SIRACUSA

Enciclopedia Italiana (1936)

SIRACUSA (greco Συρακούσαι; lat. Syracusae; A. T., 27-28-29)

Attilio MORI
Giuseppe CULTRERA
Giuseppe AGNELLO
Guido LIBERTINI
Giuseppe PALADINO
Giovanni PEREZ
Secondina Lorenzina CESANO
Attilio MORI

Città e porto della Sicilia orientale, capoluogo di provincia e sede vescovile. Dell'antica e cospicua città, centro principale della civiltà e della potenza greca nella Sicilia, Siracusa, decaduta dopo la conquista romana e ridotta nel Medioevo a una meschina cittaduzza, assai poco conserva all'infuori delle rovine degli antichi edifici, che coprono ancora in parte l'ampia distesa della grande metropoli, e di qualche frammento nell'abitato attuale, sottratto all'opera distruggitrice del tempo e più degli uomini. La moderna città è ridotta a occupare solo la piccola isola di Ortigia che rappresentava appena un quartiere della città antica. L'isoletta, che si protende in direzione NO.-SE. per una lunghezza di 1500 m. e una media larghezza di 600 m., misura un'area di 52 ha. ed è interamente occupata dai caseggiati; gli edifici, le vie e piazze della città attuale, eccettuate solo alcune parti più antiche che risentono dell'influenza dell'arte araba, hanno tutti un aspetto moderno di stile prevalentemente settecentesco, giacché molte delle principali costruzioni medievali abbattute dal terremoto, che desolò la città nel 1693, dovettero essere più o meno parzialmente riedificate nel secolo successivo. Fra gli edifici più notevoli sono da ricordare il duomo, il palazzo comunale, il palazzo Bellomo che accoglie il museo medievale. All'estremo S. dell'isoletta sorge il castello Maniace, costruzione magnifica eretta o ridotta da Federico II, presso la quale fu innalzato il faro le cui coordinate geografiche sono 37°3′5″ lat. N. e 15° 17′49″ long. E. In seguito alla guerra italoturca per la quale il porto di Siracusa divenne lo scalo principale tra la madre patria e la colonia mediterranea, la città subì un notevole sviluppo onde sorsero nuovi quartieri di carattere moderno con belle strade e giardini nell'adiacente costa siciliana cui l'isola di Ortigia è congiunta da un ponte. Un bellissimo passeggio offre pure la vecchia città nella Via della Marina (Foro Vittorio Emanuele), che costeggia il lato occidentale dell'Ortigia, all'estremo della quale si trova la celebrata Fonte Aretusa. La popolazione del comune di Siracusa, che si estende su un'area di kmq. 242,71, risultata di 13.553 nel 1578, subì lievi accrescimenti sino all'unificazione del regno onde al censimento del 1861 annoverava soltanto 19.590 ab. Assai più rapido e intenso fu lo sviluppo demografico del primo mezzo secolo seguente, tanto che la popolazione raggiunse nel 1911 i 30.895 ab. di cui 27.007 per il solo centro urbano, e al censimento del 1931 ne superò i 50.000 ab. di cui 40.000 nel centro urbano. L'importanza di Siracusa, oltre quella che le deriva dalle glorie del suo passato, dai cospicui resti dell'età greca, che tuttora rimangono, e della ricca suppellettile del suo museo, dalla posizione magnifica e dal clima mitissimo (temperatura media annua 17°,9; media del gennaio 11°,3; del luglio 25°,8; estremi osservati 0° e 40°,3; piogge invernali e autunnali mm. 620,5), è data dall'essere lo sbocco di una regione particolarmente ricca e ferace e dal movimento del suo porto, uno dei più frequentati della Sicilia. Il protendersi dell'isoletta di Ortigia che, congiunta artificialmente alla Sicilia, ne forma come un'appendice, dà origine a due porti distinti, ma tra loro collegati dalla darsena, uno più piccolo a N. detto appunto Piccolo Porto o Marmoreo, mal difeso e con limitati fondali, ingombro da scogli e frequentato solo da piccole imbarcazioni; l'altro, assai più vasto, detto Porto Grande, costituito da un ampio bacino ellittico chiuso a S. dalla penisola della Maddalena, il cui asse maggiore diretto da N. a S. misura 4 km. e quello minore 2. Si entra nel Porto Grande per un canale che tra la punta S. dell'Ortigia e la penisola della Maddalena non è più largo di 1 km. Il porto offre un ampio e sicuro riparo anche per navi di considerevole immersione, e comodità di traffico con lo sviluppo delle sue banchine e dei suoi moli, il cui adiacente specchio marino viene costantemente dragato. Il porto di Siracusa occupa come movimento di navi (1805 in arrivo con circa un milione e mezzo di tonnellate di stazza) il 15° posto fra i porti italiani ed è superato di poco da quelli di Bari e di Savona. Considerevole è anche il movimento dei viaggiatori provenienti per lo più dai porti libici, onde sotto questo riguardo è il 7° porto del regno (22.151 viaggiatori sbarcati e 21.288 imbarcati nel 1935). Meschino è invece il traffico delle merci perché, come si comprende, questo si riduce al solo traffico locale (79.000 tonn. e 73.000 tonn. di merci rispettivamente imbarcate e sbarcate nel 1934).

A fare di Siracusa un centro turistico, contribuiscono, oltre l'intensificato movimento portuale, le rappresentazioni classiche allestite nel Teatro Greco, e che richiamano spettatori da ogni parte d'Italia e dall'estero.

Archeologia e arte. - Antichità. - Dopo l'occupazione di Ortigia, primo nucleo della città, gli altri quartieri si andarono formando l'uno dopo l'altro, di mano in mano che aumento di popolazione e ragioni militari esigevano ulteriori ampliamenti: prima Acradina e successivamente Tyche e Neápolis. Quando poi Dionisio il Vecchio incluse tutta la terrazza delle Epipole nella cinta delle mura, queste raggiunsero uno sviluppo di quasi 28 chilometri. E così venne a costituirsi la pentapoli. Ma fu veramente una pentapoli? La terrazza delle Epipole, come risulta dalle scarsissime rovine, dovette essere per gran parte disabitata; e Cicerone (In Verr., IV, 53, 118) dice che quattro e non cinque erano le città che componevano Siracusa.

L'isolotto di Ortigia in antico era più ampio, specialmente dal lato di oriente. Separato a nord dalla terraferma per mezzo di uno stretto canale (in origine forse un istmo), e protendendosi a mezzogiorno e chiudendo per un gran tratto la profonda insenatura fra il promontorio dell'Acradina a nord e la penisola della Maddalena (Plemmirio) a sud, esso forma il Porto Grande. Dalla parte di sud-ovest, tra la punta Calarina e lo scoglio chiamato le Carrozze, la costa forma una particolare insenatura entro il porto stesso, nella quale si può riconoscere il Dáskon degli antichi. Di fronte all'Ortigia sbocca l'Anapo, il quale anticamente, e fino a pochi decennî addietro, aveva la foce in comune col Ciane. A nord-est le coste dell'Ortigia e quelle dell'Acradina formano un'altra insenatura triangolare che, un tempo meglio protetta a tramontana da un piccolo promontorio, costituisce a sua volta il Porto Piccolo detto anche Lákkios.

L'Acradina ('Αχραδινή), dal lato di occidente, aveva approssimativamente per limite una linea che, partendo dal porticciolo di S. Panagia, segue l'avvallamento a sud di detto porto, si dirige verso l'avvallamento opposto di Cozzo Romito e, scendendo nella bassura, finisce sulla riva nord del porto grande. La Týche (Τύχη o Τύχα) a nord si affacciava sul mare lungo la costa compresa fra S. Panagia e, a un dipresso, la Scala Greca; a est confinava con l'avvallamento che la separava dalla zona settentrionale dell'Acradina; a ovest si può supporre limitata secondo una linea che dalla Scala Greca scende in direzione di sud. Non si hanno elementi per determinarne il confine meridionale. Anche della Neápolis - tranne che dal lato di oriente, confinante con l'Acradina - non è facile stabilire i limiti precisi. Come l'Acradina era formata d'una parte alta (il Temenite) e d'una parte bassa, che forse comprendeva tutta l'odierna contrada del Fusco, di cui è probabile che a occidente raggiungesse la "Portella", dalla quale cominciava la cinta delle mura di Dionisio. Queste, di cui si conservano gli avanzi, seguono i confini delle Epipole. Cominciano dal seguirne il ciglio sud-ovest; raggiuntane l'estremità occidentale, su cui fu edificata la fortezza dell'Eurialo, bruscamente piegano verso oriente, formando un angolo acuto e seguendo il ciglio della stessa terrazza che guarda a nord verso l'agro megarese e, più da vicino, verso la scogliera ove si apre il piccolo porno dei Trogili e, un po' più a nord-ovest, un'altra piccola insenatura, nella quale comunemente, in base alle indicazioni di Tucidide, si suole ubicare il Leon. Alla Scala Greca (forse da Turris Galeagra) è presumibile che le mura di Dionisio si attaccassero alla cinta di Tyche.

Fuori delle mura esistevano dei sobborghi. Uno di questi era la Polichne, sull'altura a sud dell'Anapo, presso l'antica confluenza col Ciane, che sembra abbia avuto origine presso a poco nello stesso torno di tempo della fondazione della colonia greca in Ortigia. Ottimo posto avanzato, ebbe notevole importanza strategica. Un altro sobborgo di antichissima origine si ritiene sia stato il Temenite, solo in epoca alquanto posteriore incluso nella Neápolis.

Occupata dai Greci, l'Ortigia ebbe una propria cinta di mura, e comunicava con la vicina Acradina per mezzo d'una porta, che si può identificare con il Pentápylon. Oltre che della fonte Aretusa Cicerone parla di "aedes sacrae complures", delle quali due superavano di gran lunga le altre: quelle di Diana e di Minerva. È opinione predominante che il tempio di Atena debba riconoscersi in quello trasformato nella chiesa cristiana che oggi è il duomo. Prima dell'edificio pervenuto fino a noi un altro più antico ne dovette certamente esistere; ma non sappiamo se fosse nello stesso posto. Il tempio più recente appartiene all'età dei Dinomenidi (prima metà del sec. V a. C.). È un periptero esastilo con 14 colonne su ciascuno dei lati lunghi; lungo circa m. 57,20 e largo circa m. 24. Quasi intatta sarebbe la cella, se non vi fossero state tagliate le aperture di comunicazione tra la navata centrale, costituita dalla cella, e le navate laterali. Delle colonne, inserite nei muri perimetrali della chiesa, è conservata la maggior parte.

Quanto all'altro tempio, le cui rovine esistono ancora in prossimità di Piazza Pancali, si è ormai quasi del tutto abbandonata la vecchia identificazione con l'Artemísion. Il tempio è assai più antico dell'Athenaion. È un periptero esastilo, riferibile al principio del sec. VI a. C., se non alla fine del VII. Le sue rovine sono in condizioni assai deplorevoli e non ancora tutte allo scoperto. Checché si pensi dei ruderi presso Piazza Pancali, di un santuario di Artemide si ha comunque notizia, come altresì di uno di Era, di un altro di Venere Ericina e di un santuario di Afrodite Callipigia. Non sappiamo se in Ortigia o altrove si trovasse il tempio di Diocle (il legislatore).

Varie sono le opere di architettura civile e militare delle quali si conserva memoria: l'acropoli o fortezza, l'antica reggia, la menzionata porta di comunicazione con l'Acradina (probabilmente il Pentápylon), le case e le tombe dei tiranni, i granai, la "casa dei sessanta tetti" di Agatocle, la nuova reggia di Gerone II, divenuta poi residenza dei pretori romani, la residenza estiva di Verre, che sembra occupasse tutta l'estremità meridionale dell'"Isola", al di là della Fonte Aretusa. Forse ai granai si debbono riferire le costruzioni a blocchi squadrati, venute alla luce nelle demolizioni per la costruenda Via del Littorio.

A somiglianza dell'Ortigia, una propria cinta di mura turrite ebbe l'Acradina, con una porta che forse dobbiamo ricercare nelle vicinanze della necropoli delle Grotticelle. Che la cosiddetta Tomba di Archimede sita nella necropoli sia quella del grande scienziato, è da escludere in modo assoluto; ma è molto probabile che essa si trovasse nella stessa necropoli.

Non è possibile formarci un'idea, sia pure approssimativa, della "via lata perpetua" ricordata da Cicerone (In Verr., IV, 53, 191) come esistente nell'Acradina e delle sue trasversali e dell'insieme degli edifici che le fiancheggiavano. Invece, a qualche deduzione un poco più concreta si può forse venire nei riguardi dell'agorà o foro il quale; se non proprio nella zona della Vecchia Piazza d'armi, oggi Piazza del Foro siracusano, doveva trovarsi comunque nelle immediate vicinanze; e forse della curia ricordata nello stesso passo di Cicerone. Nella bassura, con la quale comincia la palude Lysimeleia, sorge il cosiddetto Ginnasio romano con il supposto Timoleonteion e l'odeo. Oggi quel terreno, per un fenomeno di bradisismo, si trova a un livello più basso che nell'antichità. Da tempo la parte inferiore dell'emiciclo dell'odeo è sommersa dall'acqua stagnante, cosa che sarebbe inesplicabile nella costruzione originaria. Già l'architetto Cristoforo Cavallari e poi (indipendentemente da questo) F. von Duhn, in una conversazione privata, ebbero ad esprimere sull'odeo un'idea che merita d'essere discussa, e cioè che esso in origine sia stato un buleuterio, modificato nell'età romana per una diversa destinazione. Questa congettura offre lo spunto per tentare la soluzione di altri importanti problemi topografici. Se l'odeo fu in origine un buleuterio, difficilmente può essere stato diverso da quello ricordato nel citato passo di Cicerone, né diverso dalla dianzi ricordata curia; né questa diversa dalla curia, in cui convenne il popolo dopo l'uccisione di Geronimo e in cui, davanti all'ara della Concordia, tenne il suo discorso Polieno (Liv., XXIV, 22). Se non che, siccome rimane sempre probabile che il Ginnasio romano sia il sepolcro di Timoleonte, in tal caso, dato che Plutarco parla di portici e palestre, per uso di ginnasio dei giovani, attorno al Timoleonteion, sembra più verisimile supporre che la contigua costruzione semicircolare a gradinata sia stata sin dall'origine un'opera più consentanea alla prossimità di un ginnasio, e precisamente un odeo. Quanto all'agorà, è vero che Plutarco afferma che Timoleonte fu in essa seppellito; ma se tanti altri edifici vi furono costruiti intorno, non si può immaginare che essi sorgessero entro l'agorà stessa; tuttavia questa doveva trovarsi tanto vicino da spiegare la notizia di Plutarco. Non è specificato il posto del Pritaneo; ma è probabile che stesse negli stessi paraggi. Il tempio di Zeus Olimpio è quello che edificò Gerone II, presso l'agorà, dandogli la stessa denominazione dell'altro presso la Polichne.

Lungi da questo particolare centro della vita siracusana, edifici sacri dovevano sorgere in altri punti di Acradina.

L'Acradina conteneva molte opere di carattere militare, come l'arsenale (νεώριον), del quale facevano parte quelle lunghe fosse rettangolari e parallele che si osservano presso lo sbarcatoio di S. Lucia.

Tra i manufatti meritano finalmente di essere ricordati i numerosissimi riquadri incassati nella roccia in tutta la scogliera, tra Cozzo Romito e la villa Politi, che divide la bassa Acradina dall'alta e destinati a contenere dei rilievi di carattere sacro. Se ne incontrano in molti altri punti dell'antica Siracusa.

Týche fu in origine un sobborgo di Acradina. Nelle sue mura, presso la Scala Greca, sembra fosse inserita quell'opera militare che è chiamata l'Esapilo, a cui metteva capo la via detta "Hecatómpedos". Nel quartiere esistevano un tempio della Fortuna, un ginnasio e altri templi. È stata avanzata l'ipotesi, peraltro improbabile, che il ginnasio possa riconoscersi negli avanzi di un edificio quadrangolare, scoperti nel 1899, e poi ricoperti, presso la casa De Matteis.

Al pari di Týche, anche la Neápolis fu in origine un sobborgo di Acradina. È dubbio quando ebbe una cinta propria. Cicerone (In Verr., IV, 53, 119) menziona nella parte alta il teatro, due templi, uno di Cerere, l'altro di Libera, e una statua di Apollo. Difficilmente questi templi possono ritenersi diversi da quelli che, innalzati da Gelone dopo la battaglia di Imera, erano compresi in un unico recinto detto τὸ τῶν Θεσμοϕόνιον τέμενος (Plut., Dion., 56).

Il teatro veramente si trova a mezza costa, non sulla sommità, della terrazza, la quale si affaccia sopra di esso con un gradone in cui, tra altre cose, è il cosiddetto Ninfeo incavato nella roccia. È presumibile che un teatro in Siracusa esistesse già nella prima metà del sec. V a. C.; ma, come dovunque in quell'epoca, esso deve essere stato di legno. La costruzione dell'attuale va attribuita con molta verisimiglianza a Dionisio I. Subì in seguito varî rimaneggiamenti, soprattutto al tempo di Gerone II e nell'età romana. È quasi per intero scavato nella roccia, ciò che ne ha permesso una soddisfacente conservazione. La cavea, misurante 134 m. di diametro, guarda a mezzogiorno verso il Porto Grande. Lo sfondo paesistico, che ne forma lo scenario naturale, è di una bellezza incomparabile.

A sud-est del teatro si stende la grande ara, lunga 198 m. e larga circa 24, fatta costruire da Gerone II in onore di Zeus Eleuterio. Se ne conserva ancora il nucleo. A fianco di questo altare, dalla parte di oriente, fu costruito l'anfiteatro, che ha il suo asse maggiore da nord-ovest a sudest. Per grandissima parte è scavato nella roccia. I due diametri misurano rispettivamente 140 e 119 metri. Gl'ingressi si trovano alle due estremità dell'asse maggiore. Quasi nel mezzo dell'arena è un bacino che, per mezzo di un canale sotterraneo, comunica con la piscina al margine sud-est della latomia del Paradiso, sotto la chiesa di S. Nicolò, che vi è edificata sopra. L'anfiteatro è riferibile all'età augustea.

Delle Epipole, oltre alle mura di Dionisio e alla grande fortezza all'estremità occidentale, di notevole non si ricorda che il tempio di Eracle il quale, stando alle indicazioni di Plutarco, sembra si debba collocare nella parte orientale della terrazza, non lungi dal confine col Temenite. Opere come il kyklos, del tempo dell'assedio ateniese, e la stessa fortificazione del Lábdalon, costruita dagli Ateniesi nella stessa occasione, ebbero carattere provvisorio.

Diverso è il caso della grande fortezza sull'estremità occidentale delle Epipole, che costituisce il cardine di tutto il sistema fortificatorio di Siracusa ideato da Dionisio I; ma, se si può escludere che quel castello fosse il Labdalon, come per molto tempo fu creduto, non è pacifico che per tutte le epoche competa ad esso il nome di Eurialo che spettò, in origine, all'altura del semaforo di Belvedere e che evidentemente passò poi alla fortezza nuova, dopo che, con la costruzione di questa, il vero Eurialo ebbe perduto il valore di un tempo. Il castello, posto a sbarrare l'accesso alla terrazza delle Epipole dalla parte di occidente, è preceduto da tre fossati, e consiste particolarmente - oltre che in un complesso di opere sussidiarie, quali le ingegnose gallerie sotterranee - in un recinto quadrangolare, che ne forma il mastio, e in un secondo più vasto piazzale chiuso, il cosiddetto "recinto orientale".

Delle opere che sorgevano nei dintorni, non conosciamo che l'Olympieĩon presso la Polichne, in quanto si conservano alcuni avanzi delle costruzioni con due colonne. Era un periptero esastilo con 17 colonne sui lati lunghi, lungo circa m. 64,40 e largo circa m. 24,50. È un tempio del principio del sec. VI a. C. Il tempio di Ciane è supponibile si trovasse a ponente dell'Olympieĩon. In quegli stessi dintorni doveva trovarsi la località "Nove Torri", dove furono seppelliti Gelone e sua moglie Damarete; ma non è possibile precisarne il punto.

Stante la scarsità di rovine, non ci è dato di stabilire quale fosse l'ordinamento edilizio dei varî quartieri; per cui non sappiamo quale applicazione abbia avuto a suo tempo il cosiddetto sistema ippodameo. Dall'accenno di Cicerone alla "via lata perpetua" e alle sue trasversali, si può inferire che in quella zona sia stato adottato il tracciato ad angoli retti; e indizî di regolarità planimetrica si notano nella sistemazione delle adiacenze del teatro (piazzale davanti al Ninfeo) e nel Ginnasio Romano.

Per lo sviluppo edilizio di una città così vasta non poteva non occorrere un'enorme quantità di pietra. E ne fanno fede le numerose e spesso vastissime e profondissime latomie, enormi cave da cui si estraeva un calcare biancastro. Col tempo l'erosione delle acque portò alla caduta delle vòlte e le latomie furono utilizzate per orti e giardini. Le maggiori di esse si trovano a sud delle balze del Temenite (latomie del Paradiso con l'Orecchio di Dionisio e di S. Venera) e dell'Acradina (Casale Broggi e dei Cappuccini). La latomia Navantieri si trova nel pieno della terrazza dell'Acradina e quella detta del Filosofo (forse corruzione di Filosseno) sulle Epipole, non lungi dall'Eurialo. Ma, oltre a queste cave di eccezionale profondità, molte altre superficiali se ne incontrano, specie sulla terrazza di Acradina.

Opera di notevole importanza sono gli acquedotti, scavati per raccogliere e incanalare acque sotterranee: il solo che fosse alimentato da una scaturigine lontana è quello che va col nome di Galermi e che fa capo alla Grotta delle Meraviglie, tra Sortino e Pantalica, passa presso l'Eurialo, per un tratto segue all'esterno la cinta meridionale delle mura a circa un chilometro e mezzo dalla fortezza, attraversa la cinta stessa e finisce sul Temenite, nella cosiddetta Casa dell'acqua. Esso fu quasi tutto scavato a cielo aperto e poi ricoperto. Degli altri, che sono del tutto sotterranei, quello di Tremilia si trova nella zona occidentale delle Epipole; ha un percorso da nord a sud e sbocca presso il mulino dello stesso nome. Più a oriente si trovano i due acquedotti detti del Ninfeo e del Paradiso, i quali, partendo rispettivamente dalle vicinanze di casa de Franchis e di casa Bonincontro, scendono con direzione convergente da nord-ovest a sud-est e sboccano il primo nel ninfeo sopra il teatro, e l'altro presso il margine orientale della grande latomia da cui prende il nome. Da ricordarsi ancora l'acquedotto che, opportunamente ampliato, divenne il decumano massimo delle catacombe di S. Giovanni.

Dopo la conquista romana Siracusa decadde rapidamente anche dal punto di vista edilizio, tanto che si dubita che la descrizione fattane da Cicerone corrisponda, non alla città vista da lui, ma a quella che gli risultava da una descrizione di Timeo.

Bibl.: T. Fazello, De rebus siculis, Palermo 1558; Ph. Cluverius, Sicilia antiqua, Leida 1619; D. Serradifalco, Le antichità della Sicilia, IV, Palermo 1840; G. Schubring, Cenni sulla topografia di Siracusa, in Bull. dell'Insti., 1864, pagine 163 segg., 202 segg., 240; Fr. S. e Cr. Cavallari e A. Holm, Topografia archeologica di Siracusa, Palermo 1883; Fr. S. Cavallari, Appendice alla topografia archeologica di Siracusa, Torino 1891; Wickert, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IV A, col. 1534 segg.; K. Fabricius, Das antike Syrakus, Lipsia 1932. Sui templi: R. Koldewey e O. Puchstein, Die griechische Tempel in Unteritalien und Sicilien, Berlino 1899; sulle costruzioni arcaiche dell'Athenaion: P. Orsi, Gli scavi intorno all'Athenaion di Siracusa, in Mon. Lincei, XXV, 1919; sull'iscrizione del supposto Apollonion: G. Oliveiro, L'iscrizione dell'"Apollonion" di Siracusa, Bergamo 1933; E. Drerup, Die Künstlerinschrift des Apollonions in Syrakus, in Mnemosynes bibliothecae classicae Bataviae, 1935; sull'Eurialo: F. S. Cavallari, Euryalos e le opere di difesa di Siracusa, Palermo 1893; L. Mauceri, Il castello Eurialo nella storia e nell'arte, Roma 1928; sul teatro greco: G. E. Rizzo, Il teatro greco di Siracusa, Milano 1923; sul supposto ginnasio di Acradina: P. Orsi, in Notizie degli scavi, 1900, . 207 segg.; sul cosiddetto Ginnasio romano: G. Schubring, Über das neuausgegrabene römische Gebäude in der Campagna Bufordeci in Syrakus, in Monastber. der berlin. Akad., 1865, p. 362 seg.; sugli acquedotti: id., Die Bewässerung von Syrakus, in Philologus, XXIII (1866), p. 57 segg.; sui porti: G. M. Columba, Monografia storica dei porti dell'antichità nell'Italia insulare, Roma 1906; K. Lebmann-Hartleben, Antike Hofenanlagen, Lipsia 1923.

Medioevo ed età moderna. - Dopo il tramonto dell'età classica s'inizia per Siracusa un rapido processo di decadenza.

All'inizio del Medioevo la città è pressoché ristretta dentro la breve cerchia d'Ortigia. Le diverse dominazioni - bizantina, araba, normanna, sveva, aragonese, catalana, spagnola - scrivono pagine non oscure nella storia della sua vita artistica. Ma in essa un solco spaventoso scava il terremoto del 1693; la rinascita seguita nel sec. XVIII segna il completo trionfo del barocco che cancella o nasconde, sotto il peso delle nuove costruzioni, molta parte della Siracusa medievale. Quello che resta invece immutato è il vecchio rilievo topografico, caratterizzato dal taglio stretto e irregolare delle sue strade. Scoperte casuali ed esplorazioni sistematiche, susseguitesi con una certa frequenza dopo il 1920, hanno messo in vista un notevole gruppo di monumenti dell'età di mezzo, i quali consentono in qualche modo di delineare le caratteristiche più salienti della città medievale.

Dal punto di vista cronologico il primo posto è occupato dai numerosi gruppi cemeteriali cristiani: catacombe di S. Giovanni, della Villa Cassia, S. Maria di Gesù, S. Lucia; da una dozzina di minori ipogei spettanti a sette ereticali e giudaiche; da un vasto sepolcreto sub divo alle Grotticelle. Esse vanno dal sec. II all'VIII, e hanno dato un cospicuo materiale scultorio, pittorico e sopra tutto epigrafico.

Il bizantinismo, che sembra oscurare col suo splendore l'influsso della tradizione latina, rivive nei monumenti architettonici, che si presentano sotto un duplice aspetto: rurale o addirittura trogloditico con le numerose cappellette tagliate nella roccia e nascoste nel suburbio o nel silenzio dell'altipiano circostante, e urbano con chiese a tipo basilicale, a una o a tre absidi (S. Foca presso Priolo, S. Pietro ad Baias, S. Pietro apostolo, Cattedrale), o a sistema centrale (Cuba presso Siracusa).

Della due volte secolare dominazione araba ogni ricordo è scomparso. Il dominio normanno, dal lato artistico, appare come una fiorente rinascita del bizantinismo che continua a prestare le sue forme specialmente all'architettura delle chiese: Santa Lucia e S. Giovanni extra moenia, S. Nicolò dei Cordari, S. Martino, S. Tommaso. Più ricco di fascino e più radicalmente innovatore è nella prima metà del sec. XIII l'indirizzo architettonico svevo che scrive una mirabile pagina d'arte nelle forme pure e solenni di Castel Maniace, nel pianterreno del palazzo Bellomo e, con riflessi più o meno evidenti, nel portico interno del Palazzo arcivescovile, in alcune sale del palazzo Bonanno, nel turrito palazzo della Targia. Un goticismo alquanto sovraccarico di elementi decorativi, in cui riecheggiano accenti di derivazione iberica, trionfa per tutto il sec. XIV e parte del successivo; ne è satura l'architettura civile coi numerosi palazzi signorili, scanditi nel piano superiore da una bella successione di bifore e trifore - palazzo Mergulense-Macciotta, Chiaramonte, Nava, Abela - e, in forma più accentuata, l'architettura chiesastica, la quale, sebbene colpita da alterazioni, ci parla ancora con l'eloquenza dei suoi portali cordonati, dei suoi solenni archi di trionfo: S. Martino, S. Giovanni, S. Pietro, S. Francesco, Madonna dei Miracoli. Nel sec. XV e nel XVI non vi è ancora un vero abbandono dei consueti motivi gotici, ma questi hanno grazie nuove in cui fioriscono ricordi catalani: palazzi Lanza, Bellomo, Gargallo, Banca d'Italia. Il Rinascimento, se ha scarsi riverberi nel campo architettonico - il Palazzo arcivescovile, di linee classicamente corrette e il Palazzo senatorio, già pervaso da accentuati motivi barocchi, appartengono cronologicamente ai primi del Seicento - è molto più ricco e fecondo in quello della scultura - statue, sarcofagi, candelieri, pietre tombali, acquasantiere della scuola del Gagini e del Laurana - e, parzialmente, anche nel campo pittorico, dove il gruppo delle tavole quattrocentesche della raccolta Bellomo col fondo estofado de oro, della maniera del Borassas, trova il suo più degno coronamento nella Annunciazione di Antonello da Messina.

Sebbene con ritardo, il Barocco fa il suo ingresso con manifestazioni esuberanti che imprimono un aspetto del tutto nuovo all'architettura religiosa: cappella del Sacramento dentro la cattedrale (S. Maria del Piliero), chiesa del Collegio, di S. Lucia intra ed extra moenia, del Carmine, interno della chiesa di S. Benedetto, S. Maria. Nella pittura l'influenza del Caravaggio, che nella sosta siracusana dei primi del Seicento dipinge il quadro del Seppellimento di S. Lucia, è visibile in Mario Minniti - quadri di s. Benedetto e dei Quattro santi incoronati - mentre Antonio Maddiona si volge, con minore profondità, agli esempî di Mattia Preti e di Carlo Maratta.

Una più intensa ripresa barocca si ha dopo il terremoto del 1693: la città viene sistematicamente trasformata, anche in quelle parti che la violenza del disastro aveva risparmiate. Una tale azione, quantunque gravissima per la città medievale, è anche variamente e spesso genialmente costruttiva: i palazzi Beneventano, Borgia, Bongiovanni, Rizza, il prospetto della cattedrale, la chiesa e l'oratorio di S. Filippo, le chiese di S. Giuseppe, dello Spirito Santo, di S. Domenico sono eloquenti affermazioni barocche che associano i nomi di artisti locali, fino a non molto addietro sconosciuti, come quelli di Luciano Alì, di Luigi Doumontier, di Pompeo Picherale, di Natale Bonaiuto. Se nel campo della scultura Siracusa resta tributaria di artisti palermitani e catanesi - Marabitti, Marino, Battaglia, Puglisi - nell'argenteria ha tutta una propria tradizione artistica che riempie di sé il secondo Settecento - Furnò, Chindemi, Catera, Luca - e appresta alle chiese e ai monasteri ricca messe di lampadarî, candelabri, paliotti, ciborî e altra suppellettile.

L'Ottocento è secolo di stasi, se non di regresso dal lato artistico. Il problema edilizio viene in gran parte risolto coll'inconsulto abbattimento dell'imponente cortina delle mura spagnole per dar luogo allo sviluppo di strade periferiche, e, nell'interno, con la demolizione di chiese e di monasteri, per la creazione di nuove piazze.

Bibl.: Periodo cristiano e bizantino: V. Schultze, Archaeol. Studien über altchristliche Monumente, Vienna 1880, pp. 121-145; P. Orsi, Esplorazioni nelle catacombe di S. Giovanni ed in quelle della Vigna Cassia presso Siracusa, in Notizie degli scavi, 1893, 1895, 1908, 1909; id., Gli scavi a S. Giovanni di Siracusa nel 1895, in Röm. Quartalschrift,1896; id., Chiese bizantine del territorio di Siracusa, in Byz. Zeitschr., 1898 e 1899, p. 30 segg.; id., Nuovi ipogei di sette cristiane e giudaiche ai Cappuccini in Siracusa, Roma 1900, p. 23: id., Esplorazioni nella cripta di S. Marziano, in Notizie scavi, 1906, pp. 391-402; J. Führer, Forschungen zur Sicilia sotterranea, Monaco 1897; id. e V. Schultze, Die altchristlichen Grabstätten Siciliens, Berlino 1907, pp. 17-60; C. Barreca, Le catacombe di S. Giovanni in Siracusa, Siracusa 1906; P. Toesca, Storia dell'arte italiana dalle origini cristiane alla fine del sec. XIII, Torino 1927, pp. 646, 721, 723, 946, 1027; G. Agnello, Le sculture normanne di S. Lucia di Méndola nel Museo di Siracusa, in Boll. d'arte, 1928, pp. 586-595; id., Architettura bizantina-normanna. La basilica dei Santi Giovanni e marziano in Siracusa, ibid., 1929, p. 22; id., Siracusa bizantina, in Per l'arte sacra, VIII (1931) e X (1933); id., Arte bizantina. Il cofanetto eburneo dell'ex cattedrale di Lentini, ibid., 1933, p. 10; A. F. Spender, The catacombs of Syracuse, in Dublin Review, Dublino s. a., pagine 123-33, 379-90.

Periodo medioevale: E. Mauceri, I Bellomo e la loro casa, in Boll. d'arte, 1911; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, VIII, ii, Milano 1924, pp. 75-86; G. Agnello, Siracusa medievale. Monumenti inediti, Catania 1926; id., L'architettura sveva in Sicilia, Roma 1935, pagine 11-150; id., Il duomo di Siracusa e i suoi restauri, in Per l'arte sacra, IV, Milano 1927, nn. 1-2, pagina 50; id., Il Palazzo Bellomo e il Museo d'arte medievale in Siracusa, in Bollettino dell'Associazione degli studi mediterranei, V, Roma 1934, nn. 1-2, pp. 39-45; G. Di Stefano, L'architettura gotico-sveva in Sicilia, Palermo 1935, pp. 28 segg. e 78 segg.

Periodo moderno: G. Agnello, Capolavori ignorati del Vanvitelli e del Valle nella cattedrale di Siracusa, in Per l'arte sacra, 1927, pp. 3-15; id., La Biblioteca Alasgoniana e il risveglio intellettuale a Siracusa nella seconda metà del Settecento, in Sicilia, 1927, pp. 5-10; id., Un ignoto frescante del Seicento: Agostino Scilla, in Per l'arte sacra, 1927, pp. 2-8; id., Un capolavoro dell'oreficeria siciliana del sec. XVI, ibid., VI (1928), pp. 2-15; id., Un maestro del ferro battuto: Domenico Ruggeri, ibid., VII (1929), pp. 72-78; id., Architettura gesuitica. La chiesa del Collegio di Siracusa, ibid., V (1928), pp. 7-16; VII (1930), pp. 77-83; id., Argentieri e argenterie del Settecento, ibid., 1929, pp. 12-24 e 151-65; id., Scultori e marmorai del Settecento a Siracusa, in Riv. del com. di Catania, 1932, p. 10; id., Rinascim. e barocco nella casa dei vescovi a Siracusa, in Illustr. Vaticana, 1934, pp. 21-22; id., Cimeli d'arte nella cattedrale di Siracusa. Il calice d'ambra del secolo XVI, in Per l'arte sacra, 1934, pp. 99-104; id., M. Preti, e alcune sue tele sconosciute, ibid., IX (1932), pp. 53-57.

V. tavv. CLXI-CLXVIII.

Storia. - Antichità. - Le necropoli sicule del II periodo ritrovate nella penisola del Plemmirio e a Cozzo Pantano dimostrano che già sin dall'età del bronzo nuclei di popolazioni indigene si erano stanziati intorno al lunato porto di Siracusa, mentre i fondi di capanne e i pochi sepolcri rinvenuti in Ortigia, assegnabili al III periodo siculo, attestano che in età un poco più tarda fu occupato anche l'isolotto che doveva divenire il cuore e l'arce dell'antica metropoli. Siracusa non risale certo alla data tradizionale del 735 a. C., ma a molti decennî avanti la prima venuta dei Greci in questa regione che gli antichi storici dissero colonizzata da Archia di Corinto. Con ciò non si esclude, tuttavia, che nella seconda metà del secolo VIII un gruppo di Corinzî, sottraendosi all'oligarchia dei Bacchiadi, venisse a stanziarsi, guidato proprio da un Bacchiade, Archia, in questo punto della costa siciliana lasciato libero dai coloni calcidesi, rinforzando così altri nuclei ellenici che probabilmente li avevano preceduti.

Sfruttando le possibilità offerte da questo bellissimo porto della Sicilia orientale, la nuova colonia dovette salire ben presto a grande floridezza, come ci dimostrano le tracce di edifici rinvenute nei pressi dell'odierna cattedrale e il grandioso tempio dedicato ad Apollo e innalzato alla fine del sec. VII all'ingresso di Ortigia.

Per ragioni militari, ma forse anche per ragioni commerciali, settant'anni dopo la venuta dei Corinzî Siracusa fondava nell'interno dell'isola Acre, la sua prima colonia. E se non si può asserire che la seconda sia stata Enna, ancora più interna, sembra tuttavia certo che al 640 risalga la colonizzazione di Casmene e a pochi anni dopo quella di Camarina, la quale dimostra la rapida estensione di questa infiltrazione dorica nell'angolo sud-est della Sicilia. Poche le notizie intorno alla costituzione primitiva della colonia corinzia e se ci è giunto persino il nome di un antico re, Pollide, non sappiamo con sicurezza se il primo governo della città fosse aristocratico, o come altri pensano, plutocratico, tenuto cioè dai discendenti di coloro che nell'occupazione della regione avevano avuto un lotto di terra (γαμόροι, gamori). A questa aristocrazia terriera, attestata dalle fonti per il sec. VI a. C., ubbidiva il demo, costituito da piccoli proprietarî, da mercanti, da artigiani e che aveva anch'esso parte nella cosa pubblica da cui erano invece esclusi i Cillirî o Cillicirî nei quali si sono voluti riconoscere gl'indigeni sottomessi. Se la fondazione delle colonie suddette rappresentò quasi una valvola di sicurezza contro le ribellioni delle classi inferiori, non dovettero però cessare a Siracusa le agitazioni che condussero a quella legislazione arcaica di Diocle della quale dà i particolari Diodoro (XIII, 35), ma che alcuni critici hanno voluto negare, identificando il legislatore con l'omonimo demagogo vissuto in epoca più tarda.

È probabile tuttavia che la città abbia avuto allora primamente norme stabili di diritto, quali altri legislatori, ad esempio Zaleuco e Caronda, avevano dato nel secolo VII, rispettivamente, a Locri e a Catana. Nel corso del sec. VI, inoltre, Siracusa dovette imporsi anche ai coloni di Camarina che cercavano di liberarsi dalla tutela della madre patria e in seguito a queste guerre essa diveniva confinante di Gela, la cui minaccia si fece sentire con la guerra iniziata da Ippocrate contro Siracusa e terminata grazie all'intervento di Corinto. La sconfitta subita in tale conflitto da Siracusa all'Eloro (492) incoraggiò il demo, mentre i gamori, rifugiatisi a Casmene, invocavano ancora il soccorso di Gela.

Un ufficiale di Ippocrate, Gelone (v.), appartenente alla famiglia dei Dinomenidi, e a lui successo nel governo di Gela, accolse la domanda dei gamori e, interpostosi tra le fazioni siracusane, li fece rientrare in patria dove ottenne poteri dittatoriali. Valendosi di questa autorità egli unificò i due stati confinanti, trasferendo la capitale a Siracusa, estese poi la potenza di quest'ultima con la conquista e la distruzione di Camarina, la sottomissione di Megara ed Eubea, il trasferimento della popolazione abbiente nella metropoli preferita e da lui resa più ampia e più bella. Secondo gli storici antichi Gelone sarebbe stato nominato strategos autokrator, mentre qualcuno pensa che egli abbia addirittura assunto il titolo di re. Gelone strinse legami coi tiranni di Agrigento che aiutò nella sua lotta contro Terillo, signore di Imera, alleato ai Cartaginesi. Il conflitto, che culminò nella battaglia di Imera (480), prese il carattere di una lotta decisiva tra i barbari e l'ellenismo, ellenismo di cui Siracusa divenne quasi la vittoriosa rappresentante proprio nel momento in cui la Grecia combatteva con successo contro i Persiani. La signoria dei Dinomenidi fu il dominio di una famiglia nella quale la successione spettava al membro più anziano anziché al diretto discendente del defunto: così a Gelone, morto nel 478, successe probabilmente Polizelo, ma del potere che sarebbe toccato a lui si impadronì ben presto il fratello Gerone che doveva tramutare la signoria in dispotismo. Gerone affermò, pertanto, la potenza di Siracusa contro le città ionico-calcidiche della Sicilia orientale, distruggendo Catana che rifondò e ribattezzò col nome di Etna; egli, inoltre, fece sentire la sua influenza fuori dell'isola, appoggiando gli abitanti di Locri Epizefirî contro le pretese di Anassila, i Sibariti contro Crotone, e, quasi continuatore dell'opera di Gelone nella lotta contro il barbaro, affrontando gli Etruschi alleati dei Cartaginesi che sconfisse nella battaglia navale di Cuma (474), la quale diede ai Siracusani il dominio del basso Tirreno e permise ad essi una vasta espansione marittima e commerciale sulle coste della Campania, del Lazio, dell'Etruria. La supremazia di Siracusa veniva adesso riconosciuta anche da altri centri sicilioti.

La corte di Gerone fu faro di civiltà e in essa convennero poeti e filosofi come Bacchilide, Pindaro, Eschilo, Senofane, Simonide. Ma poco dopo la morte di Gerone la tirannide dei Dinomenidi cadeva per l'insipienza e crudeltà del suo successore Trasibulo (466).

Con la cacciata di Trasibulo ebbe inizio il governo democratico: il potere legislativo risiedette ancora nell'assemblea che già preesisteva, mentre il potere esecutivo fu affidato a un collegio di 15 strateghi eletti, invigilati dai prostati del demo. A uno di questi strateghi, in casi eccezionali, potevano essere concessi poteri straordinarî, ma per premunirsi contro eventuali tentativi di tirannide fu introdotto il petalismo, istituzione simile all'ostracismo ateniese. I Siracusani, ormai liberatisi da ogni signoria, rinunziarono all'egemonia sulle altre città siceliote e aiutarono anzi queste ultime a rendersi indipendenti e ad espellere i mercenarî introdotti da Gelone. Ad Etna ritornarono i Catanesi espulsi da Gerone.

Una delle prime prove di Siracusa democratica fu la ripresa della guerra contro i Tirreni, con la devastazione delle coste etrusche e con l'occupazione dell'isola d'Elba, nonché di qualche punto della Corsica. Ma Siracusa volle anche rintuzzare i Siculi che riunitisi intorno a Ducezio avevano iniziato vittoriosamente un moto di carattere nazionale e antiellenico. La lotta terminò con la vittoria dei Sicelioti, ma il contegno clemente usato da Siracusa contro Ducezio le attirò gli odî di Agrigento e una guerra che, iniziata da questa città nel 446, terminò con la sua sconfitta, mentre una dopo l'altra cadevano le ultime resistenze dei Siculi.

La potenza conseguita da Siracusa in Occidente diede ombra ad Atene, la città che aveva allora l'egemonia in Grecia e in Oriente. Si preparò quindi il grande duello tra le più potenti metropoli del mondo ellenico. Per intervenire in Sicilia Atene strinse alleanza con alcune città ioniche e calcidiche nemiche di Siracusa. La prima fase di questa lotta, in cui gli avversarî si contesero soprattutto il possesso di Messana, terminò senza vantaggi per ambo le parti, con la pace di Gela, nel 424. Pochi anni dopo, però, riarse la guerra occasionata dalle solite contese di Selinunte e di Segesta. Non è qui il caso di riandare le drammatiche vicende di questa spedizione ateniese (415), la quale si ridusse, in sostanza, a un formidabile assedio che gl'invasori, favoriti non soltanto da Segesta ma anche da Catana, da Nasso, dai Siculi, posero a Siracusa alleata di Selinunte e di Gela. Diremo soltanto che la grande impresa terminò con la rotta degli eserciti di Nicia e di Demostene (413) e con la loro disastrosa ritirata (v. anche gilippo). In seguito a questo trionfo Siracusa mandava in Oriente, con Ermocrate, alcune navi che si segnalarono a Cinossema, a Cizio e a Pilo. I successi bellici ebbero conseguenze anche nella politica interna di Siracusa: il demo acquistò sempre più coscienza di sé, la democrazia si trasformò mediante le leggi di Diocle e le cariche furono assegnate a sorte anziché per suffragio.

Ma frattanto le perpetue discordie tra Selinunte e Segesta conducevano a una nuova lotta tra Siracusa e i Cartaginesi, i quali, dopo avere sopraffatto Selinunte e Imera, con una seconda spedizione s'impadronivano di Agrigento nonostante l'aiuto inviato da Siracusa e la distruggevano (406).

La vittoriosa avanzata cartaginese diede l'occasione al sorgere della potenza di Dionisio (v.), un partigiano di Ermocrate. Egli veniva eletto fra gli strateghi e accresceva il numero dei suoi fautori col richiamare gli esuli e col favorire il demo di Gela. Poco dopo egli veniva eletto stratego autocratore e si costituiva una guardia del corpo. Così il grande capitano iniziò la sua tipica tirannide la quale, tuttavia, conservò la forma repubblicana. Il potere di Dionisio ebbe a base lo strategato; egli riunì nella sua persona i compiti e le mansioni prima affidati ai 15 strateghi, ma stabilendo una gerarchia di ufficiali tra i quali distribuì le diverse attribuzioni (navarchi, frurarchi, eparchi) e istituendo un sinedrio, cioè una specie di consiglio di stato composto dei suoi amici più fidi per le deliberazioni di maggiore importanza. In un'iscrizione ateniese Dionisio appare col titolo di "arconte di Sicilia".

Se Dionisio non riuscì nel primo dei suoi intenti, cacciare i Cartaginesi, raggiunse tuttavia gli altri scopi che si era prefissi; inoltre per opera sua fece un passo considerevole la fusione tra l'elemento indigeno e il greco; Siracusa estese le sue colonie nell'Adriatico e il nome della metropoli siciliana risuonò ancora in Grecia, così a Sparta come ad olimpia, dove il geniale tiranno, che aveva un certo talento letterario, aspirò ad altri allori che non fossero quelli bellici. Possiamo dire che sotto Dionisio lo stato di Siracusa abbia raggiunto il culmine della sua potenza, mentre la città, che si adornava frattanto di edifici e si muniva con opere di fortificazione ancora oggi ammirate, ebbe il suo massimo sviluppo. Lo stato di cui Dionisio era a capo consisteva in un aggregato di comuni subordinati a Siracusa, la quale ne dirigeva la politica estera: vi si distinguevano le città sicule soggette, che pagavano un tributo e avevano una guarnigione siracusana, dalle colonie militari, in cui il tiranno aveva stanziato i suoi mercenarî campani e che erano autonome, ma comandate da frurarchi e costrette a prestare contingenti in tempo di guerra; degli aiuti dovevano prestare, in caso di conflitto, anche le città che si dicevano confederate.

La politica estera di Dionisio I sarebbe stata forse seguita dal figlio Dionisio II il quale nella politica interna avrebbe attenuato il dispotismo instaurato dal padre se avesse avuto modo di governare tranquillamente, cosa che non poté fare per il contrasto scoppiato tra lui e il suo zio Dione, il quale, esiliato in un primo tempo dal tiranno, tornò con la violenza in patria, assediò Dionisio II in Ortigia, e, finalmente, impadronitosi del potere, adottò una forma di governo ben diversa da quegli ideali platonici che aveva vagheggiato prima del suo allontanamento da Siracusa e che egli aveva fatto intravvedere al popolo. Questo disinganno e le inimicizie che Dione si era create portarono alla sua uccisione per opera di Callippo che riuscì per breve tempo a rendersi padrone del governo (354).

Con Callippo e, dopo di lui, con Ipparino, con Niseo, con Iceta, seguitò la dissoluzione del grande impero di Dionisio, dissoluzione alla quale pose termine soltanto il nuovo pericolo cartaginese che indusse il popolo di Siracusa a domandare a Corinto uno stratego. Questi fu Timoleonte (v.), il quale, venuto in Sicilia, vinto Iceta (344), cacciato Dionisio II che era ritornato in Siracusa, sconfisse i Cartaginesi al Crimiso, liberò le città siceliote e si diede poi alla riorganizzazione politica dello stato. Egli dichiarò autonome le città siceliote, ripopolandole con coloni venuti dalla Grecia, istituì sul modello di Corinto una democrazia moderata con un corpo consultivo di 600 membri e pose a capo dello stato un sacerdote di Zeus, un amphipolos eponimo scelto fra i candidati dei tre ordini della cittadinanza.

La benefica opera di Timoleonte durò solo pochi anni dopo la morte di lui. Dalla democrazia moderata rampollò l'oligarchia e quindi le lotte tra questa e la democrazia che fu rappresentata da Agatocle (v.), il quale (318-289) doveva finire con l'impadronirsi dello stato siracusano che estese all'Italia meridionale, continuando con ciò l'opera iniziata da Dionisio I di cui riprese il programma politico anche per ciò che riguardava la cacciata dell'elemento punico dall'isola. Ma questo sogno, che egli tentò di realizzare attraverso anni di lotte con gli oligarchi e con i Cartaginesi - e contro questi ultimi così in Sicilia come in Africa - doveva completamente dissolversi con la sua morte. Rifiorirono allora nell'isola le tirannidi e a Siracusa si contesero il dominio Iceta, Tenone e Sosistrato, fino a che il solito pericolo cartaginese non costrinse gli avversarî a riconciliarsi temporaneamente e a invocare nuovamente un duce e re straniero, Pirro (v.), i successi del quale (278) furono così effimeri che Siracusa, dopo la sua partenza, si ritrovò ristretta al possesso della parte sud-orientale della Sicilia, mentre nella regione più prossima allo Stretto s'erano insediati quei mercenarî italici che furono i Mamertini.

Partito Pirro, Siracusa rimase in balia delle fazioni e i soldati che si trovavano presso Morganzia elessero a strateghi Artemidoro e Gerone (269), elezione che fu in seguito approvata e confermata dalla cittadinanza. Fu così abolito il numeroso collegio degli strateghi. Gerone iniziò la campagna contro i Mamertini, che dal territorio dove si erano insediati facevano scorrerie nella parte orientale dell'isola. Battutili nei pressi del fiume Longano, li avrebbe forse cacciati da Messana se non fosse intervenuta in loro favore Cartagine.

Grazie a Gerone, fattosi nominare basileus, si ebbe un regno che comprendeva la metropoli e altre città della Sicilia orientale e che, in seguito alla nuova alleanza stretta con Cartagine, serrava da presso i Mamertini i quali entrati nell'alleanza romana s'erano liberati dal presidio cartaginese. I Romani, riusciti a passare da Reggio in Sicilia, marciarono contro Gerone il quale, abbandonando i Cartaginesi, chiese e ottenne dai Romani la pace, che gli permise di conservare gran parte del suo piccolo regno con Siracusa, Acre, Megara, Noto, Eloro, Lentini e Tauromenio. Da allora in poi il regno di Gerone, mantenutosi neutrale nel primo grande conflitto tra Roma e Cartagine, godette di una certa floridezza economica, dovuta alle buone relazioni con Roma, con l'Egitto e con Rodi, nonché alla saggia amministrazione inaugurata dal sovrano: la città si arricchì di monumenti e di opere pubbliche, le imposte furono ben regolate con la lex hieronica, mentre poeti e scienziati, quali Teocrito e Archimede, rendevano ancora una volta illustre il nome della metropoli siciliana. Questo felice stato di cose fu troncato dalla morte di Gerone (215-4) al quale successe Geronimo che, superbo, debole e mal consigliato, strinse legami con i Cartaginesi, dietro la promessa del possesso dell'isola, e riaperse le ostilità con i Romani. Ma poco dopo (213), il giovane monarca, a Lentini, cadeva vittima di una congiura e i regicidi proclamavano la repubblica, una repubblica moderata sul tipo di quella timoleontea, eleggendo fra gli strateghi Adranodoro e Temisto, questi marito di una nipote di Gerone, quegli già servo fedele del monarca. Ma i regicidi non tardarono a disfarsi di ambedue gli strateghi, sotto pretesto di una loro congiura, per rendersi padroni assoluti, e a trucidare i membri superstiti della famiglia di Gerone. Furono quindi eletti Ippocrate ed Epicide il primo dei quali, accogliendo la domanda di Lentini, penetrò in territorio romano; i Romani reclamarono invano i colpevoli e poco dopo cingevano d'assedio Siracusa.

Nonostante la sua strenua difesa e grazie al tradimento del mercenario spagnolo Merico, la città fu conquistata dal console Marcello e messa a sacco dai vincitori (212). Molti dei suoi tesori d'arte furono allora trasportati a Roma.

Dopo la conquista Siracusa segue le vicende della provincia di Sicilia della quale venne a far parte, pur serbando forse una larva di autonomia. Non è certa la sua condizione dopo l'ordinamento di Levino: secondo alcuni essa sarebbe stata civitas censoria, secondo altri scrittori civitas decumana. Tuttavia, grazie alla sua importanza nel passato e nel presente, essa fu sede del pretore (poi del propretore) e di uno dei questori. Dal punto di vista economico possiamo dire che raramente essa vide tempi più tranquilli di quelli che intercorsero tra le guerre puniche e le guerre servili. Molto ebbe a soffrire, pertanto, da queste ultime e specialmente dalla prima, quando fu assediata dalle schiere dei ribelli. In seguito essa fu sede di un tribunale istituito per procedere contro gli schiavi, le cui sentenze provocarono, poco tempo dopo, la seconda guerra servile. Ai tempi di Verre essa fu spogliata ancora una volta di statue e di tesori d'arte. Al decadimento di Siracusa contribuirono inoltre, tanto la sostituzione dello stipendium alla decima quanto la guerra tra Ottaviano e Sesto Pompeo. La città si venne spopolando a tal punto che Augusto credette opportuno di rinsanguarla con coloni romani. Per l'età imperiale si ricorda la venuta di Caligola - che vi apprestò i ludi astici - e inoltre il sorgere di nuovi edifici quali l'anfiteatro ed alcuni ginnasî, nonché il rimaneggiamento di altri, come il famoso teatro più volte secolare. Nel 278-280 la citta fu vittima di un'incursione di Franchi.

Siracusa ebbe una parte importante anche nella storia del cristianesimo siciliano. La tradizione vuole che l'apostolo Pietro vi abbia mandato i primi vescovi, tra i quali quel Marziano sulla cui tomba sorse poi una chiesa che fu rimaneggiata dai Bizantini e dai Normanni. A Siracusa si ritiene abbia dimorato anche S. Paolo; certo, le origini del cristianesimo vi hanno lasciato ricordi nelle diverse catacombe del territorio siracusano. Al 304 si attribuisce il martirio di S. Lucia.

Bibl.: Per la parte preistorica, v. P. Orsi, in Mon. ant. Lincei, 1893, 1895, 1919; v. anche le numerose relazioni dello stesso nelle Not. degli Scavi. Per i periodi seguenti, v. le principali storie della Sicilia, nei cui avvenimenti Siracusa ha così grande parte (cioè le opere del Holm, del Freeman, del Pais). Tra le storie particolari, oltre alle vecchie opere come quella del Bonanni, v. il volumetto di L. Giuliano, Storia di Siracusa antica , Milano 1911. Per la costituzione di Siracusa, v. W. Hüttl, Verfassungsgeschichte von Syrakus, Praga 1929. V. inoltre; K. Fabricius, Das antike Syrakus, eine historisch-archäologische Untersuchung, Lipsia 1932: L. Wickert, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. der klass. Altertumsw., IV A, col. 1478 segg.

Medioevo ed età moderna. - Dominata dai barbari (Vandali, Odoacre, Goti, che vi posero un comes), fu poi occupata (535) da Belisario per i Bizantini, ai quali invano la contese Totila. L'imperatore Costante II vi pose la sua sede nel 663, ma cinque anni dopo vi lasciò la vita per una congiura. Fatta segno ripetutamente ad attacchi da parte dei musulmani, fu definitivamente sottomessa nell'878. Ai musulmani, dopo due effimere occupazioni dei Greci (963 e 1038-1040), venne tolta dai Normanni (1085), i quali vi ristabilirono il vescovo. Federico II di Svevia l'ebbe cara. Dopo averla sottratta ai Genovesi, che vi si erano insediati, le conferì il titolo di "fedelissima". Ribellatasi più tardi a Carlo d'Angiò, fu sollecita a fare adesione a Pietro d'Aragona e seguì le parti di Federico di Trinacria in lotta con Roberto d'Angiò, assicurandosi immunità e privilegi, fra i quali quello che non si potessero caricare o scaricare merci sulla costa orientale della Sicilia se non nel porto siracusano. Federico dette forma definitiva alle Consuetudini cittadine (1318) e l'assegnò in appannaggio alla regina Eleonora, sicché divenne capoluogo della Camera reginale, come si chiamò il demanio della regina, amministrata da un governatore. Più tardi re Martino, nel concedere a Siracusa la "scala franca", cioè il porto franco, sostituì al baiulo il senatore patrizio, elevando il corpo municipale a senato. Le due amministrazioni, quella municipale e la reginale, coesistettero l'una accanto all'altra, malgrado contrasti, proteste e tumulti (1448), sino al 1538, quando, con la soppressione della Camera reginale, Siracusa fu sciolta da ogni dipendenza particolare e divenne completamente demaniale. Era stata anche per breve tempo sede dei Cavalieri Gerosolimitani, dopo che questi furono scacciati da Rodi.

Nel 1647 partecipò all'agitazione, che si diffuse da Palermo in quasi tutta l'isola, e ottenne che nel senato fossero inclusi due "giurati" popolani. Questi vennero soppressi nel 1659. Fu invece fedele alla Spagna quando, nel 1675, insorse Messina. Per la sua posizione fu spesso assalita e bloccata nelle guerre della prima metà del '700. Gli Spagnoli di Filippo V l'assediarono nel 1718, ma gli Austriaci impedirono che capitolasse, ciò che non riuscirono a fare nel 1735, quando se ne impadronirono le milizie di Carlo Borbone. Seguì poì le vicende della restante Sicilia. Alla fine del sec. XVIII ospitò nel porto le navi del Nelson. Nel nuovo ordinamento amministrativo dato all'isola nel 1818, fu fatta capoluogo di provincia e sede di intendenza, ma per i tumulti del 1837 (18 luglio-6 agosto), ai quali la cittadinanza partecipò vivamente, provocando una sanguinosa repressione da parte di S. Del Carretto, l'amministrazione della provincia venne trasferita a Noto.

Siracusa partecipò alle rivoluzioni del '48 e del '60; il presidio borbonico si arrese il 3 settembre di quell'anno. Nel 1865 ridivenne sede di prefettura e da allora è venuta continuamente sviluppandosi come meta di pellegrinaggi turistici, e testa di linea ferroviaria e marittima per le comunicazioni con l'Oriente, con l'Africa e con Malta.

Bibl.: S. Privitera, Storia di Siracusa antica e moderna, Napoli 1878-79, voll. 2; G. Parlato, Siracusa dal 1830 al 1880, Catania 1919; E. Mauceri, Siracusa nel secolo XV, Siracusa 1896; V. La Mantia, Consuetudini della città di Siracusa, Palermo 1896; P. Cardona, Il blocco, l'assedio e la resa di Siracusa del 1735, in Arch. stor. per la Sicilia orient., X (1913), fasc. 1-2.

Numismatica.

La zecca di Siracusa è la più importante della Sicilia per la durata, l'entità delle emissioni, la bellezza e la varietà dei tipi. L'inizio della monetazione siracusana non è sicuro; da B. V. Head è posto al tempo dei gamori; da A. Holm dopo l'espulsione dell'oligarchia (circa 500 a. C.); da E. Babelon a poco prima il 500; da P. Gardner a circa il 520 a. C.

L'attività della zecca si estende ininterrottamente sino alla fine del sec. III a. C.

Oro. - Siracusa è la sola città dell'isola e di tutto l'Occidente ellenico che abbia coniato oro in ogni periodo della sua storia in emissioni abbondanti. La prima di queste emissioni si data a circa il momento della sua massima potenza (circa 413 a. C.) e comprende tre nominali che si considerano del valore di 4, 21/2 e 2 dramme di argento (gr.1, 16; 0,71; 0,58); portano le effigie di Eracle, di Atena e i loro simboli. Il secondo gruppo è costituito dai famosi ercolini e cavallini incisi da Cimone ed Eveneto coi tipi di Aretusa, di Anapo, col gruppo di Erade e il leone e col cavallino libero in corsa. Sono pezzi da 20 e da 10 dramme (gr. 5,80; 2,90). All'età di Dione pare spettino i varî nominali di elettro, da 100, 50, 25 e 10 litre d'argento contraddistinti dalle effigie di Apollo, Artemide e il tripode. Ad Agatocle si attribuiscono tre ricchi gruppi di pezzi: il primo, anonimo, con l'effigie di Apollo e biga, di imitazione macedone (Filippo II, 359-336) di due pezzi da 60 e da 40 litre; il secondo, al suo nome, con lo statere di gr. 5,70 di imitazione tolemaica (effigie dell'Africa ed Atena alata); la terza infine, regale, con lo statere e la dramma d'oro con l'effigie di Atena e il fulmine alato. Notevole è la serie aurea, agatoclea nel suo complesso, per portare il simbolo personale della trischele che assurgerà più tardi a simbolo di tutta l'isola. Ancora di Iceta abbiamo dramme di oro (gr. 4, 14); di Pirro i magnifici stateri e mezzi stateri (da 120 e da 60 litre) con Atena, Artemide e Nike; di Gerone II le didramme da 120 litre e le dramme da 60 litre; di Geronimo la dramma e la semidramma (60 e 30 litre); infine all'ultimo periodo della democrazia (215-212 a. C.) risalgono serie da 60 e 40 litre con le effigie di Demetra, Pallade, Diana, ecc.

Argento. - È il metallo che tiene il primo posto, costituendo la base stessa della monetazione in ogni periodo. La moneta principale è il tetradramma; ma non mancano ricche serie di didrammi, di dramme, di oboli e ancora della litra di argento che è caratteristica della monetazione siciliana.

Il tetradramma è stato coniato in emissioni numerosissime e ininterrotte; esso introduce ed elabora i due temi dell'effigie femminile e della quadriga, in un numero veramente grande di varianti, dalle prime emissioni del periodo arcaico con il quadrato incuso, sino al massimo fiorire dell'arte dell'incisione rappresentata dai conî firmati da Eumene, Sosione, Eveneto, Frigillo, Parmenide, Euclida e Cimone. Fra le emissioni più notevoli sono: quella che introduce la Vittoria sul rovescio incoronante i cavalli o l'auriga, che commemora la vittoria di Gerone ad Olimpia nel 488; quella col tipo del Demarateion del 480-479, datata dalla vittoria di Gelone ad Imera sui Cartaginesi; quindi le emissioni col simbolo della pistrice, dei delfini accoppiati, ecc. I due tipi rivestono la loro massima espressione artistica sia nei decadrammi (v. sotto), i medaglioni di Cimone ed Eveneto coniati anche questi a commemorare la grande vittoria siracusana sugli Ateniesi, sia nei due tetradrammi, l'uno con l'effigie di Aretusa di Cimone, l'altro con quella di Atena di Euclida.

Con Timoleonte s'inizia anche per l'argento una nuova fase; egli fa cioè moneta principale della serie lo statere corinzio di gr. 8,55 (che è un didramma attico), in luogo del tetradramma, il quale ora passa al secondo posto per scomparire ben presto del tutto. Lo statere corinzio, che porta i tipi dell'effigie di Atena e del Pegaso, viene ora valutato a 10 litre e sono contemporaneamente coniati altri nominali multipli della litra: il pezzo da 3 litre di gr. 2,60; da 21/2 litre; da 2 litre, da 11/2 litra ed ancora la litra, col tipo suo proprio della seppia. Prevale su questi pezzi il tipo del Pegaso, dovuto all'influenza di Corinto, laddove i tipi dello Zeus Eleuterio e del cavallo libero si vogliono considerare emblemi di libertà e di democrazia. Agatocle conia primieramente numerosi stateri corinzî al nome dei Siracusani, insieme col tetradramma di Persefone-Aretusa e il suo simbolo della trischele; poi nel secondo periodo il magnifico tetradramma con la Nike erigente il trofeo della sua vittoria in Africa sui Cartaginesi, di cui si conoscono numerose emissioni di vario stile. Al terzo periodo del suo dominio appartengono le emissioni dello statere corinzio di peso ridotto (al valore di 8 litre), sulle quali egli assume il titolo di re. Il nome del tiranno Iceta compare solo sull'oro.

Alla zecca di Siracusa si attribuisce ancora un magnifico argento di Pirro con l'effigie della Persefone agatoclea e con l'Atena Promachos. Gerone II conia ricche serie di argento al suo nome, a quello del figlio Gelone ed infine a quello della moglie Filistide, e con i rispettivi ritratti: sono multipli della litra, pezzi da litre 32 (gr. 27,90); 20 (gr. 15,74); 16 (gr. 13,99); 8 (gr. 6,90); 5, 4, ecc. sino a una litra (gr. 0,80). Notevolissimi i pezzi denominati dalla regina, le filistidi da 20 litre, che mostrano il ritratto velato di lei. Conclude la monetazione argentea siracusana un'ultima serie litrale della democrazia, dove si alternano le effiggie di Persefone, Artemide, Apollo, Atena, e di Zeus Stratego, che è lo Iuppiter Imperator di Cicerone.

Tipologicamente dunque la serie siracusana dell'argento non si esaurisce nell'evoluzione dei due temi del tetradramma, la quadriga e l'effigie femminile - sia essa Aretusa o Proserpina, Demetra o Atena, Core, Afrodite o Nike -; sono altre notevoli effigie quelle di Ercole, di Anapo, di Apollo, di Artemide, di Pallade, di Zeus Eleutherios o Ellanios; infine è la figura della Nike in una ricca serie di adattamenti. Pure figurazioni notevoli sono il cavaliere andante e l'eroe Leucapis in atto di assalto, e il gruppo di Eracle che lotta con il leone nemeo; infine numerosi rappresentanti della fauna marina e terrestre, animali mitologici ed oggetti inanimati: la seppia, la pistrice, l'ippocampo, il toro, il leone, l'aquila, la stella marina e la conchiglia, Pegaso, Scilla, la ruota, il fulmine, la trischele, il tripode, la lira, ecc., e da ultimo i delfini che integrano il tipo femminile, rincorrendosi attorno all'effiggie di Aretusa e di Atena, o nascondendosi nella capigliatura, o affrontandosi sotto la quadriga del rovescio, ecc.

Bronzo. - Lo stesso si dica del bronzo, che in abbondanti emissioni era stato coniato già dagli ultimi decennî del sec. V, in serie litrali di vario peso, a indicare saltuarie riduzioni di questo. Fra le emissioni più notevoli sono da annoverare quella dell'età timoleontea con l'effigie di Atena e la stella marina fra delfini, di peso così forte da doversi considerare moneta di valore reale; quella contemporanea col Pegaso e con l'effigie di Archias o di Ares o anche di Adranus, a seconda delle opinioni. Poi tutto il bronzo appare di assoluto valore nominale. Notevolissimo appare il quantitativo coniato da Gerone II al suo nome, come dimostrano i ripostigli di migliaia di pezzi che tuttora vengono alla luce in tutta l'isola.

L'ultima serie enea appartiene all'età romana, giacché Siracusa ebbe dopo la cattura da parte dei Romani, la concessione della moneta enea che conia al suo proprio nome.

Bibl.: B.V. Head, Coinage of Syracuse, in Numismatic Chron., 1874; A. J. Evans, Syracusan Medallions and their Engravers, Londra 1892; A. Du Chastel de la Howardries, Syracuse, Ses monnaies d'argent et d'or, ecc., Londra 1898; Th. Tudeer, Die Tredrachmenprägung von Syracus, Berlino 1913; E. Boeringer, Münzen von Syrakus, Berlino 1929.

La provincia.

La provincia di Siracusa, dopo il distacco della provincia di Ragusa di nuova formazione avvenuto per r. decr. del 2 gennaio 1927, si estende nella parte sud-orientale della Sicilia abbracciando un'area di 2199,65 kmq. e comprende il versante orientale dei Monti Iblei e la costa ionica da un punto a 6 km. a S. dell'attuale foce del Simeto sino all'isola delle Correnti e quello del Mediterraneo dal punto anzidetto sin presso la Punta del Castellazzo per uno sviluppo di circa 10 km. La sua popolazione presente al censimento del 1931 risultò di 284.369 abitanti; quella residente di 283.779 abitanti.

Riferita alla circoscrizione territoriale attuale, la popolazione della provincia al censimento del 1901 sarebbe risultata di 220.066 ab. con un accrescimento nel trentennio di 64.303 ab., pari quasi al 23%, mentre nello stesso periodo l'accrescimento medio per la Sicilia fu del 10%. Tale aumento è dovuto all'incremento naturale della popolazione per cui l'eccedenza dei nati sui morti fu in detto periodo di 85.847 unità mentre l'eccedenza degli emigrati sugl'immigrati fu di 21.544. La popolazione della provincia è ripartita in 29 comuni; dei censiti, 258.576 vivono aggruppati in 32 centri di cui 12 con popolazione superiore ai 10.000 ab. e 10 con popolazione inferiore ai 1000 ab.; 5793 ab. costituiscono la popolazione sparsa della provincia. Il territorio della provincia, di cui l'81,5% particolarmente fertile e produttivo, è largamente coltivato a cereali, viti, olivi, mandorli, agrumi, ecc. La maggioranza della popolazione (55%) è costituita da agricoltori; di questi il 23% sono conducenti terreni proprî. L'istruzione popolare è ancora poco diffusa, ma assai notevoli sono i progressi conseguiti negli ultimi decennî, tanto che la percentuale degli analfabeti fra i censiti di età superiore ai 6 anni, che nel 1901 era del 75,2%, discese nel 1931 al 40,8%.

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