SERBIA

Enciclopedia Italiana (1936)

SERBIA (serbo-croato Srbija; A. T., 75-76)

Elio MIGLIORINI
Vojeslav MOLE
Giuseppe PRAGA

Regione che costituisce il nucleo principale della Iugoslavia e occupa un'estensione di circa 90.000 kmq. nella parte nord-ovest della Penisola Balcanica. In tali limiti è però compresa una parte della Macedonia.

Sviluppo terntoriale. - Anticamente lo stato serbo aveva una posizione più meridionale e traeva le sue risorse principali dai distretti montuosi del Lim, dell'Ibar e della Morava occidentale. L'espansione verso nord (sec. XIII) è connessa sia con la ricerca di terreni più fertili, sia con l'invasione e il dominio turco, che premeva da sud, centro dello stato diventa per qualche tempo Kruševac, alla confluenza delle due Morave. Poi i Turchi occupano anche questa località, Belgrado e Smederevo rimangono gli ultimi baluardi serbi, finché l'invasione ottomana (1521: caduta di Belgrado) tutto sommerge. Quando la Serbia risorse, il primo territorio (dal 1815 al 1833) era costituito dal pašaluk di Belgrado (24.440 kmq.), regione estesa un po' più della Šumadija, con capoluogo prima Kraguievac, in disparte dalle vie del traffico, e poi Belgrado (dal 1841). La zona ha una posizione importante rispetto alla Penisola Balcanica, dato che è in grado di dominare alcune delle vie principali. In questo primo periodo la Serbia è orientata verso nord e forma quasi un'appendice del bacino danubiano, in relazioni molto strette con l'Austria, alla quale preclude tuttavia il libero accesso nel cuore della regione balcanica. Il primo ingrandimento avviene nel 1833 con l'acquisto del bacino del Timok, della zona di Kruševac e di alcuni territorî posti a SO., lo stato aumenta considerevolmente d'estensione (37.740 kmq.) senza tuttavia mutare gran che di posizione, dato che si tratta di un modesto arrotondamento verso S. e verso E., su territorî abitati da Serbi. Poco più di mezzo secolo dopo, le guerre coi Turchi e il congresso di Berlino (1878) fanno invece spostare alquanto le basi della Serbia, con l'aggregazione di gran parte del bacino della Morava meridionale, che porta lo stato a 48.300 kmq. e fa acquistare una città importante come Nis. La forma s'allunga verso sud, mostrando la tendenza a espandersi in quella direzione, tendenza che, a onta dell'ostacolo frapposto dalle catene montuose (Golija e Kopaonik), troverà nella pace di Bucarest, dopo le guerre del 1912 e 1913, vittorioso sviluppo, in modo da aggiungere allo stato gran parte della valle del Vardar e riportare la Serbia, vasta ormai 86.664 km., su molti territorî dell'antico regno (Vecchia Serbia), in seguito albanizzati e islamizzati. Con l'aggregazione della Rascia e del sangiaccato di Novi Pazar, territorio nudo, in parte carsico, di difficile accesso, scompare poi il cuneo che divideva gli Slavi della Serbia dagli Slavi del Montenegro e lo stato acquista nella parte centrale della Penisola Balcanica una posizione dominante, dato il possesso della zona di Skoplje, luogo d'incrocio delle principali vie di comunicazione longitudinali e trasversali della Penisola. La Morava infatti, oltre a dar accesso, varcata a Presevo una soglia depressa, al bacino del Vardar, permette, attraverso la Nisava, suo affluente di destra, di raggiungere facilmente Sofia, mentre la Morava occidentale, oltre ad offrire un'agevole comunicazione con il corso della Drina, seguendo da Kraljevo l'Ibar, permette una buona comunicazione con Skoplje attraverso la Sitnica. Malgrado i vantaggi derivati dalla sua centralità, la Serbia rimaneva tuttavia uno stato interno e Belgrado, sua capitale, per quanto in posizione strategica e commerciale di prim'ordine, appariva alquanto periferica rispetto alle regioni meridionali. Gli abitanti, che nel 1834 erano 678.190 (con una densità di 18 ab. per kmq.), aumentano a 998.900 nel 1854 (densità 27), 1.353.890 nel 1874 (36 per kmq.), 1.909.740 nel 1884 (39 per kmq.) e 2.911.701 nel 1910 (60 per kmq.). Altri 2390 kmq. la Serbia ha guadagnato nel 1919 col trattato di Neuilly, che ha costretto la Bulgaria a cedere i territorî di Strumica e di Caribrod, in modo da raggiungere una superficie di 90.000 kmq. e una popolazione di 2,4 milioni d'abitanti.

Principali aspetti geografici. - Se si prescinde dal bassopiano della Sava e dai bacini inferiori della Morava e del Vardar, la Serbia si presenta come un territorio in prevalenza montuoso e collinoso, con rilievi che appartengono a sistemi diversi. L'asse MoravaVardar, che è una delle zone più popolate del paese, divide la Serbia in due parti, per quanto i limiti geologici non sempre coincidano con quelli idrografici. In quella orientale, di minor estensione, a N. troviamo un rilievo che fa parte delle Alpi Transilvaniche, con copiosi giacimenti minerarî (rame, argento, ferro), quindi verso sud una zona appartenente al massiccio dei Balcani occidentali (Midzor, m. 2186), disposto ad arco lungo la riva destra del Timok; in genere si tratta d'una regione poco articolata, con catene e altipiani di media altezza, salvo a NO. e a NE., dove vi sono colline e zone paludose; i pendii sono coperti da boschi (specie faggi) e in vicinanza dei centri abitati sono frequenti i frutteti; le zone più interne sono invece per lo più occupate da altipiani carsici. La parte a O. del solco Morava-Vardar, in prevalenza formata dai contrafforti orientali dei rilievi dinarici, ha un aspetto di regione più fertile e più aperta. All'angolo tra Drina e Sava e di fronte a Belgrado vi sono delle zone pianeggianti (pianure di Mačva e di Kolubara), mentre a NO. il territorio tra Drina e Morava consta d'una serie di colline d'arenaria, gesso, conglomerati, al di sopra dei quali s'innalzano dei dossi paleozoici. La potente massa eruttiva de1 Rudnik, che si eleva fino a 800-1170 m., separa queste colline della Serbia occidentale dalla larga valle della Morava, la quale scorre da ovest a est, modellata nei fertili terreni del Terziario superiore, sedi di orti e giardini. Più a S. segue il rilievo di Kopaonik e la Goliia Planina, ricchi di metalli. Si tratta di monti più elevati, ora allineati in catene, ora raggruppati in massicci, formati da terreni paleozoici del nucleo tracico, aventi una posizione intermedia tra le catene dinariche (a O.) e i Balcani (a E.). La valle dell'Ibar, stretta, incassata, diretta da N. a S., s'abbassa in corrispondenza dei due rilievi, in modo da dare un accesso verso N. alla pianura di Kosovo. A S. i monti sono più frazionati, separati da valli d'erosione e da bacini lacustri prosciugati, i quali fiancheggiano la Sar Planina e il Kara Dag, ricchi di minerali; su questi corre lo spartiacque tra Danubio ed Egeo, mentre il Vardar apre la strada di Salonicco.

Poiché la Serbia ha forma molto allungata, ci si aspetterebbe che vi fossero notevoli differenze climatiche da zona a zona. Invece Belgrado ha in gennaio − 1°,6 e in luglio 22°; Bitolj, che è quasi 400 m. più alta e 4 gradi più a S., rispettivamente − 1° e 22°,2, con una media annua superiore a Belgrado di solo 0°,7; maggiori differenze si notano nelle precipitazioni che a S. sono in prevalenza invernali, a N. estive. Gli stretti rapporti con l'Europa centrale, piuttosto che con il Mediterraneo, si vedono nelle colture, data la frequenza del mais, dell'orzo, dell'avena, delle barbabietole, dei frutteti (susini), degli ortaggi e legumi; minor diffusione hanno il gelso, la vite, il tabacco, come pure l'allevamento, che riguarda di preferenza il bestiame minuto (pecore) e il pollame. Il patrimonio forestale è abbastanza ingente, specie a N., mentre è piuttosto scarso nella parte occidentale. Dal punto di vista etnico la Serbia è in grande maggioranza abitata da Serbi. Fino al 1913 questi erano in assoluta prevalenza, ma poi, raddoppiata l'estensione del regno, alle minoranze già esistenti (90.000 Romeni presso le Porte di Ferro 50.000 Zingari), si sono aggiunti a SE. grandi masse di Bulgari, difficilmente valutabili. Occupazione prevalente degli abitanti è l'agricoltura (80%). L'importanza della Serbia è in rapporto sopra tutto con la sua posizione favorevole rispetto alle principali vie di comunicazione della Penisola Balcanica, fattore che ha permesso allo stato di espandersi fino al mare e di allargare il territorio a tutte le regioni che formano ora la Iugoslavia.

Bibl.: S. Gopčević, Serbien und die Serben, Lipsia 1888; F. Kanitz, Das Königreich Serbien und das Serbenvolk, Lipsia 1904; N. Krebs, Beiträge zur Geographie Serbiens und Rasciens, Stoccarda 1922; P. Vujević, Reoyaume de Yougoslavie. Aperçu géographique et ethnographique, Belgrado 1930. Cfr. anche la bibliografia della voce iugoslavia.

Arte.

I destini dell'arte serba sono il riflesso vivo della sua posizione geografica e delle vicende storiche del paese. Posta sul limite di due mondi culturali, quello occidentale e quello bizantino, la Serbia medievale ha bensì le basi della sua cultura artistica intimamente legate con Bisanzio e l'Oriente cristiano, ma ciò nondimeno rispecchia anche talune forme dell'arte occidentale, con cui le terre serbe venivano in contatto soprattutto in prossimità del Mare Adriatico.

Altro fattore determinante dell'arte serba fu la storia politica della nazione. La cultura artistica serba sorge da inizî modesti nelle due più antiche formazioni statali, sull'Adriatico e nella Rascia, acquista vigore e ricchezza d'espressione a mano a mano che cresce lo stato serbo medievale, giunge all'apogeo nel sec. XIV, e, dopo il crollo di questo stato, sotto il dominio turco, si trasforma quasi integralmente in arte monastica priva di forza creatrice. Nell'ambito ecclesiastico le tradizioni di quest'arte durano tuttora - benché in forme più o meno occidentalizzate, contrastanti quindi con le sue basi proprie - ma non hanno più nulla in comune con l'odierna vita creativa dell'arte serba. Talché in Serbia l'arte medievale, che non fu seguita né dal Rinascimento né dalle fasi ulteriori dell'arte d'Occidente, costituisce un periodo chiuso, isolato, senza continuità; e l'era occidentale dell'arte serba, che la ricollega con l'arte moderna dei centri vicini e lontani, costituisce un fenomeno del tutto nuovo, appartenente già alla storia del sec. XIX.

L'arte serba medievale fu quasi esclusivamente ecclesiastica e religiosa. Non le città (il paese non ne aveva, o quasi), ma i numerosi monasteri furono i centri del suo sviluppo, in primo luogo le "zaduzbine", cioè le fondazioni dei re, e le fondazioni dei magnati che ne seguirono l'esempio, come pure i monasteri che erano sedi dei rappresentanti dell'alto clero. È anche questa una caratteristica d'origine bizantina, giacché durante i secoli XI-XIII sullo stesso territorio, specie in Macedonia, una funzione analoga avevano le fondazioni degl'imperatori e dei magnati di Bisanzio, i monasteri abitati dai monaci greci. Quanta importanza avessero questi fattori, risulta non foss'altro dalla chiesa di Nerezi presso Skoplje, del sec. XII, le cui pitture sono fra i più importanti monumenti della pittura medievale bizantina. Queste pitture non possono ancora essere attribuite all'arte serba, e nemmeno le prime opere d'arte cristiana tra le popolazioni slave (presso i laghi di Ochrida e Prespa) che, connesse con l'attività missionaria di S. Clemente e altri, risalgono all'anno 900 circa. Sono tuttora poco chiari anche gli inizî dell'arte cristiana presso i Serbi sulle rive del Mare Adriatico, del Lago di Scutari e della Boiana, e così pure nel centro della Serbia e nell'Ungheria meridionale. I caratteri di quest'arte diventano più evidenti solo all'epoca della fondazione dello stato serbo. Ma nel suo sviluppo, come del resto in genere nello sviluppo dello stato serbo, un fenomeno dei più caratteristici e importanti è il ripetuto spostarsi del centro di gravità e in conseguenza l'entrare in contatto con i centri culturali di differenti paesi confinanti: perciò la storia dell'arte serba non si svolge su una linea unitaria, ma in ciascuno di quei centri deriva da origini più o meno diverse.

Ciò appare con più evidenza nell'architettura. Per quanto i tipi di costruzione delle chiese abbiano numerosissime varianti essi possono tuttavia suddividersi in alcuni gruppi fondamentali, determinati piuttosto dal luogo d'origine che dal tempo.

Sul territorio della Rascia l'architettura muove dal semplice tipo della chiesa a una navata, con vòlta e cupola: il quale però già nei monumenti più antichi, p. es., nella chiesa di Polimlje, mostra talune divergenze dal modello bizantino, di cui la più caratteristica è il tamburo quadrato che porta la cupola. Per quanto il più antico monumento di questa epoca, la chiesa di S. Nicola a Kuršumlija (circa 1168) riproduca il tipo bizantino di chiesa con cupola a base quadrata, e non solo la tecnica, ma anche lo stile ne sia bizantino, tutta l'ulteriore architettura della Rascia intende ad ampliare e arricchire l'altro tipo semplice di chiesa a sviluppo longitudinale con una navata e cupola. Così, ad es., la chiesa della fondazione di Nemanja a Studenica mantiene quasi la stessa pianta, modificandola solo con l'aggiunta di due piccole absidi laterali a quella principale e di due bassi vestiboli agli ingressi al nord e al sud; ma il nartece e la navata vi vennero ricoperti da un tetto comune e il paramento esterno, formato da blocchi di pietra levigati, si avvicina allo stile romanico. Altri monumenti di questo gruppo si discostano ancora maggiormente dai modelli bizantini: e vanno nominate in primo luogo le chiese di Žìča (tra il 1207 e il 1219), Sopoćani (1272-1276), e Visoki Dečani (cominciata nel 1327, terminata nel 1335, con pitture del 1348). La chiesa di Žiča, costruita esteriormente a filari alternati di mattoni e pietra, riproduce la policromia dei modelli di Costantinopoli, e ha vòlte in pietra come le chiese di Grecia e di Macedonia, ma con l'unica sua navata segue il modello occidentale, il nartece è connesso con la navata come a Studenica, e le pareti esterne sono prive delle scannellature corrispondenti agli archi esterni che portano la cupola. Nella chiesa di Studenica, i vestiboli laterali hanno anch'essi assunto una funzione nuova: chiusi dal difuori, al didentro aperti in modo da formare uno spazio unico con la navata della chiesa, richiamano le absidi laterali della chiesa sul Monte Athos; ai lati del nartece vennero collocate due cappelle rettangolari con cupole, davanti al nartece stesso si aggiunse ancora un nartece esterno in forma di un grande atrio a vòlta, e davanti a esso una torre. Questo tipo venne ampliato e adornato ancora maggiormente in un altro gruppo di chiese, tra cui la principale è quella di Sopoćani. Le parti aggiunte a Žiča sono qui collocate, assieme con le absidi laterali, sotto un tetto comune, producendo così dal difuori l'aspetto di navate laterali di una basilica; la cupola, ancora più alta e slanciata, si eleva sopra un tamburo quadrato che ha un suo proprio tetto gradinato, talché la massa intera della chiesa si eleva in tre piani che si restringono gradatamente. Il punto culminante dell'architettura della Rascia è costituito dalla chiesa più originale della Serbia: Visoki Dečani, ove vennero realizzate le ultime possibilità logiche di questo tipo. La forma originaria della chiesa a una navata con cupola vi è trasformata, attraverso la distribuzione e connessione logica delle costruzioni annesse, in un presbiterio più basso a tre navate con tre absidi; un transetto più alto a cinque navate con due absidi coronato da una cupola slanciata sostenuta da un alto tamburo quadro; e, in più, un nartece di nuovo più basso a tre navate: l'insieme ha l'aspetto di tre basiliche collegate tra di loro che gradatamente si elevano fino allo slancio terminale della cupola. Con il paramento a filari alterni di pietra chiara e scura, col fregio a colonnato su mensole sotto il tetto, con l'ornamento plastico delle porte e delle finestre questa chiesa richiama l'architettura lombarda e romanica; il che non può sorprenderci, visto che l'architetto principale ne fu frate Vita da Cattaro. A Decani l'architettura serba si è allontanata più che altrove dai modelli bizantini, e collegando le basi bizantine con elementi occidentali ha creato il suo monumento più originale, il più pittoresco.

L'architettura della Serbia meridionale (Macedonia serba), ove sin dal regno di Milutin (1281-1321) si trasferì il centro della vita statale, ha un carattere diverso, assai più strettamente legato con l'architettura bizantina, in specie con le sue varianti nella Macedonia occidentale. A differenza della Rascia, la cui architettura presenta, nell'ordine cronologico, lo svolgimento ininterrotto di un unico tipo, i numerosi monumenti di quest'architettura della "Serbia bizantina", come fu chiamata da G. Millet, si riallacciano a diverse varianti bizantine; tutte però hanno uno schema comune: la pianta a forma di croce. Al gruppo di queste chiese appartiene fino a un certo punto già Chilandar sul Monte Athos (fondazione di Stefano Nemanja, della fine del sec. XII, ma ricostruita dalle fondamenta dal re Milutin nel 1293), ove col tipo della chiesa del monastero di Athos si uniscono elementi nuovi per questa regione, di carattere serbo, in specie il nuovo tipo di nartece, quale si aveva a Žiča. Le chiese appartenenti propriamente alla Serbia meridionale sono però diverse. Tra le chiese a cinque cupole emergono più tipiche: Staro Nagoričino (1312-1313) e Gračanica (compiuta prima del 1321). La prima offre un esempio della pianta a croce allungata; la sua massa è in sé conchiusa, e la forma rettangolare è interrotta solo dall'unica abside; le quattro cupole laterali che circondano quella principale hanno una funzione più decorativa che strutturale. La chiesa di Gračanica, costruita in forma di croce su base quadrata e quindi tipicamente bizantina, è d'altro lato, e non meno di Dečani, un esempio classico dell'originalità dell'architettura serba, la quale riuscì a realizzare, pur entro l'ambito delle tradizioni e delle forme dell'architettura bizantina, le proprie tendenze. La pianta e l'alzata della chiesa appaiono composte di due croci inserite nel quadrato, e l'effetto così ottenuto dà l'impressione di perfetta armonia e allo stesso tempo di un elementare slancio verso l'alto: carattere questo che già era specifico per le chiese della Rascia. Sono più frequenti le chiese con una cupola e a pianta di croce allungata. Nelle molteplicità delle loro varianti non mancano tratti locali comuni a tutte, i quali s'erano già fatti valere qua e là nella Rascia: le chiese sono più compatte delle bizantine, le proporzioni sono ristrette e più slanciate, evidente vi è la tendenza a raggiungere gli effetti delle costruzioni longitudinali; la cupola è alta, l'esterno è adorno di colonnati organicamente disposti. Gli esempî più tipici sono le chiese di Cucer (tra il 1308 e il 1316), di Ljuboten (1337) di Lesnovo (1341). I monumenti che risalgono agli ultimi tempi dell'indipendenza serba - tra i quali si distinguono particolarmente: Matejić con cinque cupole (fondazione della zarina Elena, moglie dello zar Dušan), Markov Manastir (fondazione del re Vukašin e di suo figlio Marco) - imitano in parte modelli costantinopolitani, e in parte accolgono motivi greci, introducendo nello stesso tempo elementi architettonici della Rascia.

Anche nel terzo gruppo di architettura serba, costituito dalle chiese nella vallata della Morava che durante l'ultima fase dell'indipendenza serba divenne il centro della vita politica e culturale, domina una grande varietà di tipi, che pur hanno un tratto comune: ai lati del transetto compaiono due absidi, motivo proveniente dall'architettura del monastero di Monte Athos. A parte ciò, queste chiese sono da unire sia alla tradizione della Rascia sia a quella della "Serbia bizantina", poiché si trovano in continuità sia col tipo di chiesa a unica navata del gruppo della Rascia sia con quello di croce allungata; sicché l'intero sviluppo dell'architettura trova la sua conclusione in questa scuola della vallata della Morava. Così, p. es., la chiesa di Ravanica, fondazione del principe Lazzaro, fa capo all'architettura della Serbia meridionale, mentre la Lazarica a Kruševo costituisce un'interpretazione locale e un ulteriore svolgimento del tipo e delle tradizioni della Rascia. I monumenti più armoniosi di tutto questo gruppo sono: le chiese di Ljubostinja e di Manasija, 1407-1411.

Dopo la perdita dell'indipendenza non finirono le tradizioni dell'architettura serba. I Serbi emigrati le portarono seco nell'Ungheria meridionale, ove l'intera Fruška Gora fu popolata di monasteri serbi; e anche sugli altri territorî abitati da Serbi sorsero ancora nel sec. XVII chiese e monasteri, nei quali, nonostante tutti i cambiamenti, sopravvivono tradizioni antiche.

Appartenendo alla cerchia della cultura artistica bizantina, l'arte serba non produsse una scultura monumentale: il suo genio plastico si espresse soltanto nell'ornamentazione strettamente connessa con l'architettura. Nella Rascia questa scultura prese in prevalenza i suoi modelli dalla scultura decorativa delle chiese romaniche, soprattutto di quelle dalmate, qua e là anche di quelle dell'Italia meridionale, specialmente delle Puglie, come nel portale della chiesa di Nemanja. La più grande ricchezza di sculture ornamentali si vede a Visoki Dečani, ove una delle finestre rivela stretta affinità con i modelli di Cattaro. L'ornamentazione plastica delle chiese della Serbia meridionale ha naturalmente maggiore affinità con i modelli bizantini, benché qua e là imiti anche i motivi e la tecnica delle sculture del Caucaso. La scultura decorativa giunge al massimo sviluppo nelle chiese situate nella vallata della Morava. Non vi mancano neppure i motivi di figure, ma sono rari in confronto con l'abbondanza di motivi vegetali e animali, e soprattutto geometrici, tra cui hanno gran parte quelli a intreccio: i motivi, la tecnica e il modo come vengono adattati, rivelano rapporti meno con Bisanzio che con l'Oriente cristiano (Caucaso e paesi russi) e con l'arte islamica.

Poco si è conservato della pittura d'icone del Medioevo serbo; d'altro lato lo studio della storia della miniatura, specialmente delle sue fasi più antiche, si trova appena nello stadio iniziale. Tanto maggiore perciò è l'importanza dei numerosissimi documenti di pittura murale. Insieme con le opere più antiche di pittura bizantina sul territorio serbo (per es., a Ochrida e Nerezi) esse da un lato completano la visione della storia artistica di Bisanzio stessa nei secoli XII-XIV, dall'altro rivelano, con chiarezza pari a quella dell'architettura serba, le tendenze proprie, originali dell'arte serba.

La linea di sviluppo non appare unitaria neppure nella pittura: non tanto però si riallaccia alle tre fasi suddette dell'architettura chiesastica, quanto riflette le tendenze di una serie di scuole di pittura, che fanno capo a varie tradizioni e le trasformano in vario modo. Queste differenze e queste varietà appaiono già nei più antichi gruppi di opere nella Rascia e vi si manifestano simultanee. Un esempio caratteristico delle correnti locali dominanti nella pittura serba medievale - e anche bizantina in genere - sono, p. es., gli affreschi del 1236 nella chiesa di Mileševo che riprendono le antiche tradizioni della monumentale pittura a musaico dei secoli VI-VIII con le loro tendenze impressionistiche, spingendo l'imitazione fino a imitare il fondo d'oro musivo. Il legame con i modelli tradizionali è evidente anche in un altro gruppo di pitture della Rascia (Studenica, Žiča, S. Gjorgje presso Novi Pazar). In esse si esprime soprattutto l'indirizzo accademico dell'epoca dei Comneni, ma vi appare nello stesso tempo anche l'influsso della pittura di icone, senza però pregiudicarne né il carattere monumentale né la subordinazione all'architettura degli interni. In altre opere di questo gruppo appare una certa vivacità di movimenti e una tendenza a esprimere le emozioni; ma diminuisce la ricchezza di colori. In nessuno di questi gruppi mancano reminiscenze occidentali, sia stilistiche sia iconografiche, e sono desunte, secondo V. Petrović, soprattutto da modelli siciliani. Ai primi del secolo XIV si affermano in questa pittura tendenze nuove. Sebbene taluni dei suoi prodotti, ad es. le pitture nella chiesa del monastero Chilandari sul Monte Athos, abbiano sempre ancora carattere monumentale, anche in essi ora agli antichi modelli si sostituisce l'arte della miniatura: a Staro Nagoričino, a Žiča, nella chiesa del re Milutin a Studenica, a Gracanica la monumentalità cede il posto a composizioni in dimensioni ridotte e caratterizzate soprattutto dalla tendenza all'illustrazione epica e anche dal crescente realismo della visione artistica, dall'osservazione più diretta della realtà e dalla maggiore varietà nella disposizione della figura umana. Hanno una sfumatura particolare altre pitture connesse con questo gruppo, che si accentrano nella scuola di pittura rappresentata dagli affreschi di carattere narrativo a Visoki Dećani, i quali, specie nell'iconografia, rivelano rapporti indubbî con la pittura italiana. Altri affreschi, a Markov Manastir, Lesnovo, Matejić, Psača e altrove, hanno, sullo stesso fondo, caratteristiche ancora diverse, nelle quali si esprimono fino a un certo punto tendenze popolari: i tratti sono alquanto più rudi, ma le composizioni sono piene di vigore e di slancio. Le pitture nella chiesa della valle della Morava sono anch'esse affini agli affreschi di Staro Nagoričino e di Gračanica, ma - per quanto vi siano tra esse divergenze evidenti di concezione - la nota dominante in tutte è la crescente tendenza ornamentale come pure (secondo la definizione di Okunev) uno stile alquanto "barocco". In prima linea vanno notate le pitture di Manasija.

Nel complesso di questa pittura i ritratti occupano un posto preminente, specie i ritratti di re e delle loro famiglie, e anche di altri fondatori, talché forse nessun altro paese europeo ha conservato nella sua pittura medievale tanti ritratti di personalità storiche, quanti se ne hanno in Serbia.

Gl'inizî dell'arte serba più recente vanno ricercati nella Vojvodina, ove verso la metà del sec. XVIII si ha una notevole intensificazione del movimento artistico, soprattutto nel campo della pittura. Esso segna la rottura con le tradizioni antiche: di modo che già nella seconda metà del secolo questa pittura - a parte una certa rigidità di forme nella pittura chiesastica - è in realtà ormai del tutto occidentalizzata. Centro di tutto questo movimento è Novi Sad, e tra gli artisti della Vojvodina vanno notati in primissimo luogo Konstantin Daniel (1789-1873), ritrattista e autore di numerose iconostasi concepite in spirito quasi cattolico, e Giura Jakšić. La Vojvodina fornì persino una serie di pittori a Belgrado, quando ivi, verso la metà del sec. XIX, cominciò a crescere l'attività artistica. Ma la mancanza di proprie tradizioni artistiche, la povertà della tecnica e l'indifferenza del pubblico di fronte ai problemi artistici resero la vita degli artisti molto precaria. Tra i pittori che, verso la fine del sec. XIX, lavoravano a Belgrado, vanno nominati il ritrattista St. Todorović e Gjorgje Krstić, allievo dell'Accademia di Monaco, genuinamente romantico e colorista di prim'ordine, ricco di delicatissime tonalità. Pure al campo del ritratto e della pittura di genere appartengono le opere migliori di Uroš Predić, artista coltissimo dalle tendenze naturalistiche, in cui a volte è sensibile l'influsso di uno dei pittori serbi più rappresentativi, P. Jovanović (v.), ed anche del pittore cèco Čermák. Tra le figure più interessanti di questo gruppo di Belgrado è quella di Leone Koen proveniente da un'antica famiglia ebraica di Belgrado. Atteggiamento romantico, amore per i temi elevati e nobili, tendenza alla monumentalità e colori chiari, caratterizzano la sua opera; la sua attività creatrice fu però minata dalla malattia e dalla scarsa comprensione che ebbe per lui il suo ambiente. Temperamento fortissimo, individualità spiccata e grandi qualità coloristiche ebbe l'impressionista Nadežda Petrović (morta nel 1915). Primo paesista a Belgrado fu Marko Murat di Ragusa, già verso la fine del sec. XIX trasferitosi a Belgrado. Il gruppo dei giovani di Belgrado è costituito da Br. Popović, Petar Dobrović e Jovan Njelić, tra cui specialmente l'ultimo si distingue per le sue tendenze sperimentali e il senso spiccatamente ornamentale. Merita menzione inoltre Marino Tartaglia.

In Serbia, del pari come negli altri centri della Iugoslavia, fino ai tempi più recenti l'arte pittorica ha occupato il primo posto nell'attività artistica: la parte della scultura era in confronto assai modesta. Nulla di strano quindi che nella vecchia generazione degli scultori serbi non si possano rilevare se non poche personalità eminenti, tra cui primeggiano P. Ubavkić e Giorgio Jovanović, ambedue rappresentanti del naturalismo accademico. La situazione mutò col rivelarsi della grande arte di I. Meštrović (v.), creatore di composizioni di grande forza espressiva. L'influsso del Meštrović fu naturalmente assai grande anche sull'arte serba, come su quella croata, poiché, anche nel campo dell'arte, vanno sempre più scomparendo le antiche frontiere tra le singole parti della Iugoslavia e il linguaggio artistico si fa sempre più unitario. Ciò ha la sua importanza anche per l'architettura, nella quale, accanto agli architetti più anziani (vedi iugoslavia: Arte), tra i giovani si segnalano particolarmente i fratelli Krotić. (V. tavv. LXIX e LXX).

Bibl.: V. iugoslavia: Arte; inoltre: V. R. Petković, La peinture serbe du moyen âge, voll. 2, Belgrado 1930-34; Kraljevina Srba, Hrvata i Slovanaca, Lubiana 1927 (articoli di arte antica e contemporanea di I. R. Petković e V. Petrović); V. Marković, Pravoslavno monaštvo i monastiri u srednjevjekovnoj Srbiji (Monachismo ortodosso e i monasteri nella Serbia medievale), Sremski Karlovci 1920; V. R. Petković, s. v. Umetnost srpska (Arte serba), in Narodna Enciklopedija S. H. S., IV, pp. 978-990; N. Okunev, Starožitnosti jižných Slovanu a jejich vědecký význam (Le antichità degli Slavi meridionali e la loro importanza scientifica), in Slov. Přehled, 1927, pp. 241-253; P. Pokryskin, Pravoslavnaja cerkovnaja architektura XII-XVIII st. v. nynešnem serbskom korolestve (L'architettura chiesastica ortodossa nei secoli XII-XVIII nell'odierno regno serbo), Pietroburgo 1906; Miloje M. Vasić, Žiča i Lazarica, studije iz srpske umetnosti srednjega veka (Ž. e L., studî sull'arte serba del Medioevo), Belgrado, 1928; Ž. Tatić, Tragom velike prošlosti (Sulle orme di un grande passato), Belgrado 1928; N. Okunev, Monumneta artis serbicae, I-IV, Zagabria-Praga, 1928-1932; V. Molé, Serbska sztuka średniowieczna, Słownik starożytności słow., Zeszyt próbny (L'arte serba nel Medioevo, Dizionario delle antichità slave, fascicolo di prova), Varsavia 1934. - Il resto della letteratura sull'arte medievale è ordinato sistematicamente nella Bibliografia a L'Art byzantin chez les Slaves, I: Les Balkans, Parigi 1930, pp. 427-444. La letteratura contemporanea anche in Byzantinoslavica, dal 1929 in poi. - Meštrović, MCMXXXIII, Zagabria (Albo di tavole).

Storia.

Le masse slave che, sospinte e trascinate dagli Avari, si riversarono sul finire del sec. VI e al principio del VII nella Balcania, non avevano ancora lineamenti etnici precisi né fisionomia politica. Lentamente, e senza che oggi sia possibile ricostruire il processo, esse si svilupparono, tra il sec. VII e il IX, in diverse varietà etniche, che poi costituirono altrettanti organismi politici, di formazione tanto più rapida quanto più situati ai margini dell'Impero bizantino ed esposti ad influenze occidentali. Appena nel sec. XII, dopo l'inizio delle crociate, nella decadenza di Bisanzio, e nella disgregazione degli stati marginali determinata dall'espansione occidentale, quel processo di formazione incominciò ad investire le aree centrali, prima lontane dal giuoco politico europeo e fortemente sottoposte al controllo e all'effettivo esercizio della sovranità bizantina. Sorse allora la Serbia. Il terreno sul quale si formò è la Rascia (v.), piccola e montuosa regione tra la vallata del Lim e il regno di Dioclea (v. montenegro), dominata sin dalla prima metà del sec. XI da gran giuppani di un ramo della dinastia diocleate, continuamente travagliata da lotte dinastiche, alternativamente soggetta alla Dioclea o a Bisanzio, con rari e brevissimi periodi di indipendenza. A sedare le lotte, emancipare la dinastia e la regione dalla soggezione diocleate e bizantina, e a fare della Rascia uno stato durevolmente autonomo con una ben distinta fisionomia politica e nazionale, interviene, nella seconda metà del secolo XII, l'opera del gran giuppano Stefano Nemanja. Egli è a ragione considerato il fondatore dello stato serbo, prima modesto grangiuppanato rasciano, poi nel 1217 elevatosi a regno, indi nel 1346 ad impero, per declinare dopo il 1389 e ridursi a despotia, annullarsi nel 1459 per dar luogo ad un pascialato turco, risollevarsi nel sec. XIX, conseguire nel 1830 la forma di un principato, nel 1882 elevarsi ancora una volta a regno, e nel 1918 ampliarsi e trasformarsi sino a costituire la base prima del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.

La Serbia grangiuppanato (1170 circa-1217). - Per quanto l'imperatore bizantino Emanuele Comneno avesse nel 1168 fortemente riaffermato il suo imperio sulla Rascia destituendo alcuni gran giuppani ribelli, imprigionandoli e preponendo al governo della regione dei vassalli fidati, la situazione politica, per l'incrociarsi delle forze che in quegli anni agivano nella Balcania, s'era sempre mantenuta propizia a manovre. Stefano Nemanja si affaccia alla vita politica rasciana intorno al 1170. Egli incomincia con lo sfruttare la reazione indigena al colpo di forza imperiale del 1168, riesce ad imporsi, a scacciare e a sostituirsi nel potere ai gran giuppani vassalli. I suoi primi successi coincidono con la rivalità e la guerra veneto-costantinopolitana del 1170-1171. Nemanja ne approfitta per innestare la sua azione in quella veneziana e per stabilire alleanze ed intese antibizantine anche con l'Ungheria e con l'Impero d'Occidente. I suoi eserciti marciarono subito a nord verso il litorale adriatico contro le provincie bizantine di Croazia e Dalmazia e ad oriente sulla strada da Niš a Belgrado, riportando dappertutto notevoli successi: Ad arrestare però la sua azione sopravvenne il disastro veneziano nell'Egeo e la morte di Stefano III d'Ungheria. Emanuele, liberatosi dagli altri nemici, si volse minaccioso contro la Rascia. Nemania vide l'opportunità di sottometterglisi nel più pieno e rassicurante dei modi. Dal 1171 al 1180 la Rascia fu nuovamente vassalla di Bisanzio. Ma non appena dopo la morte di Emanuele (24 settembre 1180) la Balcania ripiombò nel caos, il gran giuppano riprese vigorosamente ad agire. Mentre suo fratello Miroslao si consolidava nella Zaculmia, egli, stretta un'alleanza con Bela III d'Ungheria, si spingeva nella valle della Morava ed espugnava tutta una serie di città bizantine. Si volgeva poi alla Dioclea e occupava Scutari, Sarda, Dagno, Drivasto, Suacia e i porti di Dulcigno e Antivari, ne espelleva i principi diocleati suoi parenti e costituiva la Provincia Marittima. Nel 1186 gli si diede Cattaro. Ragusa invece resistette sempre a lui ed ai suoi successori con vigorosa tenacia. Nel 1187, in alleanza con il rinnovato impero bulgaro, occupò Niš e devastò i castelli della valle del Timok. Nel 1189 conquistò lo Struma superiore ed ebbe Skoplje e Prizren. A Federico Barbarossa, di passaggio per Niš, nello stesso anno offrì doni, alleanza e vassallaggio, volendo, in opposizione a Bisanzio, ripetere dall'Occidente la dignità propria e quella dello stato che andava costruendo. Tuttavia fu proprio l'imperatore bizantino, che, pur dopo averlo battuto nel 1190 sulla Morava, ed avergli ritolto il meglio dei territorî, gliele riconobbe. Da quest'anno lo stato serbo può considerarsi fondato e Nemanja si dedica alle opere di pace: organizzò la vita religiosa che faceva capo al vescovato di Ras, e fondò molti monasteri, centri di pietà e di cultura, custodi dello spirito serbo. Non trascurò l'Occidente: frequenti si fecero, attraverso la Marittima e Cattaro, i contatti col papato e con gli stati latini. Quando gli parve di aver compiuto l'opera convocò nel 1196 una dieta dello stato, rimise il potere al secondogenito Stefano e si ritirò a vita monastica (v. stefano nemanja). Un grave problema lasciò però insoluto, non avendo stabilito alcun fermo ordine di successione. I Nemanja, continuamente ondeggianti fra il tradizionale principio del seniorato e quello della primogenitura, riempiono tutto il Medioevo serbo di lotte dinastiche. Se ne ha il primo episodio l'anno dopo la morte del capostipite (1200), quando il preferito primogenito Vukan, che aveva ottenuto il solo governo della Marittima, insorse contro il fratello e nel 1202 lo scacciò dal grangiuppanato. Stefano tuttavia, con l'aiuto dei Bulgari, poté l'anno dopo riassumere il potere e in molti anni di governo perfezionare l'opera del padre. Bizantinofilo dapprima, dopo il 1204, seguendo le orme di Nemanja, orientò la sua politica verso Venezia e il papato. Ripudiata ancor nel 1202 Eudossia, nipote dell'imperatore Isacco Angelo, sposò Anna Dandolo, nipote del doge conquistatore di Costantinopoli. Attraverso Ragusa, dove era conte Giovanni Dandolo, e Venezia, poté nel 1217 ottenere da Onorio III la corona regale ed essere incoronato da un suo legato. L'atto segnò l'elevazione della Serbia da grangiuppanato a regno e Stefano passò alla storia con l'attributo di Primo Coronato.

La Serbia regno (1217-1343). - La formazione, la difesa e la definitiva consacrazione dello stato serbo vengono tutte dall'Occidente e si realizzano nell'ambito e col sussidio delle correnti politiche antibizantine. Ciò nonostante la Serbia rimane uno stato tutto orientale. A questo fine, durante tutto il Medioevo, lavora instancabilmente il monachesimo, unico elemento di vita superiore, geloso depositario e tenace difensore dello spirito ortodosso, assiduo cancellatore di tutti i valori che all'anima serba potessero ricordare i meriti e far sentire l'anima e la vita dell'Occidente cattolico. All'atto del pontefice, che poteva incrinare la compattezza ortodossa e mettere in forse la stessa eminente sovranità dei regnanti, segue subito la presa di una potente contromisura: la fondazione della chiesa nazionale autocefala serba. Il patriarca e la corte imperiale di Nicea, tradizionalmente antiromani, accolgono con lieto consenso il monaco Sava, fratello del re, venuto a propugnarne l'istituzione e consacrano in lui il primo arcivescovo. Si fonda il monumentale monastero di Žiča dove Sava fissa la sua residenza e nella cui basilica si ungeranno i re futuri. Contro il titolo regale elevò protesta il re d'Ungheria, che dal 1199 s'intitolava anche re di Serbia, e contro l'erezione dell'arcivescovado, l'arcivescovo di Ochrida, ma la situazione non mutò. Re Stefano tenne il potere per un altro decennio, per poi ritirarsi, come il padre, gli ultimi giorni di vita, in un monastero.

Al tempo suo certamente appartiene quel primo ingentilimento dei Serbi, che da primordiali pastori e razziatori tramutò in individui nazionalmente e politicamente coscienti. Sotto di lui ebbe più chiara figura l'ancestrale ordinamento in famiglie, consorzî di famiglie e tribù, e la partizione politica in giuppanati. Città vere e proprie non sorsero, ché il murare era soltanto usato per i monasteri e per le più importanti opere fortificatorie, mentre la popolazione viveva in capanne di frasche, ma sorsero numerosi i mercati con fondachi e attendamenti eretti soprattutto da Veneziani e Ragusei che, frequentandoli assiduamente, fecero apprezzare i benefici dell'agricoltura, del commercio, dell'industria e dello sfruttamento minerario.

Su questo piede la storia serba continua per tutto il Duecento e per qualche decennio del Trecento. A Stefano successe nel 1228 il primogenito Radoslao, che, debole e lontano dallo spirito del popolo, impigliato in una situazione famigliare che lo rendeva schiavo del suocero Teodoro Angelo, imperatore di Epiro, fu nel 1234 sbalzato dal trono dal secondogenito Vladislao. Vladislao, ligio a sua volta al suo suocero, lo zar bulgaro Asen II, che lo aveva aiutato nell'impresa, dovette abbandonare nella primavera del 1243 il potere al terzogenito Uroš I, ritenendo tuttavia il titolo regale e alcuni territorî della Marittima. Uroš, figlio della Dandolo, si mostrò molto migliore sovrano, e, pur continuamente premuto dall'Ungheria, resse abilmente lo stato fino a che nel 1276 dovette cedere definitivamente il potere al figlio Stefano Dragutin, che, avendo sposato una Árpád, era sostenuto dall'Ungheria. Dragutin regnò da solo fino al 1282. In questo anno, spezzatosi una gamba e divenuto inabile alle imprese di guerra, tolse a correggente il fratello minore Stefano Uroš II Milutin (1282-1321). Per più tempo la Serbia fu governata da due sovrani con diversi orientamenti, attività e sfere d'azione: Dragutin volto alle potenze cattoliche, particolarmente al papato e all'Ungheria, ne godeva gli appoggi e le simpatie, sì che ottenne il banato di Macsó (Mačva) e il Sirmio; Milutin occupato nel settore bizantino, talvolta come amico, tal'altra come competitore, riuscì a penetrare nel territorio di Skoplje e a farsene residenza. La duplicità del potere e la diversità dell'orientamento originarono tra i fratelli gelosie e lotte, specie per la designazione dei successori. Morto nel 1316 Dragutin, Milutin si prese tutto il potere, imprigionando Vladislao, figlio di Dragutin. Nel 1321 morì anche Milutin e, nonostante il suo quadruplice matrimonio, la vita non troppo morigerata e l'aver fatto accecare per avidità di potere il proprio figliuolo, fu, come Nemanja e Stefano Primo Coronato, santificato dalla chiesa nazionale serba. Consacrazione non certo di pietà, ma riconoscimento di aver governato nella linea voluta dall'ortodossia. Dopo acute lotte dinastiche prevalse nel 1322 Stefano Uroš III, miracolosamente guarito dalla cecità, sotto il quale, pur fra forti convulsioni interne, incomincia l'ascesa della Serbia verso l'impero. Uroš III si schiera contro Bisanzio e la Bulgaria. Batte nel 1330 a Kjustendil lo zar Michele, che, per sposare la sorella di Andronico III, aveva ripudiato la serba Anna. In questa impresa si distinse particolarmente il giovane correggente Stefano Dušan. Il successo e la conseguente popolarità lo esaltarono tanto da indurlo a mettersi l'anno dopo contro il padre, destituirlo, imprigionarlo e, forse, assassinarlo. Stefano Dušan è, dopo Nemanja, la più marcata figura della storia serba. Buon politico e gagliarda tempra di conquistatore, vide subito quale partito si poteva trarre dalla insanabile agonia dell'Impero bizantino. Come tutti i veri costruttori della potenza serba si mosse nell'orbita della politica orientale veneziana. A nord si contrappose all'Ungheria, a sud affrontò Bisanzio. Lì, piccoli ed insignificanti furono i successi, ma a sud, particolarmente dopo la morte di Andronico III (1341), le provincie bizantine caddero l'una dopo l'altra in suo potere. Nel 1345 egli dominava l'Albania con Croia, Berat e Valona, la Macedonia con Ochrida e Castoria, e verso l'Egeo Serrai, Drama, Philippi e Crisopoli. La raggiunta potenza lo trasse a concepire il disegno di soppiantare da Costantinopoli i Paleologo e farsi egli stesso autocratore.

La Serbia impero (1345-1389). - Nell'inverno del 1345 una dieta del regno proclamò Stefano Dušan imperatore dei Serbi e dei Greci, e nella Pasqua seguente (16 aprile 1346) i patriarchi di Serbia e di Bulgaria lo incoronarono "in imperio Constantinopolitano". Prima ancora l'arcivescovato era stato elevato a patriarcato. Proseguirono le imprese per riunire sotto il suo scettro tutte le provincie bizantine. Nel 1350 furono conquistate la Tessaglia e l'Epiro, con che i limiti dello stato furono portati dal Danubio e dai confini bulgari al basso Adriatico e all'Olimpo. Fu regolata la vita giuridica, con la compilazione del primo codice di leggi serbe (Dušanov Zakonik), promulgato nelle diete del 1349 e 1354. Quando l'opera stava per essere compiuta, Dušan morì improvvisamente il 20 dicembre 1355, all'età di 48 anni. La Serbia come impero, concepito, sentito, preparato, ma non realizzato, ha virtualmente un solo decennio di vita: dal 1345 al 1355.

Lo stato che Dušan aveva messo insieme, pur essendo territorialmente esteso e militarmente forte, aveva congenite tali debolezze da essere, anche senza insidie esterne, votato alla dissoluzione. Gli mancava soprattutto una classe dirigente che avesse coscienza e disciplina di governo. I dinasti, i magnati, i cortigiani e i nobili inviati al governo delle regioni di recente acquisto, non vi si erano recati con l'animo di amministratori, ma di benemeriti della corona, donati di regni e città, congedati dall'imperatore e promossi a sovrani. Cresciuti nell'atmosfera delle lotte dinastiche, il loro studio fu unicamente rivolto a realizzare una maggior autonomia, ad aumentare la propria potenza, a sopraffarsi vicendevolmente e, se mai fosse possibile, aspirare alla stessa corona reale e imperiale.

Così, morto Dušan, e succedutogli il debole ed inetto Uroš IV, si scatenarono in tutto l'impero aspre e dissolvitrici lotte intestine. Uroš passò in secondo piano e nel turbinio delle competizioni si fece luce un tale Vukašin, che dal 1366 porta il titolo di re, appare correggente di Uroš, ma di fatto è il solo padrone dello stato. Alla disgregazione interna si aggiunsero offensive esterne: nel 1359 Ludovico d'Ungheria prese Macsó e Belgrado. Il nemico più pericoloso erano però i Turchi che, iniziato nel 1352 il passaggio nella Balcania, erano nel 1366 arrivati ad Adrianopoli e procedevano forti, numerosi e minacciosi. Vukašin li dovette affrontare. Il 26 settembre 1371 a Černomjan, sul fiume Maritza, ebbe luogo una prima terribile battaglia nella quale l'esercito serbo fu quasi annientato e Vukašin perdette la vita. La Macedonia e le provincie meridionali divennero tributarie dei Turchi che non ristettero dall'avanzare a nord. Dopo due mesi morì anche Uroš. La Serbia con ciò può considerarsi finita. Un'ombra di stato sopravvive tuttavia sino a quando gli eserciti del re Lazzaro Hrebeljanović, succeduto a Vukašin, e di Stefano Tvarco (Tvrtko) di Bosnia, che nel 1377 s'era fatto incoronare anche re di Serbia, non furono un'altra volta distrutti nella memoranda battaglia di Kosovo, il giorno di San Vito 1389. Sul campo caddero re Lazzaro e il sultano.

La Serbia despotia (1389-1459). - Le conseguenze di Kosovo furono disastrose. Fu tuttavia ancora possibile scongiurare il completo asservimento alla Turchia, mercé l'abile politica della regina Milica, vedova di Lazzaro, che manovrò in modo da far apparire i Serbi simpatizzanti e naturali alleati dei Turchi contro i cristiani. Si accettò il vassallaggio, si pagarono tributi, si fornirono truppe, si consegnarono le fortezze; la più giovane figlia del re caduto, Oliviera, andò a rinchiudersi nel harem sultaniale di Brussa. A queste condizioni l'intelaiatura dello stato poté mantenersi. A Lazzaro succedette Stefano Lazarević che si batté valorosamente a lato dei Turchi, una prima volta nel 1394 contro il principe romeno Giovanni Mircea, una seconda nel 1396 a Nicopoli, decidendo col suo intervento della sconfitta dei crociati di Sigismondo di Lussemburgo, una terza nel 1398 contro la Bosnia, una quarta nel 1402 ad Angora contro Tamerlano. Angora, nella quale il sultano Bāyazīd I fu disfatto, segna un arresto nell'espansione turca. Stefano fu pronto ad approfittarne per ricostituire l'indipendenza della Serbia. Tornando, dopo la rotta, su galere italiane, e passando per Costantinopoli, si fermò alla corte di Giovanni Paleologo dal quale ebbe il titolo di despota che poi sempre portò e trasmise ai successori. Orientò la sua politica verso l'Ungheria, dichiarandosene vassallo, e ottenne Macsó con Belgrado, dove fissò la sua residenza. Sfruttò abilmente le lotte dinastiche turche gettandosi ora dall'una ora dall'altra parte e ricavando sempre qualche vantaggio, per lo meno morale. Aiutò Sigismondo contro i Bosniaci ed ebbe nel 1412 Srebrnica. Nel 1421, dopo la fine dei Balsa del Montenegro, ebbe la Zeta. Un tempo in aspra lotta con la famiglia dei Brankovići, discendenti da re Lazzaro per via materna, si rappacificò con essi, designando anzi nel 1426 Giorgio a suo successore. Sotto Giorgio (1427-1456) incomincia il tracollo definitivo. Belgrado ritorna all'Ungheria quale prezzo del riconoscimento di Giorgio a despota. Riprende l'offensiva turca che fa della Serbia uno stato doppiamente vassallo: dell'Ungheria e della Turchia. Stretto tra queste due potenze, in continua guerra, il paese è ogni momento calpestato da eserciti nemici, le fortezze occupate e rovinate, la popolazione sospettata, la vacillante politica del despota tacciata di infida doppiezza. Le sorti si rialzano un poco nel 1442, quando le truppe di Giorgio, in unione a quelle di Giovanni Hunyádi, sotto l'egida del papato, muovono vittoriose contro gli infedeli fino a Sofia, ma la sconfitta cristiana di Varna (1444) aggrava sempre più la situazione. Ormai Giorgio è più incline ai Turchi che ai Magiari. Sue truppe collaborano con gl'infedeli alla presa di Costantinopoli. Anche tra la nobiltà ed il popolo si delineano correnti turcofile. È perduto ogni senso di nazionalità, razza e religione. Restano solo le miserie e le tribolazioni del popolo e le implacabili lotte fra nobili e governanti, sempre avidi di potere e ossessionati dalla frenesia di sopraffarsi. Giorgio Branković muore nel 1456. Si sognano irrealizzabili progetti di fusione della despotia con la Bosnia. Prevale però la corrente pacifista turcofila che nel 1459 consegna Semendria, l'ultima roccaforte serba, alle forze di Maometto II.

La Serbia pascialato turco (1459-1830). - Scompare con ciò ogni parvenza di autonomia e la Serbia si riduce a una provincia annessa all'impero turco, governata da sangiacchi e pascià. Il trapasso, contrariamente a quanto si suole credere, non avvenne in forme violente né brutali, ma si operò in modo affatto pacifico, e su basi che, lungi dal far apparire tirannico il nuovo dominio, sembravano garantire pace e sicurezza, e promettevano di riuscire giovevoli al paese.

I Turchi si limitarono ad occupare i luoghi strategici, a dominare le strade, a costituire degli insediamenti cittadini, a sostituirsi insomma alla nobiltà e alla classe dirigente, che parte emigrò e parte fu assimilata, e lasciarono al popolo la sua religione, la sua lingua, le sue terre, non lo turbarono nel lavoro, né, specie i primi tempi, lo gravarono di soverchi tributi e prestazioni. Irradiazioni di forme di vita e di cultura naturalmente ci furono: le provincie meridionali, particolarmente i centri più grossi, si riplasmarono al modo turco, e non pochi Serbi, specie nobili, passarono all'islamismo. Moschee e quartieri turchi sorsero dappertutto. Ma vi furono anche degli scambî: numerosi Serbi agirono come uomini d'arme, di governo e di dottrina presso il sultano. Il serbo, come lingua e scrittura diplomatica, entrò nell'uso della corte e delle cancellerie di Istanbul. Fu sciolta, è vero, la chiesa nazionale, in quanto organo politico, ma furono rispettati i monasteri, in quanto istituti religiosi. Un fenomeno che potrebbe far apparire intollerabile la dominazione turca è l'intensa emigrazione serba nei secoli XV e XVI verso le regioni danubiane. Le cause però che la determinarono vanno non tanto ricercate nella pressione esercitata dai musulmani, quanto nella naturale e antica ricerca di sedi migliori e nell'incessante opera di allettamento svolta dall'Ungheria e dall'Austria, bisognose di popolare, sfruttare e difendere le fertilissime provincie di confine. In genere il nuovo dominio fu accettato come una necessaria fatalità che, se poteva straziare moralmente, era tuttavia preferibile al rovinoso caos che prima aveva dominato. È perciò che, per un buon secolo, i Serbi non dànno alcun segno di vita e quasi di esistenza nazionale. Lo storico che, sino a mezzo il Cinquecento, guardi alla Serbia, pur prima tanto ricca di fervida storia, non vede altro che eserciti turchi marcianti per lo Stambugjdol (via da Costantinopoli a Belgrado) verso l'Ungheria, l'Austria, la Romania, il Friuli.

I primi palpiti di un risveglio si colgono appena nella prima metà del sec. XVI, ma non nella vera e propria Serbia soggetta al Turco, bensì nei territorî slavi marginali: nelle provincie meridionali dell'Ungheria, nella Slavonia, in Croazia, nel litorale della Morlacca. Sono dapprima palpiti torbidi e indistinti ristretti al campo letterario che poi, all'epoca della Riforma e Controriforma, si trasferiscono nel campo religioso, per investire infine, nel sec. XVII, il campo politico. A suscitare e coltivare questo movimento agiscono un po' tutte le potenze interessate a una politica antiturca: il papato, Venezia, l'Austria, la Polonia e, infine, la Russia. La Turchia lo nota e, sin dal 1557, cerca di arginarlo e controbatterlo ripristinando l'antico patriarcato di Peć e organizzandolo in modo da farsene strumento di controllo della vita religiosa e dei sentimenti politici non solo dei Serbi dimoranti entro i suoi confini, ma anche degli emigrati. Avvenne invece che, nei contatti stabilitisi, gli emigrati, anziché subire una qualsiasi influenza, agissero irredentisticamente sui Serbi del pascialato e li guadagnassero alla causa delle potenze cristiane. Seguì da parte turca un rincrudire di misure che alienò loro anche le ultime simpatie. Sì che quando, a cominciare dalla seconda metà del sec. XVII, nel declino della potenza ottomana, l'Austria, Venezia ed altre potenze, stringendosi in leghe sante, mossero guerra alla Turchia, trovarono, penetrando oltre il Danubio, popolazioni preparate a insorgere e a coadiuvare la loro azione. Mercé questo consenso l'Austria, nella guerra del 1683-1699, poté spingersi sin nella Serbia meridionale a Skoplje, Peć e Prizren, e nella pace di Carlowitz arrotondare i confini meridionali della Croazia e Slavonia. Dopo la successiva Lega Santa del 1716-18, conseguite le strepitose vittorie di Eugenio di Savoia, si annetté nella pace di Passarowitz il Banato e una larga zona della Serbia settentrionale con Belgrado. Le campagne del 1736-1739 e 1787-1791 furono invece sfortunate e portarono alla perdita di questi territorî. I Serbi però non ne patirono, giacché, prima ancora che la pace di Svistova (luglio 1791) ne confermasse la restituzione alla Turchia, il sultano Selim III, incline a instaurare nell'impero un regime liberale, riconobbe loro, nell'ambito della sovranità turca, una certa autonomia e dispose che fossero repressi gli arbitrî e le violenze del governo militare dei giannizzeri. Con un khaṭṭ-i-sherīf del 1793 queste concessioni furono solennemente sancite. Se non che i giannizzeri, dopo qualche anno di compressione, approfittando della profonda crisi nella quale l'impero era caduto appunto per le riforme di Selim, tornarono nel 1799 a impadronirsi del potere e, più avidi e brutali di prima, a tiranneggiare in ogni modo il pasciȧlato. Poiché la Porta era impotente a scacciarli, i Serbi stessi, in unione agli spahi turchi, deliberarono di affrontarli con le armi. Nel febbraio 1804, nel convegno di Orašac, si deliberò l'insurrezione, a capo della quale fu posto Karagjorgje Petrović, contadino illetterato, inesperto di arti diplomatiche, ma, come occorreva, prode combattente e inesorabile tempra di capo. In breve tutto il pascialato fu in fiamme. Inizialmente il movimento non era diretto contro la Porta, che si voleva anzi aiutare a reprimere i ribelli, ma ben presto assunse il carattere di una vera guerra per l'indipendenza. Gli insorti non tardarono a portare la questione su terreno internazionale, stabilendo contatti con l'Austria e la Russia e, nei successivi negoziati di composizione, esigendo che queste due potenze intervenissero come garanti dei patti che sarebbero stati concordati. La Porta, naturalmente, respinse ogni inframmettenza estera. Si venne allora alla guerra aperta, che, piena di alti e bassi nella mutevole situazione internazionale d'allora, si protrasse sino al 1813, quando, battuto, Karagjorgje con i suoi capi e buona parte delle sue genti, dovette riparare in Austria. Il dominio della Porta durò però assai poco. Già nel 1815 scoppiò una nuova vastissima insurrezione capeggiata da Miloš Obrenović, che, duttile e scaltro, seppe non solo imporsi con le armi, ma, appoggiandosi soprattutto alla Russia, lavorare così bene nel campo politico da far sì che con khaṭṭ-i-sherīf del 29 agosto 1830 la Porta riconoscesse alla Serbia la qualità di principato indipendente sotto la eminente sovranità turca e la protezione russa. Miloš, che frattanto s'era nel 1817 liberato del suo competitore Karagjorje facendolo assassinare, e nel 1827 era stato acclamato principe per sé e discendenti, ne assunse il governo.

La Serbia principato (1830-1882) - La Serbia di Miloš territorialmente è ben lontana dall'avere limiti e centri di gravità identici a quelli della Serbia dei Nemanja. Nel procedere dei secoli i centri vivi e propulsivi della vita nazionale si erano spostati a nord. Karagjorgje e Miloš operano quasi esclusivamente nella Šumadija, piccola regione di non più che 25.000 kmq., immediatamente a sud del Danubio, con Kragujevac nel centro. Questa fu la Serbia di Miloš, nuovo nocciolo, come la Rascia ai tempi dei Nemanja, al quale si salderanno le altre regioni fatte nei secoli estranee alla vita ed allo spirito serbo. Prima però che questo potesse avvenire, occorreva rinsaldarsi politicamente, assestarsi economicamente, incrementare, anzi creare, una cultura serba, sì che in ogni senso potessero svilupparsi forze centripete. Miloš non aveva le qualità necessarie ad agire in questo senso. Agl'interessi e ai bisogni nazionali egli anteponeva gl'interessi personali e dinastici. Nessuna differenza, nello spirito e nei mezzi, tra il suo regime e quello dei pascià che lo avevano preceduto La Serbia sotto di lui si avviava a diventare una monarchia assoluta. A tale tendenza si opposero in continue rivolte i nobili e le potenze sovrane, Turchia e Russia, che nel 1838 fecero in modo che a lato del principe fosse istituita una camera vitalizia con poteri assai lati. Miloš, sdegnato, il 12 giugno 1839 abdicò a favore del figlio Milan e abbandonò la Serbia. Milan, dopo 16 giorni di non esercitato potere, morì e il principato toccò al figlio minore, Michele. Michele continuò tenacemente la politica paterna e cercò in ogni modo di governare al difuori e al disopra della camera. Si sviluppò tra il principe e gli "Ustavobranitelji" (difensori della costituzione), sempre a base di insurrezioni armate, un'aspra lotta che nel 1842 terminò con la destituzione degli Obrenović e il richiamo dei Karagjorgjević nella persona del principe Alessandro. Alessandro governò dal 1842 al 1858 senza poter però dare al paese pace e concordia, anzi riscuotendo, per le sue tendenze austrofile e turcofile, l'opposizione di fortissime correnti, sì che anch'egli nel 1858 dovette ritirarsi per cedere un'altra volta il potere agli Obrenović. Intanto nel 1856 il Congresso di Parigi, dopo la guerra di Crimea, aveva sostituito al protettorato russo la garanzia delle grandi potenze. In quegli anni il prestigio della Skupština (assemblea popolare) crebbe assai e largamente penetrarono le idee liberali, sì che al nuovo avvento degli Obrenović la tradizionale lotta tra il principe e i partiti costituzionali poteva dirsi risolta in favore di questi ultimi. Dal 1858 al 1860 tenne il potere l'"antico signore" Miloš, e dal 1860 suo figlio Michele, già spodestato nel 1842. Il governo di Michele fu dei più brillanti. Creò l'esercito; liberò il principato da ogni residuo di sovranità turca; intavolò normali relazioni con le potenze estere innestando la Serbia come elemento attivo nel giuoco diplomatico europeo; stabilì intese con gli Slavi dell'Austria, della Bosnia-Erzegovina, del Montenegro, promuovendo in tutti la coscienza della comune anima etnica e suscitando vive aspirazioni all'unità; si volse agli stati balcanici e fece considerare il disegno di un'alleanza e federazione antiturca; visse intensamente nell'atmosfera delle correnti liberali e irredentistiche, avendo contatti non solo ideali, con Kossuth e i patrioti italiani. Tutto faceva presentire grossi avvenimenti quando, il 10 giugno 1868, un emissario dei Karagjorgjević lo assassinò. L'azione subì un immediato arresto. Seguirono quattro anni di piatto governo di reggenza, poi, dal 22 agosto 1872, il principato di Milan. Nel 1875, affatto impreparata, la Serbia fu sorpresa dalla insurrezione antiturca dei Bosniaci, a lato dei quali, quasi suo malgrado, dovette intervenire col Montenegro e, più tardi, con la Russia. La campagna, nonostante l'affluire di volontarî, anche garibaldini italiani, si risolse in una serie di sconfitte. La Serbia fu costretta a chiedere la pace, mentre la Russia, per assicurarsi la neutralità dell'Austria nella futura guerra contro la Turchia, le abbandonava nel convegno di Reichsiadt dell'8 luglio 1876 la Bosnia-Erzegovina. Quando l'anno dopo la Russia prese le armi, i Serbi le furono nuovamente a fianco, conseguendo questa volta notevoli successi e ottenendo nel trattato di Santo Stefano (3 marzo 1878) i distretti di Niš e Mitrovica. Ma, contro questo trattato, che a danno degl'interessi inglesi e del prestigio austro-tedesco stabiliva una prevalenza russa nei Balcani, e a danno degli stati balcanici consacrava una grande Bulgaria, si misero subito in azione le potenze occidentali convocando il Congresso di Berlino, che, con il trattato del. 13 luglio 1878, smembrò la Bulgaria e ampliò la Serbia di altri quattro distretti.

La Serbia regno (1882-1918). - Per quanto l'assegnazione della Bosnia-Erzegovina all'Austria avesse privato la Serbia delle provincie più agognate, pure, l'aver quasi raddoppiato il territorio e l'aver conseguito nei Balcani una posizione di particolare importanza, le permisero di elevarsi da principato a regno. Milan assunse il nuovo titolo il 6 gennaio 1882 e il 22 febbraio ebbe luogo la proclamazione da parte della Skupština Ristretta però rimase la politica estera e piena di convulsioni quella interna. Il trattato di Berlino imponeva un atteggiamento austrofilo, per cui convenne legare l'economia a quella dell'Austria e non pensare alla redenzione della Bosnia-Erzegovina. Si aggiunsero altri insuccessi. Nel 1885 la Bulgaria si annetté la Rumelia orientale, che il trattato di Santo Stefano le aveva assegnato e di cui a Berlino si era costituito un territorio indipendente. La Serbia, lesa nei suoi interessi, le mosse guerra. Ma a Slivnica subì una così grave sconfitta, seguita da una così acuta crisi interna, che il re, travagliato anche da dissidî famigliari, dovette il 22 febbraio 1889 abdicare in favore del figlio Alessandro. Il regno di Alessandro, ultimo degli Obrenović, è il periodo più turbolento della moderna storia serba. Sanguinose gare di partito, colpi di stato, congiure di palazzo, tutti i più antipatici espedienti di governo di cui nei momenti più torbidi si erano valsi sovrani, governi e partiti, divennero sistema. La situazione sboccò nel regicidio. Nella notte dal 10 all'11 giugno 1903 una congiura di ufficiali soppresse il re, la regina, due fratelli della regina e parecchi ministri. Il 15 giugno la Skupština e il Senato, riuniti in unica assemblea, proclamarono re Pietro Karagjorgiević Sotto di lui la politica mutò completamente Sovrano di vedute parlamentari, lasciò libero giuoco ai partiti, assumendo essenzialmente la parte di custode della costituzione. Nel paese si riprodusse a poco a poco l'atmosfera, e ripresero le aspirazioni dei tempi di Michele Obrenović. Si incominciò a guardare con ostilità all'Austria e alla Turchia, detentrici di territorî slavi; si cercò l'appoggio della slava Russia Fissata questa linea, non la si abbandonò più. Nel 1908 quando l'Austria tramutò l'occupazione della Bosnia-Erzegovina in annessione, per poco non si venne alla guerra. Poco dopo, mentre ancora non erano concluse le trattative di pace italo-turche dopo la guerra libica, Bulgaria, Serbia, Montenegro e Grecia, alleatesi, nell'ottobre 1912 dichiaravano guerra alla Turchia (v. balcaniche, guerre) Gli eserciti serbi occuparono Skoplje, Priština, Prilep, Prizren, Peć, Ochrida Vinto però il comune nemico, affiorarono tra gli alleati dissidî e gelosie Poiché l'Austria aveva posto alla Serbia il veto di affacciarsi all'Adriatico, questa chiese compensi a spese degli alleati. Non volle abbandonare la Macedonia bulgara che il trattato di alleanza aveva assegnato alla Bulgaria. Il dissidio si acuì tanto che nel luglio 1913 si venne tra Serbia e Grecia da una parte, e la Bulgaria dall'altra, ad una nuova guerra. La Bulgaria, attaccata anche dalla Turchia e dalla Romania, ebbe la peggio e nel trattato di Bucarest del 10 agosto dovette accettare in pieno le richieste serbe. Dopo di ciò la Serbia, che un'altra volta raddoppiava il suo territorio, diventava la più forte potenza dei Balcani e non dissimulava il proposito di voler redimere anche altre regioni. L'Austria, che tanti Slavi aveva dentro i suoi confini, sentì la minaccia e volle rispondere con dimostrazioni di potenza Il gabinetto viennese deliberò che le grandi manovre militari del 1914 si svolgessero in Bosnia e che vi assistesse il principe ereditario Francesco Ferdinando. Il 28 giugno, mentre il principe percorreva le vie di Sarajevo, un bosniaco, armato dalla propaganda serba, Gavrilo Princip, lo uccideva. L'Austria inviò a Belgrado una nota con una serie di richieste che la Serbia in parte non accettò, considerandole lesive per la sua sovranità. Il 28 luglio fu dichiarata la guerra, che, rapidamente divampando e dilagando, investì quasi tutta l'Europa. Nel 1914 due volte gli eserciti austriaci invasero il territorio serbo tentando di insediarvisi, ma furono respinti, la prima volta nella battaglia del Cer (16-19 agosto) e la seconda in quella della Kolubara (3-15 dicembre). Il disastro venne per i Serbi nell'autunno del 1915 (5 ottobre-28 novembre), quando, attaccati anche dai Bulgari, dovettero sgomberare fin l'ultimo palmo del territorio nazionale e riparare in pietoso e rovinoso disordine attraverso le montagne albanesi, sulle rive del basso Adriatico, dove furono raccolti dalle forze navali alleate, in primo luogo italiane, e trasportati, insieme col governo e molta popolazione civile, nell'isola di Corfù. Qui, riorganizzati e riequipaggiati, i superstiti, circa 140.000 uomini, furono avviati al fronte di Salonicco, dove combatterono a fianco degli Alleati fino alla vittoria dell'Intesa nel 1918. Intanto il governo, d'accordo con gli emigrati serbi, croati e sloveni delle provincie austriache, che sin dal maggio del 1915 avevano costituito a Londra il Comitato Iugoslavo, il 20 luglio 1917 faceva la dichiarazione essere volontà di tutti i Serbi Croati e Sloveni l'unificazione sotto lo scettro dei Karagjorgjević in un'unica monarchia costituzionale, democratica e parlamentare, nella quale i tre popoli e i portati delle loro civiltà (religione, lingua e alfabeto) godessero gli stessi diritti. Ancor prima però, tra la popolazione e i rappresentanti iugoslavi alla camera austriaca, s'era delineata, e nella dichiarazione del 30 maggio 1917 aveva avuto chiara espressione, un'altra corrente che voleva unificati gli Slavi dell'Austria sotto lo scettro degli Asburgo in base al diritto di stato croato. L'esito della guerra realizzò senz'altro le aspirazioni del governo serbo e degli emigrati. Mentre l'Austria si sfasciava, si costituivano, nelle terre slave già appartenutele, i consigli nazionali, che, con opportune garanzie costituzionali, deliberavano l'unificazione con la Serbia. Il 1° dicembre 1918 il principe Alessandro, che fin dal giugno 1914 aveva assunto la reggenza, riceveva i delegati e proclamava il nuovo stato. Alla Bosnia-Erzegovina, alla Slovenia, alla Croazia e Slavonia si aggiungevano il Montenegro, la Dalmazia e, lungo tutti i confini, varie zone di arrotondamento. La Serbia di Milos si decuplicava; con ciò però essa esauriva la sua missione storica. Al suo posto subentrava il ben diverso Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e poi il regno di Iugoslavia (v.).

Fonti: Le fonti documentarie nazionali per il Medioevo (circa 1200 fra lettere e diplomi), già parzialmente edite da Fr. Miklosich, Monumenta Serbica, Vienna 1858; M. Pucić, Spomenici srbski, voll. 2, Belgrado 1858-1862; K. Jireček, Spomenici srpski, in Spomenik, XI, Belgrado 1892 (a cura dell'Accad. di Serbia), sono state ultimamente raccolte in un molto criticato corpus da Lj. Stoianović, Stare srpske povelje i pisma, voll. 2 (un terzo completerà l'opera), nello Zbornik, 1ª sez., XIX e XXIV, della Accademia di Serbia, 1929-1934. Di pari importanza sono le iscrizioni, la più parte parietali monastiche, e le note memoriali, edite dallo stesso Stojanović, Stari srpski zapisi i natpisi, voll. 6, in Zbornik, cit., Belgrado 1902-1926. Il materiale documentario straniero deriva nella maggior parte dagli archivî di Ragusa, Venezia e del Vaticano. Alle raccolte di Ragusa (v. bibl.), aggiungasi: N. Jorga, Notes et extraits pour servir à l'histoire des croisades au XV siècle, voll. 5, Parigi-Bucarest 1899-1915. Dall'archivio di Venezia: J. P. Schafarik, Acta archivi Veneti spectantia ad historiam Serborum, voll. 2, Belgrado 1860-1862, e S. Ljubić, Listine o odnošajih izmedju južnoga Slavenstva i mletačke republike (Documenti sulle relazioni tra gli Slavi meridionali e la Repubblica di Venezia), voll. 10, Zagabria 1868-1891. Dagli archivî vaticani: A. Theiner, Vetera monumenta Slavorum meridionalium historiam illustrantia, voll. 2, Roma-Zagabria 1863-75. Da altri archivî italiani: V. Makušev, Monumenta historica Slavorum meridionalium vicinorumque populorum e tabulariis et bibliothecis Italicis deprompta, voll. 2, Varsavia-Belgrado 1874-1882. Per l'evo moderno sono invece di preminente importanza i materiali archivistici viennesi, di cui varie sillogi sono state in questi ultimi tempi pubblicate dall'Accademia di Serbia nella II sez. del cit. Zbornik. Per l'epoca contemporanea hanno molta importanza le raccolte diplomatiche sulla questione orientale, di cui citeremo soltanto G. Noradounghian, Recueil d'actes internationaux, voll. 4, Parigi 1897-1913, e per gli ultimi due decennî: F. Šišić, Dokumenti o postanku kraljevine Srba, Hrvata i Slovenaca, Zagabria 1920.

Le fonti cronachistiche medioevali serbe sono costituite da vite e genealogie di fattura monastica, riguardanti in massima parte i Nemanja (v.). Delle cronache straniere hanno capitale importanza le bizantine, indi, a grande distanza, vengono le dalmate, le veneziane e le greco-romane.

Bibl.: Opere generali: Mauro Orbini, Il regno degli Slavi, Pesaro 1601, barocco zibaldone pieno di fantasie, ma da indicare perché è la protostoria dei popoli slavi; B. von Kállay, Geschichte der Serben, voll. 2, Budapest 1872; C. Jireček, Geschichte der Serben, voll. 2, Gotha 1911-1918; id., Staat und Gesellschaft im mittelalterlichen Serbien, Vienna 1912-19, opere fondamentali tradotte in serbo con aggiunte da J. Radonić, Istorija Srba, voll. 4, Belgrado 1922-25; id., La civilisations serbe du moyen âge, Parigi 1920; E. Denis, la grande Serbie, Parigi 1915; A. Pernice, Origine ed evoluzione storica delle nazioni balcaniche, Milano 1915; St. Stanojević, Istorija sprskoga naroda (Storia del popolo serbo), 3ª ed., Belgrado 1926; Vl. Čorović, Istorija Jugoslavije, Belgrado 1933. Trattazioni particolari: per il periodo dal sec. XII al 1217, vedi la bibliografia alle voci nemanja; rascia; stefano nemanja; stefano primo coronato. Per il periodo dal 1217 al 1345: St. Stanojević, Kralj Uroš (Il re Uros) estr. da Godišnjica, XLIV, Belgrado 1935; Guglielmo Adam, Directorium ad passagium faciendum, in Recueil des historiens des Croisades, Documents arméniens, II, pp. 112-363; Anonymi Descriptio Europae Orientalis, Cracovia 1916 (Academia Literarum), sul quale v. G. Praga, in Archivio storico per la Dalmazia, XV (1933), pp. 293-302; V. Brunelli, Illustrazione storica a Dante, Div. Comm., Par. XIX, 140-142, in Programma del Ginnasio Superiore di Zara, XLII (1899), pp. 5-22. Per il periodo dal 1345 al 1389, vedi alla voce stefano dušan e T. Florinskij, Južnye Slavjane i Vizantija vo vtoroj četverti XIV. veka (Gli Slavi meridionali e Bisanzio nel secondo quarto del sec. XIV), voll. 2, Pietroburgo 1882; F. Rački, Pokret na slavenskom jugu koncem XIV. i početkom XV. stolječa (I rivolgimenti nella Slavia meridionale e alla fine del sec. XIV e al principio del XV), in Rad, Zagabria, Accad. Iugosl., II (1868), segg.; id., Boj na Kosovu (La battaglia di Kosovo), ibid., XCVII (1889), p. i segg.; I. Ruvarac, O knezu Lazaru (Il principe Lazzaro), Novi Sad 1887. Per il periodo dal 1389 al 1459, v. alla voce stefano lazarević; inoltre: St. Novaković, Srbi i Turci XIV. i XV. veka (I Serbi e i Turchi nel sec. XIV e XV), in Godišnjica, XXXIII, Belgrado 1893; J. Radonić, Zapadna Evropa i balkanski narodi prema Turcima u prvoj polovini XV. veka (L'Europa occidentale e le nazioni balcaniche di fronte ai Turchi nella prima metà del sec. XV), Novi Sad 1905; Č. Mijatović, Despot Gjuragi Branković, voll. 2, Belgrado 1880-82; J. Radonjić, Dorde Branković despot Ilirika (G. B. despota dell'Illiria), Belgrado 1929; St. Novaković, Poslednji Brankovići (Gli ultimi Branković), da Letopis Matice Srpske, CXLVII-CXLVIII, Novi Sad 1888; V. Stefanović, Kralj Matija i srpska despotovina (Mattia Corvino e la despotia serba), da Letopis Matice Srpse, CCCXXX, Novi Sad 1932. Per il periodo dal 1459 al secolo XIX: C. Mijatović, Šta je želio i radio srpski narod u. XVI. veku (Attività e aspirazioni del popolo serbo nel sec. XVI), in Godišnjica, I, Belgrado 1877; J. Tomić, Pećki patrijarah Jovan i pokret hrišcána na Balkanskom Poluostrvu (Il patriarca di Peć Giovanni e il movimento cristiano nella penisola Balcanica), Zemun 1903; A. Ivić, Istoreija Srba u Ugarskoj (Storia dei Serbi nell'Ungheria), Belgrado 1914. Per il sec. XIX: B.S. Cunibert, Essai historique sur les révolutions et l'indépendance de la Serbie depuis 1804, jusqu'à 1850, voll. 2, Lipsia 1855; E. Thiers, La Serbie, son passé et son avenir, 2ª ed., Parigi 1876; L. von Ranke, Serbien und die Türkei im 19. Jahrhundert, Lipsia 1879; F. Cuniberti, La Serbia e la dinastia degli Onbrenović, 1804-93, Torino 1893; P. Coquelle, le royaume de Serbie, Parigi 1894; J. Mallat, La Serbie contemporaine, voll. 2, Parigi 1902; Sl. Jovanović, Ustavobranitelji i nijhova vlada 1837-58 (I difensori della costituzione e il loro governo), Belgrado 1912; Fehmi Sejfuddin Kemura, Prvi srpski ustanak pod Karagjorgjem (La prima insurrezione serba sotto Karagjorgje), Sarajevo 1916; T. Gjorgjević, Iz Sbrjije kneza Miloša 1815-39 (Dalla Serbia del principe Miloš), voll. 2, Belgrado 1922-24; Ž. Žinovavić, Politička istorija Srbije 1858-1903 (Storia politica della Serbia), voll. 4, Belgrado 1923-1925; G. Novak, Italija prema stvaranju Jugoslavije (L'Italia nella formazione della Iugoslavia; riguarda solo il 1875), Zagabria 1925; H. Wendel, Der Kampf der Südslawen um Freiheit und Einheit, Francoforte 1925; Gj. Jakšić, Evropa i vaskrs Srbije, 1804-35 (L'Europa e la risurrezione della Serbia), 4ª ed., Belgrado 1933. Vedi ancora: Č. Marjanović, Istorija srpske crkve (Storia della chiesa serba), voll. 2, Belgrado 1929-30; F. Taranovski, Istorija srpskog prava u Nemanjićkoj državi (St. del dir. serbo nello stato dei Nemanja), voll. 3, Belgrado 1931-34.

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