Scomunicati

Enciclopedia Dantesca (1970)

scomunicati

Raoul Manselli

I termini s. e ‛ scomunica ' non ricorrono in Dante. Per scomunica il poeta adopera l'espressione lor maladizion (Pg III 133), cioè maledizione degli ecclesiastici, ai quali allude in modo non certo positivo l'aggettivo ‛ loro '. Le anime degli s. o, come dice D. stesso, di coloro che muoiono in contumacia... / di Santa Chiesa (vv. 136-137), sono rappresentate nell'Antipurgatorio (v.), sul piano dell'isoletta, mentre procedono lentissimamente (devono attendere fuori del Purgatorio per un tempo trenta volte maggiore di quello che vissero in terra fuori della Chiesa se tal decreto / più corto per buon prieghi non diventa, vv.140-141) esse si riconciliarono con Dio soltanto nello stremo della vita.

La scomunica si è venuta formando sulla linea di sviluppo dell'antico anatema, con il quale venivano colpiti nel cristianesimo antico gli eretici sia isolati, sia in gruppo. Nel sec. XII poi e nel XIII la scomunica si è venuta articolando in due forme: l'" excommunicatio minor ", che era una pena che in vario modo e per varie ragioni sospendeva e allontanava dalla comunità ecclesiastica; l'" excommunicatio maior ", invece, che formalmente in poco o nulla si distingueva, dal punto di vista giuridico, dall'antico anatema ed era una solenne pubblica e dichiarata eliminazione di un individuo o di un gruppo dalla comunità ecclesiastica; esigeva perciò una serie precisa di cerimonie che in vario modo sottolineavano l'importanza e la gravità della decisione che la Chiesa era costretta a prendere.

D. si riferisce alla scomunica soprattutto in relazione a Manfredi (Pg III 124-141), esprimendo una posizione per alcuni rispetti personale, circa la validità della scomunica stessa.

La ragione dell'accenno a questo problema nasce dall'episodio ben noto dell'arcivescovo di Cosenza, Bartolomeo Pignatelli che, secondo la tradizione accolta da D., disseppellì il corpo di Manfredi in quanto s.; forse per colpire, col pretesto della scomunica, un nemico politico del papa.

Ora è proprio questo accanimento che D. condanna per bocca di Manfredi e che lo porta a ricordare, a quanti troppo facilmente nel sec. XIII ricorrevano all'arma della scomunica, l'importanza della misericordia divina. E proprio a questo punto s'introduce il problema della validità della scomunica e della sua efficacia al di là della vita. Il poeta pone il problema in termini di analisi squisitamente fine e precisa dell'interiorità della ribellione a Dio o alla Chiesa, e quindi dell'efficacia giuridica della scomunica. Non nega certo la validità della scomunica in sé e per sé, né il diritto della Chiesa di comminarla, ma non considera la scomunica come una pena che renda nullo o che diminuisca il significato e il valore del pentimento. È questo il punto più delicato, dall'angolo di visuale che qui c'interessa, dell'episodio di Manfredi. Esso serve a D. per ricordare non tanto la differenza tra scomunica giusta e ingiusta alla quale si riferisce qualche commentatore, ma piuttosto l'importanza del pentimento come il dato in base al quale Dio può giustificare o condannare.

Manfredi, infatti, riconosce: Orribil furon li peccati miei (v. 121), ma precisa anche la bontà infinita di Dio. Tra la gravità dei peccati e la bontà infinita di Dio opera appunto il pentimento. È questo che D. vuol insegnarci con l'episodio di Manfredi, mentre nello stesso tempo trae occasione per dirci i limiti dell'azione punitiva alla quale l'autorità ecclesiastica può aspirare. D. non disprezza quest'autorità né disconosce il suo potere giurisdizionale, ma le assegna un limite preciso che è terreno e umano. Al di là c'è Dio.

Riteniamo che questo passo relativo alla scomunica trovi su un altro piano, ma con una precisa identità d'impostazione spirituale e mentale, il suo preciso riscontro nell'atteggiamento che il poeta ha a proposito di Bonifacio VIII. Egli nel terreno e nell'umano riconosce la sua autorità e rispetta la sua persona (come fa nel canto XX del Purgatorio); ma, al di là della vita e nell'eterno, Bonifacio è atteso fra i simoniaci; e il trono di Pietro che indegnamente ricopriva, vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio (Pd XXVII 23-24).

L'atteggiamento di D. verso gli s. trova così la sua perfetta collocazione in quello che è il suo cristianesimo, non mera teologia o complesso di norme giuridiche, ma interiorità ispirata dall'Evangelo e vissuta in adesione alla tradizione più intima di spiritualità e interiorità.

Bibl. - Oltre ai commenti e alle lecturae del canto III del Purgatorio e alla voce Manfredi, si veda: W.M. Plöche, Geschichte des Kirchenrechts, II, Vienna-Monaco [s.a.] 346-354, ov'è possibile trovare un'ulteriore utile bibliografia; ma purtroppo D. non vi è ricordato.