Scienza greco-romana. Aristotele

Storia della Scienza (2001)

Scienza greco-romana. Aristotele

Enrico Berti

Aristotele

Il ritorno al naturalismo presocratico nelle opere perdute

L'originalità di Aristotele rispetto a Platone nel modo di concepire quell'indagine sulla Natura che maggiormente corrisponde a ciò che noi chiamiamo 'scienza', si manifesta già nelle sue prime opere, cioè in quelle da lui scritte durante i vent'anni trascorsi alla scuola di Platone nell'Accademia (367-347). A questo periodo risale sicuramente il Protreptico, uno scritto ‒ purtroppo perduto ‒ di esortazione alla filosofia, che è possibile ricostruire almeno in parte sulla base di un analogo Protreptico composto da Giamblico, filosofo neoplatonico vissuto tra il III e il IV sec. d.C. Quest'ultima opera è una compilazione formata da estratti di dialoghi platonici, riportati quasi alla lettera, e di brani esortativi di opere perdute di Aristotele, che sembra legittimo identificare col Protreptico: si può supporre che tali brani siano stati riportati in modo fedele e sono pertanto considerati 'frammenti' di quest'opera. Dal punto di vista cronologico è certo che il Protreptico di Aristotele fu scritto intorno al 353, perché il carattere polemico di molti argomenti in esso trattati rispetto a quelli contenuti in un discorso di Isocrate, l'Antidosi (Sullo scambio dei beni), che si sa risalire a quell'anno, fa supporre che l'opera di Aristotele fosse una risposta a quella di Isocrate, o viceversa.

Dal Protreptico risulta anzitutto che Aristotele, come peraltro anche Platone, usava quasi indifferentemente il termine philosophía e il termine epistḗmē, indicando per mezzo di essi qualsiasi forma di sapere e attribuendo al primo anche il significato di modo di vita caratterizzato dall'uso del sapere in generale. Nel Protreptico inoltre, come in Platone, era sinonimo di philosophía e di epistḗmē anche il termine phrónēsis, che invece nelle opere più mature avrebbe assunto il significato più circoscritto di saggezza pratica (Ross 1955, fr. 4). Ebbene, sotto il concetto di philosophía, o di epistḗmē, nel Protreptico Aristotele include due tipi di 'scienze' (traduciamo così il termine epistẽmai), cioè quelle "concernenti le cose giuste e convenienti" e quelle "concernenti la Natura e la restante verità" (perì phýseōs kaì tẽs állēs alētheías). Vediamo qui apparire forse per la prima volta la distinzione tra sapere teorico e sapere pratico, che sarebbe poi diventata canonica nelle opere più mature di Aristotele e costituisce già un motivo di originalità rispetto a Platone, ma vediamo soprattutto comparire l'idea di una 'scienza della Natura', collocata al rango di epistḗmē dotata di un oggetto definito come verità, cioè considerata come conoscenza vera (ibidem, fr. 5).

Questo è certamente un tratto originale rispetto a Platone, perché per quest'ultimo la Natura, cioè il mondo del divenire, non può essere oggetto di vera scienza, a causa della sua mutevolezza, ma può essere oggetto tutt'al più di un discorso, o racconto, verosimile (eikṓs lógos, eikṓs mŷthos), cioè soltanto somigliante alla vera scienza, la quale è possibile solamente a proposito dell'immutabile mondo intelligibile, di cui il mondo sensibile è appunto una somiglianza (Timaeus, 28 a-29d). Ma nel momento in cui si stacca da Platone, suo maestro, Aristotele si riallaccia alla tradizione presocratica, la quale aveva inaugurato la filosofia concependola appunto come scienza della Natura, sia pure intesa in senso lato. Perciò si può dire che Aristotele, dopo la crisi provocata dalla sofistica, ristabilisca la possibilità di una scienza della Natura, dando anzi a questa un significato più ristretto e più preciso di quello che essa aveva nei presocratici.

Sempre nel Protreptico, Aristotele concepisce la scienza della Natura come conoscenza delle cause, dei principî o degli elementi da cui derivano o sono costituiti i corpi materiali, indicando esplicitamente tali principî come fuoco, aria, numeri o semplicemente come "alcune altre realtà". Con ciò egli si riallaccia esplicitamente alla tradizione presocratica, pur senza escludere una posizione come quella che considerava principî della Natura i numeri: posizione, questa, che può essere tanto quella dei pitagorici, quanto quella di Platone, il quale, come c'informa lo stesso Aristotele, poneva come principî delle realtà sensibili i numeri ideali (in tal caso le "altre realtà" potrebbero essere le Idee).

Pare che ‒ se ci si può fidare degli estratti di Giamblico ‒ ancora nel Protreptico Aristotele riproponesse la dottrina, presente anche nelle Leggi di Platone, secondo cui tutte le realtà divenienti sono prodotte o dalla Natura (phýsis), o dall'arte (téchnē), cioè dal pensiero umano, o dal caso (týchē). Egli tuttavia la riproponeva con un importante mutamento rispetto a Platone. Mentre infatti in quest'ultimo l'arte, sia pure intesa come arte divina, gode di una posizione di priorità rispetto alla Natura, perché il mondo sensibile è prodotto dal divino demiurgo, e dunque la Natura è opera dell'arte divina, in Aristotele la Natura non è prodotta da nessuna arte, e l'arte umana non è che un'imitazione, o un completamento, della Natura (Ross 1955, fr. 11). Ritroviamo qui un altro motivo di rivalutazione della Natura, che ci riporta alla tradizione presocratica, contro la svalutazione fattane da Platone.

La Natura, sempre nel Protreptico, è concepita da Aristotele come caratterizzata da un ordine finalistico, per cui tutto ciò che fa parte di essa esiste in vista di un fine: per esempio, le palpebre hanno come fine la protezione degli occhi. L'esistenza di un fine è evidente soprattutto nei prodotti dell'arte, ma poiché questa è imitazione della Natura, a maggior ragione si deve ammettere l'esistenza di un fine nella Natura. Soltanto le realtà prodotte dal caso, secondo Aristotele, non hanno un fine. È possibile pertanto distinguere realtà secondo Natura, esistenti in vista di un fine, e realtà contro Natura, prodotte dal caso o da un uso perverso dell'arte (per es., la malattia prodotta da un uso perverso della medicina, o la distruzione prodotta da un uso perverso dell'arte delle costruzioni). Il finalismo è ammesso anche da Platone, ma per Platone esso è il frutto dell'intenzione cosciente del demiurgo, il quale ordina tutte le cose in vista di un loro fine, mentre per Aristotele esso è un ordine immanente alla Natura, in base al quale ciascuna realtà naturale tende al proprio fine, che è il suo bene, cioè la sua perfezione. Ciò vale per tutti gli esseri viventi, piante e animali, e per l'essere perfetto tra questi ultimi, che è l'uomo, il cui fine ‒ secondo Aristotele ‒ è la conoscenza. A conferma di questa tesi egli cita Pitagora e Anassagora, mostrando ancora una volta l'intenzione esplicita di rifarsi alla tradizione presocratica.

Nel Protreptico, inoltre, Aristotele usa, forse per la prima volta, l'espressione "la Natura e il dio ci hanno generati per questo scopo", dando in tal modo l'impressione di dipendere ancora dalla concezione platonica secondo la quale l'uomo e l'intera Natura sono prodotti dal dio. Si tratta, tuttavia, di una semplice espressione metaforica, che non deve essere presa alla lettera. Ne è prova il fatto che in un'altra opera perduta di Aristotele, il dialogo Della filosofia, probabilmente risalente anch'essa al periodo trascorso nell'Accademia prima della morte di Platone, Aristotele prendesse decisamente posizione in favore dell'eternità del mondo contro la dottrina platonica del Timeo. Anche in questo caso dobbiamo basarci sulla testimonianza di un autore posteriore, cioè Filone di Alessandria (I sec. a.C.-I sec. d.C.), il quale nella sua opera Sull'eternità del mondo riporta frammenti di scritti aristotelici che è legittimo identificare col suddetto dialogo; la sua testimonianza è inoltre confermata da Cicerone, che certamente conosceva l'opera in questione.

Dai frammenti del dialogo Della filosofia risulta appunto che Aristotele concepiva il mondo nel suo complesso, cioè il cielo, gli astri e la Terra in esso contenuti, come ingenerato e incorruttibile, cioè eterno e perciò anche divino (Ross 1955, frr. 18-20), benché subordinato a un supremo dio trascendente. Egli tuttavia distingueva l'eternità dei corpi celesti, apparentemente incorruttibili e inalterabili, ancorché eternamente mossi di moto circolare, da quella dei corpi terrestri, individualmente alterabili e corruttibili, perciò eterni soltanto come specie. Per spiegare tale differenza sembra che già nel dialogo Della filosofia, come successivamente nelle opere più mature, Aristotele considerasse i corpi terrestri come costituiti dai quattro elementi della tradizione presocratica, cioè terra, acqua, aria e fuoco, soggetti a mescolarsi e a trasformarsi l'uno nell'altro, e ritenesse invece i corpi celesti, cioè gli astri e il cielo, come costituiti da un quinto elemento, l'etere, inalterabile e incorruttibile (ibidem, frr. 19-21). Poiché anche nei frammenti riportati da Filone si parla di un dio artefice del mondo, si deve supporre o che questa sia una metafora, o che Filone riporti anche interventi di un altro personaggio del dialogo, il quale potrebbe essere lo stesso Platone. È certo infatti che Aristotele interpretasse il demiurgo del Timeo come artefice di un'origine temporale del mondo, incompatibile con l'eternità del mondo da lui stesso professata.

Sempre nel dialogo Della filosofia, come risulta da una celebre testimonianza di Cicerone, Aristotele concepiva il cielo, con gli astri in esso contenuti, come ruotante intorno alla Terra, e faceva dipendere tale movimento circolare dall'azione di un dio supremo, inteso come mente, cioè come puro intelletto, e quindi non materiale, ossia trascendente rispetto al mondo (ibidem, fr. 26). Poiché dal movimento del cielo e degli astri dipendevano in qualche modo tutti i mutamenti che accadono sulla Terra, in particolare l'alternarsi delle stagioni, e quindi il ciclo della nascita e della morte delle piante, degli animali e degli uomini, si può dire che il dio supremo fosse causa dell'ordine complessivo del mondo, cioè causa del finalismo da cui questo era caratterizzato. Ciò tuttavia non significava che il dio supremo fosse il fine di tutto ciò che accade nel Cosmo, perché ‒ come abbiamo già visto a proposito del Protreptico ‒ ogni essere ha per fine la propria perfezione, cioè la realizzazione completa della sua natura.

Sembra che anche nel dialogo Della filosofia (fr. 28) Aristotele si occupasse di questo finalismo, perché egli stesso in un passo della Fisica (194 a 27-36) rinvia al suddetto dialogo come al luogo in cui avrebbe per la prima volta compiuto una distinzione tra due significati del concetto di 'fine' destinata a ritornare spesso in varie sue opere. In base a tale distinzione il fine sarebbe, in un primo senso, ciò in vista di cui si produce un mutamento, cioè il termine ultimo a cui il mutamento tende, che è poi il bene dell'ente che muta, cioè la sua perfezione, la realizzazione completa della sua natura; in un secondo senso sarebbe invece ciò che trae vantaggio da tale mutamento, cioè l'ente stesso che muta (per es., anche l'uomo, il quale per mezzo dell'arte si serve delle realtà naturali quali gli elementi, le piante e gli animali, come se lui stesso ne fosse il fine, mentre il fine di esse nel primo senso è la loro perfezione).

Pur essendo, dunque, lecito parlare di un ritorno di Aristotele al naturalismo presocratico già nelle opere perdute, non c'è dubbio che la concezione della Natura da lui professata, pur ricordando sotto certi aspetti quella di Anassagora, per l'ammissione di un Intelletto trascendente come principio dell'ordine cosmico, se ne distingue nettamente per la chiara impronta finalistica che la caratterizza e che sembra tener conto della critica rivolta ad Anassagora già da Platone (Phaedo, 97 c-98 b). Il finalismo di Aristotele, tuttavia, si distingue da quello di Platone perché non è il risultato di un'azione demiurgica, cioè plasmatrice, ma è quello di un'azione combinata di più principî, cioè l'azione motrice del dio supremo e la tendenza intrinseca degli esseri naturali a realizzare il proprio bene.

La teoria della scienza

Fra le opere di Aristotele a noi pervenute, cioè il Corpus Aristotelicum trasmesso dalla tradizione manoscritta medievale e pubblicato a stampa in età moderna, presentano un notevole interesse per la storia della scienza le opere di logica, intesa in senso lato, e quelle di fisica, intese ugualmente in senso lato. Restano quindi escluse la Metafisica, le Etiche, la Politica, la Retorica e la Poetica, opere famosissime che fanno di Aristotele uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi. È da notare comunque che le opere di logica e soprattutto quelle di fisica, cioè di indagine sulla Natura, occupano un'estensione notevole, costituendo insieme, come numero di pagine, quasi due terzi dell'intero Corpus.

Le opere di logica ‒ che la tradizione ha raggruppato nella raccolta denominata Organon (strumento), intendendo attribuire alla logica una funzione strumentale nei confronti delle scienze vere e proprie ‒ sono sei, cioè Categorie, De interpretatione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Confutazioni sofistiche. Solamente l'ultima parte del De interpretatione e gli Analitici primi contengono quella che oggi è considerata logica, cioè una teoria dell'inferenza valida, intesa come parte della logica dei predicati, e che non è soltanto uno strumento di altre scienze ma costituisce una scienza di per sé stessa. Tuttavia si considerano parti della logica intesa in senso lato anche la semantica, trattata nelle Categorie, la linguistica o filosofia del linguaggio, trattata nella prima parte del De interpretatione, la teoria dei procedimenti scientifici (dimostrazione, divisione e definizione), trattata negli Analitici secondi, e la teoria dell'argomentazione dialettica, trattata nei Topici e nelle Confutazioni sofistiche. Tutte queste trattazioni, sia pure in misura diversa, interessano la storia della scienza ma, per economia di spazio non possiamo esaminare il contenuto di Categorie, De interpretatione e Analitici primi, che si riferisce a scienze molto particolari, mentre dobbiamo dedicare qualche attenzione agli Analitici secondi e ai Topici, che contengono indicazioni metodologiche relative all'indagine della Natura.

Negli Analitici secondi Aristotele propone il suo concetto generale di scienza (epistḗmē), valido sia per quelle che noi chiamiamo scienze della Natura, cioè le scienze fisiche, chimiche e naturali, sia per le cosiddette scienze esatte, cioè le scienze matematiche, ma anche per quella che per lui è la filosofia prima. Il carattere generale della scienza è di non essere semplicemente una conoscenza di fatti o di stati di cose, ma anche una conoscenza di cause, cioè di spiegazioni di fatti. In certi casi la causa in questione è pienamente sufficiente a spiegare il fatto, il quale pertanto, alla luce di essa, risulta prodursi necessariamente, cioè in modo tale per cui le cose "non possono stare diversamente". Ciò accade nel caso delle scienze matematiche, che più di tutte le altre sembrano essere per Aristotele negli Analitici secondi il modello della scienza, mentre può non verificarsi nel caso di altre scienze, dove il nesso tra un fatto e la sua causa non è altrettanto necessario.

Ciò che assicura il nesso tra la causa e l'effetto, nonché il suo carattere di necessità, è quello che Aristotele chiama "sillogismo", ma che forse è più esatto chiamare in generale 'deduzione', cioè inferenza (o argomentazione) valida da premesse più generali a conclusioni meno generali, perché il sillogismo è un tipo particolare di inferenza valida, del quale Aristotele sviluppa una teoria altamente specializzata negli Analitici primi. Quando la deduzione muove da premesse vere, più note della conclusione, logicamente anteriori a questa ed effettivamente cause di essa, allora essa prende il nome di "dimostrazione" e le premesse da cui essa muove prendono il nome di "principî" (Analytica posteriora, I, 2). La scienza, dunque, è per Aristotele essenzialmente un "abito dimostrativo", cioè il possesso di un complesso di nozioni collegate tra loro da vere e proprie dimostrazioni; il modello di questa concezione della scienza doveva essere senza dubbio la geometria nella forma che poi sarebbe stata codificata da Euclide (già esistente al tempo di Aristotele), con le sue premesse (definizioni, assiomi, postulati), le sue dimostrazioni e le sue conclusioni (i teoremi).

Le dimostrazioni, cioè le deduzioni scientifiche, per essere valide devono svilupparsi sempre all'interno di uno stesso genere di oggetti, per esempio i numeri nel caso dell'aritmetica o le grandezze nel caso della geometria, cioè devono muovere da premesse appropriate a tale genere, i cosiddetti "principî propri". Questi per Aristotele sono l'assunzione dell'esistenza dell'oggetto, cioè la risposta affermativa alla domanda "se è", e la definizione della sua essenza, cioè la risposta sufficientemente caratterizzante alla domanda "che cos'è". Per esempio, i principî propri dell'aritmetica sono l'assunzione dell'esistenza dei numeri e le loro definizioni, mentre quelli della geometria sono l'assunzione dell'esistenza delle grandezze e le loro definizioni. Sulla base di tali principî si dimostra l'appartenenza all'oggetto di alcune sue proprietà necessarie (Analytica posteriora, I, 7), per esempio l'appartenenza a ogni triangolo della proprietà di avere la somma degli angoli interni uguale a due angoli retti.

Oltre ai principî propri, tuttavia, le dimostrazioni scientifiche fanno uso anche dei cosiddetti 'principî comuni', o 'assiomi', che sono premesse comuni a più scienze, per esempio l'affermazione che, sottraendo quantità uguali da quantità uguali, si ottengono quantità uguali, affermazione comune a tutte le scienze che si occupano di quantità (le scienze matematiche, ma anche quelle fisiche); oppure premesse comuni a tutte le scienze, quali il cosiddetto 'principio di non contraddizione' (due proposizioni contraddittorie, cioè l'affermazione e la negazione dello stesso predicato di uno stesso soggetto, non possono essere vere contemporaneamente e sotto lo stesso rispetto) e il cosiddetto 'principio del terzo escluso' (tra due proposizioni contraddittorie è necessario che una sia vera e l'altra falsa, cioè non si dà una terza possibilità) (ibidem, I, 11).

È evidente che il modello di questa concezione della scienza è la matematica, comprendente l'aritmetica e la geometria, ma le dimostrazioni sono possibili, secondo Aristotele, anche in altre scienze, per esempio nelle cosiddette matematiche applicate, cioè l'armonica, l'ottica, la meccanica e l'astronomia, e nella stessa fisica, sia terrestre sia celeste. Ciò risulta chiaro da una celebre distinzione introdotta negli Analitici secondi, cioè quella fra dimostrazione del 'perché' e dimostrazione del 'che'. La prima è la dimostrazione esemplare, cioè quella che deduce l'effetto dalla sua causa, per esempio i teoremi concernenti il triangolo dalla definizione di triangolo. Tuttavia, non sempre essa è possibile, perché a volte l'effetto è più noto della causa, per cui, anziché dedurre quello da questa, si deve dedurre questa da quello; in tal caso si ha una dimostrazione del 'che', cioè si dimostra una verità come necessaria, ma non a partire dalla sua causa. L'esempio addotto da Aristotele è quello della dimostrazione della vicinanza dei pianeti alla Terra a partire dal fatto che essi non sfavillano: quest'ultimo, in realtà, non è la causa, ma l'effetto della loro vicinanza alla Terra, ma è più noto di questa, perciò può servire a dimostrarla, mediante una dimostrazione del 'che' (ibidem, I, 13).

A volte, afferma Aristotele, una stessa proposizione può essere oggetto di entrambe le dimostrazioni; per esempio, le proposizioni che sono oggetto delle matematiche applicate sono dimostrate da queste mediante dimostrazioni del 'che', mentre sono dimostrate dalle matematiche 'pure' (aritmetica e geometria) mediante dimostrazioni del 'perché'. Ciò significa che le matematiche applicate sono logicamente subordinate alle matematiche pure, perché riguardano realtà che hanno la loro causa in queste.

La dimostrazione del 'che' presenta qualche somiglianza con un altro tipo di deduzione praticato dai matematici contemporanei ad Aristotele, cioè l''analisi', consistente nel risolvere certi problemi mediante l'assunzione, in via d'ipotesi, di una soluzione che ancora non si conosce e la deduzione da questa delle conseguenze che ne derivano, sino a pervenire a qualche proposizione che già si conosce come vera. Aristotele osserva che tale procedimento è facilmente applicabile nell'ambito delle matematiche, dove le proposizioni sono convertibili, mentre non è altrettanto affidabile in altri campi, dove manca la convertibilità (ibidem, 12). Un caso particolare di analisi, praticata nelle scienze fisiche, sembra essere la dimostrazione basata sulla "necessità ipotetica", la quale consiste nell'assumere l'esistenza di un determinato effetto e nel dedurre da essa le condizioni necessarie per la sua realizzazione (Physica, II, 9; De partibus animalium, I, 1, 639 b 30 - 640 a 8). Un procedimento simile è impiegato anche nel processo della deliberazione (Ethica Nicomachea, III, 3), cioè dell'individuazione dei mezzi necessari a conseguire un determinato fine dell'azione.

Un altro tipo di dimostrazione teorizzato da Aristotele è la dimostrazione 'per impossibile', o 'per assurdo', la quale consiste nel dimostrare una tesi assumendo come premessa la tesi a essa contraddittoria e deducendo da questa conseguenze impossibili, cioè contrastanti con altri principî ammessi come veri. L'impossibilità delle conseguenze rivela infatti, per il principio di non contraddizione, la falsità della premessa da cui discendono e la falsità di essa rivela a sua volta la verità di quella a essa contraddittoria, per il principio del terzo escluso (Analytica posteriora, I, 26).

Va sottolineato, tuttavia, che negli Analitici primi, il trattato dedicato a quel tipo particolare di deduzione che è il sillogismo, Aristotele teorizza anche altri tipi di inferenza, o argomentazione, diversi dalla deduzione, che possono essere ugualmente impiegati da varie scienze, anche se non hanno il valore di una dimostrazione. Particolarmente importante fra questi è l'induzione (epagōgḗ), cioè l'inferenza di una conclusione universale a partire da varie premesse particolari: per esempio, dal fatto che l'uomo, il cavallo e il mulo, essendo animali senza bile, sono longevi, si può indurre la conclusione che tutti gli animali senza bile siano longevi (Analytica priora, II, 23). Le premesse in questione non sono sufficienti a dimostrare la conclusione, ma hanno il vantaggio di essere più note di essa, perciò permettono almeno di indurla, cioè di considerarla come probabile.

Sia della deduzione sia dell'induzione esistono versioni più deboli, che sono rispettivamente l'entimema e l'esempio. L'entimema è una deduzione che procede da premesse probabili (eikóta), cioè valide nella maggior parte dei casi, o "per lo più", oppure da "segni". È chiaro che, se sono probabili le premesse, sarà probabile anche la conclusione. I segni, poi, possono essere necessari, cioè connessi necessariamente a ciò di cui sono segni, nel quale caso costituiscono vere e proprie prove, oppure possono essere non necessari, nel quale caso sono semplici indizi non probanti. Per esempio, il fatto di avere latte, per una donna, è segno necessario che essa ha partorito, quindi la relativa deduzione è una vera e propria prova, mentre il fatto di essere pallida è un segno non necessario, quindi la deduzione che essa ha partorito è soltanto indiziaria (ibidem, II, 27; Rhetorica, I, 2). L'esempio è un'induzione che procede da un singolo caso, come l'argomento che è male far guerra ai confinanti perché per i Tebani fu un male la guerra contro i Focesi, che erano loro confinanti (Analytica priora, II, 24).

La deduzione, inoltre, può servire non solamente per stabilire una tesi, ma anche per distruggerla. Tale è il caso della confutazione (élenchos), che è la "deduzione di una contraddizione", cioè di una conclusione contraddittoria rispetto a qualche altra premessa ammessa come vera; per il principio di non contraddizione, infatti, essa distrugge la tesi da cui la contraddizione è stata dedotta (ibidem, II, 20). Un altro caso di distruzione di una tesi è costituito dall'obiezione (énstasis), o controesempio, cioè dall'addurre un esempio riconosciuto come vero, il quale contrasta con una determinata tesi generale. Un singolo esempio, infatti, non basta per dimostrare la tesi generale in cui rientra, ma è sufficiente per distruggere la tesi generale a cui si oppone (ibidem, II, 26).

Negli Analitici secondi, oltre a teorizzare la dimostrazione, Aristotele teorizza anche un'altra operazione logica di importanza fondamentale, cioè la definizione, la quale funge da principio per le dimostrazioni e, dunque, è indispensabile per la scienza. La definizione è il discorso che esprime l'"essenza" di un oggetto, cioè la risposta alla domanda 'che cos'è'. Essa contiene l'indicazione del genere in cui l'oggetto rientra (per es., nel caso dell'uomo, il genere "animale") e l'indicazione della sua differenza specifica, cioè della proprietà che appartiene a tutti gli esemplari della sua stessa specie e li distingue da tutto ciò che appartiene ad altre specie differenti (per es., sempre nel caso dell'uomo, "bipede", o "bipede implume", per cui una definizione valida di uomo è "animale bipede implume").

Poiché l'essenza, per Aristotele, è la "causa formale" di un ente, ossia ciò che lo fa essere quello che esso è, la definizione migliore che si può dare di un oggetto è quella che indica tale causa. L'esempio che Aristotele offre di tale definizione è tratto, ancora una volta, dalla fisica ed è la definizione del tuono. Questo infatti è da lui definito come "il fragore causato dall'estinzione del fuoco tra le nuvole", cioè mediante una definizione che ne indica, appunto, la causa (Analytica posteriora, II, 10). Un altro esempio è la definizione dell'eclissi come mancanza di luce sulla Luna causata dall'interposizione della Terra (ibidem, I, 31). Poiché tuttavia per Aristotele ci sono quattro tipi di cause, cioè formali, materiali, efficienti e finali, la definizione che serve per sviluppare le dimostrazioni scientifiche può indicare di volta in volta ciascuno di questi quattro tipi, quindi vi possono essere dimostrazioni basate sulla causa formale, o su quella finale, che per Aristotele è equivalente a essa, ma anche dimostrazioni basate sulla causa efficiente o su quella materiale (ibidem, II, 11).

Le definizioni non possono essere ottenute per mezzo delle dimostrazioni, perché ne costituiscono le premesse, ma si possono ottenere attraverso altri procedimenti, quali la divisione di un genere nelle sue specie e la determinazione di ciò che differenzia ciascuna di queste dalle altre (ibidem, II, 13), oppure attraverso l'induzione, cioè l'individuazione di una differenza, propria dell'intera specie, nella percezione di alcuni esemplari di questa (ibidem, II, 19). Altrove, cioè nei Topici, Aristotele afferma però che i principî delle singole scienze, e quindi anche le definizioni, possono essere scoperti per mezzo della dialettica, e in altre opere ancora egli accenna ripetutamente al modo in cui la dialettica è in grado di stabilire i principî.

La dialettica è l'arte di discutere in modo logicamente corretto, attaccando la tesi sostenuta dal proprio interlocutore o difendendo la propria tesi dagli attacchi di questo. L'attacco dialettico contro una tesi si sviluppa, secondo Aristotele, per mezzo della confutazione, cioè del tentativo di dedurre da essa una contraddizione, mentre la difesa consiste nell'evitare di essere confutati. La confutazione si serve di "sillogismi dialettici", cioè di deduzioni che ‒ a differenza dalle dimostrazioni scientifiche ‒ muovono da premesse "endossali" (l'opposto di paradossali), vale a dire da premesse condivise da tutti, o dalla maggior parte, o dagli esperti di una determinata materia, o dalla maggior parte di questi (Topica, I, 1). Le premesse endossali (éndoxa), benché non siano sufficienti a consentire una vera e propria dimostrazione, permettono tuttavia di sviluppare argomentazioni sufficienti a ottenere ragione in una discussione pubblica, perché sono condivise dal proprio interlocutore e dal pubblico che vi assiste in qualità di arbitro. Qualora esse vengano usate all'interno di una comunità scientifica che le condivide, hanno il valore di quelli che oggi sono chiamati 'paradigmi', cioè visioni scientifiche del mondo caratteristiche di una determinata epoca. Di conseguenza, la confutazione di una tesi, sia pure ottenuta a partire da premesse endossali, equivale in genere alla dimostrazione della tesi a essa opposta (Ethica Eudemia, I, 3, 1215 a 5-7); inoltre la difesa di una tesi, attuata mediante la soluzione di tutte le obiezioni a essa rivolte e l'ostensione del suo accordo con la maggior parte degli éndoxa, o almeno di quelli più autorevoli, equivale per Aristotele a una sufficiente dimostrazione di essa (Ethica Nicomachea, VII, 1, 1145 b 1-7). Per questo la dialettica è utile non soltanto per prevalere nelle discussioni pubbliche, ma anche per praticare le singole scienze, perché consente di distinguere il vero dal falso e soprattutto di stabilire i principî di queste, i quali non sono accessibili per via di dimostrazione (Topica, I, 2). In qualche caso Aristotele parla addirittura di "dimostrazione per via di confutazione", per esempio a proposito della difesa del principio di non contraddizione, ottenuta mediante la confutazione della negazione di esso, dando in tal modo l'impressione di equiparare un procedimento dialettico a una vera e propria dimostrazione (Metaphysica, IV, 4).

La ricerca dei principî delle singole scienze, cioè delle definizioni, muove in generale dai cosiddetti "fenomeni" (phainómena), che letteralmente sono "le cose che appaiono". Questi possono essere di due tipi, cioè possono essere le cose che appaiono ai sensi, vale a dire i fatti osservati mediante la percezione sensibile, che sono quindi oggetto dell'esperienza, per esempio i movimenti dei pianeti sono i fenomeni da cui muove l'astronomia (Analytica priora, I, 30; Analytica posteriora, I, 13); oppure possono essere le cose che sembrano vere ad alcuni, cioè i pareri, le opinioni di singoli o di gruppi, per esempio ciò che alcuni pensano di determinati vizi, o virtù, sono i fenomeni da cui muove l'etica (Ethica Nicomachea, VII, 1). Mentre a proposito del primo tipo di fenomeni si tratta di ricercarne le cause, per quanto riguarda il secondo tipo di fenomeni si tratta di stabilire se essi sono veri o falsi. In entrambi i casi si formulano dei problemi, cioè si prospettano risposte tra loro opposte, e poi si deducono le conseguenze di ciascuna di queste, per vedere quali sono compatibili e quali incompatibili con i dati sensibili osservati o con gli éndoxa condivisi.

Aristotele si è servito di molte osservazioni, a volte dirette e accurate, come quelle sull'apparato visivo della talpa o sulla conformazione dei denti degli animali, altre volte invece indirette, cioè riferitegli da altri, e inesatte, come quelle secondo cui i Testacei sarebbero senza occhi, le donne avrebbero meno denti degli uomini, certi insetti si genererebbero spontaneamente, cioè dalla terra. Egli tendeva ad accumulare la maggiore quantità possibile di materiale, senza vagliarlo sempre con cura (anche perché non sempre una verifica sarebbe stata possibile), mettendo insieme dati di osservazione, letture di ricerche fatte in precedenza, relazioni di esperti (pescatori, cacciatori, viaggiatori) e a volte pure e semplici dicerie. Pare che abbia praticato anche personalmente la dissezione, almeno nel caso di alcuni animali (pesci e uccelli) e che abbia compiuto osservazioni ripetute, cioè sistematiche, sullo sviluppo dell'embrione del pulcino, scoprendo l'apparizione precoce del cuore. Non si può escludere che abbia fatto anche qualche esperimento: per esempio, per dimostrare che il galleggiare delle navi sul mare più facilmente che sui fiumi sarebbe dovuto alla presenza di sale nell'acqua marina, egli cita il galleggiare delle uova in un recipiente d'acqua nel quale è stato introdotto del sale.

Un problema molto discusso dagli studiosi contemporanei è se Aristotele, nei suoi trattati scientifici, abbia seguito le indicazioni metodologiche esposte negli Analitici secondi, cioè se abbia eseguito vere e proprie dimostrazioni. Alcuni interpreti hanno infatti ritenuto che i metodi praticati nei trattati scientifici non abbiano nulla a che vedere con la struttura della scienza teorizzata negli Analitici e pertanto hanno considerato quest'ultima come riferibile all'esposizione della scienza già costituita e organizzata in un sistema di conoscenze assiomatico-deduttivo, probabilmente a scopo didattico. Più recentemente è stato invece osservato come i metodi teorizzati negli Analitici siano molti e come nei trattati scientifici Aristotele segua ora l'uno ora l'altro di essi, alternando ricerche di definizioni a vere e proprie dimostrazioni, o procedimenti basati sull'osservazione a discussioni dialettiche (Lloyd 1996).

Del resto, lo stesso Aristotele distingue più volte diversi livelli di dimostratività o di rigore (akríbeia): (1) quello assoluto, proprio delle scienze matematiche, che muovono da ciò che è vero sempre, cioè necessariamente (Metaphysica, II, 3); (2) quello più elastico (malakṓteron), proprio delle scienze fisiche o anche delle scienze pratiche, che muovono da ciò che è vero "per lo più" (ibidem, VI, 1); (3) quello proprio dei discorsi retorici, che muovono da esempi o da testimonianze (Ethica Nicomachea, I, 3). Senza bisogno, perciò, di ammettere un contrasto fra le opere di logica e i trattati scientifici, si può ritenere che questi seguano ora l'uno ora l'altro dei molti metodi teorizzati da Aristotele nelle opere di logica e in vari passi metodologici contenuti in altre opere.

La fisica come scienza della Natura in generale

Le opere di fisica comprese nel Corpus Aristotelicum sono tutte quelle che seguono la logica e precedono la Metafisica, così chiamata dagli editori proprio perché posteriore a esse, cioè ‒ con esclusione degli apocrifi ‒ la Physica, il De caelo, il De generatione et corruptione e i Meteorologica, che riguardano rispettivamente la Natura in generale, i fenomeni celesti, i fenomeni terrestri e quelli atmosferici; il De anima e i Parva naturalia, che riguardano l'anima intesa in generale come principio di vita e le sue funzioni; la Historia animalium, il De partibus animalium, il De motu animalium, il De incessu animalium e il De generatione animalium, che riguardano gli animali, e un gruppo di opere minori di dubbia autenticità, concernenti ugualmente problemi naturali, cioè De coloribus, De audibilibus, Physiognomica, De plantis, Mirabilium auscultationes, Mechanica, Problemata, De lineis insecabilibus, De ventorum situ et nominibus.

Come si vede da questi titoli, per "fisica" Aristotele intendeva lo studio della Natura sia inanimata sia vivente, compreso l'uomo, cioè un'indagine che abbracciava, grosso modo, tutto ciò che in età moderna è divenuto oggetto, oltre che della fisica propriamente detta, anche dell'astronomia, delle scienze della Terra, della chimica, della biologia e della psicologia. Tale studio era da lui concepito non più come discorso soltanto verosimile, quale era per Platone, ma come vera e propria scienza, cioè conoscenza di cause, sia pure dotata di metodi meno rigorosi di quelli della matematica, e come scienza distinta dalla "filosofia prima", poi chiamata 'metafisica', avente per oggetto l'essere in quanto essere e le sue cause prime, comprese quelle soprasensibili. Poiché per quest'ultimo carattere l'indagine di Aristotele si distingue da quella dei presocratici, ai quali non era ancora chiaro il concetto di metafisica, si può dire con ragione, come già è stato fatto, che con Aristotele è nata la fisica come scienza.

A questo punto è forse utile riportare la famosa classificazione delle scienze esposta da Aristotele. Le scienze (epistẽmai) o "filosofie" (philosophíai: per lui ‒ come già detto ‒ i due termini si equivalgono) si dividono in "teoretiche", aventi per fine esclusivamente la conoscenza (theoría), "pratiche", aventi per fine l'azione (prãxis), e "poietiche", aventi per fine la produzione (poíēsis). Le scienze teoretiche a loro volta si dividono in "filosofia prima", avente per oggetto l'essere in quanto essere, cioè la totalità del reale, e le sue cause prime, comprese quelle soprasensibili, cioè immobili; la fisica, o "filosofia seconda", avente per oggetto la Natura, cioè le realtà sensibili e mobili; la matematica, avente per oggetto gli aspetti quantitativi della realtà fisica, cioè numeri e grandezze, che ‒ una volta separati da quella mediante l'astrazione logica ‒ risultano essere immobili e quindi consentono un rigore di trattazione superiore a quello della fisica (Metaphysica, VI, 1). L'ordine così riportato rispecchia la dignità degli oggetti, mentre dal punto di vista della ricerca e dell'apprendimento, rispecchiato anche dall'ordine delle opere, prima viene la fisica e ultima la filosofia prima o metafisica.

Un ulteriore chiarimento della differenza tra fisica e matematica è dato da Aristotele nel modo seguente: un oggetto fisico, per esempio un naso, può avere tra le sue proprietà quella caratteristica curvatura all'insù che lo fa essere camuso. Ebbene, la nozione di 'camuso' è oggetto della fisica, perché è inseparabile dalla materia, nella fattispecie dal naso, mentre la nozione di 'curvo' è oggetto della matematica, in particolare della geometria, perché può essere studiata anche indipendentemente dalla sua appartenenza alla materia, cioè al naso. Esistono poi scienze che sono, per così dire, intermedie tra la fisica e la matematica, cioè le matematiche applicate, quali l'ottica, l'armonica, la meccanica e l'astronomia, di cui si è già parlato. Esse studiano gli aspetti quantitativi dei corpi fisici, per esempio la forma sferica della Terra, i quali sono oggetto anche della matematica, ma senza prescindere dal loro riferimento alla materia, cioè appunto ai corpi in questione (Physica, II, 2).

La Natura (phýsis) è per Aristotele l'insieme degli enti "naturali", definiti come aventi in sé il principio del moto e della quiete (II, 1). Questa definizione mostra che si tratta di enti mobili, cioè capaci di muoversi e di arrestarsi, ma tali da farlo per virtù propria, cioè da sé, a differenza dagli enti artificiali, che invece sono prodotti dall'uomo e quindi non hanno in sé il principio del moto e della quiete. Quali esempi di enti naturali Aristotele cita i corpi formati dai quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco), le piante e gli animali. Caratteristica generale della Natura è dunque il movimento (kínēsis), anzi, il mutamento (metabolḗ) in tutte le sue forme, ma un mutamento, per così dire, intrinseco, che appartiene agli enti naturali di per sé stessi e non ha la sua origine nell'azione dell'uomo. Di questo mutamento Aristotele indica anzitutto gli elementi indispensabili, cioè il "sostrato" (hypokeímenon), o "materia" (hýlē), che è ciò che muta, ossia che passa da uno stato a un altro, la "forma" (eĩdos o morphḗ), che è l'aspetto o la struttura assunta dal sostrato al termine del mutamento, e la "privazione" (stérēsis), la quale cosa è la mancanza di una determinata forma, ossia la condizione in cui si trova il sostrato prima di assumerla (II, 1).

La fisica deve ricercare, a proposito degli enti naturali, le loro cause, che possono essere ‒ come si è detto ‒ di quattro tipi: (1) la causa materiale, o materia di cui una cosa è composta, che coincide col sostrato del mutamento; (2) la causa formale, o forma, che è la struttura di una cosa, l'ordine in cui sono disposti i suoi costituenti, analoga alla 'formula' delle sostanze indicata dalla chimica moderna; (3) la causa motrice o efficiente, che è l'agente del mutamento, ciò che lo produce; (4) la causa finale, o fine, che è ciò a cui il mutamento approda e che spesso coincide con la forma (II, 3). Si tratta non di quattro cose, o tipi di cose, a sé stanti, bensì di quattro aspetti, o tipi di aspetti, della realtà naturale, che servono a spiegarla completamente. Aristotele infatti insiste ripetutamente sulla necessità che la fisica ricerchi tutti e quattro i tipi di cause, pur ammettendo che quelle formali e finali siano le più importanti. La causa finale è semplicemente il termine a cui tende il mutamento, cioè i cosiddetti "luoghi naturali" per i corpi inerti e il compimento della crescita, cioè l'età adulta, per i corpi viventi, che in genere si esprime nella capacità di riprodursi.

Al concetto di causa finale sono connessi, per Aristotele, i concetti di "caso" (autómaton) e di "fortuna" (týchē), che pure sono all'origine di molti eventi. Il caso infatti è la deviazione di un processo dall'approdo al suo fine naturale, dovuta all'intervento di un accidente, cioè di un aspetto concomitante, ma non essenziale, di una delle sue cause, e la fortuna è un fatto analogo che si verifica nel campo delle azioni umane (II, 4-6). Allo stesso concetto è associato quello di 'necessità ipotetica', cioè la necessità di certi antecedenti in vista dell'effetto che ne consegue, che è anche il loro fine naturale, per esempio la necessità di determinate condizioni (nutrimento, clima, farmaci) in vista della salute, o di determinati eventi (fecondazione, gestazione, sviluppo) in vista della riproduzione (II, 9).

Particolarmente interessante è la definizione generale del movimento, inteso come qualsiasi forma di mutamento, cioè quella di "atto di ciò che è in potenza in quanto è in potenza" (III, 1). La potenza (dýnamis) è la possibilità reale e determinata di assumere una forma diversa da quella che già si possiede. Poiché questa assunzione avviene attraverso il mutamento, questo è l'atto (enérgeia), cioè la manifestazione reale, l'espressione concreta, di tale capacità. Solamente ciò che è in potenza, dunque, può mutare, e tutto ciò che muta contiene inevitabilmente della potenza, ma ciò che si attua nel mutamento non è un aspetto qualsiasi di ciò che muta, bensì quell'aspetto rispetto al quale esso è in potenza ("in quanto in potenza"). Da ciò si può vedere chiaramente come per Aristotele il movimento non sia uno stato, quale è la quiete e quale sarà il moto inerziale ‒ cioè rettilineo e uniforme ‒ per la meccanica moderna, ma sia un mutamento di stato, cioè un passaggio da uno stato a un altro.

Nella Fisica, che è l'opera dedicata allo studio della Natura e quindi del mutamento in generale, sono illustrate le caratteristiche e le condizioni di quest'ultimo. La prima di tali caratteristiche è il concetto di "infinito" (ápeiron). Questo non è, per Aristotele, un corpo esistente in atto, come era per i presocratici (Anassimandro e, forse, i pitagorici), né un principio della realtà ugualmente in atto, come era per Platone la cosiddetta "diade" indefinita, ma è un processo, cioè una realtà sempre in potenza. Per comprendere meglio i concetti di 'finito' e 'infinito' propri di Aristotele sarebbe meglio, forse, renderli con i termini 'compiuto' e 'incompiuto'. L'infinito, infatti, è alcunché di incompiuto, quale il processo di divisione di cui è suscettibile una grandezza (per es., una linea), che per Aristotele è divisibile all'infinito, o il processo di addizione di cui è suscettibile la serie dei numeri, che per lui è aumentabile all'infinito (III, 4-8).

Aristotele dunque non nega, come spesso si dice, l'esistenza dell'infinito o l'utilità di questo concetto, ma nega che l'Universo sia infinito e che l'infinito sia uno dei principî da cui derivano tutte le cose. Egli ammette, invece, il carattere infinito di certe operazioni, per esempio la divisione e l'addizione, e in qualche modo anche il carattere infinito di certe realtà, quali il movimento e il tempo, che, come vedremo, sono per lui eterni, cioè senza inizio e senza fine. Quando Aristotele dice che l'Universo non può essere infinito, è perché lo concepisce come una grandezza sensibile, la quale, per quanto grande possa essere, deve essere sempre una grandezza finita.

Strettamente connessa alla concezione dell'infinito è la concezione aristotelica del "luogo" (tópos). Aristotele infatti non analizza lo 'spazio', come aveva fatto Platone, perché non ammette uno spazio infinito, ma analizza il luogo, cioè la porzione di spazio contenuta entro un limite, e lo definisce come "il limite interno del corpo contenente" (IV, 4). La totalità dello spazio esistente ha come suo luogo l'Universo stesso, il cui limite è concepito da Aristotele come una sfera estrema, il primo cielo, comprendente in sé ogni altra cosa. Al di fuori di questo non ci può essere né luogo né spazio, quindi l'Universo stesso non è in un luogo. L'interesse di questa dottrina è che essa concepisce lo spazio, cioè il luogo, non come una realtà assoluta, quale sarà per Newton, bensì come qualcosa di relativo ai corpi, cioè considera quello di spazio un concetto relazionale. Da questo concetto di luogo deriva la famosa dottrina aristotelica dei "luoghi naturali", secondo la quale i corpi fatti di acqua e di terra tendono naturalmente verso il basso, e quelli fatti di aria e di fuoco tendono naturalmente verso l'alto, dove il basso è costituito dal centro dell'Universo, cioè dal centro della Terra ‒ che per Aristotele, come per tutti i cosmologi antichi, con la sola eccezione dei pitagorici, sta appunto al centro dell'Universo ‒ e l'alto è costituito dalla zona vicina alla sfera estrema, cioè dal cielo (IV, 1). Per spiegare tale tendenza Aristotele è costretto ad attribuire ai corpi di terra e di acqua la proprietà della pesantezza, cioè il peso, e a quelli fatti di aria e di fuoco la proprietà della leggerezza.

Sempre dal concetto di luogo deriva, poi, la dottrina aristotelica dell'inesistenza del vuoto, la quale non significa l'impossibilità di realizzare artificialmente il vuoto all'interno di un recipiente, ma l'irreperibilità del vuoto in Natura, perché l'Universo è pieno di materia, distribuita in vari elementi, e lo spostamento dei corpi in esso non richiede affatto l'esistenza del vuoto, come pretendeva Democrito, ma avviene allo stesso modo in cui, per esempio, i corpi solidi si spostano all'interno dei liquidi (IV, 7). Una prova dell'inesistenza del vuoto è costituita dal fatto che i corpi in movimento i quali non siano costantemente mossi da qualche causa a un certo punto si arrestano, il che dimostra l'esistenza di un mezzo materiale ‒ qual è tipicamente l'aria ‒ all'interno del quale essi si muovono e col quale fanno attrito: se si muovessero nel vuoto, osserva Aristotele, essi non si fermerebbero mai (IV, 8).

Quest'ultima osservazione rivela che l'Universo a cui Aristotele si riferisce è sempre quello percepito dai sensi e che la sua meccanica è più in armonia di quella moderna con la nostra effettiva esperienza percettiva. L'ipotesi che i corpi si muovano nel vuoto è per Aristotele del tutto irreale; ciò non toglie che egli abbia intravisto come in tale ipotesi, cioè se non esistesse alcun attrito, i corpi in moto non si fermerebbero mai, il che è in qualche modo un'anticipazione del moderno principio di inerzia. Lo stesso vale per la sua affermazione secondo cui la velocità di caduta dei gravi è proporzionale al loro peso, vivacemente contestata da Galilei nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi. Essa infatti si riferisce al mondo dell'esperienza, in cui il vuoto non esiste, come è provato dall'osservazione a essa collegata da Aristotele, secondo la quale, "se si ammettesse il vuoto, tutti i corpi avrebbero la stessa velocità" (IV, 8, 216 a 11-21). Anche in questo caso egli sembra ipotizzare qualcosa di simile al principio di inerzia. "Ma ‒ aggiunge subito Aristotele ‒ ciò è impossibile".

L'ignoranza di tale principio gli rende difficile spiegare il movimento dei proietti, che diverrà oggetto della celebre teoria dell'impetus prima nel commentatore tardoantico Giovanni Filopono (m. 576 ca.) e poi nel fisico medievale Giovanni Buridano (XIV sec.). Secondo Aristotele, infatti, un proietto continua a muoversi anche dopo essersi separato dalla sua causa motrice perché continua a essere mosso dall'aria, che, spinta a sua volta dalla causa motrice, lo spinge di moto più veloce di quello che esso possiede verso il suo luogo naturale. Ciò rivela come Aristotele non concepisca la causazione del moto se non per contatto diretto tra il motore e il mosso, e quindi non riesca a spiegare la causazione del moto a distanza.

Un altro importante concetto connesso a quello di movimento, che Aristotele analizza nella Fisica, è quello di tempo. A questo proposito egli precisa l'analisi già iniziata da Platone, secondo cui il tempo coincide col movimento del cielo, osservando che il tempo, pur essendo connesso col mutamento ‒ il quale ultimo, infatti, non è percepibile senza di esso ‒ non coincide tuttavia con questo, perché nello stesso tempo possono verificarsi movimenti diversi. Il tempo è un aspetto del movimento, precisamente è "il numero del movimento secondo il prima e il poi", cioè la misura di esso secondo una successione (IV, 11). In tal modo anche il concetto di tempo, come quello di luogo, risulta essere un concetto relazionale; il tempo, infatti, da un lato è relativo al movimento, di cui è misura, e dall'altro è relativo all'anima, cioè al soggetto misurante, senza il quale non ci sarebbe alcuna misura (IV, 14).

Sono del tutto fuori luogo, quindi, le critiche mosse alla concezione aristotelica del tempo, secondo le quali il tempo di Aristotele sarebbe un tempo spazializzato. È vero che Aristotele si serve, nell'analisi del tempo, del concetto geometrico di punto per chiarire il concetto di 'istante', ovvero di 'adesso' (nŷn), che è il limite tra passato e presente e consente dunque di percepire il passaggio dal prima al poi, pur non trovandosi in nessun tempo e non essendo esso stesso tempo (IV, 12). Ma è anche vero che Aristotele riconosce la differenza tra il tempo e lo spazio affermando l'irreversibilità del tempo, anzi descrive quest'ultima in termini quasi esistenziali quando afferma che il tempo logora ogni cosa, cioè la fa invecchiare, e in un certo senso pone le cose fuori di sé stesse, cioè è "estatico" (IV, 13).

Importante è anche l'analisi delle diverse forme di 'mutamento', la quale dimostra ancora una volta la complessità di questo concetto e la sua differenza dal 'movimento' a cui si riferisce la meccanica moderna. Il mutamento, infatti, secondo Aristotele ha luogo in quattro diverse categorie dell'essere, il luogo, la qualità, la quantità e la sostanza. Il mutamento nel luogo è il movimento locale, o traslazione, e può essere rettilineo o circolare; quello nella qualità è l'alterazione; quello nella quantità è l'aumento e la diminuzione; quello nella sostanza è la generazione e la corruzione. Mentre le prime tre forme di mutamento presuppongono un sostrato permanente e avvengono sempre fra contrari, cioè fra termini opposti all'interno dello stesso genere (luoghi, qualità o quantità), la generazione e la corruzione si verificano fra contraddittori, cioè fra termini di cui l'uno è la negazione totale dell'altro, e sono rispettivamente il passaggio "da un nonsostrato a un sostrato" e il passaggio da un sostrato a un nonsostrato (V, 1-2).

Alla luce di questa dottrina è evidente l'incommensurabilità tra la fisica aristotelica e la meccanica galileiana, a causa del concetto aristotelico di mutamento-movimento, che ha un'estensione capace di abbracciare così la caduta di una pietra come il processo per cui un bambino diventa adulto, e del fatto che per Aristotele il movimento vero e proprio è più un mutamento di stato che uno stato (Kuhn 1985, p. X). Per la stessa ragione si comprende come la fisica di Aristotele sia interessata non soltanto all'aspetto quantitivo dei fenomeni, ma anche ai loro aspetti qualitativi, e come pertanto l'applicabilità a essa della matematica, che pure in qualche misura è presente anche in Aristotele, sia alquanto limitata.

Un altro importante aspetto del movimento analizzato nella Fisica, è il concetto di 'continuo' (synechḗs): mentre i movimenti possono essere continui, quando lo stesso movimento non si interrompe, oppure consecutivi, quando movimenti diversi si susseguono senza intervallo, il tempo è sempre e soltanto continuo, così come è continua l'estensione geometrica, cioè lo spazio, a differenza della serie numerica, che è invece discreta (Physica, V, 3). Questa dottrina consente di confutare i famosi argomenti di Zenone di Elea contro l'esistenza del movimento: Aristotele rileva infatti che tali argomenti non tengono conto del carattere continuo del tempo e dello spazio, i quali non sono divisibili rispettivamente in istanti fatti di quiete o in punti dotati di estensione, perciò tali argomenti non sono concludenti (VI, 9).

Infine, negli ultimi due libri della Fisica, Aristotele sostiene la dottrina dell'eternità del movimento e quella della sua eteronomia, cioè della sua dipendenza da una causa diversa da ciò che è mosso. L'eternità del movimento risulta, da un lato, dal fatto che un eventuale inizio di esso sarebbe a sua volta una forma di movimento (inteso sempre come mutamento di stato) e un'eventuale cessazione di esso sarebbe anch'essa una forma di movimento, per cui il movimento si riproporrebbe comunque, e dall'altro lato essa risulta dall'eternità del tempo, da cui il movimento è misurato. Anche un eventuale inizio del tempo presupporrebbe, infatti, un 'prima' di esso, e quindi ancora un tempo, e un'eventuale cessazione di esso presupporrebbe un 'dopo' di essa, e quindi ugualmente un tempo (VIII, 1-3). Malgrado questi argomenti, che valgono per una serie ininterrotta di movimenti consecutivi, e quindi diversi, Aristotele identifica poi il movimento eterno con la rotazione del cielo su sé stesso, perché confonde il concetto di eterno con quello di continuo e constata che l'unico movimento continuo è quello circolare (VIII, 6-9). L'eteronomia del movimento, espressa dalla celebre affermazione che "tutto ciò che si muove è mosso da altro", chiamata poi 'principio di causalità', è dimostrata mediante l'osservazione che ciò che è mosso non può essere mosso da sé stesso, perché in tal caso sarebbe nello stesso tempo movente e insieme mosso, cioè in atto e in potenza rispetto allo stesso movimento, il che sarebbe contraddittorio (VIII, 4). Anche questa dottrina, apparentemente in contrasto col principio di inerzia, secondo il quale un movimento in atto in un mezzo che non offre resistenza apprezzabile non richiede nessuna causa per conservarsi, si fonda sul concetto di movimento come mutamento di stato, il quale mutamento anche secondo la fisica moderna richiede sempre una causa.

Dall'eteronomia del movimento ‒ mediante l'osservazione che non si può procedere all'infinito nella catena dei motori mossi, perché nessuno di questi è sufficiente a spiegare l'esistenza del movimento, e una somma, anche infinita, di spiegazioni insufficienti non può dar luogo a una spiegazione sufficiente ‒ Aristotele argomenta la necessità di un 'primo motore immobile' del cielo, privo di grandezza e dotato di potenza infinita (VIII, 10), il quale poi, nella Metafisica, sarà concepito come pura attività di pensiero, quindi come vita, e perciò come un dio. Questa dottrina, nella Fisica, serve soprattutto a confutare la teoria platonica secondo la quale il cielo sarebbe mosso da un'anima a esso immanente e semovente; essa tuttavia, in quanto esula dall'ambito della realtà sensibile, è ritenuta dallo stesso Aristotele di competenza non della fisica ma della filosofia prima, cioè della metafisica.

Cosmologia, meteorologia e studio dei corpi terrestri

Oltre a trattare del movimento in generale, delle sue caratteristiche e delle sue cause, Aristotele ha anche descritto l'Universo in cui viviamo ‒ sia nel suo complesso sia nelle parti in cui lo riteneva diviso ‒ elaborando in tal modo quella che modernamente potremmo chiamare una cosmologia e anche altre scienze più particolari, simili alla meteorologia e allo studio dei corpi terrestri (geologia, geofisica, mineralogia, chimica), che attualmente si chiamano 'scienze della Terra'. All'Universo nel suo complesso è dedicato il De caelo, o trattato sul cielo (ouranós), perché con questo termine Aristotele indica sia la sfera estrema che contiene l'Universo, sia la parte di questo a essa più vicina (cioè estendentesi dalle stelle alla Luna), sia l'Universo stesso. In tale trattato egli afferma anzitutto che l'Universo è un corpo perfetto, un solido a tre dimensioni, di forma sferica e quindi finito, nel senso ‒ come si è visto ‒ di compiuto (De caelo, I, 1; I, 5).

Il cielo propriamente detto, cioè la regione dell'Universo compresa tra la sfera estrema e la Luna, è costituito da un elemento diverso dai quattro tradizionali che formano i corpi terrestri (terra, acqua, aria e fuoco), il quale è ingenerato e incorruttibile, non suscettibile di aumento e diminuzione, inalterabile, dotato per sua natura di moto circolare continuo ed eterno: l'"etere" (aithḗr, termine che indica 'ciò che sempre (aeí) corre (theĩ)' (I, 3). Con questa dottrina Aristotele inaugura una distinzione destinata a durare per quasi venti secoli, quella fra cielo e Terra, concepiti come due mondi completamente diversi, costituiti di materie diverse, dotati di movimenti diversi e soggetti a leggi assolutamente diverse: di tipo matematico, cioè regolare, necessario, quelle che regolano i fenomeni celesti, e di tipo fisico, ossia più flessibile, valido solamente "per lo più", quelle che regolano i fenomeni terrestri. All'interno del cielo si trovano infatti i corpi formati dagli altri quattro elementi, distribuiti nell'ordine seguente: intorno al centro dell'Universo c'è anzitutto la Terra, al disopra della Terra l'acqua, al di sopra dell'acqua l'aria e al di sopra dell'aria il fuoco, o un'aria particolarmente infiammabile e suscettibile di trasformarsi in fuoco (I, 8). Al di fuori del cielo, invece, non c'è né luogo, né vuoto, né tempo, ma certi enti da cui dipendono l'essere e la vita di tutti gli altri, cioè il motore immobile, o ‒ come vedremo ‒ i motori immobili (I, 9). L'Universo nel suo complesso, secondo Aristotele non è né generato né corruttibile, quindi eterno, non soltanto nel senso che è eterna la materia (i cinque elementi) di cui esso è costituito, ma anche nel senso che è eterno l'ordine in cui tale materia è disposta, cioè quell'ordine che in greco è significato in particolare dal termine 'Cosmo' (kósmos) (I, 10-12).

Il cielo propriamente detto è animato, vale a dire dotato di anima, quindi vivente (II, 1), anche se il suo movimento proviene presumibilmente da un ente che non ha bisogno di compiere alcuna azione, perché è già fine a sé stesso, e dunque è immobile (II, 12). Come ogni vivente, il cielo possiede un lato destro e uno sinistro, un alto e un basso, un davanti e un dietro (II, 2); esso è di forma sferica, ruota su sé stesso di moto regolare e continuo, e contiene al suo centro la Terra, sferica anch'essa, ma immobile (II, 3-6).

Questo modello cosmologico, che è stato chiamato da Kuhn l'"Universo a due sfere", non è stato inventato da Aristotele, ma era comune a tutti i cosmologi precedenti (con la sola eccezione dei pitagorici) e aveva trovato la sua descrizione più completa nel Timeo di Platone; non è giusto, pertanto, considerarlo il modello aristotelico dell'Universo. Nella regione celeste si trovano, secondo Aristotele, anzitutto le stelle che in seguito furono dette "fisse", perché apparentemente dotate di un unico moto, come se fossero tutte infisse in una stessa sfera, e poi i pianeti (tra i quali Aristotele annoverava anche il Sole), cioè gli astri dotati di moto apparentemente irregolare e perciò detti "erranti" (tale è il significato del greco planẽtai). Anche gli astri sono fatti di etere e si muovono di moto circolare, perché sono tutti infissi in qualche sfera: le stelle fisse sono tutte nella sfera estrema e ciascuno dei pianeti è infisso in una sfera interna e concentrica rispetto a quella delle stelle (II, 7-8).

Il Sole è fatto anch'esso di etere, ma col suo movimento infiamma l'aria che gli sta sotto, producendo in tal modo luce e calore. Anche gli astri sono dotati di anima, quindi sono esseri viventi: essi coincidono con gli dèi della mitologia greca (Metaphysica, XII, 8). Gli astri sono disposti secondo un ordine di perfezione: mentre la sfera delle stelle fisse, che è la più alta e quindi la più perfetta, realizza il suo fine, che è lo stesso moto circolare, con un solo movimento, gli altri astri lo realizzano per mezzo di più movimenti (De caelo, II, 12). Anzi, Aristotele fa propria la teoria elaborata qualche anno prima dall'astronomo Eudosso di Cnido per ricondurre a regolarità i moti apparentemente irregolari dei pianeti, secondo la quale il moto di ciascun pianeta sarebbe la risultante della combinazione di più moti circolari, come se il pianeta fosse trasportato da un gruppo di sfere solidali tra loro perché aventi ciascuna i poli infissi nella superficie di quella superiore, ma ruotanti ciascuna su un asse inclinato diversamente. Eudosso aveva calcolato che, per spiegare i moti dei sette pianeti (Saturno, Giove, Marte, Venere, Mercurio, Sole e Luna), fossero necessarie 26 sfere; il suo allievo Callippo, anch'egli astronomo, aveva portato tale numero a 33; Aristotele, concependo tali sfere come materiali, cioè composte di etere, ritiene necessario inserire tra l'una e l'altra delle sfere "retrograde", allo scopo di eliminare l'effetto di trazione derivante dal contatto, portandone quindi il numero complessivo a 55, che con la sfera delle stelle fisse diventa 56. In ciò egli non fa che basarsi sui risultati più aggiornati della scienza del suo tempo. Nella Metafisica, dove dimostra che ogni movimento eterno, come quello del cielo, richiede un motore che sia sempre in atto, cioè sia puro atto, e quindi sia immobile, Aristotele è in tal modo costretto ad ammettere ben 56 motori immobili, anche se tra essi ve n'è uno che è primo e unico nella sua specie, cioè il motore della sfera estrema, che pertanto è chiamato il "primo motore immobile" (Metaphysica, XII, 6-8). Poiché la sfera estrema coinvolge nel suo movimento tutte le altre, aggiungendo quindi il movimento da essa impresso loro a quello che ciascuna di esse già possiede in virtù del suo proprio motore, il primo motore immobile è, indirettamente e in concorso, lui solo, con tutti gli altri, causa di tutto ciò che avviene nell'Universo e perciò è paragonato a un generale che comanda l'intero esercito o a un padrone che governa l'intera casa (ibidem, 10).

Nel De caelo Aristotele dimostra la sfericità della Terra anche con argomenti scientificamente validi, quali il profilo di essa che si produce nelle eclissi lunari, e rimanda per la stima della grandezza al valore fornito dai matematici che è pari a 400.000 stadi (De caelo, II, 13-14); un secolo più tardi Eratostene avrebbe dimostrato che essa è di circa 252.000 stadi (39.690 km ca.). Nella seconda parte di quest'opera si dedica allo studio della regione terrestre, affermando che essa è abitata da corpi costituiti dai quattro elementi tradizionali, ciascuno dei quali è soggetto per via naturale alle altre forme di movimento, cioè generazione e corruzione, aumento e diminuzione, alterazione e traslazione rettilinea verso l'alto e verso il basso. Questi sono i moti naturali, prodotti dal peso e dalla leggerezza, a cui si aggiungono i moti violenti, prodotti da un agente esterno, per esempio dall'uomo. La regione terrestre è dunque caratterizzata soprattutto dal fenomeno della generazione e della corruzione. A questo fenomeno Aristotele dedica un intero trattato, immediatamente successivo al De caelo, cioè il De generatione et corruptione, nel quale mostra che persino i quattro elementi terrestri si generano e si corrompono, cioè si trasformano l'uno nell'altro. Per poter fare questo, essi devono avere un sostrato comune, cioè quella che poi sarà chiamata la "materia prima", di cui Aristotele ammette l'esistenza precisando però che essa non si trova mai separata, cioè da sola, ma sempre e soltanto nell'uno o nell'altro degli elementi (De generatione et corruptione, II, 1). Ciascuno dei quattro elementi terrestri è caratterizzato da alcune qualità, le quali si dispongono tra loro in coppie di opposti e sono anch'esse quattro: caldo e freddo, secco e umido. Pertanto la terra è caratterizzata dal freddo e dal secco, l'acqua dal freddo e dall'umido, l'aria dall'umido e dal caldo, il fuoco dal secco e dal caldo (ibidem, 2-3).

Le trasformazioni reciproche tra gli elementi avvengono quando, per esempio, il fuoco si umidifica e diventa aria, l'aria si raffredda e diventa acqua, l'acqua si secca e diventa terra, la terra a sua volta si riscalda e diventa fuoco. Si produce in tal modo un ciclo continuo di trasformazioni, causato dai moti celesti, in particolare dal moto del Sole (il quale, ruotando intorno alla Terra secondo un piano inclinato rispetto all'asse terrestre, il cosiddetto "cerchio obliquo", si avvicina e si allontana rispetto alle sue diverse zone, producendo in tal modo le varie trasformazioni) e dal moto della sfera estrema, che con la sua uniformità assicura continuità al ciclo.

Questo ciclo pertanto è interpretato da Aristotele come imitazione, da parte degli elementi terrestri, del moto circolare del cielo (ibidem, II, 10). Un fenomeno analogo si verifica a livello dei corpi terrestri, cioè gli animali e le piante, formati dalla mescolanza tra i vari elementi. Anche questi si generano per l'azione del Sole che si avvicina, producendo luce e calore, e si corrompono per l'azione del Sole che s'allontana; anche il succedersi delle loro generazioni e corruzioni, per l'azione della sfera estrema, dà luogo a un ciclo continuo. Se nel caso degli elementi la continuità è assicurata dal persistere del medesimo sostrato, nel caso degli esseri viventi essa è assicurata dalla loro riproduzione, la quale è pertanto interpretata anch'essa come un'imitazione del moto circolare del cielo e come un tentativo, da parte degli esseri corruttibili, di partecipare all'eternità, e quindi alla divinità, di quelli incorruttibili (De anima, II, 4).

Un particolare interesse, dal punto di vista scientifico, presenta il trattato intitolato Meteorologica (letteralmente 'Sulle cose che stanno in alto'), dedicato a una serie di fenomeni naturali che hanno luogo nella regione compresa fra la Terra e il cielo, quella che noi chiamiamo atmosfera, nonché a vari fenomeni terrestri, dei quali si forniscono varie spiegazioni, a volte ingenue e a volte alquanto sofisticate. La zona compresa fra la Terra e il cielo è occupata, secondo Aristotele, dall'aria, di cui la parte più alta, a contatto col cielo, è calda e secca, perciò facilmente infiammabile, e quella più vicina al suolo è calda e umida. Nell'aria si producono anche due forme di esalazione, quella dell'acqua, che è umida ed esala vapore, e quella della terra del suolo, che è invece secca ed esala il fumo (Meteorologica, I, 3). Dell'esalazione terrestre nella parte di aria più alta Aristotele si serve per spiegare il fenomeno delle stelle cadenti, che sarebbero parti di esalazione frantumate in varie direzioni e infiammate a causa del calore, nonché il fenomeno dei fulmini, dovuti all'espulsione dalle nubi di parti infiammate di esalazione terrestre (I, 4). Allo stesso modo egli spiega le comete, che sarebbero esalazioni terrestri condensate, le quali, incontrando strati di esalazione più bassi, assumerebbero la caratteristica forma di stella chiomata, pur non avendo nulla a che fare con le stelle, in quanto queste ultime appartengono alla zona al di sotto della Luna (I, 7). E un fenomeno analogo sarebbe la 'Via Lattea', generata dall'attrito prodotto sull'esalazione terrestre dalla traslazione dell'intero cielo (I, 8).

L'esalazione dell'acqua, combinata con l'azione del freddo, produce invece fenomeni quali le nuvole, la nebbia, la pioggia, la rugiada, la brina, la neve e la grandine (I, 9-12). Dal concentrarsi dell'acqua nel sottosuolo avrebbero poi origine i fiumi, alla cui descrizione anche geografica Aristotele dedica ampio spazio (I, 13). Il mare avrebbe origine dall'acqua che ricade sulla Terra e occupa il posto che, nella distribuzione degli elementi tra le varie zone dell'Universo, spetta appunto all'acqua. Particolare attenzione è dedicata al sapore salato del mare, spiegato correttamente come dovuto alla mescolanza dell'acqua col sale, pur nella convinzione che anche questo sia un'esalazione terrestre che ricade poi nel mare (II, 1-2).

Come prova del fatto che tale sapore è dovuto alla presenza del sale Aristotele cita due esperimenti: il fatto che se s'immerge nel mare un vaso di cera ben chiuso, l'acqua che filtra in esso è dolce, e il fatto che se s'introduce del sale in un recipiente di acqua, aumentandone la densità, si vedono galleggiare le uova allo stesso modo in cui le navi galleggiano più facilmente sul mare che sui fiumi (II, 3). Il primo esperimento sembra impossibile, perché la cera non funge da filtro, ma il secondo è pienamente verosimile e a sostegno della teoria dimostrata da esso Aristotele cita anche il caso del "lago di Palestina", cioè il Mar Morto, dove ogni corpo galleggia a causa dell'alta densità prodotta dal sale. All'esalazione terrestre sono ricondotti anche altri 'fenomeni terrestri': i venti, il terremoto, che è l'eruzione tutta insieme di tale esalazione dall'interno della Terra (II, 7-8), il tuono, che è il rumore prodotto dall'urto dell'esalazione infiammata contro le nuvole, e il lampo, che è la fuoriuscita sottile e debole della stessa dalle nuvole. Il lampo appare prima del tuono, pur essendo a esso conseguente, perché la vista precede l'udito (II, 9); al fenomeno della riflessione ottica è ricondotto, invece, l'arcobaleno, prodotto appunto dalla riflessione della luce per opera delle gocce d'acqua sospese nell'aria, a proposito della quale Aristotele fornisce una spiegazione alquanto complicata della scomposizione dei colori (III, 2-5).

Infine, nel Libro IV dei Meteorologica, l'autenticità del quale è da qualcuno contestata, si avanza la spiegazione di vari fenomeni prodotti dall'azione congiunta delle due qualità attive, cioè il caldo e il freddo, quali la cottura nelle sue varie forme, la maturazione, la solidificazione e la liquefazione (IV, 2-6). Attraverso la combinazione dei quattro elementi in varie guise, per solidificazione e per liquefazione, o soluzione, Aristotele spiega il formarsi di sostanze quali la soda, il sale, la pietra, l'argilla, l'olio, il vino, il latte e il sangue (IV, 7). Con criteri analoghi spiega il formarsi dei corpi "omeomeri", cioè fatti di parti uguali, quali i metalli e i tessuti organici (carne, ossa, tendini, pelle, capelli e vene, negli animali; corteccia, foglie e radici nelle piante), dal comporsi dei quali tra loro risulta poi la costituzione dei corpi "anomeomeri", cioè fatti di parti diverse, quali viso, mano, piede e così via (IV, 10-12).

Non si saprebbe dire, dal punto di vista della scienza moderna, se tali spiegazioni rientrino nel campo della fisica, della chimica o della biologia; in ogni caso, pur nella loro frequente ingenuità, esse sono l'espressione di uno sforzo immenso per ricondurre a chiarezza e ordine l'intero campo dell'esperienza umana per mezzo di criteri limitati nel numero e tra loro coerenti. Non manca il ricorso a spiegazioni di tipo anche geometrico, come nel caso dell'arcobaleno e dei venti, mentre è sempre assente la misurazione quantitativa, probabilmente a causa della mancanza di strumenti adeguati, oppure anche per scarso interesse verso questo aspetto della realtà.

Lo studio della Natura vivente

Oltre che sulla Natura in generale ‒ sulla regione celeste e su quella terrestre ‒ Aristotele ha concentrato la sua attenzione sulla Natura vivente, cioè sul mondo vegetale e animale, che è quello che destava maggiormente il suo interesse a causa della sua complessità e nello studio del quale egli ha portato i maggiori contributi scientifici, sì da essere considerato il fondatore della biologia come scienza. Non è un caso che Charles Darwin, l'autore di quella vera e propria rivoluzione scientifica della biologia moderna che è la teoria dell'evoluzione, e che oggi molti contrappongono ad Aristotele, abbia dichiarato in una famosa lettera a William Ogle (22 febbraio 1882): "Linneo e Cuvier sono stati i miei due dèi, [...] ma essi erano dei semplici scolaretti rispetto al vecchio Aristotele" (Darwin 1887, p. 427).

La serie delle opere biologiche di Aristotele è preceduta, nel Corpus Aristotelicum, dal De anima, il che non deve sorprendere, perché per "anima" (psychḗ) Aristotele non intende soltanto né principalmente l'anima umana, ma in generale il principio che distingue gli esseri viventi dai non viventi e quindi è comune a tutta la Natura vivente (De anima, I, 1). Perciò lo studio dell'anima, più che costituire una psicologia nel senso moderno del termine, non è altro che l'introduzione alla scienza della vita, cioè a quella che oggi chiamiamo biologia. All'inizio del Libro II del De anima, infatti, dove comincia a esporre la propria concezione dell'anima, Aristotele individua l'oggetto di tale studio in quei corpi naturali, cioè dotati della capacità di mutare "da sé", che possiedono anche la vita (zōḗ), intesa come capacità di nutrirsi, di crescere e di deperire (II, 1). Questa caratterizzazione della vita per mezzo delle sue funzioni più elementari, le sole possedute dalle piante, indica l'intenzione di considerare il fenomeno della vita in tutta la sua ampiezza, dalle funzioni, appunto, più elementari, a quelle superiori e più complesse possedute dagli animali e infine dall'uomo. L'anima è perciò definita come la 'forma' di tali corpi naturali, cioè dei corpi naturali capaci di vivere (Aristotele dice "dei corpi che possiedono la vita in potenza"), dove per "forma" (eĩdos) egli intende la struttura, la conformazione, l'organizzazione interna che permette loro di vivere. Subito dopo la definisce anche come l'"atto" (entelécheia), cioè la perfezione, la presenza effettiva di tale capacità, precisando che si tratta di un "atto primo", ovvero del possesso di una capacità che sussiste anche quando questa non è esercitata (per es., nel sonno). Poiché un corpo capace di vivere è necessariamente strutturato in organi, Aristotele definisce poi l'anima anche come l'atto, ossia la capacità di vivere o in altre parole l'organizzazione interna, di un corpo naturale fornito di organi (II, 1). Da questa definizione appare chiaramente che l'anima non è una realtà contrapposta al corpo, che possa essere separata da questo, qual era per la tradizione pitagorico-platonica, ma è la sua intrinseca capacità di vivere e costituisce con esso un'unità inscindibile, quella che comunemente è chiamata l'unità psicofisica. A sua volta il corpo dotato di anima non è un corpo inerte, a cui l'anima si aggiunga in modo estrinseco, ma è un corpo vivente, che, se fosse privato della vita, non sarebbe più lo stesso. Aristotele esprime efficacemente questo concetto dicendo che l'anima è per il corpo ciò che la vista è per l'occhio: come un occhio privo della vista sarebbe un occhio solamente "per omonimia", cioè soltanto di nome (per es., un occhio dipinto), così un corpo organico privo dell'anima sarebbe tale soltanto di nome. L'anima non è, dunque, una funzione, o un complesso di funzioni che possano essere svolte da qualsiasi corpo, ma è una capacità di funzionare posseduta soltanto dai corpi dotati di vita, cioè dai corpi organici. Di questi essa non solamente è causa del vivere, ma è anche causa dell'essere, perché per i viventi l'essere è il vivere, quindi è la causa formale, l'essenza, senza di cui essi non sono più quello che sono (II, 4).

La vita si caratterizza, secondo Aristotele, per varie funzioni, che possono essere classificate in tre gruppi: (1) quelle connesse alla nutrizione, cioè alla crescita e al deperimento, nonché alla riproduzione, che sono proprie di tutti gli esseri viventi e sono le sole possedute dalle piante; (2) quelle connesse al movimento e alla percezione, che sono proprie di tutti gli animali; (3) quelle connesse al pensiero e a tutte le attività che lo presuppongono, che sono proprie soltanto dell'uomo. Ciascuno di questi tre tipi di funzioni ha pertanto per principio, cioè per causa, nel senso di causa formale, un diverso tipo di anima, quella vegetativa, quella sensitiva e quella intellettiva (II, 2). Queste tuttavia non sono tre anime che possano coesistere in uno stesso individuo, ma la più complessa include sempre in sé la meno complessa, cioè ‒ come dice Aristotele ‒ la "contiene in potenza" (II, 3). Ciò significa che l'anima umana possiede anche le capacità dell'anima degli altri animali, e l'anima degli animali possiede anche le capacità dell'anima delle piante.

A ciascuna delle suddette funzioni Aristotele dedica una trattazione specifica, precisando che la nutrizione è una specie di cottura, prodotta dal calore vitale, e che la riproduzione è il fine di tutte le specie viventi, animali e piante, le quali in tal modo partecipano dell'eterno (II, 4). Ciò dimostra che per fine, oppure per causa finale, egli non intende un'intenzione cosciente, ma una tendenza naturale, insita nei viventi e rivolta alla loro stessa conservazione e piena realizzazione. Per questo il fine viene a coincidere con la forma, cioè con la perfezione del vivente, perché è la piena realizzazione di questa.

Una particolare attenzione è dedicata alla percezione degli oggetti per mezzo dei sensi, che è comune a tutti gli animali e che è definita come assunzione della forma degli oggetti senza la loro materia, ossia come una sorta di assimilazione degli oggetti da parte degli organi di senso, senza tuttavia che questi siano compenetrati dalla loro materia; ciò si verifica in ciascuno dei cinque sensi: vista, udito, olfatto, gusto e tatto (II, 5-12). Aristotele poi analizza altre funzioni legate alla percezione, cioè il cosiddetto "senso comune", che è la capacità di percepire oggetti comuni a più sensi, la coscienza di percepire e l'immaginazione, facoltà possedute da tutti gli animali (III, 1-3).

In seguito Aristotele analizza l'unica facoltà propria soltanto dell'uomo, il pensiero appunto, di cui ipotizza la separabilità dal resto dell'anima in due famosi capitoli l'interpretazione dei quali è alquanto controversa e appare di competenza più dell'antropologia, o della metafisica, che della biologia (III, 4-5). Infine, egli studia il principio del movimento degli animali, da lui identificato con la facoltà di desiderare, o "appetito" (órexis), la quale presuppone sempre una conoscenza del suo oggetto, di tipo sensitivo o di tipo intellettivo (III, 7-10); anche questa parte, nella misura in cui investe il concetto di desiderio razionale e fa riferimento all'azione (prãxis), rientra nell'antropologia e forse anche nella filosofia pratica.

La trattazione aristotelica delle piante, cioè un trattato intitolato De plantis, menzionato negli antichi cataloghi delle sue opere, non ci è pervenuta, se mai è esistita (il trattato omonimo pervenuto nel Corpus Aristotelicum non è di Aristotele), mentre abbiamo una Storia delle piante scritta dal suo allievo e successore Teofrasto. Ci sono pervenuti invece, fortunatamente, i numerosi trattati dedicati agli animali: i più importanti fra questi sono la Historia animalium, in 10 libri, di alcuni dei quali l'autenticità è controversa, il De partibus animalium, in 4 libri, e il De generatione animalium, in 5 libri. Nel titolo del primo trattato il termine 'storia' (historía) va inteso non nel senso moderno, ma in quello greco di descrizione, raccolta di osservazioni, esposizione di dati. L'opera contiene infatti una quantità enorme di descrizioni, relative a circa cinquecento specie di animali, che riguardano sia le parti di cui sono costituiti, sia la loro riproduzione, sia i loro comportamenti; un simile contenuto viene perciò in parte a sovrapporsi a quello degli altri due trattati, ponendo il problema del suo rapporto con essi. Aristotele stesso suggerisce il modo d'intendere tale rapporto in un passo del De partibus animalium, dove afferma che nella Historia ha esposto di quali parti sia costituito ciascun animale, e ora, nel De partibus appunto, esporrà per quali cause ognuna di esse si presenti come è (De partibus animalium, II, 1). Sembra dunque che il De partibus animalium e il De generatione animalium costituiscano la spiegazione delle cause, del 'perché', dei fenomeni esposti nella Historia, la quale sarebbe invece l'esposizione del 'che', ma non sempre questa distribuzione di compiti è di fatto rispettata, perché spesso anche la Historia contiene vere e proprie spiegazioni causali, che ne fanno un trattato in sé autonomo.

L'attenzione di Aristotele è rivolta anzitutto alla descrizione delle "parti" di cui si compongono gli animali, cioè gli organi e i tessuti di cui essi sono costituiti. Egli si serve delle testimonianze di numerosi esperti, allevatori, pescatori, cacciatori, viaggiatori, macellai, ma anche di osservazioni dirette, compiute talvolta attraverso la dissezione. In un passo, infatti, afferma che "l'osservazione è difficile, ed è possibile raccogliere adeguate informazioni, se si ha un effettivo interesse per tali problemi, soltanto sugli animali uccisi per soffocamento dopo averli fatti dimagrire" (Historia animalium, III, 3, 513 a 12 segg.). Nell'animale strangolato, il sangue non è ancora defluito dalle vene, che sono più evidenti se esso è anche dimagrito, perciò si può osservare una situazione il più possibile somigliante a quella dell'animale vivo; grazie a questo metodo, Aristotele ha inaugurato lo studio dell'anatomia, sia animale sia umana. Nell'analisi delle parti degli animali egli pratica il confronto tra animali della stessa specie, di specie diverse all'interno dello stesso genere, per esempio le varie specie di pesci o di uccelli, e di genere diverso, per esempio mammiferi e pesci (la distinzione fra "specie" e "genere" non è però fissa e sembra dettata per lo più da esigenze logiche di classificazione, piuttosto che dalla convinzione dell'esistenza reale di questi raggruppamenti). Mentre nello stesso genere e nella stessa specie sono riscontrabili, per gli stessi organi, somiglianze e differenze di grandezza e di posizione, tra animali di generi diversi sono riscontrabili rapporti di analogia, cioè identità di funzioni tra organi morfologicamente molto diversi, quali i polmoni nei mammiferi e le branchie nei pesci. L'analogia si rivela così uno strumento di grande valore euristico, grazie al quale si può dire che Aristotele abbia posto le basi dell''anatomia comparata'. Il suo contributo a questa disciplina doveva essere contenuto anche nelle "tavole anatomiche", di cui si è conservato solamente il titolo di Anatomíai nei cataloghi delle sue opere, ma alle quali egli rinvia spesso, specialmente nella Historia animalium.

Attraverso tali analisi Aristotele giunge a costruire una grande teoria delle parti degli animali, secondo la quale i quattro elementi e le loro qualità fondamentali (caldo e freddo, secco e umido), combinandosi tra loro in varia guisa, darebbero luogo alle parti omogenee ("omeomere"), che sono i tessuti, quali il sangue, la carne, le ossa, la pelle, le cartilagini e così via. Queste, a loro volta, combinandosi tra di loro, darebbero luogo alle parti non omogenee ("anomeomere"), che sono gli organi, quali il cuore, i polmoni, il cervello, il fegato e così via. Infine, gli organi, riuniti insieme in un unico organismo, cioè un corpo composto appunto di organi, darebbero luogo a un individuo animale. Il principio di unità, che tiene insieme le diverse parti e le costituisce in un tutto unitario, è sempre la funzione che esse devono svolgere, per cui si può dire che i tessuti sono in funzione degli organi e questi dell'intero organismo. Il concetto di funzione rinvia al tema della spiegazione, cioè della ricerca delle cause, dei fenomeni biologici, e ciò fa della biologia di Aristotele, per esprimerci in linguaggio moderno, non soltanto un'anatomia comparata, ma una vera e propria fisiologia. Anche lo studio degli animali, infatti, è una vera e propria scienza, cioè una conoscenza delle cause, le quali sono ‒ come è precisato all'inizio del De partibus animalium ‒ tutti e quattro i tipi di cause distinti nella Fisica, cioè quella materiale, quella formale, quella efficiente e quella finale. La più importante di queste, quella che fornisce la spiegazione migliore dei fenomeni biologici, è secondo Aristotele la causa formale, vale a dire la forma, la struttura unitaria degli animali, il modo in cui il loro corpo è organizzato al fine di poter svolgere le sue funzioni vitali, cioè quelle di crescere, di conservarsi e di riprodursi.

Il principio fondamentale della biologia aristotelica è infatti che la funzione spiega l'organo, ossia che per capire l'anatomia dell'organo è necessario tenere presente la funzione che esso deve compiere. In tal modo anche le parti materiali, che pure svolgono un ruolo importante ‒ quello, appunto, di causa materiale ‒ s'inseriscono in una struttura necessaria, e ciò consente di operare vere e proprie dimostrazioni anche dove si tratta però di una necessità ipotetica, o condizionale, cioè subordinata al raggiungimento di un determinato fine: per esempio, è necessario che i denti, o le corna, siano composti di materiale duro, perché ciò è richiesto dalla funzione che devono svolgere. Poiché tutte le funzioni dell'organismo sono orientate al mantenimento del proprio essere e al tempo stesso, attraverso la riproduzione, al mantenimento della specie, la causa formale, ossia l'essere dell'individuo e della specie, viene a coincidere, in biologia, con la causa finale. Si chiarisce così il senso del finalismo aristotelico: questo non ha nulla di antropocentrico, né di provvidenzialistico, ma è un finalismo interno a ciascuna specie, volto unicamente alla conservazione di essa. E se in qualche passo ‒ famoso quello di Politica, I, 8, 1256 b 15-20 ‒ Aristotele dà l'impressione di considerare le piante in vista degli animali e questi in vista dell'uomo, egli si riferisce solamente a un uso accidentale che può essere fatto di una specie da parte di un'altra, non a un autentico finalismo proprio delle specie. Ciò non toglie che l'uomo goda di una superiorità su tutti gli altri animali, a causa del suo portamento eretto e della complessità delle sue funzioni, e che tutti gli animali si dispongano in una scala continua (la famosa scala naturae) a mano a mano che s'allontanano dall'uomo. Anzi tale scala si estende, attraverso tutte le specie animali, sino alle piante e alle rispettive specie, e da queste prosegue ancora in giù verso gli esseri inanimati, in modo tale che le differenze tra le specie contigue siano minime e spesso impercettibili (Historia animalium, VIII, 1; De partibus animalium, IV, 5).

Meno successo Aristotele ha avuto in un'altra sua famosa teoria fisiologica, concernente il primato del cuore, negli animali superiori, su qualsiasi altro organo. Egli attribuisce infatti una grande importanza al calore, come fonte della vita: il calore vitale, a suo giudizio, consente la digestione del cibo, che ‒ come si è detto ‒ è una vera e propria cottura e trasforma il cibo stesso in sangue, il quale a sua volta distribuisce il nutrimento a tutte le parti dell'organismo. La fonte del calore, secondo Aristotele, è appunto il cuore, nel quale si forma il sangue, che viene a essere così il principio dell'intero organismo vivente (De partibus animalium, III, 4). Questa teoria esclude l'altra, proposta dal pitagorico Alcmeone e ripresa da Platone, secondo cui l'organo principale sarebbe il cervello; per Aristotele infatti il cervello ha soltanto la funzione di refrigerare il sangue, cioè una funzione opposta a quella del cuore e alquanto secondaria. Il cuore, per mezzo delle vene, distribuisce il sangue all'intero organismo e recepisce anche gli stimoli provenienti dagli organi di senso; dunque Aristotele ignora completamente l'esistenza del sistema nervoso, cioè la funzione dei nervi collegati col cervello. Ciò che lo induce, per sua stessa dichiarazione, ad affermare la centralità del cuore, è l'osservazione del fatto che quest'organo sia il primo a formarsi nello sviluppo dell'embrione. Benché questa teoria si sia rivelata completamente errata, essa ha esercitato un'influenza positiva su William Harvey, il quale, avendo studiato a Padova alla Scuola degli aristotelici, attribuì al cuore quella funzione centrale che gli consentì di scoprire la circolazione del sangue (De motu cordis, 1628).

Nella sua ricerca volta a scoprire, di tutte le specie animali, soprattutto la causa formale, cioè l'essenza, Aristotele fa un largo uso del metodo platonico della divisione, da lui appreso nell'Accademia, trasformandolo tuttavia da semplice dicotomia, qual era sostanzialmente per Platone, in un'enumerazione di più differenze tra le varie specie, sino a scoprire la differenza sufficiente a distinguere ciascuna specie da tutte le altre, cioè la "differenza specifica", che ne costituisce l'essenza (De partibus animalium, I, 2). Per mezzo di questo metodo Aristotele, pur avendo uno scopo non meramente classificatorio ma essenzialmente definitorio, cioè esplicativo, finisce col costruire una vera e propria classificazione di tutti gli animali, destinata a durare per molti secoli. Egli divide infatti tutti gli animali in "sanguigni" e "privi di sangue", distinzione corrispondente a quella moderna tra vertebrati e invertebrati. Divide poi i sanguigni, secondo il modo della loro riproduzione, in vivipari e ovipari; i vivipari, corrispondenti ai moderni mammiferi, in quadrupedi, cetacei e chirotteri (affermando, in particolare, che le balene e i delfini sono mammiferi). Gli ovipari, a loro volta, sono divisi, secondo il tipo di respirazione, in dotati di polmoni, cioè rettili e uccelli, e dotati di branchie, cioè pesci. Gli animali privi di sangue sono divisi in molluschi, crostacei, gasteropodi e insetti; di questi ultimi Aristotele descrive esattamente la riproduzione per mezzo di larve, ma s'inganna attribuendo a molte specie la generazione spontanea, cioè dal fango.

Alla riproduzione egli dedica, come s'è detto, un intero trattato, il De generatione animalium, dove sono ampiamente analizzati la differenza tra i sessi, gli organi sessuali e le loro funzioni, lo sviluppo dell'embrione e i caratteri sessuali secondari. Anche nella spiegazione della generazione è attuata la distinzione tra i quattro tipi di causa, attribuendo al seme maschile, o sperma, la funzione di causa motrice e insieme formale, e al mestruo femminile la funzione di causa materiale. Lo sperma è la parte più vitale del sangue, quella prodotta dalla maggior concentrazione di calore vitale: esso può essere prodotto soltanto dai maschi, perché ‒ secondo Aristotele ‒ i maschi possiedono più calore vitale delle femmine. Nello sperma infatti è contenuto il cosiddetto "pneuma", cioè una specie di soffio caldo, rivelato dall'aspetto schiumoso dello stesso sperma, il quale ha il potere di trasmettere alla materia fornita dal mestruo (sangue che non riesce a trasformarsi in seme per difetto di calore) una serie di impulsi meccanici, i quali danno vita all'embrione e ne orientano lo sviluppo sino a formare l'individuo adulto (De generatione animalium, II, 2). Lo sperma, pertanto, agisce come causa motrice, ma al tempo stesso trasmette all'embrione la forma del genitore, cioè l'anima, e quindi agisce come causa formale; infine, l'orientamento che esso imprime agli impulsi meccanici è diretto verso l'individuo adulto, che pertanto agisce come causa finale. Di questa teoria di solito si rileva soprattutto il ruolo principale attribuito al genitore maschio, ma vale la pena di mettere in evidenza anche la presenza in essa di una nozione destinata a grande fortuna nella biologia contemporanea, quella appunto di programma, funzione oggi attribuita al codice genetico. La forma, infatti, trasmessa dal seme del padre all'embrione, non è un componente materiale di questo, ma una vera e propria informazione, in altri termini una serie di indicazioni sulla direzione e sul modo in cui l'embrione deve svilupparsi, che ne fanno un vero e proprio programma. Nell'embrione non sono già contenute in miniatura tutte le parti del futuro organismo adulto, ma queste si sviluppano l'una dall'altra, cominciando dal cuore, secondo una successione in cui la continuità è data non dalla preesistenza di una certa conformazione destinata a ingrandirsi, ma da un ordine, da un orientamento, da un complesso di istruzioni che guidano la generazione progressiva di un organo dall'altro (ibidem, 1). La teoria che Aristotele rifiuta sarà chiamata, nella biologia settecentesca, 'teoria della preformazione', mentre quella da lui proposta, e rivelatasi vincente, sarà chiamata 'teoria dell'epigenesi'.

Negli ultimi libri della Historia animalium sono trattate la psicologia animale, l'etologia (studio del comportamento animale) e l'ecologia (studio dell'ambiente in cui gli animali vivono); nelle opere biologiche minori, quali il De incessu animalium e il De motu animalium, Aristotele studia la locomozione degli animali sia sotto l'aspetto meccanico del movimento degli arti, sia sotto l'aspetto psicologico del rapporto fra movimento e desiderio. A questo tipo di indagini si devono ricondurre anche i cosiddetti Parva naturalia, piccoli trattati in cui si studiano varie funzioni degli animali, quali la sensazione, la memoria, il sonno, i sogni, la respirazione, nonché condizioni quali la giovinezza e la vecchiaia, la longevità e la brevità della vita, la vita e la morte. Il corpus delle opere biologiche di Aristotele viene a essere così un contributo imponente, sia come quantità sia come qualità, allo sviluppo della biologia come scienza e certamente è uno dei titoli più importanti per cui l'autore occupa un posto così rilevante nella storia della scienza antica.

Problemi meccanici e problemi musicali

Un cenno a parte meritano due trattati, tramandati sotto il nome di Aristotele ma di autenticità alquanto controversa, che si collocano, nel corpus delle sue opere, agli ultimi posti delle opere di fisica, cioè i Mechanica e i Problemata. I Mechanica trattano dell'"arte meccanica", intesa come capacità d'intervenire nei fenomeni naturali, piegandoli alle esigenze dell'uomo, per esempio facendo prevalere una forza minore su una maggiore o sollevando una grande massa con una piccola forza. Essi dedicano perciò molta attenzione a strumenti quali la leva, il cerchio, la bilancia, e spesso utilizzano, per la risoluzione dei problemi, modelli di tipo matematico. La paternità aristotelica di questo trattato, che non fu mai messa in discussione nell'Antichità e gli consentì d'influenzare scienziati come Erone e Vitruvio, la meccanica medievale sia cristiana sia araba, nonché scienziati moderni come Benedetti, Cardano e Galilei, fu invece quasi unanimemente negata nel XIX sec. dai maggiori studiosi di Aristotele e della matematica antica.

Quanto ai Problemata, intitolati in alcuni manoscritti anche Problḗmata physiká, si tratta di un vasto trattato, in 38 libri, di dubbia autenticità. In esso sono affrontati i problemi più disparati, da quelli di tipo medico (connessi, per es., con la traspirazione, l'ebbrezza, i rapporti sessuali, la posizione assunta nel sonno, il pallore, l'odorato, i cibi) a quelli di tipo acustico (la voce) o fisico (l'acqua, l'aria, i venti). La parte più interessante è quella dedicata ai problemi musicali (Libro XIX), quali il suono dei vari strumenti (flauto, lira), il canto in coro, vari tipi di accordi; si tratta di una serie di domande, a cui sono date risposte per lo più non argomentate. Ciò che Aristotele pensa della musica si può invece desumere con certezza dal Libro VIII della Politica, dove la musica è trattata come una parte fondamentale dell'educazione pubblica e si precisa quali melodie e ritmi debbano essere coltivati nella formazione dei giovani.

L'istituzione del Liceo e la diffusione degli scritti aristotelici

Benché la tradizione attribuisca ad Aristotele la fondazione di una scuola, il cosiddetto Liceo o Peripato, è alquanto dubbio che essa risalga, nella sua forma istituzionale, proprio a lui. Nei suoi scritti il Liceo è menzionato infatti semplicemente come nome proprio di un luogo e il "peripato" vi è citato come nome comune per indicare la 'passeggiata'; inoltre nel suo testamento, trasmessoci da Diogene Laerzio e della cui autenticità non v'è ragione di dubitare, Aristotele non ne parla affatto. Ne parla invece l'allievo e amico Teofrasto, proprio nel suo testamento, dichiarando di lasciare il giardino da lui posseduto, "il peripato e tutte le case vicino al giardino" a un gruppo di amici menzionati per nome, affinché possano, "rimanendo lì, coltivare insieme la scholḗ e fare insieme filosofia" (Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, V, 52). Sulla base di questa notizia si è congetturato che Aristotele, essendo straniero ad Atene e non potendovi quindi avere proprietà immobiliari, abbia semplicemente insegnato in un ginnasio pubblico, il Liceo appunto, mentre Teofrasto, grazie all'appoggio di Demetrio Falereo, vi avrebbe acquistato un terreno con delle case e ne avrebbe fatto una scuola nel senso istituzionale del termine, cioè un luogo di ricerca e d'insegnamento riservato ai suoi membri, fornita di un "peripato" inteso come porticato dove passeggiare, ma anche di un tempio alle Muse, di una biblioteca e di un locale destinato a custodire tavole che rappresentano il giro della Terra (tutte cose menzionate nel suo testamento).

In realtà la scuola di Aristotele, anche se non dotata di proprietà immobiliare, dovette avere una certa organizzazione, perché Aristotele non soltanto teorizzò un tipo di vita dedicato alla ricerca (il bíos theōrētikós), e quindi tale da richiedere tempo libero (scholḗ) e da poter essere praticato insieme con degli amici, ma esercitò anche una vera e propria forma d'insegnamento, come attestano gli scritti a noi pervenuti, che hanno l'aspetto di veri e propri corsi di lezioni, ciascuno dedicato a un particolare argomento o a una singola disciplina, quando non è chiamato addirittura akróasis, cioè discorso destinato all'"ascolto", come nel caso della Fisica. Nel testamento di Aristotele, poi, c'è un cenno a un giovane, un certo Mirmece, da rinviare ai suoi genitori con i beni che aveva portato con sé (Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, V, 14), il che fa supporre che egli si fosse recato ad abitare presso Aristotele per seguirne l'insegnamento. È dunque il caso di parlare di una 'scuola', dando a questo termine sia il significato greco originario di attività da praticarsi nel tempo libero dal lavoro o dagli affari, sia il significato moderno ‒ peraltro non molto diverso ‒ di luogo d'insegnamento. Questa scuola dovette avere la disponibilità di alcuni libri, dello stesso Aristotele e di altri: per esempio, i dialoghi di Platone (alcuni dei quali sono citati da Aristotele come consultabili da tutti i suoi ascoltatori), opere dei filosofi presocratici, o almeno raccolte di loro opinioni messe per iscritto, così come di altre opinioni particolarmente autorevoli e condivise (éndoxa), come risulta da alcuni passi dello stesso Aristotele (Topica, I 14, 105 b 12-18). Nella stessa scuola dovettero esservi le tavole anatomiche di cui si è parlato, ma anche varie altre raccolte, di proverbi, di problemi, di definizioni, di "divisioni", di tesi, di leggi, persino liste dei vincitori dei giochi olimpici e pitici, tutte menzionate nei cataloghi antichi delle opere di Aristotele. Dovettero esservi inoltre le famose 158 Costituzioni di città greche, alla cui raccolta Aristotele non poté certamente dedicarsi da solo, ma fu aiutato dai suoi allievi e collaboratori, in primo luogo Teofrasto, ma anche Eudemo di Rodi, Dicearco, Aristosseno e altri.

La quantità enorme di lavoro fatto da Aristotele e la menzione, nei cataloghi antichi, di opere collettive a lui attribuite fanno pensare a un lavoro di équipe, a un primo nucleo di organizzazione comunitaria, se non istituzionale, della ricerca, che poi dovette essere proseguita, dopo la morte di Aristotele, in forme più istituzionali dai suoi allievi. Si sa, per esempio, che Teofrasto espose le Opinioni dei fisici, scrivendo così una specie di storia della disciplina, che Eudemo scrisse una Storia della matematica e una Storia della teologia, che lo stesso Teofrasto scrisse una Storia delle piante e varie altre rassegne sia storiche sia scientifiche, il cui impulso gli venne molto probabilmente da Aristotele. Del resto, non c'è dubbio che questi sia stato il primo filosofo che si propose di realizzare una specie di enciclopedia del sapere, riunendo in un unico sistema, di ricerche se non sempre di dimostrazioni, quasi tutto lo scibile allora posseduto.

Quanto alla diffusione delle opere di Aristotele nel mondo greco, si tratta di una storia alquanto complessa, in cui è difficile stabilire che cosa ci sia di vero e che cosa sia frutto di invenzione. Esistono infatti testimonianze antiche, di Strabone e di Plutarco, secondo le quali i trattati scolastici di Aristotele, conservati da Teofrasto, sarebbero stati lasciati da questo al nipote Neleo, il quale li avrebbe portati a Scepsi, nell'Asia Minore. Gli eredi di Neleo li avrebbero poi nascosti in una cantina, per sottrarli all'incetta di libri fatta dai re di Pergamo, e in questa cantina essi sarebbero rimasti per circa due secoli, quando furono tirati fuori, alquanto danneggiati, e venduti ad Atene a un bibliofilo, Apellicone di Teo, il quale li avrebbe restaurati e pubblicati (Strabone, Geographia, XIII, 1, 54). Quando, nell'84 a.C., Atene fu occupata da Silla, questi avrebbe portato a Roma i trattati di Aristotele e li avrebbe affidati al grammatico Tirannione, il quale ne fece un'edizione che, in seguito, fu completata da Andronico di Rodi, scolarca del Peripato all'epoca (Plutarco, Sulla, 26). Per tutto il tempo compreso fra la morte di Teofrasto e l'edizione di Andronico, dunque per tutta l'età ellenistica (III-I sec.), il mondo greco avrebbe conosciuto solamente i dialoghi di Aristotele, da lui stesso pubblicati durante la sua vita e poi andati perduti, mentre avrebbe ignorato i suoi trattati scientifici.

La storia sembra in parte inventata, perché i cataloghi più antichi delle opere di Aristotele, cioè quello conservato da Diogene Laerzio e quello conservato da Esichio di Mileto, che risalgono secondo l'opinione prevalente degli studiosi al catalogo della famosa biblioteca del Museo di Alessandria, menzionano non soltanto i dialoghi di Aristotele, ma anche varie parti dei suoi trattati, sia pure con titoli diversi da quelli a noi noti e spesso relativi soltanto a singoli libri di essi. Inoltre, in una lettera di Epicuro, contemporaneo di Teofrasto, sono menzionati gli Analitici e la Fisica di Aristotele, il che dimostra come alcuni trattati fossero a lui noti. Infine, da uno scambio di lettere fra Teofrasto ed Eudemo risulta che entrambi avevano una copia della Metafisica e che Eudemo aveva con sé anche una copia della Fisica; non c'è dubbio poi che Eudemo sia stato anche l'editore dell'Etica che da lui ha preso il nome di Etica Eudemea.

Del resto, Ateneo testimonia che il re Tolomeo II Filadelfo acquistò i libri di Aristotele da Neleo e che li portò ad Alessandria insieme con quelli che provenivano da Atene e da Rodi. Dunque, copie dei trattati di Aristotele dovettero esistere ad Atene, a Rodi e ad Alessandria, principali centri culturali dell'età ellenistica, anche se è vero che l'edizione definitiva di essi, quella in cui essi sono stati trasmessi dalla tradizione manoscritta a noi pervenuta, fu fatta a Roma, probabilmente già da Tirannione, e poi da Andronico, soltanto nel I sec. a.C. È certamente vero che nell'età ellenistica le opere di Aristotele più conosciute furono i dialoghi da lui pubblicati, di cui resta menzione nei cataloghi di Diogene Laerzio e di Esichio, i quali poi andarono perduti, perché non furono più ricopiati dopo l'edizione dei trattati, essendo l'attenzione dei lettori attirata quasi esclusivamente da questi ultimi. Solamente il terzo catalogo antico di opere di Aristotele a noi pervenuto, attribuito a un certo Tolomeo vissuto con tutta probabilità nel I o nel II sec. d.C., menziona anche tutti i trattati contenuti nell'edizione di Andronico, per cui sembra risalire a quest'ultimo.

Ciò significa che l'età ellenistica, che fu la grande epoca della scienza greca, conobbe poco e male i contributi scientifici di Aristotele, i quali furono invece noti soprattutto nell'età imperiale, quando l'interesse per la scienza era ormai in declino. Soltanto nella Tarda Antichità, al tempo dell'imperatore Giustiniano (482-565), trattati aristotelici come la Fisica e il De caelo offrirono a commentatori non privi di interesse scientifico, quali Simplicio e il cristiano Giovanni Filopono, lo spunto per polemizzare fra loro sull'eternità del mondo o per elaborare importanti teorie scientifiche come quella dell'impetus. Nei secoli immediatamente successivi, grazie alle traduzioni di essi fatte dai cristiani di Siria, prima in siriaco e poi in arabo, i trattati di Aristotele entrarono trionfalmente nella cultura islamica, determinandovi quella splendida rinascita delle scienze che è a tutti nota e che, grazie all'incontro con la cultura cristiana verificatosi nella Spagna del XII sec., portò il pensiero scientifico di Aristotele a essere conosciuto dal mondo latino.

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