SOCIOLOGIA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

SOCIOLOGIA

Raymond Boudon
Costantino Cipolla
Roberto Cipriani
Filippo Barbano
Filippo Barbano

(XXXI, p. 1019; App. III, II, p. 761; IV, III, p. 356)

Logica ed epistemologia della sociologia. - Le scienze sociali e umane, e la s. più delle altre, hanno da sempre dato luogo a importanti dibattiti epistemologici; in particolare i sociologi non hanno mai smesso d'interrogarsi sulla questione fondamentale dei rapporti delle scienze umane, e soprattutto della s., con le scienze naturali: se cioè è necessario, stando a quanto hanno proposto alcuni positivisti, cercare di avvicinarle il più possibile alle scienze naturali, o al contrario è necessario considerarle di essenza diversa.

Questioni epistemologiche. - Relativamente al problema epistemologico possono essere registrate tre posizioni fondamentali che corrispondono a tre risposte logicamente possibili.

La posizione monista. Per alcuni le scienze umane devono sottomettersi agli obiettivi e ai metodi delle scienze naturali: il campo scientifico costituisce un'attività definita da regole ben determinate. Le scienze umane e sociali, pertanto, non possono meritare il nome di ''scienza'', che hanno sempre rivendicato al di là della diversità della loro denominazione (scienze morali, Geisteswissenschaften e così via), se non sottomettendovisi. Il secondo enunciato essenziale, indipendente dal primo, che riassume questa posizione è che le scienze umane di fatto possono sottomettersi alle regole dell'attività scientifica: tale modo di vedere può essere designato come positivistico, ma bisogna subito notare che si tratta di una designazione equivoca, dal momento che il movimento positivistico è un movimento di idee complesso e il cui contenuto ha variato col tempo: il positivismo di E. Mach o quello di R. Carnap sono, per es., molto differenti da quello di A. Comte. L'idea secondo la quale non esistono differenze reali fra scienze della natura e scienze sociali è stata difesa con sfumature e con argomenti diversi. È stata difesa in maniera radicale e dogmatica, per es., da G. Lundberg, il quale riprende alcuni principi del neopositivismo viennese per applicarli alle scienze sociali: come Carnap all'epoca ''eroica'' del Circolo di Vienna, Lundberg ritiene che tutte le teorie scientifiche devono, in ultima analisi, poter essere ricondotte a enunciati protocollari, o più semplicemente, a "rilevazioni di dati". Questo positivismo di dati, dunque, esige, come il behaviorismo in psicologia, l'esclusione dal discorso scientifico di ogni enunciato che si basi su "condizioni non osservabili" e soprattutto su stati soggettivi (motivazioni, ragioni, ecc.) degli attori sociali. Di fatto questo positivismo, che può essere definito dogmatico, interessa soprattutto dal punto di vista della storia delle idee, e pochi sociologi vi si rifanno nella pratica. Ben più importante è quello che si può chiamare positivismo diffuso, perché non corrisponde in pratica a nessuna teoria epistemologica propriamente formulata. Tale positivismo ritiene che la materia prima naturale del sociologo sia normalmente costituita da dati raccolti nel modo più neutrale e obiettivo possibile, e che la sua attività principale consista nell'analisi dei rapporti che intercorrono fra questi dati, condotta anch'essa con metodi per quanto possibile neutrali.

La posizione dualista. Una seconda posizione, anch'essa sostenuta in maniera più o meno permanente a partire dalla fine del 19° secolo, afferma, invece, che le scienze umane devono essere considerate assolutamente differenti da quelle naturali. Mentre i positivisti, al di là delle loro diversità, sono monisti, i sostenitori di questa posizione sono, dunque, risolutamente dualisti. In Germania, all'inizio del 20° secolo, essa fu difesa con ricchezza di argomentazioni da H. Rickert e da W. Windelband, ed è stata ripresa negli anni Sessanta da J. Habermas in occasione della disputa sul positivismo (Positivismusstreit). Negli Stati Uniti essa era rappresentata con grande vigore negli anni Cinquanta e Sessanta, oltrepassando però il quadro delle discussioni epistemologiche: infatti, il rifiuto del positivismo e l'affermazione della specificità radicale delle scienze sociali in rapporto a quelle naturali costituì piuttosto il terreno su cui s'impiantarono modelli o, come si può anche dire, stili sociologici originali, quali l'etnometodologia o la s. detta ''fenomenologica''. Al pari della posizione monista, anche la concezione dualista corrisponde a un'infinità di sfumature ma, come per i positivisti la nozione di dati costituisce un punto di convergenza, i dualisti condividono con essi un punto comune: l'idea secondo cui l'obiettivo principale delle scienze sociali è determinare il senso (dei comportamenti, delle credenze, dei movimenti sociali o storici, ecc.). Da quest'affermazione deriva la conseguenza che le scienze umane non possono avere alcunché in comune con quelle naturali, per le quali di fatto la nozione di senso non ha significato, o quanto meno non le riguarda. La posizione dualista si basa su un argomento principale, che era stato proposto da W. Windelband, da H. Rickert e da W. Dilthey nel primo periodo della sua riflessione teorica: le scienze sociali, preoccupandosi essenzialmente di questioni di senso, non possono avere come ideale l'obiettività (il senso di un avvenimento storico come la Rivoluzione francese muta per es. da un'epoca all'altra). Trattandosi di scienze umane, l'idea della neutralità dell'osservazione è dunque, secondo tale concezione, al contempo illusoria e pericolosa.

Si può incidentalmente osservare che questi dibattiti metodologici, che si riscontrano più o meno permanentemente nelle scienze sociali, hanno un corrispettivo per quanto concerne la storia. Più precisamente, quando gli epistemologi si sono interessati alle scienze umane, hanno spesso scelto di considerare la storia quale terreno privilegiato di riflessione: alcuni, come C. Hempel, hanno sviluppato una concezione positivistica della storia e suggerito che il lavoro dello storico non si differenzi essenzialmente da quello del chimico o del fisico; altri, come W.H. Dray, hanno, al contrario, cercato di dimostrare come questa concezione sia insostenibile in quanto non si può scoprire nella storia un equivalente delle leggi universali che costituiscono il fulcro delle scienze naturali. M. White o A.C. Danto, negli Stati Uniti, hanno cercato di mettere in evidenza le particolarità del lavoro dello storico, di cui P. Ricoeur, in Francia, ha per parte sua sviluppato una concezione ermeneutica.

La posizione mista. Non è una posizione eclettica o di compromesso, basandosi piuttosto sulla critica metodica delle insufficienze e dei fraintendimenti delle altre due posizioni. La posizione mista è soprattutto quella dei grandi sociologi classici tedeschi, M. Weber e G. Simmel: ambedue ritengono che le scienze sociali debbano ricercare spiegazioni obiettivamente valide dei fenomeni sociali, e che la validità di una teoria sociologica si misuri secondo gli stessi criteri delle scienze naturali; d'altra parte, la determinazione del senso dell'azione degli attori sociali è un momento essenziale di ogni analisi sociologica, e benché tale senso possa essere stabilito in maniera obiettiva e scientificamente controllata, la sua determinazione è un'operazione che non ha evidentemente equivalenti nel caso delle scienze naturali.

Secondo i sostenitori di questa posizione, le scienze umane non sono sottomesse a criteri di validità specifici, ma, dal momento che vogliono essere scientifiche, sono tenute alle stesse regole d'azione delle scienze naturali. In altre parole, le qualità e i difetti, che fanno sì che una teoria o la spiegazione di un fenomeno siano legittimamente giudicate buone o cattive, sono esattamente gli stessi per le scienze sociali e per quelle naturali. D'altra parte il fatto che ogni fenomeno sociale sia il risultato di azioni umane dà una dimensione originale all'attività del sociologo. Nel quadro di questa discussione è interessante il caso di E. Durkheim. Nei lavori metodologici il sociologo francese si appoggiava a una certa versione del positivismo, basandosi su J. Stuart Mill e A. Comte, ma nella pratica, nelle sue analisi più riuscite, utilizzò una metodologia vicina a quella di Weber: osservando, per es., una correlazione fra i tassi di suicidio e una variabile, egli tentò di mostrare come essa risulti dalle ragioni che gli attori hanno di comportarsi in una data maniera o di avere questo o quell'atteggiamento in un dato contesto o situazione.

Questioni metodologiche. - Non si esagera sostenendo che sia il positivismo sia la posizione ''dualista'' si basano su un insieme di fraintendimenti. Il positivismo, infatti, si fonda sul principio contestabile secondo cui la scienza dovrebbe per la sua stessa essenza limitarsi rigorosamente all'osservabile, principio che costituirebbe addirittura la linea di demarcazione fra scienza e non scienza. Questa posizione è però insostenibile anche nel caso delle scienze naturali, che correntemente introducono nozioni corrispondenti a entità non osservabili (per es., il magnetismo è osservabile solo attraverso i suoi effetti). Di fatto questa interdizione, gettata sull'inosservabile da parte dei positivisti in s. (come da parte dei behavioristi in psicologia), deriva da una loro reazione negativa verso la psicologia e la s. ''da salotto'', contro le quali i positivisti hanno voluto definire dei criteri precisi che consentissero di distinguerle dalle attività scientifiche propriamente dette. Se la loro intenzione era lodevole, essi hanno tuttavia formulato una cattiva diagnosi legandosi a una parola d'ordine al contempo inutile e insostenibile: limitarsi all'osservabile.

Da parte loro i dualisti in generale e gli ermeneutici in particolare devono il loro successo all'essersi opposti agli eccessi dei positivisti, contro cui hanno giustamente ricordato che la nozione di senso è cruciale e che il compito della s. è trovare il senso dei fenomeni sociali. Ma anche la loro reazione è stata eccessiva. Il dover ritrovare il senso delle azioni non condanna il sociologo al soggettivismo: come dimostra l'osservazione corrente, si può esitare sul significato da attribuire all'azione altrui, ma questa esitazione è spesso solo provvisoria perché un complemento di informazioni può per es. condurre a rigettare tutte le ipotesi formulate per spiegare un dato comportamento e a mantenerne una sola, l'unica congruente con i fatti. Così la nozione di senso non è incompatibile con quelle di obiettività, di dimostrazione o di prova. In secondo luogo, i dualisti hanno introdotto una grande confusione in queste discussioni metodologiche, dando alla nozione di senso un significato confuso. Il senso di un'azione e il senso di un avvenimento sono per es. due cose differenti, perché nel primo caso si vuole parlare delle ragioni che fanno sì che un attore agisca in questa o quella maniera, mentre quando si parla del senso di un avvenimento, o a fortiori del senso della storia, si vuole parlare dell'interpretazione che determinate categorie di attori sociali danno di questi avvenimenti o della linea generale che essi pretendono di cogliere al di là del caos degli avvenimenti storici. Nei differenti contesti la nozione di senso non ha evidentemente lo stesso significato.

L'obiettività delle scienze sociali e i criteri dell'attività scientifica. È indispensabile approfondire la questione alla quale gli epistemologi dualisti rispondono negativamente: il fatto che la s. debba ricostruire il senso delle azioni o delle credenze degli attori sociali è veramente compatibile con le regole generali dell'attività scientifica? Com'è noto, è difficile definire l'attività scientifica. Né il criterio della demarcazione proposto da K. Popper (la falsificazione delle teorie scientifiche), né i criteri proposti da R.K. Merton (istituzionalizzazione dell'attitudine critica, del dubbio metodico, ecc.) permettono di definire in modo soddisfacente la specificità della scienza. Ma il fatto che sia impossibile definire chiaramente ciò che distingue due oggetti, in questo caso la scienza e la non scienza, non implica che i due oggetti in questione non siano obiettivamente distinti; allo stesso modo non si può definire in modo analitico la nozione d'arte o la nozione di opera wagneriana, ma questo non indica che queste nozioni siano senza senso. Se è difficile definire i criteri di demarcazione che separano scienza e non scienza, è molto più facile descrivere i criteri che permettono di valutare una teoria scientifica. Alcuni di questi criteri possono essere detti esterni o empirici, nella misura in cui si basano sull'adeguamento della teoria in rapporto al reale. Così una buona teoria scientifica è una teoria le cui conseguenze sono congruenti con il reale, vale a dire non sono confutate dall'osservazione. Bisogna d'altra parte che queste conseguenze siano per quanto possibile specifiche e numerose. Così una teoria sociologica da cui si traesse solamente la conseguenza che vi è una correlazione fra origine sociale e livello scolastico apparirebbe debole secondo i criteri abituali della metodologia scientifica, mentre più efficace sarebbe una teoria che permettesse, per es., di ''predire'' l'intensità della correlazione o di determinare le sue variazioni in funzione del contesto.

K. Popper, T. Kuhn, I. Lakatos e la maggior parte dei filosofi della scienza contemporanei hanno insistito soprattutto su questi criteri esterni, giungendo a considerarli i soli importanti. Di fatto questo modo di vedere risulta dalla concezione a priori che questi autori hanno della scienza. Infatti, quando si esamina la storia delle scienze e ci s'interroga sul perché nella pratica una data teoria sia stata preferita a un'altra, questi criteri esterni o empirici svolgono un ruolo importante, ma non esclusivo. Come ha insistito L. Laudan, i confronti fra teorie concorrenti si effettuano anche a partire da criteri che si possono definire interni. La storia della teoria della relatività, per es., dimostra che i criteri interni ed esterni si uniscono correntemente nella valutazione delle teorie: questa teoria è nata in parte dallo scacco dell'esperienza di A.A. Michelson e E.W. Morley (criterio esterno), ma anche, e forse soprattutto, dalla critica (criterio interno) rivolta da A. Einstein all'idea secondo la quale la simultaneità di due avvenimenti potrebbe essere determinata in modo assoluto.

Questi criteri si applicano alla sociologia?. Le teorie prodotte dalle scienze umane non sono valutate partendo da criteri differenti. In s. come nelle scienze naturali una teoria valida è quella che spiega i dati dell'osservazione quanto possibile numerosi e specifici e che ne rende conto partendo da affermazioni e nozioni accettabili.

Così la teoria della magia di E. Durkheim spiega meglio di quella di L. Lévy-Bruhl le complesse variazioni della magia nel tempo e nello spazio. La seconda non permette, per es., di capire il risorgere di queste credenze nel 16° e nel 17° secolo nella parte più sviluppata dell'Europa, né di comprendere il perché esse siano meno numerose nelle società fondate sull'allevamento o sulla raccolta che in quelle fondate sull'agricoltura o sulla pesca, né perché siano assenti nella Grecia e nella Cina arcaiche. Inoltre, la teoria di Lévy-Bruhl è debole dal punto di vista interno: la nozione di "mentalità primitiva" non solo è azzardata, con la sua ipotesi di una variazione delle regole fondamentali del pensiero in rapporto al contesto sociale, ma ha anche un carattere ad hoc (sembra creata per le necessità della causa) e tautologico (le credenze magiche si spiegano col fatto che i primitivi hanno una mentalità prelogica). In questi esempi e in tutti gli altri che potrebbero essere addotti, la valutazione delle teorie è fatta in funzione dei criteri interni ed esterni correntemente utilizzati nel caso delle scienze naturali. Sebbene le scienze naturali e quelle umane trattino di oggetti ontologicamente diversi, ciò non comporta, dunque, differenze fondamentali dal punto di vista metodologico.

La sociologia interpretativa. Bisogna, tuttavia, rendere giustizia agli epistemologi dualisti: se hanno torto nel pretendere che le scienze umane non possano essere obiettive e seguire le stesse regole procedurali delle scienze naturali, va riconosciuto che hanno comunque indicato un punto importante: se è vero che le scienze umane e la s. in particolare coprono in parte attività che seguono le regole del campo delle scienze naturali, coprono anche attività che se ne distinguono radicalmente. I dualisti hanno il solo torto di volere che quest'ultimo tipo di attività copra l'insieme delle scienze umane. Per concretizzare questa distinzione conviene ricorrere alle classiche nozioni di spiegazione (Erklärung) e d'interpretazione (Auslegung): quando le scienze umane si propongono di spiegare un fenomeno, quest'attività obbedisce alle stesse regole delle scienze naturali; quando si propongono d'interpretare un avvenimento o una sequenza di avvenimenti utilizzano altre regole. Così, quando Durkheim tenta di spiegare la ragione delle credenze magiche, o Weber analizza le affinità elettive del capitalismo e del protestantesimo di tradizione calvinista, o Ch. Tocqueville spiega la differenza fra la società inglese e quella francese alla fine del 18° secolo, essi costruiscono teorie che si fanno apprezzare per criteri analoghi a quelli utilizzati nel caso delle scienze naturali. Queste teorie, come quelle di scienziati quali Ch. Huygens o A. Einstein, sono dei validi modelli generatori. Al contrario, quando il sociologo s'interroga sull'essenza della modernità, sulla ''razionalizzazione'' o l'''anomia'' delle società moderne, o se si stia vivendo un periodo di decadenza o di progresso, solleva questioni di tutt'altro ordine. La stessa cosa accade quando s'interroga sulle tappe o sulle fasi di avvenimenti complessi come la Rivoluzione francese, o quando ne indaga le cause: infatti, queste sono così numerose e intrecciate che è impossibile pretendere di darne una visione obiettiva; in altri termini, ogni elenco delle cause della Rivoluzione necessariamente rispecchierà la sensibilità dello storico e quella del suo tempo, e non potrà non essere "soggettivo". In questo caso, sicuramente le scienze umane lavorano in un modo a loro peculiare: il modo interpretativo.

Gli epistemologi dualisti hanno dunque ragione affermando che le scienze umane possono, e in alcuni casi devono, rinunciare all'ideale scientifico dell'obiettività, ma hanno torto pretendendo che sia sempre così. Il modo interpretativo ha la sua legittimità, ma se Weber e Durkheim sono considerati grandi sociologi, è più perché hanno proposto convincenti teorie esplicative a proposito di fenomeni essenziali, che non perché hanno sviluppato interpretazioni sulla modernità ed espresso inquietudini, che non si distinguono da quelle di molti loro contemporanei.

Bibl.: W.H. Dray, Laws and explanation in history, Oxford 1957; K. Popper, The logic of scientific discovery, New York 1959 (trad. it., Torino 1970); L. Lévy-Bruhl, La mentalité primitive, Parigi 1960 (trad. it., Torino 19814); W.H. Dray, Phylosophy of history, Londra 1964; M. White, Foundations of historical knowledge, ivi 1965; C. Hempel, Aspects of scientific explanation and other essays in the philosophy of science, New York 1965 (trad. it., Milano 1986); A.C. Danto, Analytical philosophy of history, Londra 1968; T. Kuhn, The structure of scientific revolutions, Chicago 19702 (trad. it., Torino 19782); I. Lakatos, A. Musgrave, Criticism and the growth of knowledge, Londra 1970 (trad. it., Milano 1976); K. Thomas, Religion and the decline of magic, Harmondsworth 1973; L. Laudan, Progress and its problems, Londra 1977 (trad. it., Roma 1979); E. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Parigi 1979 (trad. it., Milano 19823); P. Ricoeur, Temps et récit, i, ivi 1983 (trad. it., Milano 1986); R. Boudon, L'art de se persuader, ivi 1990; S. Mesure, Dilthey et la fondation des sciences historiques, ivi 1990; G. Statera, Logica dell'indagine scientifico-sociale, Milano 1994.

Metodi e tecniche della ricerca sociale. - La stessa definizione di metodo sociologico risente delle oscillazioni per le quali di volta in volta la s. è stata assimilata, nel suo statuto metodologico, alle scienze fisiche, oppure da queste separata in modo radicale, ovvero posta in un nesso di continuità-diversità di complessa e mutevole individuazione: oscillazioni e difformi interpretazioni radicate in gnoseologie spesso tra loro assai lontane e in forte competizione. Il quadro risulta, inoltre, complicato dal fatto che gli stessi confini tematici e operativi del metodo appaiono sufficientemente problematici per quanto attiene ai suoi necessari legami con la dimensione epistemologica e con quella tecnica.

Assumiamo, comunque, il metodo sociologico come l'insieme di procedure che indirizzano l'analisi sociologica secondo un'ottica motivata e critica di rigore e di visibilità, in accordo necessario e comunque presente con l'applicabilità tecnica di tali procedure e con le loro implicazioni di natura più astratta o epistemologica. Il metodo trova, inoltre, la sua applicazione più conseguente e piena nell'attività di ricerca, dove s'incontra necessariamente con gli strumenti tecnici di rilevazione e di trattamento dell'informazione scientifica e dove concorre a un processo d'integrazione orizzontale che costituisce la stessa identità della ricerca sociale. Quest'ultima può essere definita come l'insieme di atti, scelte, operazioni e decisioni volte al perseguimento di una meta conoscitiva di natura empirica e come tale legittimata alla verità. In tale ambito la ricerca appare quasi costretta a muoversi secondo principi di coordinamento e parsimonia, nel rispetto del ciclo metodologico dell'informazione scientifica: dalla costituzione dell'informazione elementare alla sua elaborazione, alla sua interpretazione e, infine, alla sua diffusione e/o applicabilità.

L'aumento della complessità dell'oggetto di studio della s., il diffondersi a più livelli dell'informatizzazione, l'ingresso delle tecnologie, la possibilità di manipolare in chiave statistica enormi masse di dati, la domanda crescente, a livello istituzionale e di opinione pubblica, di conoscenze di natura sociologica, la possibilità di seguire tipi di ricerca sociale diversi (ricerca per sondaggio, ricerca-intervento, ricerca a fondamento biografico, ricerca-valutazione, ricerca a base territoriale definita, ecc.), tutti questi fattori rendono più articolato il panorama metodologico e tecnico nel quale la s. è chiamata a operare e richiedono una sorta di ancoraggio, un orientamento sulle tematiche di fondo che solo un breve percorso storico può fornire.

L'evoluzione del pensiero sociologico in campo metodologico: cenni storici. - Il dibattito sul metodo sociologico, sulla sua più o meno affermata originalità, sul suo nesso più o meno stretto con le tecniche di ricerca e con la filosofia, appartiene in maniera intrinseca alla tradizione sociologica. Nasce con la stessa s. e trova continuamente nuovi stimoli e luoghi d'interesse e di manifestazione. Dentro questo percorso è possibile rinvenire qualche linea direttrice che permette di cogliere e chiarire alcune delle componenti di fondo del problema. Sostanzialmente, le direttrici suddette possono essere ricondotte a quella di stampo e di tradizione positivistica, con la quale nasce la stessa s. nel solco delle scienze naturali (problema della spiegazione o del comportamento), e a quella derivata dallo storicismo tedesco che, attraverso M. Weber e la riflessione fenomenologica, porrà al contrario e con forza il problema dell'originalità delle scienze sociali rispetto a quelle fisiche (problema della comprensione o dell'intenzionalità).

La tradizione positivistica del metodo sociologico presenta in realtà al suo interno molti ''positivismi'' che, a partire da A. Comte, e attraverso l'opera fondamentale di E. Durkheim, giungono fino agli scritti e alle ricerche di P.F. Lazarsfeld. Con Comte nasce all'inizio del 19° secolo l'idea stessa di metodo positivo applicato alla sociologia. Il suo positivismo è enciclopedico e sintetico e prende come modello la fisica sociale. Il suo scopo, depurato di ogni precedenza metafisica o teologica, è quello di trovare leggi generali e necessarie, invarianti nel tempo e nello spazio. Il suo punto di partenza è l'osservazione, non disgiunta da attività di natura sperimentale. La spiegazione è globale e di tipo storico-empirico. Le scienze naturali restano il modello di riferimento e lo scopo del metodo sociologico è attingere la struttura del reale.

Alla fine dello stesso secolo e secondo canoni che in linea di massima possono essere ricondotti a quelli comtiani, il sociologo francese Durkheim farà compiere un deciso salto di qualità alla riflessione e alla pratica della ricerca sociologica. Con ogni probabilità, possiamo sostenere che con la sua opera Le suicide. Etude de sociologie (1897) nasce la s. intesa in senso proprio e integrato, cioè concepita come la ricomposizione coerente di teoria, verifica empirica e applicazione concreta. Per Durkheim e per il suo razionalismo scientifico, il metodo non va inteso come un assoluto e riguarda ambiti che vanno dall'osservazione dei fatti sociali al senso costitutivo delle ricerche, dall'impostazione dei problemi alle pratiche che permettono di ottenere risultati, dalle regole che sono necessarie per l'amministrazione delle prove alla salvaguardia contro ogni tipo di idola di baconiana memoria. Infatti, per Durkheim la ricerca sociologica deve partire dalle nude cose così come esse si presentano a noi, nel loro opporsi alla nostra volontà di manipolarle. Oggetto della s. sono i fatti sociali, che si definiscono per la loro capacità di esercitare dall'esterno costrizioni sulle azioni dell'individuo e che conducono un'esistenza indipendente da singole manifestazioni. Essi sono "stampi" entro cui il sociologo è quasi costretto a operare e costituiscono l'unico livello che permette al metodo sociologico di essere autonomo, imputando secondo nessi causali fatti sociali ad altri fatti sociali. Introspezione e finalismo, intenzionalità e orientamento del soggetto non possono essere l'oggetto della ricerca sociologica, la quale, se si muovesse in queste direzioni, si troverebbe in balia del più puro contingentismo e perderebbe di vista il proprio specifico, che è rappresentato dalla regolarità e dalle norme sociali. Lungo questa via, Durkheim sostiene anche che non vanno utilizzati concetti legati al senso comune, che è doveroso partire da definizioni precise, inerenti alle cose, colte nella loro immediata esteriorità e nella loro comunanza. Il metodo sociologico dev'essere oggettivo, controllabile, evidente, garantito nel tempo e nello spazio, generalizzabile. Esso deve raggiungere esiti non dipendenti dal soggetto, ma legati alla natura dei fatti sociali. In tal senso, la spiegazione sociologica è per Durkheim la somma tendenzialmente disgiunta di una causa efficiente e di una funzione o di un fine che non vanno però confusi con l'intenzionalità soggettiva, la quale non può essere trattata e analizzata in termini scientifici, data la sua imprevedibilità e aleatorietà. Non a caso, per Durkheim, tra la dimensione individuale e quella collettivo-sociale vi è una più o meno radicale discontinuità, che non può e non dev'essere colmata dalla sociologia.

Ma le riflessioni metodologiche di Durkheim non si esauriscono in quest'ambito e toccano polemicamente almeno un altro campo del sapere sociologico. Infatti, possiamo ricavare dalle sue ultime lezioni accademiche alcune importanti considerazioni sul concetto di "verità" in campo scientifico. Contro l'ennesimo assalto alla ragione portato dal pragmatismo, Durkheim oppone a una ''verità'' intesa come libertà della mente, come compito da realizzare, come evento personale, come scopo, come interesse personale, una ''verità'' concepita come necessità, come idea conforme alle cose, come copia del reale. Alla verità come azione, come vita, come creazione soggettiva, come etichetta di approvazione, come contingenza senza metodo, il sociologo francese ribatte con forza e senza spazi possibili di mediazione, proponendo una verità fatta di precedenze razionali, di costrizioni sociali, di determinazioni che ci sovrastano e che nella loro impersonalità si oppongono alla nostra soggettività, esonerandoci da ogni compito pratico.

La s. di Durkheim ha subito nel tempo molte critiche, ma ha anche avuto un influsso enorme, non documentabile in questa sede, su autori ormai classici, come per es. V. Pareto, o su tecnici raffinati della ricerca sociale di natura quantitativa (survey o ricerca per sondaggio) come P.F. Lazarsfeld. Questi può essere assunto come il rappresentante più autorevole di quel vasto movimento di pensiero e di azione che, sotto l'etichetta piuttosto ampia del neo-positivismo, attraversò la s. statunitense del primo dopoguerra. Con Lazarsfeld, la ricerca sociologica diventa indagine di mercato, analisi del comportamento elettorale, conduzione di sondaggi di opinione a base nazionale e campionaria, studio dell'impatto delle comunicazioni di massa. Lazarsfeld vede nell'oggettività degli strumenti statistici, nella traduzione del comportamento umano in numeri, nell'analisi circoscritta e nella ricerca per sondaggio l'ideale del lavoro sociologico. Nel suo pensiero e nella sua pratica, il metodo diviene rigore, codifica, adattamento puntuale degli strumenti tecnici, scelta delle migliori procedure di ricerca, meticolosità, classificazione articolata e logicamente strutturata dal generale al particolare. La sua s. si qualifica per il suo atomismo, per la sua concezione probabilistica, induttiva e realistica dell'analisi causale, per il suo oggettivismo tecnologico e matematico, per la sua opzione comportamentistica.

Come si è visto, le prospettive metodologico-tecniche che in s. si rifanno all'epistemologia positiva sono varie. Nonostante ciò, è possibile individuare alcune linee di fondo unificanti che tengono insieme e qualificano la stessa epistemologia positiva. Tale unità può essere ritrovata, a nostro parere, lungo le seguenti linee-guida: a) il ruolo decisivo e prioritario assegnato nel contesto del lavoro scientifico al metodo, capace di legittimare da solo il percorso verso la verità; b) l'assunzione senza residui e tentennamenti dell'unità del sapere e del conseguente monismo metodologico, inteso come continuità e vicinanza fra scienze sociali e scienze naturali; c) il primato assegnato all'osservazione pura dei fatti sociali, colti nella loro esteriorità comportamentale, rifiutando le suggestioni delle pre-nozioni, delle ipotesi e della deduzione, in nome di un'opzione induttivo-probabilistica da recepire nella sua globalità e forza; d) un'interpretazione del mondo come invarianza e regolarità, con la conseguente concezione dell'oggettività scientifica come scoperta di leggi universali indipendenti dal soggetto conoscente, ma iscritte nella realtà; e) la successione e/o la separazione logica fra ricerca e azione, fra analisi e intervento, al fine di mantenere pura la scienza nella sua irriducibile identità, pur senza abbandonare al proprio destino la rilevanza che essa assume per la società civile.

Come già accennato, accanto a questa tradizione metodologica, ancora viva e fiorente in ambito sociologico, se ne è sviluppata fin dall'inizio del 20° secolo un'altra, altrettanto importante e variegata, che si può far risalire allo storicismo tedesco (M. Weber) e alla tradizione fenomenologica (A. Schütz). La s. ''comprendente'' di Weber e il suo individualismo metodologico si presentano per molti aspetti gnoseologicamente alternativi alla s. durkheimiana. Le riflessioni metodologiche del sociologo tedesco appaiono, per la verità, dettate più da esigenze di chiarificazione, di scontro dialettico, di superamento di momenti di crisi disciplinare (come egli stesso scrisse) che non da vocazioni intrinseche alla sua concezione epistemologica della conoscenza sociale. Il suo pensiero in materia può essere esposto molto sinteticamente in rapporto a quattro ambiti tematici principali, riconducibili al problema del senso dell'agire individuale, a quello dell'analisi causale, al concetto di "idealtipo", allo studio dei valori (giudizio di valore, avalutatività, relazione al valore).

La "comprensione" weberiana può essere definita come la possibilità di esplicitare il senso evidente di un'azione: solo in tal modo, infatti, essa viene resa intelligibile. Ma la "comprensione" non va confusa con tendenze o letture di natura psicologica, né separata dal suo contesto metodologico che la connette intrinsecamente con la causalità e con la razionalità. In Weber, infatti, il senso non viene mai definito come tale e, comunque, viene anticipato rispetto al soggetto e non può, quindi, essere confuso con un'attribuzione di rilevanza, valida indipendentemente da uno scopo assunto come riferimento esplicativo, razionale ed esterno. La metodologia weberiana non rinuncia all'oggettività e al controllo scientifico intersoggettivo e, in quest'ottica, aspira sempre alla generalizzabilità dei suoi risultati. La comprensione viene in qualche modo ad assumere un ruolo pervadente, ma in qualche maniera anche ausiliario e sottomesso alla logica della spiegazione causale. Quest'ultima si presenta come una varietà praticamente infinita di possibilità che possono connettere una o più cause a uno o più effetti. In questo contesto, in questa varietà non esauribile del reale, lo studioso di fatti sociali e storici, individuali e collettivi, è costretto a effettuare delle selezioni, a ridurre il campo delle possibilità, secondo criteri d'importanza, di senso, di ragione sufficiente. Così facendo, il sociologo o lo storico (Weber è sempre ambivalente nelle sue argomentazioni in merito) costruiscono degli scenari irreali e ipotetici, delle possibilità oggettive rispetto alle quali essi operano la loro imputazione causale. In tal modo, la spiegazione viene a essere determinata in relazione a strumenti euristici utopici, acronici, astratti e poliedrici. Per comparazione e dentro una rete ben più vasta di relazioni, la spiegazione causale adeguata al proprio oggetto appare di natura necessariamente probabilistica, sia per l'imperfezione o l'obbligata restrizione delle cause esplicitabili, sia per la non eludibile soggettività di molte delle scelte compiute. Il nesso con il fondamentale concetto metodologico di "tipo ideale" appare qui abbastanza immediato. Per Weber, infatti, un tipo ideale può essere ottenuto convenzionalmente attraverso l'accentuazione unilaterale di uno o più punti di vista e tramite la messa in relazione di più fenomeni particolari e dispersi, distribuiti in modo più o meno uniforme, coerenti con il quadro concettuale unitario che ha permesso la loro selezione. Così concepita, la tipicità ideale appare come uno strumento di lavoro, ipotetico, astratto, forzato dal ricercatore in alcune direzioni, da sottoporre al vaglio della realtà da indagare, senza però che questa possa mai essere raggiunta nella sua essenza. La selezione necessariamente e volutamente associata al tipo ideale introduce linearmente al problema, cruciale in Weber, della funzione dei valori nella ricerca storico-sociale. Il riferimento ai valori, uno dei luoghi cruciali di differenza fra scienze storico-sociali e scienze naturali, svolge varie funzioni durante il ciclo metodologico dell'informazione scientifica. In particolare, la relazione con il valore incide sulla selezione dei temi da trattare; permette di separare il particolare o il superfluo dal generale o dall'essenziale; legittima l'attribuzione di rilevanza o la determinazione di relazioni significative; orienta l'analisi causale; consente l'interpretazione scientifica degli eventi sociali, espungendo dal lavoro di ricerca sentimenti soggettivi e indeterminati e il vissuto individuale. Per tutte queste ragioni, il riferimento ai valori non può essere confuso con il ''giudizio di valore'', che non ha posto nella scienza, mentre introduce all'avalutatività che in Weber assume le vesti della probità intellettuale, della necessità logica di separare lavoro di ricerca e convinzione personale, del bisogno di distinguere fra individuazione o scelta degli scopi (compito che non appartiene al lavoro sociologico) e assunzione dei mezzi necessari per raggiungerli (compito che appartiene intrinsecamente alla ricerca sociale).

L'influsso degli scritti metodologici di Weber è stato enorme in campo sociologico e ha di fatto costituito nel tempo un filone alternativo e umanistico rispetto a quello d'impianto positivistico e scientista. Per questo, e al di là dell'accettazione più o meno convinta di una tale lettura dell'epistemologia weberiana, appare importante collegare tale epistemologia con la s. d'impianto fenomenologico. Il passaggio da E. Husserl ad A. Schütz è un passaggio che richiede un ritorno alle origini stesse del pensiero fenomenologico per dimostrare da un lato la sua rilevanza nel contesto dei temi che stiamo trattando e nel contempo per sottolineare, anche in questo caso, la pluralità delle prospettive che a esso sono collegate.

La filosofia husserliana si muove fra il soggettivismo kantiano e l'oggettivismo hegeliano, fra l'idealismo platonico e il realismo aristotelico, tentando correlazioni che possiamo considerare inusuali. Tra queste, spicca la sua vocazione di fondo nella direzione di un metodo che aspira a penetrare ogni forma di oggettivazione, che oscura l'immediatezza delle cose, che le ammanta di pre-giudizi, che le sottrae all'intenzionalità della coscienza. Da Husserl vengono alla s. alcuni concetti metodologici rilevanti che si possono riassumere come segue. Innanzi tutto, Husserl dipana in modo peculiare e profondo il problema dell'"intenzionalità", da lui intesa come direzione verso un contenuto, come coscienza che è dentro e fuori se stessa, come possibilità di essere sempre oltre, come passerella che porta al significato. Su questa base egli è in grado di porre con forza il problema epistemologicamente centrale dell'epoché, che per lui equivale alla messa tra parentesi del mondo, comporta la sospensione del giudizio sulle cose, è ricorso costante al dubbio, è strategia del sospetto contro ogni forma di oggettivazione e, quindi, di legittimazione. In tale ottica, l'epoché non è, però, solipsismo, non è idealismo soggettivizzato, perché in Husserl l'esistenza è co-esistenza e l'intenzionalità è relazionale, è strada verso l'intersoggettività passando dall'empatia. Questa, a sua volta, è comprensione della vita psichica altrui, porsi nella prospettiva dell'altro senza sostituirsi alla sua intenzionalità, possibilità di essere messi in discussione, cambiamento di posto non analogico, capire l'altro e il suo mondo di significati senza assumerne le conseguenze pratiche. Intenzionalità ed empatia si manifestano sia nel mondo del vero (scienza), che in quello della vita (regno di evidenze originarie) e segnano i ponti o i luoghi di un'integrazione necessaria.

Schütz assume alcuni nuclei centrali di queste idee, ma con mutamenti a volte anche radicali e dopo un serrato confronto con Weber, apparendo così come l'antesignano di un approccio fenomenologico ai fatti sociali. La sua metodologia, che rinuncia all'epoché e si consegna all'esistente, che accomoda l'intenzionalità dentro il mondo della vita quotidiana, viene esplicitata in alcuni canoni metodologici che, per riferimento alla costruzione di tipi ideali, possono essere così riassunti: a) postulato della coerenza logica: il quale indica come la produzione di modelli scientifici debba essere compatibile con i principi della logica formale; b) postulato dell'interpretazione soggettiva: il quale implica il tipo di soggetto o di coscienza individuale che può essere ipotizzata e rimanda ai suoi contenuti caratteristici in grado di dar conto della relazione da essa stabilita con le cose; c) postulato della compatibilità: il quale richiede che i costrutti di secondo grado individuati debbano essere verificabili empiricamente e conciliabili pienamente con la nostra precedente conoscenza scientifica presa nella sua globalità; d) postulato dell'adeguatezza: il quale recita, in modo piuttosto perentorio, che ogni concetto usato in un contesto o sistema scientifico, che abbia come oggetto l'azione umana, dev'essere costruito in maniera tale che un'azione condotta nel mondo della vita da un soggetto singolo, nei termini suggeriti nell'idealtipo, sia sensata e comprensibile per lo stesso attore allo stesso modo che per il suo interlocutore; e) postulato dell'attribuzione d'importanza: il quale suggerisce che il problema comunque scelto dallo scienziato sociale crea una sorta di schema di riferimento e pone di fatto i confini tematici dentro cui possono essere collocati e individuati i tipi ideali considerati rilevanti; f) postulato della razionalità: il quale segnala come il tipo ideale dell'azione sociale debba essere costruito in modo tale per cui esso ipotizzi un attore nel mondo della vita quotidiana, impegnato ad agire in accordo con una conoscenza scientifica chiara e distinta delle dimensioni rilevanti in gioco e orientato a scegliere con continuità i mezzi più adatti per raggiungere il fine più appropriato. Sulla base di questi postulati, sembra piuttosto chiaro come Schütz di fatto si allontani o rovesci Husserl e, pur andando oltre Weber (si pensi solo alla distinzione fra "motivi a causa di" e "motivi al fine di"), mantenga molte delle sue categorie metodologiche.

Problemi aperti e prospettive di ricerca. - Il percorso storico appena delineato, seppur per sommi capi, mostra una disciplina dallo statuto metodologico piuttosto variegato. Se avessimo spinto oltre le nostre riflessioni e avessimo preso in considerazione altri filoni di ricerca, meno classici e ancora in fase di evoluzione o comunque minoritari nel vasto panorama delle scienze sociali, ci saremmo accorti che altre ancora sono le divisioni interne che attraversano il metodo sociologico. Le riflessioni e gli stimoli che sono venuti alle scienze sociali dalla cibernetica, dalla teoria dei sistemi, dalle scienze cognitive, dall'etnometodologia, dall'interazionismo simbolico (e si potrebbe continuare a lungo) arricchiscono e complicano contemporaneamente il quadro epistemologico di riferimento, introducendo elementi tecnici e metodologici nuovi, sempre più sofisticati e specialistici, che esigono nuove strategie d'intervento e di ricomposizione. È evidente che in tale prospettiva i problemi, che restano o vengono aperti e che assumono valenze nuove, sono numerosi e riguardano tutti i livelli del sapere sociologico, cioè sia quello epistemologico (si pensi alla sfida lanciata alla s. dal costruttivismo), sia quello metodologico (ci limitiamo a ricordare il ruolo del soggetto che conosce), sia quello tecnico (l'impatto della sfida informatica per quanto riguarda l'elaborazione dei dati e quello degli strumenti per l'analisi visuale). Sia chiaro che tale situazione non può essere considerata solo come palese indice di debolezza o di confusione; al contrario, può essere letta anche come segnale di ricchezza, di potenzialità inespresse e di competizione vivificante.

La situazione fin qui esaminata, l'eccesso di offerte metodologiche, il rapido e poliedrico mutare delle tecniche operative suggeriscono e quasi indicano, al di là dei quesiti che pongono, prospettive d'investigazione e di scavo in varie direzioni. La frantumazione specialistica del sapere e il diffondersi sempre più mirato di tecniche di rilevazione e di trattamento dell'informazione, nonché la maggiore complessità dell'oggetto dell'indagine sociologica, palesano l'esigenza di una logica integratrice e ricompositiva che sia capace di governare, al di là delle settorializzazioni, il conoscere sociologico. Una metodologia ricompositiva presuppone una pluralità di tattiche euristiche sempre possibili, potenzialmente presenti al di fuori di ciò che viene integrato e quindi comporta un contributo a più mani, un'etica della tolleranza e della competizione in vista della realtà. Essa deve necessariamente lavorare per bilanci metodologici e valutare di volta in volta pregi e difetti, vantaggi e limiti di una determinata tecnica o di un dato paradigma per poterli coordinare per somma o sottrazione, per massimo comune multiplo o minimo comun denominatore a fini di utilizzabilità pratica. In tal senso, essa pone al centro della propria strategia l'integrazione fra spiegazione e comprensione, aggredendola e tentando di superarla lungo molteplici versanti.

Una seconda prospettiva appare quella relativa al cruciale rapporto fra soggetto conoscente e oggetto (soggetto) conosciuto. Se si vuole salvare, o comunque affermare, una concezione democratica della scienza, dentro il detto pluralismo, non è possibile far scomparire il soggetto dentro l'oggetto (positivismo) o, viceversa, l'oggetto dentro il soggetto (costruttivismo). Solo l'ammissione di un'interazione feconda, a priori co-istitutiva del prodotto scientifico, fra soggetto e oggetto garantisce dalle secche del soggettivismo, da un lato, e da quelle dell'oggettivismo, dall'altro, e permette un controllo intersoggettivo, fondato sul metodo usato (controllo interno), e sull'analisi dei condizionamenti sociali subiti (controllo esterno).

Un terzo problema può essere individuato nella riconsiderazione (messa tra parentesi o epoché) dell'ideale matematico come approdo ultimo e unico di riferimento della ricerca sociologica. La drastica riduzione che il lavorare sulla base di relazioni di natura numerica impone, la specificità e la parzialità intrinseche a ogni operazione di natura statistica sono la dimostrazione evidente, anche se non l'unica, dell'inconsistenza e dell'unilateralità di tale prospettiva. Alla comunicazione numerica dovrebbero essere associate altre forme di comunicazione, portatrici di ottiche diverse e in grado di arricchire da altri versanti la verifica empirica compiuta dai numeri. La comunicazione iconica appare, in campo sociologico, particolarmente vocata, durante l'intero ciclo metodologico dell'informazione scientifica, a una prospettiva euristica più ricca e comprensiva, capace di coordinare generalità astratta (numerica) e penetrazione empatica (visione).

Un quarto e ultimo problema, tra altri che si potrebbero ancora elencare, riguarda la legittimazione ormai acquisita da parte di vari tipi di ricerca sociologica a essere portatori di verità. Si pensi alla ricerca a fondamento biografico, alla ricerca per sondaggio, alla ricerca a base territoriale definita e limitata, alla ricerca fenomenologica, alla ricerca-intervento, alla ricerca-valutazione e così via. Questi tipi di ricerca comportano normalmente tecniche operative e metodologiche di analisi tra loro diversificate. Anche in questo caso, ci si trova di fronte a una situazione piuttosto originale nel panorama scientifico che dalle scienze sociali e umane va a quelle naturali e fisiche. È evidente, però, che un bisogno di riconsiderazione o di comparazione s'impone e richiede ulteriori ambiti di riflessione.

Le scienze sociali sono in qualche modo condannate al mutamento, proprio per l'evolversi continuo del loro oggetto, che si modifica senza posa nel tempo e nello spazio. È evidente allora che, se si guarda verso il futuro, non si può considerare secondaria una serie di accadimenti, di svolte storiche che hanno interessato sul piano epistemologico e su quello sociale il sapere sociologico. La fine del monismo paradigmatico, il dissolversi di strutturalismi di vario genere, il superamento del funzionalismo sistemico, l'avanzare inarrestabile della differenziazione sociale e della complessità, l'estinguersi delle tradizionali contrapposizioni ideologiche, il diffondersi di una sorta di rivoluzione informatica, l'estendersi sempre più capillare della comunicazione iconica, la fine delle certezze della modernità e l'incerto procedere delle debolezze della post-modernità sono tutti elementi che non possono non incidere sul metodo e sulle tecniche utilizzate nell'ambito dell'analisi sociologica.

Finita l'epoca del Metodo, quale legittimazione ultima e incontrovertibile del sapere empirico e delle tecniche da considerare neutrali, improponibile la strada di un metodo sociologico che si dissolve nella propria fragilità e di tecniche pragmaticamente buone per tutti gli usi, si presenta oggi l'esigenza di nuove strategie epistemologiche associate a metodi e tecniche innovativi, in grado di portarci con fiducia lungo il cammino euristico proprio delle scienze sociali, senza per questo cadere nelle braccia sempre disponibili dello scientismo.

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Il metodo biografico. - L'approccio biografico, più che una semplice tecnica di ricerca, è da considerare un vero e proprio metodo, cioè un quadro epistemologico di vasta portata con caratteristiche peculiari. La storia di tale approccio è lunga e discontinua, i suoi inizi risalgono al primo Novecento, quando lo statunitense W.I. Thomas e il polacco F.W. Znaniecki condussero una vasta ricerca su Il contadino polacco in Europa e in America, pubblicata in cinque volumi (fra il 1918 e il 1920) e tutta basata su documenti biografici, in particolare sulle lettere che gli emigrati polacchi in America scambiavano con i loro familiari rimasti in patria. Negli anni successivi mancò un confronto serio con quest'opera classica e soprattutto con la sua metodologia. In effetti, specie negli Stati Uniti, il grande sviluppo dei metodi quantitativi lasciò poco spazio all'analisi qualitativa di cui si giovava essenzialmente l'approccio biografico. Quest'ultimo ebbe, invece, un largo sviluppo in Polonia, in particolare a Poznan, grazie all'azione di Znaniecki che era ritornato nel frattempo in patria. Ebbe così inizio la lunga tradizione polacca dei concorsi annuali nazionali per la migliore biografia su un tema prefissato. Di particolare rilievo fu nel 1924 la pubblicazione, preceduta dall'introduzione dello stesso Znaniecki, della biografia di W. Berkan dal titolo Zyciorys wlasny ("Autobiografia"). Ancor oggi il concorso prosegue con grande partecipazione popolare.

Uno dei punti critici dell'approccio biografico è costituito dalla sua presunta non generalizzabilità. In realtà si rimprovera al metodo biografico di non presentare risultati rappresentativi (in senso statistico) dell'universo indagato. Ma soprattutto si lamenta la scarsa rigorosità delle procedure utilizzate. Sulla base di queste e altre considerazioni si è a lungo messo da parte ogni tipo d'indagine fondata sui documenti personali, sulle storie di vita, sui racconti autobiografici. In tal modo le occasioni di affinamento delle tecniche si sono ridotte sempre più. E oggi quelle in uso non sono ancora in grado di competere con il vasto e sperimentato bagaglio delle tecniche quantitative. È singolare però che proprio l'avvento dell'informatica, che avrebbe potuto infliggere il colpo di grazia all'approccio biografico ne abbia, invece, accresciuto le potenzialità.

La mole dei dati desunti dai documenti biografici può infatti trovare un opportuno trattamento informatico che non si limiti alle sole possibilità della gestione manuale e mentale dei singoli ricercatori, ma offra loro un potente sussidio di organizzazione, scomposizione, accorpamento e confronto delle risultanze empiriche. Detto altrimenti, l'analisi ''computer-assistita'' dei dati biografici non sostituisce il ricercatore nella sua fondamentale attività d'interpretazione, ma mette a sua disposizione tutta una serie di accorgimenti e di elaborazioni che, debitamente vagliate, rappresentano la base di partenza per più articolate letture sociologiche. Non a caso si stanno facendo sempre più numerosi i programmi anche per personal computer ''dedicati'' alla ricerca qualitativa e biografica. Fra i tipi più comuni di software utilizzati in questo campo va citato The Ethnograph, da tempo all'avanguardia e continuamente aggiornato nelle sue varie versioni.

Il rischio maggiore è dato semmai da un'estrema tecnicizzazione (e relativa manipolazione fuorviante) del fattore umano che già per Znaniecki costituiva la carta vincente dell'approccio biografico. Tuttavia, scartate alcune soluzioni troppo asservite a semplici finalità linguistiche in senso stretto (in chiave sintattico-grammaticale), le più recenti proposte − emerse soprattutto in Europa − mirano a percorrere soluzioni autonome in chiave scientifica, cioè non più solo complementari rispetto alla tecnica dei questionari, ma del tutto autosufficienti e garantite sul piano della validità conoscitiva. Un ruolo di prim'ordine in questo campo è stato svolto in Italia da F. Ferrarotti, che ha proposto l'autobiografia di gruppo come mediazione fra la dimensione individuale e quella sociale. Per la Francia è stato D. Bertaux a muoversi a metà strada fra storia orale e récits de vie, per giungere ad affermare il concetto di ''saturazione'', cioè di limite oltre il quale ben poco di nuovo si riesce ad aggiungere rispetto a un documento biografico già ampiamente raccolto ed esaminato.

Infine, non va dimenticato il proficuo scambio in atto fra microstoria, storia orale, psicanalisi, psicostoria, etnostoria e sociologia biografica, tutte interessate a una verifica reciproca e a un miglioramento nelle procedure d'uso scientifico applicate alle life histories.

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Storia della sociologia. - Introduzione. - Le epoche della s. possono essere caratterizzate distinguendone sviluppo (teorico, scientifico) e diffusione (istituzionale, culturale). Anche l'epoca delle origini si caratterizzò per fasi di sviluppo e diffusione, ma è stato soprattutto nel Novecento, in particolare nel secondo dopoguerra, che la s. è entrata in una fase di straordinaria diffusione (che non esclude naturalmente ulteriori sviluppi), con caratteri sempre più sovranazionali, una rapida ed estesa istituzionalizzazione universitaria in tutti i paesi industrializzati, un moltiplicarsi di iniziative e di risorse dedicate all'investigazione e alla ricerca empirica. Nei decenni successivi si sono registrate altre due fasi: la prima di ulteriore sviluppo e di formazione (1955-65); la seconda di crisi e di trasformazione (anni Settanta), le cui conseguenze si sono fatte sentire negli anni Ottanta. Epoche, fasi e decenni, naturalmente, si compenetrano tra loro.

S'è già fatta allusione alla progressiva caratterizzazione sovranazionale della s., al di fuori delle tradizioni nazionali e in stretta connessione con l'industrializzazione e la crescita delle società industriali. In quegli anni (1945-65) ciò che si può chiamare il ''paradigma funzionalistico'' ha goduto di un assoluto, anche se non indiscusso, primato. Il funzionalismo, è noto, è il punto di vista circa le conseguenze del sistema sociale nei suoi ''dati'' (cioè parti, elementi, unità costitutive), così come definiti dal sistema stesso (autoreferenziali). Al primato del paradigma funzionalistico concorsero, da un lato, le suggestioni degli anni Trenta circa il carattere sociale organico di funzioni come quelle dell'urbanistica e dell'architettura, dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, del gusto letterario ed estetico ("la forma segue la funzione") e, naturalmente, dell'economia regolata e della società programmata; dall'altro, il diffondersi, nel secondo dopoguerra, con le teorie dello sviluppo e della modernizzazione, del funzionalismo antropologico, come se i suoi presupposti (unità, universalità, indispensabilità delle funzioni), validi per le società preletterate e assai integrate, si potessero adattare alle società industriali ad alta differenziazione sociale, culturale e, appunto perciò, bisognose d'integrazione.

È noto che il funzionalismo è incline a mantenere lo statu quo, piuttosto che a spiegare i cambiamenti sociali, anche se si deve distinguere dal funzionalismo olistico il funzionalismo critico e riformato, incline invece a spiegare disfunzioni sociali e alternative funzionali, funzioni manifeste e latenti (Merton 1949), se non le conseguenze che, per il sistema, possono avere i dati non referenziali a esso (intenzionali); per non dire delle conseguenze inaspettate, o degli effetti perversi dell'agire sociale intenzionale. Tra paradigma funzionalistico e agire sociale volontaristico c'è un rapporto dialettico forse perenne per la s. (Parsons 1937). Fin dall'epoca degli interrogativi sul perché delle conoscenze sociologiche (Lynd 1939) e sulle risorse dell'immaginazione sociologica (Wright Mills 1959), gli indirizzi contrari al paradigma funzionalistico (che specialmente in USA esercitò un notevole controllo accademico) contrapposero alla s. positiva e alle influenze neopositivistiche nelle scienze sociali una s. ''umanistica'', facendo appello all'agire sociale libero, ora razionale, ora critico, ora radicale, ora semplicemente umano. Tutte forme di agire incompatibili con il metodologismo astratto e quindi con il programma della s. come scienza naturale; ancorché si possa dire che la celebre disputa di fine Ottocento, tra metodo causale e metodo comprendente, negli anni Sessanta, avesse trovato un ragionevole compromesso. Poi, a quella disputa canonica sembrò doversi sostituire quella tra positivismo e dialettica sociale (Adorno, Popper e altri 1969) che di lì a poco, a sua volta, avrebbe perduto incidenza.

Gli anni Settanta della sociologia. - Il passaggio dagli anni Sessanta agli anni Settanta è stato caratterizzato da una ''crisi'' interna alla disciplina, legata tuttavia a eventi esterni, non ultimi quelli che, nella storiografia, vanno sotto il nome di ''Sessantotto'' (Gouldner 1970; Boudon 1971). Da allora a oggi la domanda di conoscenza sociologica e il richiamo alla cultura sociale non tanto sono diminuiti, ma sono profondamente cambiati per motivazione e contenuto: sempre meno teorico e sociale questo, sempre più strumentale ed esposta al pubblico quella. Alquanto diverso − deve essere notato − era stato l'appello alla s. e alle scienze sociali, a seguito della crisi del 1929 e durante gli anni Trenta, con un coinvolgimento che, in quegli anni, ha introdotto l'economia e la s. al cosiddetto social engineering, al cosiddetto pensiero strategico, alla programmazione democratica ma non senza nessi con la pianificazione burocratica e corporativa (Mannheim 1935; 1965).

La crisi da superare non era da sottovalutare, e non si trattava di un'invenzione della s. antiaccademica, antipositivistica e antifunzionalistica. Tanto più che essa nasceva come esperienza di un deficit di risorse conoscitive e di metodi, e quindi come consapevolezza di un limite delle fonti convenzionali e dell'esistenza di fonti non-convenzionali della sociologia. C'era, infatti, un secondo versante dal quale guardare alla crisi, quello cioè connesso al problema di risorse implicite e di fonti della conoscenza sociologica, rimaste inesplicitate e ai margini della ricerca empirica, poco implicate dai criteri naturalistici e sperimentali dell'''osservabilità''; fonti che, invece, avrebbero aperto nuovi campi alla ''visibilità'' del sociale, attraverso una molteplicità di nuovi significati. Alle risorse di fonti non-convenzionali (come quelle orali, autobiografiche e di storie di vita) si era già fatto ricorso (Thomas e Znaniecki 1918-20; trad. it., 1968). Un esplicito contributo a fonti non-convenzionali nel senso sia letterale che metodologico hanno dato indirizzi come l'interazionismo simbolico, l'etnometodologia, la s. fenomenologica e l'indirizzo ermeneutico.

L'interazionismo simbolico, originale contributo teorico statunitense (Scuola di Chicago), ha radici pragmatistiche e insiste in Ch. S. Peirce sull'attualizzazione individuale del significato in situazione sociale; in W. James, sull'individuazione sociale del significato nel Self; in J. Dewey, sulla natura processuale dell'esperienza riflessiva. L'indirizzo annovera i contributi di W.I. Thomas sulla "definizione della situazione" e di C.H. Cooley, noto per il suo concetto di Self looking glass (''rispecchiamento del Sé''), ma il suo iniziatore è stato G.H. Mead, seguace di Dewey e psicologo sociale.

A partire dall'indeterminazione del significato da parte della società e della cultura (''microsociologia'' contro ''macrosociologia'') e dalla sua natura processuale tra esseri umani, Mead esplicitò che il significato (anche un semplice gesto) quando esternato, comunicato e condiviso, simbolizza, vale a dire diviene l'elemento simbolico dell'interazione, ove il Self s'identifica o si diversifica a misura che il soggetto assume il ruolo (role taking) dell'altro. Un seguace di Mead, H. Blumer (1937; 1969), coniò l'espressione "interazionismo simbolico", accentuando gli aspetti contestuali e processuali del significato; mentre M.H. Kuhn (Scuola di Iowa) ne riaffermò gli aspetti strutturali. Interazionista sui generis, ma assai ricco di contributi e innovativo, è stato E. Goffman (1959; 1963; 1971; 1974) con la sua prospettiva drammaturgica (il teatro della vita sociale) dell'esperienza interazionistico-simbolica.

Gli interazionisti, insieme a una spiccata idiosincrasia per il positivismo, condividono il gusto per le fonti di senso, nella vita e nella comprensione metodologica. Pensato negli anni Trenta (forse come reazione alle interazioni psico-collettive della società di massa allora nascente), l'interazionismo simbolico, dopo una fase sommessa, ebbe un revival statunitense negli anni Sessanta-Settanta, diffondendosi in altri contesti (Italia compresa) spesso in funzione critica e antifunzionalistica. Si può dire dell'interazionismo simbolico non tanto che ecceda nel punto di vista microsociologico, ma che, non potendo fare a meno di operare sussunzioni dal sociale strutturato e sistemico (l'"assunzione di ruolo" di Mead, le nozioni di framing, di "raggruppamento" e "orizzonte" sociale di Goffmann), pur avendo una grande efficacia decostruttiva del sociale ufficiale (mediante contributi critici sull'etichettamento sociale e sulle definizioni istituzionali della malattia mentale e della devianza), rischia di ridurre la sfera pubblica al quotidiano e di disperderla nel privato, prestandosi alle aporie del determinato-indeterminato sociale.

Le ''pratiche metodiche'' e le ''categorie ufficiali'' della s. come scienza sono spesso predeterminate, tanto dal metodo, quanto dalla società stessa: muovendo da quest'affermazione, l'etnometodologia (Garfinkel 1967) non vuol essere un metodo della scienza, per la quale anzi dichiara la sua "indifferenza", ma vuol ''ricostruire'' le pratiche e le categorie degli individui nella vita quotidiana, non il loro ''perché'', ma il loro ''come'', le pratiche metodiche della conversazione, quelle cognitive (Cicourel 1973) e dei linguaggi istituzionali o ufficiali del tipo medico-paziente, giudice-imputato, venditore-acquirente, ecc. Le ragioni culturali dell'indirizzo in parola sono una riprova, fra altre, del bisogno che ha la s. di fonti non-convenzionali.

Interazionismo simbolico, etnometodologia, analisi delle conversazioni e situazionali, s. cognitiva e qualitativa e tutte quelle che, in generale, si possono chiamare ''s. della vita quotidiana'' (everyday life sociology), alle quali si possono aggiungere i nuovi indirizzi interpretativi in antropologia culturale (Geertz 1973, 1983), sono stati accusati di eccessiva inclinazione all'individualismo e d'incomprensione delle determinanti strutturali; e, in effetti, la loro idiosincrasia antipositivistica li mette − come si è detto − alla mercé delle oscillazioni tra determinismo e indeterminismo sociale. Tuttavia, questi indirizzi hanno rappresentato per la s. un segno e una proposta nella crisi; hanno indicato e contestualizzato fonti non-convenzionali dell'osservazione sociale; in definitiva, hanno orientato la s. a riconsiderare lo statuto della ricerca come attività cognitiva di vita di ognuno (il ricercatore) e di tutti (la gente); cioè a confrontare la s. come ''scienza'' con una ''scienza'' come sapere e cultura sociale di osservatori e osservati, di studiosi e partecipanti quali ''interattori'' sociali.

Nei primi anni del decennio in esame, in una raccolta di saggi teorici (a cura di McKinney e Tiryakian 1970) veniva introdotta l'idea che la teoria sociologica avrebbe dovuto cominciare a prodursi in un clima di pluralismo teorico. A metà dello stesso decennio si segnalò (Eisenstadt, Curelaru 1976) la tendenza della teoria sociologica ad aperture analitiche verso: la dimensione simbolica del comportamento; la natura sistemica dell'ordine sociale; la dimensione storico-sistemica dei sistemi sociali; le interdipendenze tra processi individuali (definizioni situazionali, cognitive e linguistiche) e le strutture sociali; i meccanismi di accettazione dell'ordine sociale; le interdipendenze tra approcci analitici e tradizione sociologica. Quasi a conclusione del decennio, documentando lo stato degli interessi teorici a quell'epoca, T. Bottomore e R. Nisbet (1979) ne facevano la seguente nomenclatura: i classici della s. e la loro trasmissione; il funzionalismo; la teoria dell'azione; l'interazionismo; la sociofenomenologia; lo strutturalismo.

Gli anni Ottanta della sociologia. - Lo stato della s. nel decennio in questione è caratterizzato da pluralismo di teorie, rifiuto delle teorie generali e sistematiche, scarso consenso teorico, volontà sempre meno intesa al mutamento, ricorso alla filosofia, dibattito sui fondamenti (Kuhn 1962; 1977), interessi minori per la teoria esplicativa e predittiva. Nel pluralismo si possono evidenziare almeno tre aree di lavoro teorico: a) le teorie dei ''sistemi sociali''; b) le teorie della razionalità dell'''azione sociale''; c) le teorie delle ''strutture sociali'' in sé, oppure contestuali all'organizzazione, ai sistemi e all'agire sociale. Le tre aree si compenetrano spesso ai loro confini. Ciò dal punto di vista della teoria sostantiva; dal punto di vista della ricerca metodologica (Runciman 1983), filosofia e dibattito sui fondamenti a parte, il decennio è stato caratterizzato da un crescente confronto tra la formazione ''epistemologica'' della s. e la formazione ''interpretativo-ermeneutica''. Storia, s. e filosofia della scienza, critica postneopositivistica della ''teoria scientifica'' e neostoricismo della scienza come forma di vita hanno, nel frattempo, trasformato la formazione epistemologica (Feyerabend e altri 1970). Sempre più in evidenza si è posta, d'altro lato, la s. come formazione ''intenzionale'', unitamente ai suoi presupposti etici, relativi alle coppie teoria-ricerca e teoria-prassi (conoscenza-interesse), che hanno fatto distinguere tra scienze empirico-analitiche, che postulano un interesse tecnico, scienze storico-ermeneutiche, che postulano un interesse pratico, e scienze critico-riflessive, che postulano un interesse emancipativo, come realizzazione della razionalità (Habermas 1968).

Un'altra caratteristica degli anni Ottanta riguarda la caduta delle teorie del mutamento sociale, specialmente dal punto di vista dell'individualismo metodologico. Il classico problema dell'ordine sociale e, in genere, le teorie del sistema sociale, servendosi di contributi epistemologici delle scienze naturali, hanno dovuto, negli anni Settanta, metabolizzare, per così dire, il ''disordine'' e la vita del sistema come una successione di turbolenze. Definitiva diventa così la critica del funzionalismo olistico, scoprendo, nel contempo, che non si può fare a meno dell'analisi funzionale (Touraine 1973). La complessa architettura sociologica di N. Luhmann (1970; 1972; 1980; 1981) è un interessante esempio di pluralismo teorico alla rovescia, cioè di teoria sistematica costruita con i contributi di più teorie analitiche. Essa, a sua volta, ha fornito una quantità di contributi a ciò che si può chiamare la morfologia del sistema sociale dell'età elettronica: morfologie cognitive, strutturali, funzionali, simboliche, comunicazionali dei sistemi nell'ambito e nei limiti della loro autoreferenzialità. Col declino delle teorie della modernizzazione, il punto di vista macrosociologico è alla ricerca di nuovi presupposti, se non di nuove centralità, una volta caduta quella dello sviluppo.

Se i problemi della complessità, del disordine e della trasformazione hanno contrastato le teorie dei sistemi sociali, nel decennio in esame sono stati le contraddizioni della razionalizzazione strumentale, i limiti della razionalità (Simon 1981), i problemi delle regole, della scelta, della decisione, del consenso e dell'identità che hanno orientato prevalentemente l'area delle teorie dell'azione sociale. Apporti epistemologici come quelli della teoria dei giochi, dei cosiddetti neocontrattualisti, neoutilitaristi, neomarxisti, della teoria dello scambio sociale e delle scelte razionali hanno dato contributi in quest'area, ove al paradigma veteroeconomicistico si sono venuti sostituendo i paradigmi dell'individualismo metodologico e una sempre più chiara intenzionalità e attenzione rivolta alle conseguenze inattese dell'agire sociale, nonché all'agire sociale come attività vitale (pratica) e non solo razionale (strategica) di ricerca.

L'area dei lavori teorici, dal punto di vista dello strutturalismo, si è via via ricomposta negli anni Settanta-Ottanta nel segno di un ''poststrutturalismo'' (Attrige, Bennington, Young 1987; Frank 1984), che corregge sia il realismo che il formalismo degli strutturalismi degli anni Sessanta (Lévi-Strauss 1958, 1973; Althusser 1965). Quest'area, nella tradizione dell'analisi strutturale, si dirama oggi in diversi indirizzi: relazionale, sugli effetti strutturali dell'agire e/o del sistema sociale, ritrovando il ruolo di cerniera del concetto di struttura (Giddens 1976; 1984; 1987; Rossi 1982); morfologico, cioè rivolto alle morfologie cognitive, simboliche, di organizzazione, comunicazione, ecc. (Blau 1975; Coser 1975; Merton 1976; Crozier, Friedberg 1977; Himmelstrand 1986; Fielding 1988); e storico-critico (Skocpol 1979).

Non sono da confondere con le aree teoriche gli interessi storici nella s.: la distinzione tra sistematica e storia delle teorie sociologiche (Merton 1967) e i lavori della s. storica (Abrams 1982). Questi interessi, che cominciano a colmare il deficit di critica storiografica che affligge tutta la s., devono essere affiancati alle ricezioni e ai contributi critici sui classici (Alexander 1982-83; 1984; 1987). Ancora lontani dall'avere effetti decisivi per la s., a causa della distanza delle rispettive morfologie, sono i contributi sociobiologici (Wilson 1975) e delle scienze dell'artificiale (Simon 1981).

Il ricorso alla filosofia e la disputa sui fondamenti richiamano, invece, il discorso sulla s. fenomenologica. Le s. della vita quotidiana, in definitiva, antepongono lo scenario sociale all'individuo. La s. fenomenologica (Schütz 1960, 1962-66, 1970) muove dal carattere precostituito delle conoscenze (non si decide su fatti ma su progetti), dalla nozione di tempo interno (H. Bergson), di memoria e mondo della vita. Schütz attribuì un divenire alla categoria dell'azione sociale così immediata in Weber, usò tipizzazioni, per es. quella tra mondo dei contemporanei, dei predecessori e dei successori. La sociofenomenologia offre un tipico caso di rapporti tra s. e filosofia nei quali questa, spinta a fare i conti con l'esperienza scientifica, offre a quella contributi critici su dei caratteri preformativi e prescientifici che o debbono essere accolti su base trascendentale o inducono regressioni all'infinito.

Il lavorio analitico operato durante gli ultimi decenni sul concetto di ''agire sociale'' (regole, decisioni, scelte, consenso razionali) da un lato e, dall'altro lato, i presupposti trascendentali, gli a priori, le universalizzazioni operate con il ricorso alla filosofia, sembrano ora compromettere, in varie aree teoriche della s., insieme con la distinzione tra significato oggettivo e senso intenzionale, la differenza tra ''agire'' e ''azione'', tra evento processuale (tempo), contestuale (spazio) e ''atto'' più o meno puro. Il che sembra un esito sia dell'individualismo metodologico, sia dell'abuso del ricorso alla filosofia fenomenologica, sia delle tematizzazioni postmodernistiche e, insomma, della perdita di vista della coppia problematica ''differenziazione-individuazione''. La teoria sociologica di J. Habermas (1968, 1971, 1976, 1981, 1983, 1985) è un altro esempio di pluralismo teorico alla rovescia, cioè di unità teorica sui contributi di molte teorie analitiche.

I suoi contributi sull'"agire sociale comunicativo" danno l'impressione di passare tra Scilla (il carattere metateorico della "situazione discorsiva ideale") e Cariddi (gli "atti discorsivi metateorici") rischiando un attualismo idealistico, al quale Habermas porrebbe riparo con l'assunzione del linguaggio come medium universale della vita, distinguendo il discorso dal linguaggio, la competenza comunicativa da quella linguistica, le espressioni degli "atti discorsivi" dalle proposizioni enunciative, l'eticità delle une dall'analiticità delle altre. Il contributo di Habermas, come del resto i contributi di K.O. Apel (1973), è indicativo per l'orientamento a un sapere sociale dialogico, per l'etica della comunicazione (Habermas), per l'etica dell'argomentazione (Apel), per l'ideale emancipativo diffusi nella coppia teoria-prassi. Ciò che sembra mancare in siffatti indirizzi, e che invece si ritrova in qualche misura negli indirizzi interazionistici ed etnometodologici, è lo sforzo di ''moralizzazione'' della coppia epistemica di teoria-ricerca.

Il linguaggio discorsivo, la scrittura, la conversazione, il vocabolario e il testo hanno segnato il percorso verso la ''svolta interpretativa'', avvenuta nell'ultimo ventennio, nelle scienze sociali e nella sociologia. È stata senza dubbio la svolta interpretativa a stimolare la disputa sui fondamenti e il ricorso alla filosofia fenomenologica, piuttosto che la ricerca metodologica nella teoria, il cui dibattito è sembrato quasi spegnersi, diversamente che per la metodologia della ricerca sociale che, dalla svolta interpretativa, sembra aver tratto vantaggio sia di critica che di ricostruzione del ''dato''. Dal punto di vista epistemologico, la svolta interpretativa ha prodotto una critica delle fonti convenzionali, un'assunzione di fonti non-convenzionali, la relativa questione metodologica e il bisogno di una teoria delle fonti. Dal punto di vista ermeneutico, invece, la svolta comunicativa ha finora voluto dire: universalizzazione della comprensione, dell'intersoggettività e dell'empatia come ''atti'' trascendentali, il che ha prodotto tendenze verso una sorta di neoattualismo sociofilosofico. Mentre Habermas non sfugge a questa inclinazione, M. Foucault (1966, 1968, 1969, 1971) ha messo piuttosto in evidenza unità e insiemi del discorso dei saperi sociali come ''formazioni discorsive'' storiche, positive, vere e proprie formazioni epistemiche, riflettenti i "giochi di verità" di ogni tempo (Foucault storicizza tra episteme classica, rinascimentale, moderna e attuale). L'"archeologia del sapere" sembra, dopotutto, funzionare al meglio come una teoria storico-analitica delle fonti.

Malgrado il decreto postmodernista della ''fine della storia'', questa continua a vivere e ricomincia con il mutamento sociale (interesse cui la s. ha pressoché rinunciato nei due ultimi decenni), con il ruolo dell'individuazione nella storia (processo che cura le molte aporie dell'abusato concetto d'identità) e con quant'altri mutamenti potrebbero avere retroazioni su tutto il complesso conoscitivo della cultura e delle scienze sociali, politiche ed economiche.

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La sociologia in Italia. - L'esposizione che segue sarà orientata a trattare piuttosto della s. in Italia che non di una s. italiana, anche se non mancano caratteri nazionali della storia della s. nel nostro paese: per es. il suo costituirsi nel confronto e spesso nella competitività, da un lato, con la tradizione degli studi etico- o filosofico-politici e giuspolitici, e, dall'altro lato, con il paradigma economicistico d'ispirazione classica, neoclassica e marxista.

Gli anni della rinascita: 1945-59. − Fra le discontinuità che caratterizzano la s. postbellica con la tradizione precedente emerge quella per es. con l'eredità di studiosi come G. Mosca (1858-1941), V. Pareto (1848-1923) e R. Michels (1876-1936): i primi due, conosciuti più nel contesto delle interpretazioni ideologiche (anche per il loro elitismo antidemocratico) e delle esposizioni di storia delle dottrine politiche che non come sociologi. Rivolta a osservare e a rendere ''visibile'' il paese, la s. poté apparire sradicata rispetto alla tradizione e ai paradigmi sopra evocati, anche perché i pochi sociologi di allora dovettero aggiornare i loro studi valendosi della cultura sociologica di lingua inglese o, in particolare, statunitense. Fra le continuità possiamo notare che, se la nostra ''prima'' s. era stata positivistica, la ''nuova'' rinacque positiva, anche se neopositivistica. Lo stesso si dica per gli studi e le monografie sulle comunità inseriti nel contesto della ''questione meridionale'' e di una società rurale, quale era allora quella del nostro paese. Così pure dualismo e sviluppo hanno sempre fortemente determinato la storia della s. in Italia; come anche l'idea di ''famiglia'', divisa tra comunità privata, sfera pubblica ed economia.

La rinascita della s. in Italia s'identificò con la rinascita democratica e gli interessi per i suoi soggetti: opinione pubblica, partiti, sindacati e gruppi. Occorrevano pure nuove conoscenze in relazione ai disegni di ricostruzione e di sviluppo. La riforma agraria del 1950 si scontrò, tuttavia, nei suoi effetti con una sorta di miopia sociologica circa il burocratismo degli enti di riforma e, soprattutto, per aver dato centralità a una comunità familiare esistente solo nell'ideologia del legislatore. Nel confronto intellettualistico tra politica e cultura, la cultura politica astratta non incontrò la cultura sociale. In quanto espressione di cultura pratica, in un paese di tradizione retorica, di cultura antiscientifica e di prevalenti gusti letterari, la ''cultura'' della s. fu percepita essenzialmente in una dimensione ''strumentale'': fare interviste e ricerche quantitative. In Italia il rapporto ricerca-teoria non si è mai emancipato, anzi si è scontrato, più che altrove, con gli effetti ideologici della dialettica di teoria e prassi d'ispirazione hegeliano-marxista e con il paradigma di una cultura sociale come cultura ''nazional-popolare'' proposto da A. Gramsci.

Tra gli eventi più significativi del periodo va ricordato che nel 1950 riprese le pubblicazioni la rivista Il Politico; ci furono interventi di B. Croce e C. Antoni in polemica con la s., a cui diede risposta N. Abbagnano sui Quaderni di sociologia, nati nel 1951 in concomitanza con un'altra rivista, Il Mulino. Nel 1952 nacque Tecnica ed Organizzazione e nel contempo fu istituita la SVIMEZ con un'apposita sezione sociologica. Nel 1954 venne organizzato il Convegno internazionale di studi sul problema delle aree arretrate dal Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale (CNPDS, sorto nel 1947), già in quegli anni e anche dopo forte promotore della sociologia. Nel 1956 nacque la rivista Sociologia dell'Istituto Luigi Sturzo, nello stesso anno la dissidenza sociologica in campo marxista diede vita a Opinione; seguiranno (1958) Ragionamenti, Passato e Presente e Tempi moderni. Nel maggio 1957 fu istituita a Bologna l'Associazione Italiana di Scienze Sociali (AISS). Nella primavera del 1958 si tenne a Milano il 1° Congresso nazionale di Scienze sociali, organizzato dall'AISS e dal CNPDS. Nel 1959 la comunità sociologica italiana ospitò a Stresa, organizzato da AISS e CNPDS, il 4° Congresso mondiale di sociologia, recando un suo contributo sulla tematica delle élites politiche.

Gli anni della formazione: 1960-69. − Nel passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta ritornano gli interessi per la s. di M. Weber anche attraverso una riconsiderazione dello storicismo tedesco contemporaneo e grazie anche alla traduzione italiana di Economia e società (1961). La contrapposizione tra metodo interpretativo weberiano, o della comprensione (Verstehen), e metodo della spiegazione causale, o naturalistico, dopo un acceso dibattito maturerà in un compromesso, anche sulla base dell'intuizione weberiana circa il concetto di possibilità (chance) e di riferimenti a E. Mach circa il carattere ''economico'' degli interessi scientifici. Del resto, non era stata così contraddittoria la ricezione (negli anni Cinquanta) di T. Parsons, La struttura dell'azione sociale (trad. it., 1962), di R.K. Merton, Teoria e struttura sociale (trad. it., 1959), e di vari contributi metodologici di P.F. Lazarsfeld, raccolti in Italia in Metodologia e ricerca sociologica (1967).

Con questa triplice ricezione si prese contatto con la teoria sociale (quella generale) rappresentata, appunto, da Parsons, sistematica, funzionalista e poi evolutiva. Ebbero un'accoglienza più implicita la strategia di Merton delle ''teorie di medio raggio'' e le sue critiche al funzionalismo olistico; molti dei suoi contributi teorici furono adottati correntemente più che discussi. Sia dallo studio di Weber che da quello di Lazarsfeld si accrebbe il gusto per la metodologia: con una progressiva inclinazione al metodologismo, astratto oppure strumentale, che contribuì a complicare i rapporti tra ricerca metodologica nella teoria e metodi della ricerca empirica.

Fra il 1958 e il 1963 si ebbe in Italia il cosiddetto ''miracolo economico'', sull'onda del quale si formarono alcuni orientamenti teorici e interessi di ricerca centrali: sui movimenti migratori, su problemi d'integrazione e di squilibri regionali. La contrapposizione tra ''conflitto'' (a partire dal paradigma economicistico d'ispirazione marxiana) e ''consenso'' (influenza della s. funzionalista, ma anche di una sorta di ''s. della libertà'') dette luogo a una delle più tipiche centralità sociologiche degli anni in esame: ''conflitto-consenso'', una dicotomia carica di armonie. Altra centralità, senza dubbio riflesso della prima e collegata con gli eventi politici di quegli anni (soprattutto la fase dei governi di centro-sinistra: 1962-68) e con i rapporti di società civile, composizione sociale, elezioni e partiti, fu quella del ''bipartitismo imperfetto'' (rappresentato dai due grandi partiti, DC-PCI), neppure smentita dall'opposta ipotesi del ''pluralismo polarizzato''. Il centro-sinistra, però, sebbene costituitosi nel corso di una fase propizia di accumulazione economica, fallì le cosiddette ''riforme di struttura'': un prestito, quanto meno semantico, della cultura sociologica e della centralità dei suoi interessi di allora per le ''strutture sociali''; interessi dispersi poi dai vari strutturalismi di fine anni Sessanta. Le riforme di struttura avrebbero dovuto mutare, secondo principi e regole della Costituzione repubblicana che continuavano a rimanere sulla carta, l'organizzazione formale e il modo di lavorare dell'Amministrazione pubblica, in sé e nei suoi rapporti con la società civile e lo stato. L'industrializzazione, polarizzata nel triangolo economico di Torino-Milano-Genova, mentre da un lato provocava le note dinamiche migratorie dal Sud al Nord, aumentando il divario tra le due zone del paese, stabiliva, d'altro lato, una terza centralità, ancora una volta fatta di due termini divisi e uniti: ''sviluppo-sistema''. Il "sistema", malgrado i benefici dello sviluppo, sarebbe stato il bersaglio della contestazione studentesca e della protesta giovanile del 1968, nelle quali la cultura sociologica avrebbe avuto una diffusa presenza, con la diffusione appunto dalla teoria critica della Scuola di Francoforte, soprattutto nella versione di H. Marcuse. I movimenti studenteschi inaugurarono un nuovo tipo di soggetti sociali, spesso contraddittori con quelli tradizionali. La contestazione studentesca contribuì a far istituire nuove facoltà di Scienze politiche, che favorirono l'istituzionalizzazione della s. nel nostro paese, stimolando anche la ricerca e la specializzazione nei vari campi, iniziata appunto negli anni suddetti. Ciò avvenne mentre, non solo in Italia, ferveva la discussione sulla ''crisi della sociologia''. Mobilizzazione e mobilità sociale, carattere sempre più secolare e nucleare della famiglia tradizionale, e il diffondersi del consumismo divennero temi della ricerca sociale.

Anche per questo periodo si possono ricordare alcuni eventi: nel 1960 nacque la Rassegna italiana di sociologia; nello stesso anno venne fondato l'Istituto Lombardo per gli Studi Economico-Sociali (ILSES), a imitazione dell'IRES (Istituto Ricerche Economico-Sociali di Torino). Nel 1962 nacque a Trento l'Istituto superiore di Scienze sociali che avrebbe dato poi vita alla facoltà di Sociologia; nel 1963 si pubblicarono gli Studi di Sociologia, nel 1964 i Quaderni rossi e nel 1966 la raccolta Questioni di sociologia; sempre nel 1966 venne organizzato il 1° Convegno internazionale dell'Istituto L. Sturzo su La sociologia contemporanea nell'Europa occidentale e nelle Americhe; cominciò a uscire la Critica sociologica (1969). Inoltre si tennero in questi anni alcuni congressi internazionali su temi sociologici.

Gli anni della trasformazione: 1970-79. − Se negli anni Sessanta la s. aveva cominciato a rendere il paese visibile a se stesso, negli anni Settanta risentì della sua esposizione a profonde trasformazioni. Per es., gli interessi strutturali per le diseguaglianze socio-economiche, l'analisi di classe e delle stratificazioni sociali incapparono nell'esperienza delle ''diversità culturali''; i tradizionali soggetti collettivi cominciarono a perdere identità, e si diffusero i movimenti (giovanili, studentesco, femminista, per la città, la casa, e così via); oltre che per gli operai, ci fu un ''autunno caldo'' anche per le prospettive della s. economica, del lavoro e industriale; gli ''anni di piombo'' del terrorismo coinvolsero anche la s., della quale si cercarono perfino improbabili responsabilità (come se la s. costruisse il ''nemico''); si criticò il "giustificazionismo", si mise sotto accusa il preteso "sociologismo". La stagione della formazione delle giunte locali rosse (Bologna, Torino, Napoli) e l'istituzione delle Regioni, nel 1975, accesero gli interessi sociologici sul decentramento democratico. La legge di riforma psichiatrica del 1978 ebbe un supporto teorico in alcuni indirizzi sociologici statunitensi. Le leggi sul divorzio e sull'aborto coinvolsero anche la morale sociale e gli interessi della s. della famiglia. La questione delle abitazioni, le trasformazioni delle città e delle aree metropolitane e il tramonto delle ''città fabbrica'' fondarono o rifondarono gli interessi, da noi fiorenti ma anche assai mobili, della s. urbana. Infine, la crisi dello stato fiscale e la depressione economica sollecitarono studi e ricerche sul welfare state e sullo stato assistenziale. La "partecipazione", infine, divenne domanda di ''aver parte'', di scambio, di utilità e di nuovo patto sociale.

Tutti questi eventi furono vissuti in una società nella quale, irresistibilmente, declinavano le centralità strutturali degli anni Sessanta e sorgevano nuovi ''bisogni culturali''. Più che unicità e incomparabilità, il cosiddetto ''caso italiano'' (cioè il modo di vivere privato, di agire pubblico e di reagire collettivo agli eventi sopra evocati) fece registrare un divario tra vecchie strutture del paese e cultura sociale. In una persistente immobilità politica, il ''caso italiano'' fu quello di una secolarizzazione in corso senza una moderna cultura sociale: vale a dire la cultura propria delle scienze sociali come attività, modo di fare, pratiche, procedure e con un elemento in più, esaltato dalla crescita di riflessività comunicativa e informativa, cioè il carattere ''simbolico''. Si trasformavano elementi strutturali e, al contempo, si scopriva che di ogni attività c'è una cultura, interattiva con la sua organizzazione e di carattere simbolico. Al contempo declinarono gli interessi per le teorie generali e per le teorie del mutamento a vantaggio degli interessi per i cambiamenti microsociologici. Il problema dell'ordine si trasformò in un puzzle di scomposizioni, dissociazioni, disaggregazioni e transizioni, il che voleva dire ''disordine''. I sociologi pensarono, allora, di doversi rivolgere a fonti più ''scientifiche'', a nuovi indirizzi epistemologici: la teoria generale dei sistemi, i modelli dell'entropia, delle catastrofi e della dissipazione. Intanto, da più di un decennio negli USA vi erano state reazioni ai paradigmi macrosociologici e funzionalistici a favore di approcci microsociologici. I relativi indirizzi teorici cominciarono a entrare in Italia dai primi anni Settanta: l'interazionismo simbolico (da G.H. Mead a H.C. Blumer fino a neointerazionisti come E. Goffman); l'etnometodologia di H. Garfinkel e la s. d'ispirazione fenomenologica a partire da A. Schütz e propiziata da studiosi come P.L. Berger e T. Luckmann.

La ricezione di questi indirizzi, insieme ai bisogni culturali espressi dalle trasformazioni, fu tematizzata e concettualizzata come ''domanda di senso''. Prevalsero, allora, le risposte che, insieme a una progressiva diffidenza per la s. come formazione scientifica, propugnavano un sapere sociologico prescientifico, preformativo; quello, appunto, del senso comune e della vita quotidiana. In realtà, per la trasmissione storica e la storia degli effetti degli interessi sociologici, la risposta corretta si mostrerà, negli anni Ottanta, essere quella che considera il nuovo proporsi di domande di senso come un'interazione di bisogni euristici ed ermeneutici: un riprodursi storico anche in s. del problema dell'interpretazione e della legittimità di una storia delle fonti. Una riconsiderazione, cioè, delle proprie risorse cognitive, delle documentazioni, dei materiali, di analisi critica delle fonti convenzionali e di apprezzamento di fonti non convenzionali. Se, però, da un lato l'idea di una ''costruzione sociale della realtà'' (solo temperata dal paradigma della riproduzione sociale e/o materiale) dette fiato ai sociologi radicali e agli studiosi del condizionamento sociale del pensiero (s. della conoscenza), da un altro lato s., storia e filosofia della scienza insegnavano nuove concezioni e immagini della scienza come formazione storica e cultura (s. della scienza).

Tra gli eventi significativi del decennio ricordiamo che nei primi anni Settanta si pubblicarono alcuni importanti saggi sulle classi sociali. Si ebbe un ritrarsi degli interessi per la s. politica e l'avanzare di quelli per la scienza politica. Nel 1971 si tenne a Courmayeur un Convegno sulle Implicazioni sociali e politiche delle innovazioni scientifico-tecnologiche nel settore dell'informazione, organizzato dalla Fondazione Olivetti; nacque la Rivista italiana di Scienza politica e si organizzò il Convegno del Centro studi metodologici di Torino sulla Crisi del metodo sociologico. Nel 1975 fu pubblicato il volume L'inferma scienza e nacque la rivista Sociologia del diritto. Nel 1976 fu pubblicato il Dizionario di sociologia di F. Demarchi, A. Ellena e B. Cattarinussi, e nel 1978 il Dizionario di sociologia di L. Gallino, mentre furono edite altre due riviste: Sociologia del lavoro e Sociologia urbana e rurale. Di portata non solo tecnica è la graduale riscoperta, in questo e nel successivo decennio, dell'importanza delle fonti orali e autobiografiche, e delle storie di vita.

Gli anni Ottanta della sociologia in Italia. - Se il decennio iniziò con un Convegno su Conflitto e consenso sociale nella società contemporanea, lo scenario del conflitto non era più quello degli anni Sessanta, né quello dello sviluppo economico, di nuovo in crescita negli anni Ottanta, ma decisamente fuori da ogni modello. La modernizzazione (e la sua teoria) si rivela contraddittoria; la secolarizzazione (anche come tema di s.) assai controversa; la religiosità, specie nella città, non più partecipata, sarà ritenuta ''diffusa''; i giovani appaiono divisi nelle ricerche tra lavoro e iniziativa.

Prima ancora che essere concettualizzate (quando lo furono), vi sono state alcune tipiche e nuove tematizzazioni, come: la "governabilità", ovvero la crisi di governabilità della democrazia nelle società industriali avanzate; la "legittimazione" di regole sia della vita politica, giuridica, economica e artistica, che dell'attività scientifica (critica della fonte normativa della verità); il "privato", contrapposto al "pubblico", e l'"individuale", opposto al "collettivo"; il "sommerso" e l'"informale" delle attività e dell'iniziativa economica (di qui la tematizzazione di un'Italia terza, cui seguirà la tematizzazione di molte più Italie); i "sentimenti", donde una s. dei sentimenti che ha fatto miracoli di diffusione tra la gente per le sue capacità di volgarizzazione; il "postindustriale", già evidenziato negli anni Cinquanta negli USA come superamento numerico dei colletti bianchi (impiegati) sui colletti blu (operai, le forze produttive marxiane); e finalmente, la tematizzazione del "postmoderno". Si manifestano, inoltre, elementi neoutilitaristici in s. economica e interattivo-simbolici in s. dell'organizzazione. Particolarmente emblematico per gli interessi sull'"anomia" e la "devianza", appare il decennio Ottanta. Le disarmonie di mercato-stato generano una forma di ''compromesso manageriale'', più che neocapitalistico o neoindustriale. Tutte queste e molte altre tematizzazioni sono andate a porsi, negli anni Ottanta, in un contesto della s. caratterizzato da un abbandono della teoria generale del mutamento e da un sempre più scarso consenso sulla teoria in genere. L'abdicazione della teoria generale è una caratteristica di tutta la s. del decennio, insieme allo scarso consenso sulle teorie e la ricerca di nuove fonti discorsive e argomentative, secondo una nuova ''retorica'' dei saperi sociali.

Nell'orizzonte, comunque, della s. in Italia, dopo le trasformazioni degli anni Settanta, si possono evidenziare tre aree di interessi e relativi lavori teorici con caratteri distintivi, ma non privi di interdipendenze: caratteri dell'intenzionalità, della trasmissione e delle connessioni storiche, o storia degli effetti. Le tre aree non esauriscono, naturalmente, gli interessi teorici e storico-critici presenti nella nostra sociologia. Negli anni in questione hanno avuto tematizzazione e concettualizzazione tra le più intense la razionalità delle norme, delle scelte, delle decisioni e, soprattutto, le complessità. La "complessità" ha interessato trasversalmente tutte le aree della s. in Italia, ma specialmente quella degli interessi teorici per il sistema sociale (nelle varie accezioni che il concetto ha assunto) a seguito della ricezione dei modelli epistemologici già prima ricordati, nonché della ''scienza dell'artificiale'', del ''pensiero strategico'' e, fortemente nei primi anni Ottanta, dei modelli sociobiologici, etologici ed evolutivi.

Un'altra area di interessi teorici è quella dell'"azione sociale", a partire dalla concezione weberiana fino a ciò che, in confronto con il circolo ermeneutico, si può chiamare il triangolo epistemologico dell'agire sociale, i cui lati sono le regole o codici normativi dell'agire, le decisioni nelle molteplici situazioni di decidibilità e il consenso nelle condizioni di scambio, utilità, individuazione e identità. È in quest'area che si registrano i contributi più originali e relativamente autonomi, a partire dalla teoria dello scambio sociale fino alla razionalità delle scelte. Tradizionalmente contrapposta all'area sistemica, quest'area ha accolto più largamente l'influenza del neoindividualismo metodologico. Altra concettualizzazione forte, già presente nell'area originaria delle scienze sociali moderne, è costituita dalle "conseguenze inattese" dell'agire sociale intenzionale, o, con espressione più forte, dagli "effetti perversi". La tematizzazione del "tempo" − oggettivo-soggettivo, strutturale-quotidiano − ha fornito e fornisce finora occasioni e fonti per rispondere al bisogno di teoria.

Nella terza area di interessi teorici della s. in Italia troviamo, da un lato, costruzioni di una teoria dell'"attore sociale" combinate con ricezioni epistemologiche e di scienze dell'artificiale; dall'altro lato, a partire dalla fenomenologia, si fa dell'empatia husserliana un universale sociologico, che favorisce transizioni all'intersoggettività, oppure si cerca, nelle "mediazioni simboliche", l'unificazione tra l'esperienza del determinato strutturale e l'indeterminato soggettivo.

Quanto alla ricezione degli autori contemporanei, si nota una continuità d'influenza della s. statunitense dagli anni Cinquanta fino agli anni Settanta, comprendendo indirizzi positivi e indirizzi a questi rivali. Dagli anni Settanta agli anni Ottanta è aumentata la ricezione della s. tedesca; N. Luhmann ha dato prestiti a ogni area teorica. La seconda area ha fruito di ricezioni dell'area anglosassone di economia neoclassica, neoutilitaristica, neomarxistica e analitico-formalizzante. Diffusa la ricezione di J. Habermas, anche se più per gli aspetti filosofici che di teoria e ricerca sociale, rispetto ai quali è notevole l'interesse per autori come A. Giddens, R. Boudon e J.C. Alexander.

Dal punto di vista delle trasformazioni nella conoscenza sociologica e per metterci così nella prospettiva degli anni Novanta, si possono fare le seguenti notazioni: la crisi di consenso sulle teorie scientifiche è in relazione con la loro "incommensurabilità" e pretesa "corrispondenza" con la realtà; le teorie scientifiche esplicative e predittive non escludono, secondo le attuali concezioni della filosofia della scienza, nuove generazioni di teorie, più interattive come enti cognitivi; la progressiva cumulabilità dei contributi teorici non è compatibile, ma non esclude la selettività secondo la storicità. La ricerca metodologica, abbandonato il metodologismo, si riorienta all'euristica, con i mezzi di un pluralismo metodologico: ai nuovi bisogni ermeneutici si risponde con la ricerca di nuove fonti, delle quali manca però una compiuta analisi e teoria (da costruire non senza fare ricorso storico alle risposte diltheyana e weberiana al bisogno di più approfondite interpretazioni). Il complesso delle conoscenze e della cultura, storicamente chiamato s., si può leggere anche da noi nella triplice formazione: s. come scienza positiva e sperimentale; s. come scienza dei sociologi; s. come formazione intenzionale che spiega le fluttuazioni e le oscillazioni dei punti di vista sull'ordine e sul mutamento, sul sistema e sull'agire sociale, sulle loro conseguenze attese e inattese, sull'individualismo metodologico e sull'olismo, sui processi di differenziazione strutturale e sui processi di individuazione. La qualità e la temporalità degli eventi attuali e futuri rivolgono un appello anche alla s. e alle fonti della sua storicità.

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