizione e la rivalità. La pratica sportiva diventa un mezzo di autoperfezionamento, una sorta di continua competizione con sé stessi, volta al miglioramento del proprio corpo e della propria personalità. Vi è un costante tentativo di superare lo standard d'eccellenza raggiunto, con un innalzamento illimitato della posta in gioco che consiste fondamentalmente nel mettersi alla prova secondo una scala di difficoltà crescenti e avendo come unico limite la propria incolumità fisica.

L'elemento di imprevedibilità insito negli sport estremi costituisce un ulteriore fattore di fascino per coloro che li praticano, attratti proprio dalla consapevolezza che dovranno affrontare difficoltà legate all'instabilità e alla mutevolezza dell'ambiente e imparare a prevedere gli ostacoli, a decifrare i vortici dei fiumi, le onde del mare, le lastre di neve ghiacciata, le fessure di una parete. L'atleta che pratica questo genere di sport non solo deve essere allenato ad altissimo livello, come richiesto per gli sport tradizionali, ma deve anche acquisire una particolare competenza informativa riguardo ai gesti da compiere, proiettandosi al di là dell'ostacolo con l'aiuto degli indizi che scopre, prevenendo le possibili difficoltà di percorso e anticipando le risposte.

Fra gli sport estremi più popolari in Italia possono essere annoverati l'alpinismo con la variante dello sci-alpinismo, il volo a vela, il paracadutismo sportivo, il parapendio, il deltaplano, il torrentismo, la canoa e il rafting, il surf con i suoi derivati windsurf e kitesurf, e ancora lo snowboard e l'hydrospeed.

Alpinismo e sci-alpinismo

L'alpinismo sportivo è nato alla fine del 18° secolo. In epoche precedenti le salite su montagne o valichi di passi montani in alta quota erano legate finalisticamente a guerre, caccia, esplorazioni geografiche, lavoro. La prima vetta a essere scalata per il gusto della conquista fine a sé stessa fu quella del Monte Bianco, raggiunta nell'agosto del 1786 dai francesi Jacques Balmat e Michel Gabriel Paccard, facendo uso di rudimentali piccozze. Pochi anni dopo le ascensioni interessarono altre cime alpine: nel 1800 il Grossglockner, nel 1804 l'Ortles, nel 1811 la più alta cima dell'Oberland bernese. Dal 1850 in poi, la sistematica salita delle Alpi vide protagonisti i gentiluomini inglesi, con il contributo dei valligiani che svolgevano il ruolo di guide. Esempio classico di questo tipo di sodalizio fu quello che portò Edward Whymper e Michel Croz a raggiungere per primi, appaiati, la cima del Cervino il 14 luglio 1865. Croz e altri tre compagni di cordata perirono nella discesa. Whymper, solitario vincitore, marchiato dal senso di colpa per l'accaduto, continuò a violare altre vette, soprattutto delle Ande, fino alla morte nel 1911. Elementi caratteristici di questa prima fase, eroica o 'patriarcale', dell'alpinismo furono l'aspetto sociale elitario e la condivisione della conquista della cima con l'indigeno divenuto 'guida'; la competizione con altri, che portò alla ricerca di nuove vie di salita sempre più difficili per aspetti tecnici intrinseci o estrinseci, quali la stagione invernale; e, non ultimo, la connotazione nazionalistica dell'impresa. Nel 20° secolo l'aspetto competitivo orientò gli alpinisti a tentare la scalata di montagne sempre più alte. Le conquiste delle maggiori cime dell'Himalaya iniziarono a opera di una cordata francese capeggiata da Maurice Herzog nel 1950. La cima dell'Everest fu raggiunta da Hillary nel 1953, il K2 da Lino Lacedelli e Achille Compagnoni nel 1954. Si giunse così fino a prestazioni eccezionali, tra le quali vale la pena di ricordare, per tutte, la scalata nel 1978 della cima dell'Everest senza bombole di ossigeno da parte di Reinhold Messner, in compagnia di Peter Hebeler. Messner rimane a tutt'oggi l'unico alpinista ad aver conquistato tutte le quattordici montagne della Terra la cui cima supera gli 8000 m. La descrizione delle salite e la classificazione delle difficoltà esigono criteri omogenei. Di norma si utilizza la scala di Welzenbach, entrata in uso nelle Alpi nel 1926 e che suddivide le difficoltà di salita in 6 gradi. Nel 1978, a seguito della pubblicazione del libro provocatoriamente intitolato Il settimo grado di Messner, è stato introdotto un ulteriore settimo grado. Nell'arrampicata la salita avviene mediante il reperimento di successive posizioni di equilibrio del corpo, che rimane staccato dalla roccia e il cui peso è scaricato sugli arti inferiori. Nel frattempo, l'alpinista valuta e identifica, valendosi del tatto e della vista, gli appigli che gli consentiranno di compiere il passo successivo. Egli muove un solo arto per volta rimanendo in equilibrio con gli altri tre. Questi semplici movimenti costituiscono lo stile di arrampicata, caratteristico di ciascuno scalatore e destinato, nel singolo, ad affinarsi con l'esperienza, l'allenamento e il conseguente apprendimento motorio volto a ridurre al minimo il dispendio energetico. L'arrampicata 'in artificiale' prevede l'uso di chiodi o di altri mezzi di fissaggio fino a leggerissime ma robuste scalette o staffe pieghevoli, per farne aiuti essenziali alla progressione. Nella salita 'in libera' (free-climbing), invece, lo scalatore per assicurarsi alla parete fa uso solo di chiodi. Dalla salita in libera è derivata l'arrampicata sportiva nelle forme oggi in auge, ove di fatto si è perso il rapporto 'alpinistico' con la montagna mentre vi è la massima esaltazione della tecnica di salita su pareti non necessariamente vaste, ma tecnicamente anche estremamente difficili. Spesso non viene fatto ricorso ad alcun mezzo di assicurazione, secondo una concezione libera, pulita e perfino 'ecologica' dell'arrampicata. Variante dell'alpinismo, vissuto in ambiente invernale, è lo sci-alpinismo, che combina l'arrampicata con la discesa fuori pista. Iniziò a essere praticato alla fine dell'Ottocento: in genere si classifica come prima impresa di sci-alpinismo la salita sul Colle del Pragel, presso Glarus in Svizzera, compiuta nell'inverno del 1893 da Guglielmo Paulcke. Grande promotore fu poi l'ingegnere Marcel Kurz che in varie pubblicazioni descrisse le tecniche della disciplina e numerosi itinerari. In Italia la diffusione dello sci-alpinismo ha avuto momenti importanti con l'istituzione nel 1937 della Commissione nazionale scuole di alpinismo e di sci-alpinismo e nel 1969 della Scuola sezionale di sci-alpinismo. I rischi connessi a questo sport riguardano soprattutto la possibilità della insorgenza di valanghe, a causa dell'instabilità del manto nevoso, in particolare a inizio e fine stagione.

Da ricordare infine l'ice climbing, che prevede la scalata di cascate di ghiaccio. Per salire lo scalatore si serve della piccozza per intagliare 'gradini' nel ghiaccio o, più frequentemente, fa ricorso ai 'ramponi', vere e proprie suole supplementari, applicate sotto le scarpe e munite di dieci o dodici punte metalliche. Per potenziare ulteriormente la difficoltà della disciplina e consentire lo svolgimento delle gare vengono realizzate apposite strutture artificiali con pareti a strapiombo.

Volo a vela

È il volo praticato con velivoli privi di motore, gli alianti, che vengono trainati da appositi apparecchi a una quota di 600-1000 m e poi si sganciano per proseguire sfruttando soltanto l'energia delle correnti termiche ascensionali dovute al riscaldamento del terreno da parte del Sole e all'interazione tra il vento e i rilievi montani. Gli alianti possono essere pilotati con la massima precisione in un ambito di velocità che solitamente si estende dai 70 ai 270 km/h. Fino agli anni Sessanta le tecniche di costruzione, i materiali e i profili alari consentivano la realizzazione di mezzi di efficienza modesta, intorno a 30-35 (per efficienza si intende il rapporto tra la distanza percorsa e la differenza fra la quota di partenza e quella di arrivo). Attualmente l'utilizzo di materiali compositi e l'adozione di profili laminari altamente aerodinamici permettono di raggiungere efficienze maggiori di 50. Contemporaneamente i progressi nello studio dei fenomeni meteorologici hanno consentito di comprendere e utilizzare meglio le energie disponibili in natura, con la possibilità di ampliare i percorsi di volo. Si è così passati da un record mondiale di 861 km nel 1951 a quello attuale di 2463 km. Per quanto riguarda l'altitudine, si è superata la quota 14.000 m.

Paracadutismo sportivo

Il primo paracadutista è stato André-Jacques Garnerin, fisico ventottenne che, dopo ripetute prove, il 22 ottobre 1797 collaudò un paracadute di sua invenzione. A Parigi, nel parco di Monceau, Garnerin salì in mongolfiera sino a circa 700 m, tagliò le funi che legavano la navicella all'aerostato e venne giù oscillando fortemente, ma indenne. Dopo questo successo, con la collaborazione del fratello Jean, apportò numerose migliorie al suo paracadute, fino a realizzare un modello simile a quelli attuali, vale a dire a costituzione floscia e, soprattutto, con un foro all'apice della calotta per farvi passare l'aria ed eliminare le oscillazioni. Nella prima metà del Novecento andò a lungo di moda una doppia soluzione di volo planato e atterraggio con il paracadute: i paracadutisti lanciandosi da 3000 m con ali 'alla Icaro', planavano fino a 600 m e poi aprivano il paracadute per atterrare. Il più famoso fu l'americano Clem Sohn (morto nel 1937 durante un'esibizione), soprannominato l'uomo-uccello, che utilizzava ali di tela steccate dai polsi fino alle caviglie. Il paracadute a calotta tonda, ripiegato in uno zaino e imbracato con il corpo, fu più tardi trasformato in dispositivo di salvataggio per aerei e accessorio bellico delle truppe d'assalto. Il paracadutismo è divenuto attività sportiva nel periodo immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale, quando ebbero inizio le esibizioni di lancio da grandi altezze, con l'apertura del paracadute ritardata il più a lungo possibile. Non mancarono naturalmente gli incidenti mortali, come quello occorso a S. Cannarozzo in un tentativo di lancio da 3000 m, con apertura a 30 m dal suolo. Nel 1945 il sovietico V. Romanjuk si lanciò da 13.108 m, con apertura a 967 m dal suolo, precipitando per 12.141 m in 2 minuti e 7 secondi, alla velocità di 344,100 km/h; nel 1947 il francese Cartier si gettò, munito di uno speciale paracadute, da un aereo che volava a 1000 km/h. L'attività agonistica si svolge sotto l'egida della Fédération aéronautique internationale (FAI), che delega ai singoli aeroclub nazionali le mansioni nei rispettivi territori di competenza. Le specialità classiche prevedono prove di precisione di atterraggio, individuale e di gruppo; prove di stile individuale con l'esecuzione di figure obbligate durante la caduta libera; lavoro relativo (lanci eseguiti da squadre di 4 o 8 elementi, che effettuano figure acrobatiche durante la caduta libera, mantenendo la stessa velocità relativa tra i componenti della squadra); lavoro relativo a paracadute aperto; paraski, forma combinata di paracadutismo e sci, con squadre di 3 elementi, consistente in un lancio di precisione di atterraggio e in una prova di slalom gigante, effettuati in zone montuose innevate e in pendenza. Accanto alle specialità classiche ve ne sono altre, di rilevante contenuto spettacolare, come per es. il freestyle (lavoro acrobatico individuale in caduta libera), effettuato per lo più in occasione di esibizioni e di tentativi di record.

I paracadute possono essere di diversi tipi: dal classico paracadute 'tondo', ancora utilizzato da militari e civili - soprattutto nelle fasi di addestramento basico -, ai rettangolari che, al contrario dei tondi, sono capaci di planare e di virare, e quindi si guidano più agevolmente.

Parapendio

Il parapendio, specialità nata negli Stati Uniti e diffusa in tutti i paesi montuosi, specialmente quelli europei della regione alpina, utilizza un tipo particolare di paracadute, con il quale ci si lancia da terreni sopraelevati o montagne. I parapendii presentano la caratteristica di grande manovrabilità: possono guadagnare quota e restare in aria per molto tempo sfruttando le correnti aeree ascensionali che si creano quando il vento urta una montagna, o quando si formano delle 'termiche' (masse d'aria calda che tendono a salire). Talvolta sono fabbricati in doppio strato con l'aria che passa attraverso i due strati, distanziati tra loro da setti paralleli di tessuto. Al momento del lancio il parapendio è già spiegato e viene fatto gonfiare dal vento. In genere grazie all'utilizzo di tessuti ultraleggeri, che consentono di ottenere profili alari dalle caratteristiche di portanza ed efficienza notevoli, una leggera brezza è sufficiente a determinare il gonfiaggio della vela e il 'decollo' del paracadutista. Governando la vela attraverso le funicelle di comando si scende a fondovalle.

Deltaplano

Il deltaplano è costituito da un'ala (o vela), in speciali fibre sintetiche, sostenuta da una struttura in lega leggera controventata da cavi, ancorati superiormente a un pilone centrale e inferiormente al trapezio. Nella parte inferiore dell'ala si aggancia un'imbracatura, alla quale si assicura il pilota. Manovrando il trapezio il pilota sposta il baricentro del corpo rispetto al centro di spinta della forza di sostentamento aerodinamica e genera così rotazioni del deltaplano attorno agli assi longitudinale e trasversale, che gli permettono di dirigere il mezzo. Il deltaplano fu ideato attorno al 1960 da Francis Rogallo, tecnico della NASA, e proposto come alternativa al paracadute per il recupero dei velivoli spaziali. Pur non utilizzato a tale scopo, ha subito una notevole evoluzione, dando luogo a un'attività sportiva che si è diffusa in tutto il mondo. Di diretta derivazione dal deltaplano è il deltaplano a motore: al posto dell'imbracatura è agganciato un carrello (carrello pendolare), sul quale sono fissati il motore, con elica spingente, e il seggiolino per uno o due piloti. Il carrello è munito generalmente di tre ruote, ma esistono carrelli dotati di galleggianti per ammarare o di sci da neve.

Torrentismo

Il torrentismo (detto anche trekking acquatico o canyoning) è un tipo di attività sportiva nella quale si fondono alpinismo, speleologia e sport acquatici: consiste nel percorrere da monte a valle corsi d'acqua incassati, privi di rive praticabili. Nel corso della discesa è necessario superare salti di roccia, cascate, laghetti, profonde gole e allo scopo vengono utilizzate tecniche specifiche di vario genere, quali per es. la discesa in corda doppia, salti, scivolate. L'attrezzatura comprende, oltre alla muta subacquea richiesta dalla temperatura di norma molto bassa del-le acque torrentizie di montagna, corde, imbracatura, chiodi ecc. È poi sempre necessario indossare un ca-sco per proteggersi dalla caduta di sassi, evenienza assai comune, in particolar modo durante i frequenti temporali estivi. Un altro pericolo è costituito dalle piene improvvise. Il torrentismo richiede dunque un notevole livello di esperienza e di tecnica. In Italia il torrentismo si pratica nelle forre di tutto l'arco alpino, nelle Prealpi e sull'Appennino centrale. Nel resto d'Europa è particolarmente diffuso, fin dagli anni Ottanta, in Francia e Spagna.

Canoa e rafting

La canoa utilizzata nell'attività sportiva deriva dall'imbarcazione leggera di forma allungata, scavata in un unico tronco d'albero, per lo più a un solo vogatore, al massimo due, usata dagli indigeni dell'America Centrale. Il kayak, invece, ha origine dal canotto monoposto a scafo affusolato degli eschimesi dell'America artica, formato da un'intelaiatura di legno, rivestita di pelli di foca molto tese e dotato nella parte superiore di un'apertura circolare nella quale s'infila il vogatore. Oltre che per l'origine kayak e canoa si differenziano per il tipo di voga e di pagaia: seduti e a due pale nel primo, in ginocchio e a una pala nella seconda. Lo sport della canoa fu introdotto in Inghilterra nel 1865 ed è specialità olimpica dal 1936. In Italia ha fatto la sua comparsa negli anni Trenta (la prima edizione del campionato italiano si disputò nel 1939) ma non ha grandissimo seguito anche perché non sono molti i corsi d'acqua in cui esso può essere effettuato (Passirio, Adige, Enza, Trebbia, Tevere), limitatamente peraltro a brevi periodi dell'anno. Gli scafi, estremamente sottili e leggeri, sono preferibilmente costruiti in legno di cedro a fogli sovrapposti, anche se si va affermando sempre più l'impiego delle resine sintetiche e non del tutto abbandonato è l'uso di imbarcazioni in alluminio e leghe leggere. Fra le gare, altamente spettacolari risultano quelle di slalom, che si disputano su un percorso di lunghezza non superiore ai 600 m in acque vorticose e ricche di ostacoli naturali e artificiali (correnti, controcorrenti, rapide, rocce, sbarramenti ecc.), comprendendo un minimo di 25 porte fino a un massimo di 40, larghe da 1,20 m a 3,50 m.

Il rafting, nato in America negli anni Cinquanta (raft significa "zattera"), consiste nel discendere lungo i fiumi a bordo di gommoni. In Italia la sua diffusione è iniziata nel 1987 quando è stata fondata l'Associazione italiana rafting. I gommoni omologati per il rafting possono ospitare da 4 a 12 persone circa e sono praticamente inaffondabili grazie agli scomparti separati. Per praticare lo sport sono indispensabili giubbetto salvagente, muta in neoprene, casco e pagaia. Variante invernale del rafting è lo snow rafting, che consiste nella discesa sulla neve fuori pista a bordo di un gommone.

Surf, windsurf e kitesurf

Antichi canti hawaiani sembrerebbero testimoniare che un'attività simile al surf fosse praticata in Polinesia già nel 15° secolo. Il surf attuale, diffuso specialmente lungo le spiagge dell'Australia e dell'America, consiste in velocissime planate compiute mantenendosi in piedi su una tavola (le più diffuse in schiuma di poliuretano espanso, con rivestimento di vetroresina), fornita sul lato inferiore di tre pinne terminali, trasportata da grandi onde dal largo verso la riva. Le dimensioni della tavola (in genere comprese tra 2 e 3 m) variano a seconda della categoria e della statura dell'atleta, nonché delle condizioni ambientali. Esistono inoltre delle varianti del surf nelle quali l'atleta, utilizzando apposite tavole (di diverse forme e dimensioni), si posiziona sulle ginocchia (ingl. knee-board) o con il corpo disteso (body-board). In Italia la pratica del surf è amministrata dall'Italian surfing federation (ISF), fondata a Viareggio nel 1991 e riconosciuta dalla International surfing association (ISA), il principale ente mondiale.

Derivato dal surf, il windsurf utilizza una tavola costruita in resina o, più modernamente, in vetroresina, della massa minima di 18 kg, di lunghezza variabile da 3,60 m a 3,95 m, priva di timone e con una o più lamine di deriva, alla quale è fissata una grande vela triangolare (manovrabile con un doppio boma a forma di forcella) per sfruttare la spinta del vento. Quest'attività sportiva, già da tempo praticata specialmente negli Stati Uniti, si è diffusa in Italia dall'inizio degli anni Settanta. Le gare, cui prendono parte i concorrenti suddivisi in categorie di peso (esiste anche una categoria unica femminile), consistono ciascuna di più regate che si svolgono secondo il regolamento olimpico della vela, in competizioni che dal 1984 sono state ammesse ufficialmente ai Giochi olimpici. La modalità più diffusa di praticare il windsurf è quella cosiddetta lightwind, con vento di potenza inferiore ai 10 nodi. Più estrema è la versione highwind, con vento da 10 a 25 nodi, nella quale la tavola, in genere di dimensioni più piccole, va in planata assumendo velocità che rasentano i 70 km/h. Ancora più ardimento e abilità richiede il bump 'n jump windsurfing, con vento fino a 40 nodi e mare mosso.

Il kitesurf è nato sulle coste hawaiane e si sta diffondendo con enorme successo anche in Europa grazie alla possibilità di praticarlo in luoghi non particolarmente ventosi e con onde non molto alte. L'attrezzo impiegato è un windsurf in cui, al posto della vela, al boma è fissato, tramite due o quattro lunghi cavi, un aquilone, utilizzato per planare e saltare sull'acqua; sulla tavola sono posizionati due o tre straps che servono a mantenere ancorati i piedi del kitesurfer nel corso delle varie evoluzioni (tricks). Snowboard

Lo snowboard nacque negli anni Sessanta negli Stati Uniti con l'invenzione di una versione per la neve della tavola da surf. Il primo materiale utilizzato fu il compensato marino incollato a multistrato, mentre a dare direzionalità alla tavola, non esistendo le lamine, furono adibite piccole pinnette; gli attacchi erano delle cinghie del tutto simili a quelle del windsurf. Per molti anni si trattò solo di esperimenti occasionali, ma verso la fine degli anni Settanta iniziò la produzione in serie delle tavole. Con il passare degli anni lo snowboard si è evoluto nell'attrezzo sofisticato ora in voga: una tavola in fibre sintetiche o in legno e fibre di vetro, lunga mediamente oltre 1,5 m e larga circa 40 cm, con i bordi rinforzati da lamine in acciaio, la punta arrotondata e leggermente ricurva verso l'alto e gli attacchi per gli scarponi posti trasversalmente rispetto all'asse della tavola.

In Europa lo snowboard arrivò agli inizi degli anni Ottanta. I primi a utilizzarlo furono i francesi, seguiti dagli austriaci. In Italia si impose con maggiore fatica, anche a causa dell'iniziale ostilità dei gestori degli impianti che temevano che l'attrezzo potesse rovinare le piste. Verso la fine degli anni Ottanta ebbero inizio le gare a livello amatoriale e poi a livello internazionale. La consacrazione definitiva dello snowboard è arrivata con le Olimpiadi invernali di Nagano (Giappone) del 1998: accolto come disciplina olimpica, ha dato vita a quelle che sono state definite le gare più spettacolari di quell'edizione, seguite sul posto da quasi 10.000 spettatori. Le competizioni contemplano prove di slalom speciale, slalom gigante, slalom parallelo e di freestyle.

Hydrospeed L'hydrospeed, che consiste nel nuoto pinnato in acque fluviali, è una disciplina diffusa in tutta Europa ma non molto nota al grande pubblico. Nacque in Francia verso la fine degli anni Cinquanta, dapprima come nuoto in acqua viva senza l'ausilio di alcun mezzo di galleggiamento. In seguito fu introdotto un galleggiante su cui il nuotatore potesse appoggiarsi: all'inizio si trattava di una camera d'aria infilata in un sacco di tela e aveva il solo scopo di fornire un punto d'appoggio e di sicurezza durante la discesa fluviale; successivamente, per evitare il pericolo di forature, si cominciò ad adoperare un sacco in neoprene con chiusura stagna, riempito con materiale galleggiante, utile anche come protezione dai massi affioranti dall'acqua. L'attrezzo attualmente in uso nell'hydrospeed, chiamato hydrobob o hydro, è formato da uno scafo a forma di catamarano, con impugnature metalliche, un bulbo frontale, due galleggianti laterali che fungono da protettori del bacino e un alloggiamento per i gomiti. Mediamente le misure sono 95 cm di lunghezza, 65 cm di larghezza e 30 cm d'altezza, con un peso variabile fra gli 8 e gli 11 kg e una spinta di galleggiamento di circa 60 kg. Dell'attrezzatura necessaria a praticare lo sport fanno poi parte una muta da 5 mm di spessore, un giubbotto salvagente, le pinne, un caschetto.

I più estremi degli estremi

Fortemente esemplificative del concetto di 'estremo' proprio di questi sport sono alcune attività che appaiono particolarmente caratterizzate dalla ricerca del pericolo e dell'emozione fine a sé stessa, del raggiungimento del limite del coraggio, e che non di rado sono oggetto di critiche e polemiche proprio a causa della loro pericolosità. Il primo sport da citare in questa categoria è il base jumping, che consiste nel lanciarsi da grattacieli, torri, piloni, ponti, strapiombi naturali (base di fatto è una sigla, da building, antenna tower, span, earth) con un paracadute monovela che deve essere aperto solo all'ultimo; il suo 'inventore' è un paracadutista americano, Carl Boenish, che nel 1981 fondò in Texas un'associazione alla quale possono iscriversi solo quei praticanti che si siano cimentati nelle quattro tipologie di lancio: da palazzi, antenne, ponti e pareti di montagna. Il base jumping è vietato in molti paesi. Piuttosto diffuso è il bungee jumping, in cui si salta nel vuoto con un elastico attaccato ai piedi, che frena la caduta a pochi centimetri da terra o dalla superficie dell'acqua. Ispirato a un rito di iniziazione praticato con utilizzo di liane in Oceania, nelle Isole Vanuatu, in Europa è stato introdotto alla fine degli anni Ottanta, per la prima volta in Francia.

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