SOCIALISMO

Enciclopedia Italiana - II Appendice (1949)

SOCIALISMO (XXXI, p. 990)

Franco LOMBARDI

Ideologia del movimento socialista: carattere del nuovo socialismo; vecchio e nuovo socialismo; socialismo e comunismo. - Dopo i movimenti avutisi già nel primo quarto di secolo (sindacalismo e sorelismo, gildismo, motivo dei sovieti, rilevato in Italia da Gramsci e da Gobetti), gli spunti e i motivi quasi sommersi dall'ondata totalitaria riaffiorano con più o meno chiara coscienza nei movimenti socialistici che risorgono un po' dappertutto in Europa, e costituiscono la nota loro più caratteristica e insieme più genuina, in distinzione e, a grado a grado, con l'allontanarsi dalla unità della lotta clandestina e l'evolversi della politica comunista, in contrapposizione con i diversi movimenti e partiti comunistici. Tuttavia, da un punto di vista teorico, il risorgere del socialismo è stato caratterizzato, non soltanto in Italia ma anche fuori d'Italia, da una deficienza della teorizzazione programmatica, accompagnata nel campo pratico da una indecisione nella sua caratterizzazione, dovuta non soltanto alla lunga interruzione che il socialismo ha subìto, soprattutto in Italia e in Germania, ma anche e più, in generale, alla situazione creatasi con il nuovo assetto mondiale.

Per il primo rispetto, ciò è dovuto, oltre che alla qualità degli uomini e all'impreparazione dottrinale della nuova generazione, all'incalzare dei problemi pratici, unito peraltro con un'incomprensione dei compiti attuali del socialismo, dove questi non si disegnano più sul quadro di un avvenire lontano, bensì, anche se qualche volta con illusioni e anticipazioni eccessive, nella prospettiva di un programma immediato di azione. In questo senso appare mutata la problematica socialista, risultando per esempio antiquata (o ripresentandosi con spunti e significati fondamentalmente diversi) l'antica polemica fra i fautori della partecipazione al governo, che apparivano come collaboratori della borghesia e "opportunisti", e coloro che si riservavano per il gran giorno della rivoluzione proletaria. Questo mutato carattere ritorna tuttavia più in generale in una trasformazione del socialismo da ciò che esso fu sulla fine del secolo scorso, potendosi fare arrivare quell'epoca, in certo modo, fino alla prima Guerra mondiale. Ciò si fa chiaro, per esempio, nella deficienza nei nuovi movimenti socialistici di tutta quella varia attività educativo-cooperativistica che già contraddistinse il socialismo del primo quarto di questo secolo, e costituisce il vanto del rifiorire operaio e contadino della Lomellina e della Romagna. All'ideale ancora chiaramente ottocentesco di quei movimenti, alla loro fede altrettanto sicura quanto immediata nella "cultura" e nel "progresso", si oppongono i diversi metodi della politica di massa, della propaganda cartellista o dei fronti, delle decisioni concordate al centro e della tattica, attraverso cui si fa chiaro, insieme con la scarsa coscienza socialistica, come il movimento sia permeato da spiriti e forme non sue. Sotto questo rispetto il socialismo del secondo dopoguerra si presenta, rispetto a quello avutosi innanzi, come essenzialmente pragmatizzato. Il pericolo insito in questo pragmatizzamento, insieme con gli aspetti positivi pure accennati, sta nella minore capacità di resistenza e nel pericolo che esso possa scivolare così a sinistra - secondo che si dice - verso il comunismo, come, per distinguersi da esso, ricadere a destra, con tentativi di unioni o di alleanze di cui i confini così teorici come pratici restano oscillanti.

La differenza si presenta a primo aspetto come quella che intercorre fra il vecchio e il nuovo secolo e, in certo modo, fra la generazione più vecchia e la generazione susseguente alla prima Guerra mondiale o, di più, la nuovissima. Dove il sec. XIX inclinava verso uno storicismo che poteva ritrovare i suoi addentellati anche in Marx e in ogni caso nella concezione ideologica e pratica della seconda Internazionale, il secolo nuovo si annunzia con una fiducia nella provvidenza della storia che trova il suo riscontro nella maggiore esaltazione o riabilitazione dell'intervento dell'individuo, dell'elemento volontaristico o del mito, e in generale dei valori pratici. Alla sicura ascensione economico-sociale e agli ideali ingenui ma inconcussi della seconda metà del secolo scorso subentra, dopo il fermento e le prime stanchezze del primo quarto di secolo, già smaliziato, la delusione della prima Guerra mondiale, con la caduta dell'Internazionale ed i problemi dei socialismi più o meno "nazionali". L'evoluzione del processo storico-economico accompagna e favorisce l'intervento del totalitarismo nell'intervallo fra le due guerre. A cavallo fra le due epoche, Lenin teorizza il partito organizzato come milizia del proletariato, quale antagonista dell'imperialismo inteso come ultima fase del capitalismo. Per questo modo il Partito comunista (leninista) si presenta da un lato come il figlio del secolo, mentre influisce, a sua volta, potentemente sul carattere della nuova epoca. E nel fatto i partiti comunisti di ispirazione leninista e nel seguito staliniana sono in un certo senso più "moderni" che non i partiti e movimenti socialisti, il concetto ad essi centrale di un partito organizzato o di funzionarî rispondendo meglio che non la vecchia struttura dei partiti socialisti alla situazione di una società altrimenti tecnicizzata che non fosse quella dell'800, in cui la distanza fra il governo e i governati, per la ragione medesima del tecnicizzarsi dell'azione di governo, si ritrova ad essere aumentata, lo stesso interesse per la politica, dove non sia quello della politica di massa, è diminuito, ed i mezzi della organizzazione e della propaganda si fanno di per sé stessi, per la loro importanza crescente, "totalitarî". Parimenti risponde allo spirito del nuovo secolo, di contro alla mentalità dei partiti e movimenti socialisti del secolo scorso, il sottile scetticismo che si ritrova pure nell'atteggiamento tenuto verso quelle masse che si vogliono guidare e, se è necessario, portare sulla via del cosiddetto "centralismo democratico".

Ma benché questo divario si possa qualche volta vedere come contrasto fra l'Ottocento e il Novecento e altra volta si possa vedere come differenza fra l'indirizzo e la mentalità di Karl Marx e quella di Vladimir Il′jc Lenin o si possa ricondurre alla differenza fra due soluzioni di carattere tecnico-politico, di cui l'una, quella comunistico-totalitaria, ritroverebbe le sue ragioni nella storia del popolo russo e le necessità del nuovo stato bolscevico, e l'altra affonderebbe le sue radici nello sviluppo della civiltà europea, tuttavia sta di fatto che la distinzione fra ciò che si dice "socialista" e ciò che si dice "comunista" è di carattere più essenziale e si può rintracciare - pur nei mutamenti intercorsi - fin nei primordî dei due movimenti.

Ripercorrendo alla luce della problematica più recente la storia più antica dei due movimenti, si ritrova che ancora nel '90 Engels, rendendo ragione del titolo di comunista dato nel 1847 al Manifesto, scriveva che "nel 1847 socialismo significava un movimento di borghesi, comunismo un movimento di operai. Il socialismo, per lo meno sul continente, era ammesso nella ‛buona società', il comunismo proprio il contrario". A sua volta, già Stein (Soz. u. Kom. d. heut. Frankreichs) scriveva nel 1942 che "... Il socialismo è positivo e il comunismo è negativo... l'uno si assegna il compito di realizzare quello che si propone, l'altro di accusare quello che esiste, l'uno spera nella sua realizzazione per mezzo della forza della verità che sostiene, e alla cui considerazione vorrebbe invitare ogni essere pensante, l'altro invece con la forza della massa, cioè con la rivoluzione e il terrore". Il pericolo rivelato da Engels (nel quale rischia di cadere lo stesso Stein, pure avendo l'occhio ad un fondo di verità che si tratta di porre meglio in luce) inside nel concettu stesso del socialismo, nella sua maggiore apertura o nella latitudine della sua umanità, che dà o può dar luogo a quell'"umanitarismo" per cui già a tempo di Marx gli artigiani comunisti motteggiavano che gli umanisti trassero il loro nome da Humaine, il sarto alla moda di Parigi. Allo stesso modo, la serietà della decisione, l'impegno nell'azione e la dedizione alla causa si trasforma o può trasfomarsi nel comunista nel settarismo, che tanto spesso contraddistingue il militante comunista di contro all'umanità e quasi si direbbe alla liberalità del socialista. Questo è anzitutto un carattere psicologico che trova però il suo riscontro immediato nel carattere della azione pratica e in ultima analisi nel programma politico proprio dei due movimenti. Tali tratti si possono riconoscere già in Marx attraverso tutta la sua vita: vedi l'articolo del 15 ottobre 1842, e Un carteggio del 1843, con il riconoscimento del diritto di Proudhon contro il comunismo; vedi la polemica contro il "comunista" Weitling, riferita per il 1846 da Annenkov, con la difesa, per un "paese civile" come la Germania, di contro alla Russia, dell'importanza della cultura; la polemica contro Gottschalk, che accusava l'"attendismo" del "teorico" Marx, e contro l'"uomo di azione" Willich e la "estrema sinistra" ("alla concezione critica - diceva Marx nel settembre 1850 - la minoranza sostituisce una concezione dogmatica... Invece delle condizioni reali, considera la semplice volontà come il motore della rivoluzione. Mentre noi diciamo agli operai: dovete attraversare 15, 20, 50 anni... non solo per trasformare la situazione ma per trasformarvi voi stessi e per rendervi atti al potere politico, voi dite loro: bisogna arrivare subito al potere, altrimenti possiamo metterci a dormire. Mentre noi attiriamo particolarmente l'attenzione degli operai tedeschi sul carattere primitivo del proletariato tedesco, voi lusingate oltraggiosamente il sentimento nazionale ed i pregiudizî corporativistici degli artigiani tedeschi: il che, senza dubbio, vi rende più popolari... "); infine vedi la sua costante polemica contro Bakunin, per esempio la sua sdegnata presa di posizione a proposito del caso Netchaiev.

Questo suo atteggiamento di contro a quelle varie correnti prende colore di storicismo (sul quale potrà insinuarsi negli anni intorno al 1890 persino il riformismo), tuttavia al di sotto di esso si ritrovano tratti che sempre ritornano a luce nella distinzione del comportamento psicologico-politico del socialista di contro a quello del comunista. E benché i moderni partiti comunisti (bolscevichi) abbiano fatta loro la esperienza marxista, e tendano a distinguersi da quel primo "comunismo" a volta a volta utopico o giacobino anche più che non i partiti socialisti (vedi la polemica pure tipicamente leninista contro l'estremismo come malattia infantile del socialismo) tuttavia si ritrova in essi, a parte gli elementi blanquisti e bakuninisti in essi rifluiti (il concetto di gruppi decisi che trascinano la massa all'azione, il concetto di tattica, quello del "centralismo democratico" con l'assolutismo verso i membri consociati, i metodi cospirativi, ecc.), una intonazione che è comunista e non è socialista.

Questa differenza si può riconoscere, come s'è detto, nella diversa psicologia dell'operaio socialista e di quello comunista, nella maggiore apertura e liberalità del primo, di contro alla decisione, ma insieme al settarismo del secondo. In questo senso si è potuto ripetere (con accezione diversa da quella adoperata per la prima volta da Lenin) che si dirigono verso il socialismo le "aristocrazie operaie", e si ritrova che rifluiscono nei partiti comunisti - con esperienza solo in apparenza strana - gli elementi che venti o trenta anni addietro si dicevano alcuna volta "anarchici". Anzi, che qui si tratti di una distinzione in primo luogo psicologica si riconosce nel tipo dell'"intelletuale" comunista, il quale reca in sé un bisogno di affidarsi nella disciplina, di salvarsi nell'azione, o una negazione radicale verso il mondo, che lo distingue dalla liberalità, dalla sorridente bonomia e si direbbe dall'ottimismo del socialista. E in ultima analisi, si può dire che si tratti nei due casi di un diverso atteggiamento di ordine psicologico-religioso verso il mondo, secondo cui il socialista crede nella bontà di esso e perciò delle masse da elevare a popolo attraverso l'educazione e la discussione politica, dove il comunista, come il S. Domenico di Dante che negli sterpi eretici percuote, è indirizzato a portare la massa (cfr. già l'uso del termine in Agostino) verso il fine rivelato agli eletti, ad onta e se è necessario contro la volontà del mondo. Tale caratterizzazione rende ragione della distinzione del socialismo dal comunismo meglio che non la definizione altrettanto comune quanto superficiale del socialismo come di un comunismo dimidiato o annacquato: nella quale definizione è contenuta la conclusione che si debba dunque preferire il vino puro all'annacquato e che la sola politica socialista conseguente sia quella del "piano inclinato" che dovrebbe condurre i ritardatari o gli indecisi, quanto più presto tanto meglio, verso il comunismo. E rende ragione dei valori "rousseauiani" che si sono riconosciuti nel pensiero di Marx e si ritrovano storicamente così negl'inizî della sua educazione, come nella conclusione del suo pensiero (secondo la quale con lo scomparire dello stato poliziesco o meramente politico il libero svolgimento di ciascuno sarebbe stata la premessa del libero svolgimento di tutti). I quali valori non sono da intendere tuttavia come un "elemento" isolato o una "seconda" anima illuministica, di contro allo storicismo, al realismo, o allo hegelismo, ma sono rifluiti in quella sua fiducia nella storia e staremmo per dire nella provvidenza del processo storico, e si ritrovano fusi nel suo concetto dell'uomo, conducendo a quell'ideale politico e storiografico per cui il socialismo compare quale lo svolgimento e il coronamento della democrazia.

Questo fa sì che è facile (per questo rispetto) essere comunista, ma è difficile essere socialista, senza perdere di vista per un lato la volontà rivoluzionaria e per l'altro quella liberalità per cui il socialismo tende a risolvere oggi in sé (non in quanto si fa socialismo "liberale" o altro, ma in quanto è socialismo) l'istanza liberale. Questa ricerca di unità dell'ideale socialista fa altresì che esso assuma di opporsi così nella cultura come nella politica all'ideale che si potrebbe dire "goethiano" del saggio, proprio del liberalismo, per un diverso e più compiuto umanesimo socialista. Parimenti si deve guardare a questo concetto insieme uno e complesso del socialismo per difendersi contro i pericoli presenti di confondere il socialismo (nel tentativo di distinguerlo dal comunismo) con la "terza forza": il cui carattere distintivo nei confronti del socialismo sembra consistere nel ritenere che attraverso l'affermazione di una democrazia essenzialmente politica e senza una trasformazione radicale, anche se pacifica, della società, si possa porre termine alle contraddizioni del presente ordinamento sociale. Lo stesso si deve dire verso le recenti richieste di sganciare, come si dice, la politica socialista dalla "ideologia" o, come anche si aggiunge (e non sempre si chiarisce che cosa s'intenda sotto questo termine) dal "marxismo". Ché se per un lato quelle richieste tendono a liberare il socialismo dai bizantinismi dottrinali che denotano sempre l'inefficienza della azione politica, o a liberarlo dal dogmatismo di dottrine superficialmente materialistiche per salvare la liberalità intrinseca al suo concetto e portarlo sul terreno di una politica effettuale, per l'altro lato è pur necessario obiettare che l'umanesimo socialista reca in sé medesimo la propria fede, e che esso importa non meno una sua filosofia (diversa da quelle che vengono presentate dai socialisti come le evasioni "idealistiche" del liberalismo) che un suo ideale d'integrazione della teoria con la pratica, ideale che è diverso, anche in questo rispetto, dall'ideale del saggio goethiano: e vuol essere in una parola, nella cultura non meno che nella politica, l'interezza dell'uomo o l'uomo sociale.

Processo storico-economico. - Il mutamento intervenuto nella fisionomia del movimento socialista non potrebbe spiegarsi senza far ricorso, da un lato, all'influenza esercitata dal Partito comunista (bolscevico) russo, e, dall'altro lato, alla crisi interna della società capitalistica seguita alla prima Guerra mondiale. A sua volta la rivoluzione russa, che ha origini e motivi suoi, indipendenti da quelli previsti da Marx per una possibile rivoluzione socialista nell'Occidente, non avrebbe potuto esercitare una tale influenza ove ci si fosse trovati di fronte a robusti movimenti socialisti e questi non fossero entrati essi stessi in crisi. La crisi dei movimenti socialisti, iniziata con lo scoppio della prima Guerra mondiale e il fallimento della II Internazionale e terminata fra il 1922 e il 1933, con l'affermarsi dei regimi "totalitarî", è però la crisi della stessa società dell'Ottocento, dove il momento tragico risiede in ciò che la crisi che si produceva secondo le direttrici del processo disegnato, a grandi linee, da Marx, non si risolveva tuttavia nel senso voluto dai socialisti, benché conducesse molto spesso a forme di statizzazione o comunque di pianificazione che sembravano presentarsi come socialistiche (v. le varie forme del nazionalsocialismo) confondendo ancora più le menti sulla vera essenza di un movimento "socialista".

Sta di fatto che, benché lo sviluppo della società borghese abbia veduto il persistere delle industrie piccolo-artigiane e quello della piccola proprietà terriera, di contro alle previsioni di Marx, ed abbia portato ad un incremento della differenziazione tecnica e dell'importanza della burocrazia che era lungi dall'essere previsto da Marx, tuttavia la storia della società economico-politica degli ultimi cento anni ha confermato, con la formazione delle grandi società anonime e la trasformazione del capitalista-imprenditore nella figura di un rentier, e con la concentrazione del capitale nei grandi complessi monopolistici, la previsione di Marx di un autosuperamento della produzione capitalistica in quanto fondata sull'automatismo del mercato. Il capitalismo monopolitistico, dopo aver condotto ad una lotta reciproca fra i diversi gruppi, porta, attraverso i tentativi rinnovati di controllo della macchina statale, ad una progressiva permeazione economica dello stato da un lato e, d'altra parte, ad un intervento crescente della politica nell'economia. Hilferding prima e quindi Lenin hanno studiato la spinta esercitata da questo processo nel senso d'un imperialismo che, con l'industrializzazione graduale dei paesi già oggetto di mercato, si esprime dapprima nelle forme dell'investimento di capitale e quindi, a grado a grado che procede la pianificazione, nel controllo della produzione del cosiddetto "spazio vitale": ciò che, al di sopra dell'internazionalismo del capitale, porta di nuovo ad un inasprimento del rapporto fra gli stati. Tuttavia è soltanto con la grande crisi economico-finanziaria sopraggiunta fra il 1929 e il 1932 che lo stato deve intervenire non più nel modo rapsodico e contraddittorio del capitalismo monopolistico, bensì in forme sempre più coordinate e preordinate, che attraverso il regolamento dei grandi lavori pubblici, la direzione del credito, e, a grado a grado, il controllo delle divise, conduce quasi automaticamente ad una pianificazione. Questa trova la sua giustificazione prima nella sua funzione di rassicurare le masse di contro alla minaccia della disoccupazione, che, con l'aumentata dimensione delle imprese, il maggiore rischio e la diminuita elasticità del mercato, si presenta sempre più come cronica. Non vi è dubbio che i regimi cosiddetti totalitarî nascono, nei paesi che hanno minori tradizioni di libertà, dalla paura della disoccupazione che prostra la resistenza delle masse e le fa volgere, in cerca di salvezza, verso uno stato che assicuri ad esse la tranquillità ed il pane. Poiché il problema sussiste, in ambiente e con tradizioni diverse, dappertutto, si procede a tentativi di organizzare la produzione non soltanto nella Germania nazista, e, a partire soprattutto dal 1933, in Italia (per es. il fenomeno del corporativismo, che nel fatto riceve incremento dopo il 1934 dall'esempio della Germania e di più dalle necessità imposte dalle sanzioni economiche), ma anche negli Stati Uniti di Roosevelt (politica del New Deal), negli esperimenti socialisti dei paesi scandinavi e della Nuova Zelanda, oltre che della Gran Bretagna (v., con il piano di Ottawa, il primo governo laburista di Mac Donald, caduto, al pari del governo del Fronte popolare in Francia, per la debolezza delle sue basi parlamentari, insufficienti a dominare l'opposizione finanziaria, nel 1931; in seguito la nuova esperienza, attuata dapprima attraverso l'economia di guerra, quindi, con rinnovato vigore e ardire, con il governo laburista insediatosi con le elezioni del 1945). Ma se il limite del "nuovo piano" di Roosevelt, al pari del primo esperimento laburista e del Fronte popolare di Francia, sta in ciò che a un certo punto esso si arresta contro la resistenza del capitale il quale non permette che la produzione venga aumentata elevando il livello di vita degli operai a costo del profitto, la pianificazione nazista, con la quale non si vuole "sovvertire" la società e si mantengono perciò, insieme con la base economica del profitto, le vecchie gerarchie finanziarie, si volge verso la produzione di quei beni destinati alla guerra i quali sono gli unici che non debbano venire assorbiti dal mercato e non richiedono pertanto che la capacità di acquisto di questo venga elevata con aumenti reali del salario. Le forme del fascismo e nazismo, originate, in paesi di scarsa tradizione democratica, immediatamente o mediatamente, dalla guerra, tendono perciò anche, di là dalle loro ideologie più particolari, con moto più o meno rapido, verso la catastrofe della guerra. A loro volta i sistemi in cui il movente del profitto delle oligarchie capitaliste è stato sradicato e perciò vi è libertà d'indirizzare la produzione verso fini sociali, ma nei quali l'organizzazione stessa dello stato è totalitaria nel senso che non viene lasciato adito alla discussione e alla critica, tendono inevitabilmente ad un irrigidimento della casta - dei funzionarî o del partito - pervenuta al potere. Questa è portata quasi inconsapevolmente a identificare la propria difesa nella lotta contro il "sabotaggio" degli oppositori o contro la minaccia militare dello straniero, contribuendo perciò ad una elevazione sociale delle masse fino a un certo punto, di là dal quale essa arresta viceversa il processo di educazione politica e civile del popolo, degradandolo nelle forme di un misticismo più o meno fanatico.

Per questo modo una società socialistica (nella quale si miri all'elevazione del tenore di vita della comunità, retribuendo ciascuno secondo le sue capacità ma allargando con lo stesso aumentare del benessere il raggio dei beni che già oggi si considerano di pubblico interesse e perciò dando sempre più a ciascuno secondo il suo bisogno), richiede per un lato la socializzazione delle industrie-chiave, sostituendo all'interesse delle oligarchie plutocratiche l'interesse della collettività, per l'altro lato richiede però la partecipazione effettiva di tutto il popolo alla vita politico-economica, attraverso le forme del controllo democratico. Ciò che importa non è la proprietà di diritto dello stato, ma è l'effettiva disposizione della società sull'uso dei mezzi di produzione, e cioè il controllo della produzione attraverso una pianificazione che sia attuata per l'elevamento del tenore di vita del popolo attraverso gli organi di controllo dello stesso popolo. Se perciò la storia degli ultimi trenta anni mostra che il problema del socialismo (attraverso quello della pianificazione e la lotta contro la disoccupazione) è al centro della società presente, il senso della soluzione presentata o per lo meno tentata di tale problema dipende dallo stato dello sviluppo economico e dalle tradizioni religioso-politico-culturali delle singole nazioni.

Di conserva con il processo storico-economico ha proceduto la teoria del fatto economico. Questa infatti ha, negli sviluppi più recenti e più maturi, relegato fra le anticaglie o lumeggiato diversamente la vecchia polemica fra la scuola dell'economia liberale cosiddetta scientifica, e la teoria marxistica del "plusvalore" essendosi chiarito che il "libero scambio" non costituisce se non un ideale schema, non diversamente da quello di un'economia perfettamente collettivistica. Così l'uno come l'altro rappresentano dunque una idea-regolativa, o se si vuole un ideale in ultima analisi di natura etico-politica, fra gli infiniti altri schemi possibili, la cui formulazione costituisce l'oggetto della scienza dell'economia, mentre l'applicazione di essi, nel senso della scelta migliore del mezzo in rapporto al fine (che è perciò per sua natura meta-economico), costituisce il proprio compito della politica economica. Lo stesso liberalismo (dopo avere cercato di differenziarsi sul piano politico-ideologico dal "liberismo" economico) si è spostato poi su questo stesso piano economico sul terreno del socialismo, avendo accettato con i socialisti - di contro al vecchio liberalismo - che la vita economica non si può abbandonare a sé stessa secondo l'adagio del laissez faire, ed avendo parimenti accettato, con Marx, che, abbandonata a sé stessa, la produzione capitalistica tende a passare nelle forme del monopolio e perciò a superarsi o quanto meno a corrompersi, e teorizzando pertanto che lo stato debba intervenire sì, ma avendo come sua propria idea regolativa quella di una perfetta società liberistica in conformità della quale dovrebbe tendere a ristabilire ciascuna volta la regola del gioco. Il socialismo rivela a sua volta di essere, anche in questo rispetto, un ideale di organizzazione economico-sociale più complesso, in quanto si sforza di risolvere in sé il principio liberale ma limitatamente ai settori e mercati particolari che, benché mai "liberi" in assoluto, bensì sempre in rapporto alla situazione data, mantengono la funzione così di stabilire il prezzo di singoli elementi della produzione e con ciò il costo dei procedimenti produttivi diversi, come la funzione di accertare la preferenza ed i bisogni del pubblico e con ciò di orientare la produzione.

Via via che il livello del benessere si eleva, lo stimolo alla produzione si sposta sempre più dal piano della retribuzione secondo il lavoro effettuato, sul piano dell'emulazione morale e del riconoscimento sociale. Il fine del socialismo, che agisce come un ideale regolativo e non cessa perciò di operare nell'interno stesso di una società socialistica in quanto essa attraverso il controllo supera il contrasto degli interessi sezionali o di gruppo e impedisce il formarsi di nuovi privilegi ereditarî o di casta, è perciò in primo luogo la liberazione dell'uomo dalla schiavitù del bisogno, in forza di un'organizzazione della produzione che ponga fine alle crisi strutturali o cicliche, spezzando il cieco fato dell'automatismo economico. Di là dal piano economico il socialismo tende però a restituire ad ogni singolo la sua dignità di uomo abolendo quella "alienazione" di cui parlava Marx, che degrada l'uomo da soggetto a oggetto della produzione come una "forza di lavoro", equiparata ad una "merce" e "pagata" come tale; e ciò in forza di un'organizzazione della produzione che tanto meno è sentita come coattiva, quanto più agisce fisiologicamente, cioè quanto meno si prefigge fini arbitrarî (come le economie "autarchiche" dei sistemi militari nazisti) e non è pertanto costretta ad imporli autoritativamente.

Bibl.: Non meraviglierà di trovare la conferma dell'immanenza del problema del socialismo e insieme il rilievo dei suoi problemi nuovi in primo luogo in scrittori o allontanatisi dal marxismo o comunque non socialisti: dai volumi di F. Borkenau, Socialism-national or internat., Londra 1942; J. Burnham, The Managerial Revolution, ecc., New York 1941, trad. ital., Milano 1946; E. H. Carr, Nationalism a. after, Londra 1945, a quelli di A. F. v. Hayek, B. Brutzkus, L. Robbins, a quello di J. A. Schumpeter, Capitalism, Socialism a. Democracy Londra 1944. Vedi Lange, On econ. Theory of Socialism, Minneapolis 1938; H. D. Dickinson, Econom. of Socialism, Oxford 1939; R. Mossè, L'économie collectiviste, Parigi 1939, trad. ital., Roma 1947; M. Dobb, Political Economics a. Capitalism, Londra 1937; id., Studies on the development of Capitalism, New York 1947; A. R. Sweezy, Theory of a Capitalist Development, New York 1944; B. Woottom, Freedom under Plann., Londra 1945, trad. ital., Roma 1947. Tra i molti volumi di G. D. H. Cole, Socialism in Evolution, Londra 1938; id., Russia, Europe a. the Future, Londra 1941, New York 1942; H. J. Laski, Reflections on the Revol. of Our Time, New York 1943; di A. Rosenberg, aut. della Storia del bolscevismo, 1932, trad. ital., Roma 1945, e della Storia della repubblica tedesca, 1935, trad. ital., Roma 1945, v. Demokratie u. Sozialismus, Amsterdam 1938; D. Guerin, Fascisme et Grand Capital, 1939, n. ediz., Parigi 1945; P. Sering, Jenseits des Kapitalismus, ecc., Lauf b. Norimberga 1947; È. Dolléans, Histoire du mouv. ouvrier, Parigi 1936-39, trad. ital., Roma 1946-48; G. D. H. e M. J. Cole, British Trade-Unionism to Day, Londra 1939; P. Nenni, Storia di quattro anni, Roma 1946; G. Perticone, Storia del social., n. ediz., Roma 1946; v. anche F. Lombardi, Cento anni di insegnam. soc., Roma 1944; id., Social. e Comun., ivi 1945; e la Bibl. di comunismo; liberalsocialismo; marx; materialismo.

I partiti socialisti italiani.

Dalla sua fondazione (Congresso di Genova, 16 agosto 1892), quella del 21 gennaio 1921, nel Congresso di Livorno, con la secessione della frazione comunista e la formazione del PCI (v. comunismo, in questa App.) era la prima crisi veramente grave del Partito socialista italiano (PSI), anche perché il gruppo maggioritario, riuscito vincitore nel Congresso di Livorno e che si manteneva schierato sotto la vecchia bandiera del PSI, non si presentava affatto compatto. E di unità e di compattezza invece - passato il facile momento di euforia all'indomani della guerra, passata l'effimera sensazione di poter tutto osare con le agitazioni - il PSI aveva particolarmente bisogno dopo che l'occupazione delle fabbriche, nel settembre 1920, si era conclusa con un sostanziale fallimento e vi erano segni palesi di ripresa delle forze di resistenza, da parte sia del governo, sia dello squadrismo fascista, illegale ma di fatto tollerato.

Dopo la secessione dei comunisti, rimasero nel PSI a fronteggiarsi con non minore asprezza, le due frazioni dei riformisti e dei massimalisti: capeggiati i riformisti (minoranza) da F. Turati, C. Treves, G. E. Modigliani, ecc.; i massimalisti (maggioranza) da G. M. Serrati, A. Baratono, ecc. Tuttavia, solo sotto lo scatenarsi sempre più violento dello squadrismo fascista, dopo il fallimento dello sciopero legalitario dell'agosto 1922, dopo l'incapacità dimostrata dal partito di decidersi per l'uno o l'altro dei due soli modi possibili per opporsi all'incalzare fascista: o facendo davvero la rivoluzione, con le masse socialiste, per la conquista dello stato o accettando responsabilità di governo in difesa delle libertà costituzionali (come proponeva la frazione riformista), nel XVIII Congresso (Roma,1-3 ottobre 1922) la convivenza fra le due frazioni si dimostrò non più sostenibile. Si ebbero così due partiti socialisti: il PSI capeggiato dal Serrati, e il PS Unitario (PSU) formato dai riformisti e che ebbe come organo quotidiano La Giustizia (dir. C. Treves). Nulla sembrava doversi più opporre alla fusione del PSI col Partito comunista italiano e in tal senso si espresse infatti il IV Congresso dell'Internazionale di Mosca (5 novembre 192z); ma nel fatto, da un lato per la ripugnanza che il gruppo comunista capeggiato da A. Bordiga sentiva contro la fusione coi socialisti, dall'altro per il formarsi, entro il PSI, di un Comitato d'intesa antifusionista, che guadagnò a sé P. Nenni, reggente la direzione dell'Avanti! durante l'assenza e poi l'arresto di G. M. Serrati, la fusione non avvenne; e contro la fusione si pronunciò il poco frequentato congresso del PSI, tenutosi a Milano nell'aprile 1923.

Le fortune elettorali dell'allora unico PSI, che erano state altissime nelle elezioni del 16 novembre 1919 (156 deputati) e di poco inferiori (123 deputati) in quelle del 15 maggio 1921, calarono assai nelle elezioni del 6 aprile 1924, viziate sì, a priori, dalla speciale articolazione della nuova legge elettorale, dalle violenze del nuovo regime denunciate poi alla Camera nel suo ultimo discorso da G. Matteotti, ma comunque espressione anche di un certo disorientamento delle masse socialiste: il Partito socialista unitario (riformisti) ebbe 437.744 voti (6,1% dei voti, con 25 deputati), il PSI (massimalisti) 338.936 voti (4,7% dei voti, con 22 deputati). I due partiti socialisti si trovarono uniti nell'opposizione aventiniana seguita all'uccisione del G. Matteotti, e insieme furono coinvolti nel disfacimento seguito alle leggi del 1926. L'organizzazione dei partiti socialisti in Italia non poté resistere a quelle misure e presto scomparve anche nella forma clandestina, mentre sopravviveva nell'emigrazione in Francia, dove, nel 1930, con la riunione degli ex-riformisti ed ex-massimalisti si riformò un unico PSI ricco, tuttavia, più di capi che di gregarí, il quale, nel 1934, iniziandosi la politica dei fronti popolari, si avvicinò al Partito comunista, che ancora manteneva qualche filo organizzativo in Italia, e strinse con esso un primo patto di alleanza.

Nel fatto, queste manovre di stato maggiore fra l'emigrazione politica avevano scarsa ripercussione in Italia. Così poté avvenire che, nel lavorio sotterraneo che negli anni della guerra precedente la caduta del fascismo, un movimento socialista democratico (cioè mirante a farsi guida delle masse operaie e contadine con piena adesione ai principî di libertà e di democrazia) poco facesse sentire la sua presenza, accanto a forze ben più vive e nettamente individuate, come il Partito comunista, la Democrazia cristiana e anche accanto a partiti rivelatisi poi di minor peso politico, come il liberale, il repubblicano e quel Partito d'azione che da un lato riallacciandosi alla critica esercitata in Francia proprio sul PSI da C. Rosselli e dal gruppo di "Giustizia e Libertà", dall'altro, in Italia, al movimento liberalsocialista, si pose, in un primo tempo, come il vero erede e continuatore, aggiornato, del vecchio PSI. Ma nella realtà, questo non era defunto nel nostalgico ricordo delle generazioni anziane, né era, senz'altro, surrogabile con formazioni nuove ed eterogenee e troppo inquinate agli occhi delle masse, da complicazioni intellettualistiche: socialismo e Partito socialista erano insegne che avevano ancora un fascino e un avvenire.

Sicché, caduto il fascismo (25 luglio 1943), bastarono la presenza e la fattiva opera di alcuni capi socialisti (P. Nenni, B. Buozzi, G. Romita, O. Vernocchi, ecc.) e di alcuni giovani perché fossero riprese le fila della organizzazione ed a esse confluissero formazioni affini, come il Movimento di unità proletaria: nell'agosto 1943 il PSI di Unità proletaria era, nei suoi quadri e organismi essenziali, ricostituito e nei mesi successivi poteva essere presente, specie nell'Italia Settentrionale, con le sue formazioni militari (brigate Matteotti) alla lotta partigiana e dappertutto nei CLN e nelle formazioni ministeriali che dei CLN furono, più o meno, l'espressione: nel 3° ministero Badoglio (22 aprile 1944) e nel 1° ministero Bonomi (giugno-novembre 1944). Esclusosi dal 2° ministero Bonomi (dicembre 1944-giugno 1945), ritenuto, per il modo in cui la crisi era stata risolta, poco ossequente ai principî dei CLN, il PSI partecipò al ministero Parri (giugno-novembre 1945) e ai primi due ministeri De Gasperi (dicembre 1945-febbraio 1947), svolgendo con i suoi uomini, specialmente con Romita e Nenni, una parte di primo piano nella preparazione del referendum del 2 giugno 1946 e della Costituente.

Sorretto, soprattutto nel primo tempo, dalla simpatia e dal consenso non solo di larghe masse operaie, ma anche di elementi della cosiddetta piccola borghesia, il PSI ha logorato molte delle sue ricche energie nell'improba fatica di darsi una sua individualità rispetto al PCI e insieme di non venire meno al patto di unità d'azione, ribadito con quel partito nell'agosto 1943 e nel luglio 1945. La preoccupazione di non scindere le forze proletarie in due partiti antagonistici, così ricadendo in quello che, a giudizio di molti capi socialisti e comunisti, sarebbe stato il massimo errore dei partiti marxisti di fronte al fascismo negli anni 1921-26, e insieme la preoccupazione di non farsi assorbire dal PCI, tanto più ferreamente organizzato e disciplinato, sono alla radice delle molte crisi che hanno travagliato il PSI nei pochi anni dalla rinascita.

La vittoria nel Congresso nazionale di Firenze, nell'aprile 1946, della tendenza capeggiata da G. Saragat, contraria alla fusione e confusione col PCI, e rivendicante per il socialismo una funzione di moderno liberalismo democratico, aperto, sì, alle più ardite riforme sociali e di struttura economica, ma non meno sollecito della libertà umana, influì non poco, due mesi dopo, sul grande successo che il PSI ottenne nelle elezioni per la costituente del 2 giugno 1946 e che non si spiega se non con l'apporto dei voti di larghi strati non specificamente "proletarî": 4.744.749 voti (il 20,7%) con 115 deputati. G. Saragat veniva eletto presidente della costituente. Nonostante questo grande successo, dovuto in buona parte al consenso di questi strati, la tendenza di maggioranza non era affatto compatta, ed era fortemente combattuta dalle frazioni di destra e di sinistra; accanto alla frazione o tendenza filo-comunista, nettamente fusionista (O. Lizzadri, M. Gaeta, C. Mancinelli, ecc.), accanto ad una tendenza fusionista sì, ma per la fusione non immediata (L. Basso, L. Cacciatore, a cui sembrò inclinare anche P. Nenni), accanto ad una tendenza di autonomia socialista e quasi, come fu detto, di umanesimo socialista che faceva capo a Europa socialista (I. Silone, F. Lombardi, ecc.), si agitavano le frazioni facenti capo da un lato a G. Saragat e a Critica sociale (U. G. Mondolfo, Faravelli, ecc.), cioè all'ispirazione turatiana, riformistica, dall'altro al gruppo di Iniziativa socialista (M. Zagari, C. Bonfantini, ecc.) antifusionista e rivendicante per il partito piena autonomia anche sul piano internazionale, sul quale auspica la ricostituzione dell'Internazionale socialista.

Queste molte tendenze vennero a contrasto nel congresso tenuto a Roma il 9-13 gennaio 1947; la tendenza saragattiana di Critica Sociale e d'Iniziativa socialista, rimaste soccombenti, sono uscite dal PSI e hanno dato vita al PSLI (Partito socialista dei lavoratori italiani) cui hanno aderito una cinquantina di deputati, formando cioè una forza parlamentarmente considerevole, mentre il gruppo di Europa socialista, nell'intento di condurre a un'unificazione sul piano del socialismo democratico, diede luogo più tardi all'Unione dei socialisti. Dal febbraio 1947 il PSI è all'opposizione. La scissione continua tuttora e vi sono scarsi segni che i diversi tentativi di avvicinamento, almeno per le frazioni meno lontane del PSLI e del PSI, siano per riuscire. Così i due partiti si sono presentati in liste avverse nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948: il PSLI con liste proprie (Unità socialista), cui hanno aderito anche elementi socialisti di diversa provenienza (per es. dal defunto Partito d'Azione) ottenendo 33 seggi alla Camera (1.856.287 voti) e 23 seggi al Senato; il PSI mescolato nella lista del Fronte popolare con i comunisti ed altri gruppi e uomini di sinistra. Perciò il computo preciso dei voti dati ad esso è pressoché impossibile; ad ogni modo, è legittima l'ipotesi che la lista unica abbia agito a favore soprattutto dei comunisti (132 deputati), mentre gli alleati socialisti non hanno avuto più di 50 seggi (e 41 al Senato).

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