SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA

Stanley Cohen

Introduzione. - I fenomeni specifici che costituiscono la devianza, naturalmente, erano già compresi in sistemi culturali che esistevano prima che la categoria stessa divenisse oggetto di studio delle scienze sociali. Termini come "peccato", "male" e "immoralità" esistevano in sistemi religiosi, tradizioni e superstizioni premoderni, e continuarono a essere usati anche dopo che lo stato moderno sovrappose a essi la propria potente terminologia legale e legislativa. Prima che fosse definito il concetto di "crimine" esisteva il comportamento deviante, dannoso, indesiderabile, cattivo, problematico o peccaminoso; prima del concetto di "ritardo mentale" c'erano le persone stupide, prima del concetto di "depressione" c'era la tristezza o la malinconia, e prima del concetto di "alcolismo" l'ubriachezza. La nascita di un discorso specificamente moderno sulla devianza risale a tre radicali trasformazioni che si verificarono verso la fine del 18° secolo: a) l'attribuzione al concetto di "crimine" di un ruolo egemone nella categorizzazione delle forme fondamentali di devianza, che rafforzò il potere del sistema legale centralizzato dello stato moderno; b) il prevalere di modi di controllo consistenti nella segregazione in istituzioni specializzate chiuse (prigione, ospedale psichiatrico, ecc.); c) il perfezionamento dei metodi per classificare popolazioni e fenomeni devianti, ognuno col proprio sistema di definizioni e di spiegazioni e col proprio apparato burocratico e professionale. Quest'ultimo sviluppo è cruciale. Noi interpretiamo tutte le forme di devianza ufficialmente riconosciute attraverso i tre principali schemi di regolazione e repressione: lo schema legale/giuridico, lo schema assistenziale e lo schema salute/malattia.

All'inizio del 20° secolo i maggiori conflitti di competenza sembravano risolti: la devianza doveva essere di pertinenza di esperti e professionisti (operatori sociali, psichiatri, avvocati) e fu separata dalla questione più generale del potere politico. L'insieme delle attività assistenziali, educative, legali e terapeutiche riguardanti la devianza costituì un nuovo ambito ''sociale'', separato dal sistema politico. La devianza criminale, per es., doveva essere spiegata dalla criminologia positivista, che ''sottraeva'' il soggetto del crimine alle competenze dello stato. Tutto ciò non impedì, comunque, che si continuassero a usare, per connotare la devianza, espressioni appartenenti al linguaggio della morale. I nuovi sistemi di potere/conoscenza non riuscirono a sottrarre le categorie devianti alla disapprovazione morale, alla stigmatizzazione e alla condanna sociale. Tra tutti i fondatori della teoria sociale classica, E. Durkheim fu quello che più chiaramente anticipò i problemi concettuali che sarebbero diventati di pertinenza della s. della devianza. Il suo interesse pionieristico per il tema dell'ordine sociale lo condusse ad affrontare proprio quegli argomenti (la funzionalità della devianza, la relatività delle regole, la natura della regolamentazione morale) che poi divennero le questioni teoriche centrali della s. della devianza.

Nelle concezioni sociologiche della devianza D. Matza individua tre contrapposizioni ricorrenti: a) tra correzione (studiamo i fenomeni devianti perché vogliamo estirparli) e comprensione (il nostro interesse è capire, perfino empaticamente, i fenomeni devianti); b) tra patologia (la devianza è una variante intollerabile e intrinsecamente indesiderabile della normalità) e diversità (la devianza è una variante, o un mutamento, tollerabile, che, per ragioni estrinseche, è considerata negativamente); c) tra semplicità (la devianza, in quanto scostamento dalla normalità, è un fatto ovvio) e complessità (la devianza è un fenomeno difficile da definire, dati i suoi rapporti talvolta paradossali con la normalità, cui spesso si sovrappone).

La Scuola di Chicago. - La devianza è stata una questione d'importanza cruciale per la prima generazione di sociologi, soprattutto americani e inglesi. Fenomeni come il crimine, la delinquenza e il ''vizio'' erano considerati minacce alla moralità dominante e alle concezioni vigenti dell'ordine sociale. La devianza denotava un cattivo funzionamento dei sistemi di socializzazione primari/informali (la famiglia, la scuola, la moralità). Gli scienziati sociali appoggiavano movimenti di riforma miranti a rendere più efficienti, umane e ''progressiste'' le istituzioni ufficialmente deputate al controllo sociale (correzionalismo). Le loro teorie si basavano sul paradigma della patologia e della semplicità. Questa ''ideologia professionale dei patologi sociali'', col suo insieme di criteri morali assoluti in base ai quali valutare la devianza, con le sue teorie causali individualistiche o situazionali, con la sua riluttanza a pensare in termini politici o storici, dominò il pensiero sociologico per decenni. La Scuola di Chicago degli anni Venti e Trenta ereditò parte di questa ideologia, ma cercò di affrontare il tema della devianza in modo più ''scientifico'' e meno moralistico. Le sue descrizioni, molto dettagliate, delle bande giovanili, della criminalità organizzata, della prostituzione, del vagabondaggio, ecc., inaugurarono una tradizione metodologica duratura.

Questi resoconti, apparentemente tesi a suffragare una concezione della devianza come fenomeno semplice e patologico, paradossalmente fornirono prove a favore della tesi della diversità e della complessità. La delinquenza faceva parte del ''crescere nella città''; vizio e criminalità organizzata erano pienamente integrati nell'apparato politico e in quello preposto all'applicazione della legge. La città era il laboratorio dove studiare tutto ciò. Di queste correlazioni furono dati tre tipi di spiegazioni: furono cioè spiegate in termini di ''ecologia'' (la crescita urbana crea ''ambienti naturali'' favorevoli al costituirsi di rapporti simbiotici fra varie forme di devianza), in termini di ''trasmissione culturale'' (le norme devianti vengono trasmesse da una generazione all'altra attraverso un processo di apprendimento), in termini di ''disorganizzazione sociale'' (la devianza dipende dalla debolezza − in casi estremi dal crollo − delle forme tradizionali di controllo sociale di fronte ai conflitti fra culture, ai mutamenti sociali dirompenti e all'instabilità sociale).

I punti deboli della Scuola di Chicago sono stati messi in rilievo già da tempo: il fatto di concentrarsi su micromodelli piuttosto che sulla struttura sociale, il fatto di basarsi su una nozione di disorganizzazione sociale affetta da circolarità logica, ecc. Le va, comunque, riconosciuto il merito di aver fornito un contributo importante e tuttora valido allo studio della devianza: l'impostazione metodologica imperniata sulla descrizione puntuale e fedele degli universi devianti (stili, culture, carriere) inseriti nel contesto della vita urbana.

Il funzionalismo e i suoi derivati. - Il funzionalismo in auge dopo gli anni Quaranta non era interessato né a una descrizione dettagliata degli universi devianti, né ad alcun tipo di assistenzialismo o correzionalismo. Richiamandosi alla teoria sociale europea classica (specie alle teorie di Durkheim e Weber), i funzionalisti s'interessavano dei macromodelli dell'ordine sociale. Nella teoria di T. Parsons la devianza era uno scostamento dagli standard normativi, da spiegarsi in termini di socializzazione difettosa o di aspettative di ruolo. Comunque, malgrado la loro dichiarata mancanza d'interesse per la devianza in sé (considerata il prodotto di scarto di una macchina mal funzionante), il funzionalismo e le concezioni a esso ispirate contribuirono allo studio del fenomeno con due idee assai importanti.

Le funzioni positive della devianza. - Il primo contributo del funzionalismo allo studio della devianza è l'idea − paradossale − che la devianza, lungi dall'essere un fenomeno puramente negativo e patologico, svolga un ruolo fondamentale e addirittura positivo nel mantenimento dell'ordine sociale. Questa idea si fa risalire alle prime tesi di Durkheim sulla ''normalità del crimine''. Il crimine, secondo Durkheim, è un fatto sociale non solo in senso statistico, ma anche in quanto svolge precise funzioni sociali. Una società senza devianza è impossibile da immaginare. Le ''funzioni positive'' della devianza sono: rafforzare la coscienza collettiva, segnare i confini di ciò che è lecito e anticipare mutamenti sociali desiderabili. Il crimine, lungi dall'essere puramente distruttivo, mantiene la stabilità sociale. Lungo queste linee di pensiero sociologi di diverse scuole precisarono le funzioni positive della devianza: essa rafforza la solidarietà (aggregando l'opinione pubblica nella comune condanna del deviante) e chiarisce i confini della morale (la denuncia del male c'informa su ciò che è bene). La devianza è dosata in modo che ogni società ottiene la quantità e il tipo di devianza di cui ''necessita''. Più precisamente e più proficuamente tutte queste funzioni dovrebbero essere considerate funzioni non della devianza ma delle reazioni alla devianza.

L'anomia e le teorie delle subculture. - Anche il secondo importante contributo del funzionalismo allo studio della devianza trae ispirazione da Durkheim. In questo caso non si tratta degli aspetti della devianza ritenuti ''normali'' o ''sani'', ma delle sue origini nella ''anormale divisione del lavoro'', in certi tratti patologici della società moderna emergente. Il famoso termine durkheimiano ''anomia'' si riferiva alla caratteristica dissociazione, nella società moderna, dell'individualità dalla coscienza collettiva. I desideri individuali, che emergono dal loro ''abisso insaziabile e senza fondo'', non sono sufficientemente regolati o controllati. L'anomia era lo stato di mancanza di norme prodotto dalla rapida fuoriuscita dalla società tradizionale, ed esacerbato dalle crisi sociali ed economiche.

Nel suo famoso studio su Le suicide. Etude de sociologie (1897) −forse il primo ''classico'' di s. della d. − Durkheim prese in esame il suicidio, la forma di devianza più individuale di tutte, per costruire un modello di causazione sociale. Egli individuò le cause sociali del suicidio (e, implicitamente, di altre patologie) nella debolezza della regolamentazione morale delle società moderne. I settori vulnerabili della popolazione − avulsi dalle fonti tradizionali della coercizione e della solidarietà sociale − erano lasciati in preda ad ambizioni illimitate, e quindi condannati all'''infelicità perpetua'', che, in casi estremi, poteva sfociare in un comportamento autodistruttivo o in altre forme di comportamento patologico. Tali ''devianti anomici'' potevano essere distinti sia dal ''deviante biologico'', presente anche nella società più perfetta, sia dal ''ribelle funzionale'', una persona normale che sceglie di reagire a un ordine sociale anormale o ingiusto.

In quello che è considerato il più importante scritto di s. della d., Social structure and anomie (in American Sociological Review, 3 [1938], 5, pp. 672-82), R.K. Merton trasformò la nozione di anomia di Durkheim in una nuova formula sociologica in grado di spiegare l'esistenza della devianza nelle società democratiche moderne. Per Merton l'anomia non era più l'assenza di norme, ma la conseguenza non voluta di un divario strutturale tra fini e mezzi. In una società che dà troppa importanza al successo personale, al raggiungimento di traguardi cui tutti dovrebbero aspirare (''il sogno americano''), e che tuttavia possiede una struttura che non offre a tutti uguali opportunità o uguali mezzi per raggiungere questi traguardi, si determina una tensione permanente. La risposta più comune a questa situazione sarà sempre il conformismo, cioè l'accettazione dei mezzi legittimi e culturalmente prescritti (come l'impegno individuale), nonché dei traguardi approvati. Ma esistono anche adattamenti devianti, di cui i più importanti sono l'innovazione e la rinuncia. L'innovazione consiste nel perseguire i fini culturali prescritti (in particolare il successo materiale), facendo però uso di mezzi illegittimi (per es. il furto, la frode, la violenza); la rinuncia (una categoria di comportamenti in cui Merton includeva gli ''adattamenti devianti'' come il suicidio, la malattia mentale e la tossicomania) consiste nel rifiuto sia dei fini prescritti sia dei mezzi convenzionali. La più importante conseguenza di tale concezione, per lo studio della devianza, è stata lo sviluppo delle teorie delle subculture, specie a proposito della delinquenza giovanile. Queste teorie, pur parecchio diverse tra loro, hanno in comune due caratteristiche: si basano tutte sul presupposto che la delinquenza sia una soluzione culturale condivisa di problemi indotti strutturalmente, e tutte rappresentano un tentativo di combinare un macromodello derivato da una teoria sul tipo di quella dell'anomia con un micromodello derivato da una teoria sul tipo di quella della Scuola di Chicago.

Le teorie della reazione sociale. - Verso la metà degli anni Sessanta, dapprima negli Stati Uniti e poi in Gran Bretagna e nell'Europa occidentale, si affermò una nuova concezione della devianza, una combinazione − talora incoerente − di svariati principi teorici e pratici, che assunse diverse denominazioni: teoria interazionista, transazionale, scettica, della reazione sociale, della reazione societaria, o − più comunemente − teoria dell'etichettamento.

A livello teorico, la nuova concezione traeva diversi spunti dalla Scuola di Chicago (la nozione di devianza come comportamento appreso, l'uso di metodi etnografici) e dal funzionalismo (la relazione paradossale tra devianza e controllo), nonché dall'interazionismo simbolico, dalla fenomenologia e − a volte − dalla teoria del conflitto. Il concorso di spunti teorici così eterogenei ha dato luogo a una concezione relativistica della devianza, soggettivamente o politicamente aperta piuttosto che effettivamente data; espressione di diversità piuttosto che di patologia, e di complessità piuttosto che di semplicità; una proprietà conferita piuttosto che inerente a qualsiasi comportamento. La tesi principale dei nuovi teorici era che la variabile cruciale nello studio della devianza fosse non l'attore (il suo patrimonio genetico, la sua personalità, il suo status sociale, o altro) e neppure l'atto (la sua presunta pericolosità), ma piuttosto la pubblica opinione.

Le teorie ''positiviste'' convenzionali studiano il comportamento, di cui cercano d'individuare le cause alla luce di un qualche modello deterministico (biologico, psicologico o sociale). Le nuove teorie non solo hanno messo in discussione il determinismo in nome di un modello meno rigido dell'azione umana, ma hanno evitato ogni tipo di spiegazione causale; inoltre hanno integrato (a volte sostituito) lo studio del comportamento con quello della reazione sociale.

La reazione sociale si esplica a tre livelli: a livello di definizione, a livello di classificazione e a livello di effetti; perciò studiare la reazione sociale equivale ad affrontare e risolvere i tre problemi seguenti. Il problema della definizione: perché e come, in primo luogo, viene creata una categoria deviante? di che tipo di categoria si tratta? Il problema della classificazione: come sono classificati i singoli casi che rientrano nella suddetta categoria? Nel modello medico della devianza la ''classificazione'' si chiama ''diagnosi'': per es., data la categoria ''psicopatico'', si tratta di stabilire se un determinato individuo presenta i sintomi di una psicopatia. Nel modello criminale la classificazione dell'atto (questo atto particolare è veramente un caso di furto?) costituisce l'''applicazione della legge''. Il problema degli effetti: quali sono le conseguenze sociali del fatto di aver etichettato come deviante un atto, un attore o un gruppo? In particolare, per quale strana concatenazione di eventi i tentativi di eliminare la devianza a volte sortiscono l'effetto opposto, ovvero incoraggiano, amplificano e istituzionalizzano proprio il comportamento ''incriminato''?

A loro volta anche le possibili risposte agli interrogativi elencati si situano a tre diversi livelli: il primo è quello strutturale e storico, il secondo è quello organizzativo, il terzo è quello interazionale o psicologico. Così, per es., le origini di una categoria deviante come l'abuso di droga potrebbero essere studiate a livello storico (quali erano le pressioni politiche che in origine crearono la legislazione antidroga?) oppure in termini organizzativi (quali interessi burocratici spingono le istituzioni preposte all'applicazione della legge a sostenere particolari definizioni del problema?). Al quesito della classificazione si potrebbe rispondere politicamente (perché sono stati presi di mira i gruppi più marginali e privi di potere?) oppure in termini di potere esercitato da determinate categorie professionali. Gli effetti potrebbero essere descritti in termini psicologici: i cambiamenti nell'identità e nell'immagine di sé prodotti dall'etichettamento, dalla stigmatizzazione o dalla segregazione.

La maggior parte delle ricerche nel campo della devianza fatte dopo gli anni Sessanta segue l'una o l'altra di queste direzioni. Esistono quindi moltissimi studi su argomenti quali: le origini storiche di particolari sistemi di controllo; le dinamiche delle ''crociate morali'' che cercano di creare nuove categorie devianti o di cambiare le vecchie; il funzionamento quotidiano delle istituzioni preposte al controllo sociale; la rappresentazione della devianza nei mass media; la dipendenza delle statistiche ufficiali sulla devianza da strati di significati costruiti socialmente; i modi in cui le forme problematiche della devianza diventano proprietà pubblica di gruppi professionali; la formazione di stereotipi sulla devianza; il processo in base al quale vengono create e gestite le identità e le carriere devianti.

Politica e politica sociale. - A livello politico queste idee sono state integrate e affiancate da diverse concezioni alternative riguardanti le modalità di controllo della devianza. Gli anni Sessanta hanno visto l'affermarsi di numerosi movimenti sociali volti a indebolire, scavalcare o perfino abolire le strutture convenzionali di controllo appartenenti ai diversi sistemi: legale, assistenziale, psichiatrico. Sono state propugnate e anche adottate delle alternative innovanti e radicali rispetto alle strutture e alle ideologie vigenti. In alcuni casi questi movimenti (per es., il movimento per la liberazione degli omosessuali) sono stati promossi dagli stessi gruppi devianti nelle loro lotte contro modi di categorizzazione e di controllo che consideravano ingiusti e oppressivi. In altri casi sono stati i professionisti stessi che hanno dato vita a movimenti per riformare o perfino abolire le discipline o i monopoli di loro competenza. Così, nell'ambito della criminologia, del diritto, dell'assistenza sociale e della psichiatria sono nate varie concezioni critiche o controculture (per es., l'antipsichiatria). A volte l'iniziativa del cambiamento è venuta da gruppi politici più convenzionali o − più tardi − dal movimento femminista.

Ciò che accomunava quasi tutti questi gruppi era la volontà d'imporre una qualche forma di destrutturazione: le strutture e le ideologie fossilizzate del controllo sociale ereditate dal secolo precedente dovevano essere smantellate. A volte l'oggetto dell'attacco era ''il potere'': le procedure, le istituzioni e l'apparato attraverso cui si esercitava ufficialmente il controllo sociale. A volte l'oggetto dell'attacco era ''la conoscenza'': teorie e paradigmi alternativi furono contrapposti ai modelli accademici convenzionali della devianza, come quello della criminologia positivista, la teoria giuridica liberale, i modelli medici della malattia mentale o dell'abuso di droga, ecc.

In alcuni casi questi movimenti propugnavano programmi liberali moderati, tesi a riformare determinati sistemi di controllo o a modificare teorie in voga: in nome di un pluralismo liberale e tollerante − ''la cultura della diversità'' − gli effetti dannosi e controproducenti dell'etichettamento dovevano essere rimossi o mitigati. In altri casi l'obiettivo era più politico e utopistico: prevedeva l'abolizione completa delle categorie cognitive, dei paradigmi propri delle singole discipline e delle strutture di potere.

Le critiche. - La teoria dell'etichettamento e i modelli di strategia politica implicitamente associati a essa sono stati fatti oggetto di numerose critiche negli ultimi due decenni. La teoria è stata di volta in volta accusata di un eccessivo relativismo e pluralismo, di eludere le questioni della motivazione e della causazione, di attribuire potere causale all'atto dell'etichettamento. Si è sostenuto che, col suo concetto di devianza deliberatamente ambiguo e mutevole, la teoria perda di vista l'aspetto obiettivo dell'atto e le sue varianti dipendenti da variabili sociologiche standard, quali la classe, il sesso, il potere, la cultura, ecc. Alcuni critici reputano banale e ovvia la duplice insistenza sulla relatività delle regole e sul fatto che tutti gli eventi sociali sono costruiti socialmente. Da un punto di vista opposto (fenomenologia ed etnometodologia), la teoria è considerata troppo poco attenta alle problematiche della costruzione sociale. Da un'altra prospettiva ancora, i critici radicali sottolineano la presunta difficoltà che la teoria incontrerebbe nel passare da un'analisi interazionistica a un discorso in termini di potere e di tipo storico; questa difficoltà dipenderebbe dal fatto che la teoria considera la sequenza ''comportamento-reazione'' come una coppia di eventi contrapposti ed episodici, isolati dalle regole e dai modelli d'infrazione dominanti in un certo periodo storico. Le repliche a tali critiche riconoscono che alcune sono giustificate, altre dipendono da un fraintendimento. La teoria era semplicemente una ''prospettiva'' sulla devianza e non ha mai preteso di offrire un'alternativa alle spiegazioni convenzionali del comportamento. Non si possono negare né le differenze ''obiettive'' di manifestazione, distribuzione e portata dei vari comportamenti giudicati devianti, né l'importanza di spiegare queste differenze; ma la classificazione deve sempre essere considerata problematica. Se l'esistenza di una regola non significa che questa sarà seguita (e le diverse infrazioni saranno modellate socialmente secondo la classe, l'età, il sesso, ecc.), allora anche l'esistenza di tali infrazioni non significa che esse saranno universalmente riconosciute nello stesso modo da chi le commette o da altri soggetti interessati.

Le teorie radicali. - Alla fine degli anni Sessanta le nuove teorie della devianza − già radicali per le loro implicazioni culturali e per la loro contestazione delle teorie positiviste ortodosse − assunsero un tono più radicale anche nel senso politico convenzionale del termine. In Gran Bretagna, specialmente, alla teoria dell'etichettamento si diede una netta svolta: a) annoverando la reazione sociale fra i meccanismi più generali del potere statale; b) considerando gli adattamenti devianti come comportamenti razionali, significativi e implicitamente di carattere politico. Il passo successivo − ispirato all'ideologia della Nuova Sinistra, alla teoria critica di tipo marcusiano e alla tradizione marxista classica − consistette nell'inquadrare la dialettica devianza/controllo nel contesto dell'ordine sociale capitalista. I radicali sostenevano che il concetto generico di ''devianza'' non fosse adatto per comprendere la natura del potere statale. Secondo loro il capitalismo moderno aveva generato due categorie di devianti: i ''rifiuti della societ'a'' (social junk), cioè forme di comportamento che non costituivano una minaccia per l'ordine sociale vigente e che potevano essere affidate alle cure di assistenti sociali o psichiatri, oppure essere benevolmente ignorate; e la ''dinamite sociale'' (social dynamite), cioè forme di comportamento percepite come una minaccia per l'ordine politico, la sicurezza individuale o la proprietà privata, e che quindi erano strettamente sorvegliate e severamente punite dallo stato. Furono fatti alcuni tentativi per reinterpretare certe forme di devianza ''leggera'' (sessualità, uso occasionale di droga, malattia mentale) in termini politici, ma l'attenzione si era chiaramente spostata sul crimine.

I teorici radicali si muovevano lungo due direzioni. La prima li portò a elaborare una sociologia giuridica di stampo storico, tesa a scoprire le origini e le funzioni del diritto penale nell'economia politica del capitalismo. Ideologie come ''il governo della legge'' furono spiegate come modi per proteggere la proprietà privata, per mantenere l'ineguaglianza e la gerarchia di classe (perfino legittimandole come giuste), per piegare l'opposizione politica, per dividere la classe lavoratrice e per ottenere una forza lavoro ben disciplinata. Questa stessa analisi dell'origine e del contenuto della legge fu poi estesa alla questione dell'applicazione della legge e al problema della punizione. La maggior parte degli studiosi d'ispirazione marxista si dedicò a questi argomenti (la legge e la punizione). Si giunse a sostenere che l'insistenza con cui l'opinione pubblica e il mondo accademico mettevano sotto accusa i crimini della strada (i reati tipici dei deboli, dei poveri e degli emarginati) era un atteggiamento di carattere ideologico, una mistificazione che mirava a celare i ''veri'' crimini, cioè i crimini commessi dai detentori del potere economico e politico, e la categoria, ancor più generale, delle violazioni dei diritti umani.

La seconda direzione lungo cui si muovevano i teorici radicali verteva sull'eziologia del crimine: essi cercarono di dimostrare che il capitalismo in sé è ''criminogeno''. Nozioni quali quelle di "tensione", "anomia" e "opportunità bloccata" furono ricondotte nell'ambito dell'economia politica. Si trattava, secondo i radicali, di caratteri intrinseci, non correggibili, del capitalismo moderno. Le cause del crimine risiedono nell'ineguaglianza, nell'abbrutimento, nel lavoro degradante, nella disoccupazione e nell'alienazione. I radicali aspettavano l'avvento di una ''società libera dal crimine''; ciò poteva significare o che le condizioni che generano il crimine sarebbero state eliminate, o che il potere dello stato di criminalizzare la diversità e la devianza sarebbe stato indebolito, o entrambe queste cose.

Tutte queste tesi sono state criticate in base al fatto che i legami esatti tra devianza e capitalismo restano indimostrati e forse sono indimostrabili. Il modello radicale si risolve in una sorta di ''funzionalismo di sinistra'', in cui la complessa dialettica della devianza e del suo controllo è ridotta alle necessità dell'ordine sociale capitalistico. In risposta a queste osservazioni, alcuni radicali hanno cercato di perfezionare ulteriormente l'analisi marxista tradizionale: alcuni si sono dedicati all'analisi comparativa delle società socialiste, altri hanno rivisto le proprie posizioni originarie e hanno finito per riconoscere la ''realtà'' del crimine e della vittimizzazione convenzionali.

Conclusioni. - Il modello sociologico dominante della devianza resta quello delineato dalle teorie degli anni Sessanta. Le polemiche suscitate dalla teoria dell'etichettamento continuano tuttora, ma non si vede alcuna alternativa effettiva a tale teoria. Gli sviluppi teorici più promettenti potrebbero venire da quattro concezioni affini: la teoria critica del controllo sociale; il costruzionismo sociale; il femminismo; il pensiero di M. Foucault.

In sede di revisione critica della teoria del controllo sociale si sta abbandonando il modello centrato sullo stato e la concezione secondo cui il controllo sociale si ridurrebbe esclusivamente all'''insieme delle reazioni organizzate alla devianza''. È in corso di elaborazione un modello di controllo più antropologico, che ruota intorno alla nozione di ''controllo della vita sociale''. Il problema di come siano costruite e gestite socialmente determinate categorie, quali la ''devianza'' e il ''problema sociale'', viene affrontato dal costruzionismo sociale applicando un paradigma derivato dalla sociologia della scienza e della conoscenza. Quale che sia l'argomento − l'AIDS, la guida in stato di ebbrezza o l'incesto −, si fa ricorso a uno scetticismo radicale per scoprire come vengano costruite le opinioni su ciascun fenomeno. La recente teoria femminista ha attirato l'attenzione sul ruolo onnipresente del sesso nel controllo della vita sociale e nella costruzione di ciò che viene reputato ''deviante'' sia per le donne che per gli uomini. Oltre a ciò, la metodologia femminista, trasformando radicalmente le categorie di ''privato'' e ''pubblico'' e stabilendo un collegamento tra il personale e il politico, offre prospettive più generali per lo studio della devianza e del controllo sociale. L'eredità di Foucault rappresenta una sfida radicale lanciata agli studiosi della devianza e del controllo. Le implicazioni delle sue genealogie dei sistemi di controllo sociale, la sua topologia del potere normalizzante in aree come quelle della salute mentale e della sessualità e la sua teoria generale del rapporto tra potere e conoscenza possono ancora esercitare la loro influenza su discipline quali la giurisprudenza, la psichiatria, la criminologia e la s. della devianza

Quale che sia la linea di ricerca seguita, lo studio della devianza resta uno dei più creativi delle scienze sociali. Il successo delle scienze sociali nell'affrontare questi argomenti può essere misurato in base a due criteri differenti: il primo, il più ovvio, consiste nella capacità di comprendere le caratteristiche intrinseche dei vari modelli di devianza e di controllo ed eventualmente d'ideare le opportune politiche umane e, appunto, sociali; il secondo consiste nel verificare la convinzione di Durkheim, di Freud e di Foucault, secondo cui proprio l'osservazione dell'anormale, del deviante e del patologico ci porta a comprendere il funzionamento ''normale'' della società.

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